Conflitto

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Diritto

Situazione caratterizzata da posizioni contrastanti e incompatibili, con riferimento a organi amministrativi o autorità giudiziarie. Si verifica quando vi è discordanza sull’individuazione dell’autorità competente a decidere su una determinata questione, e si discute se la potestà di decisione spetti a un’autorità piuttosto che a un’altra. Esistono conflitto c. positivi, quando due o più autorità affermano la loro potestà di conoscere della questione; conflitto c. negativi, quando negano tutte tale potestà; conflitto c. reali, quando si sono già avute pronunce discordanti tra due o più autorità circa la spettanza o meno alle medesime della potestà di decisione, e conflitto c. virtuali, quando vi è esclusivamente la possibilità che si determino tali pronunce contrastanti.

C. di giurisdizione

La Costituzione italiana distingue, nell’ambito delle situazioni giuridiche protette (art. 24), tra diritti soggettivi e interessi legittimi, assegnando la giurisdizione sui primi al giudice ordinario e quella sui secondi alla giustizia amministrativa (art. 103 e 113). In particolari materie il giudice amministrativo può conoscere anche i diritti soggettivi (giurisdizione esclusiva). Questo discrimine era già presente nel nostro ordinamento in epoca anteriore all’entrata in vigore della Costituzione; e al riguardo va ricordato che l’art. 37 c.p.c. disciplina i limiti della giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e dei giudici amministrativi. La l. 218/95, inoltre, sostituendo il secondo comma dell’art. 37, ha disciplinato i rapporti della giurisdizione italiana con i cittadini stranieri e con i giudici stranieri, nell’ambito dell’Unione Europea e al di fuori di essa. In questo contesto, l’art. 362 c.p.c., precisando che i c. di giurisdizione, sia positivi sia negativi, possono essere pronunciati in ogni fase del giudizio, ne demanda la risoluzione alla Cassazione. Da questo articolo, e da quanto è scritto nell’art. 134 Cost., risulta che all’attenzione della Corte di Cassazione devono essere portati esclusivamente i c. negativi, essendo quelli positivi attribuiti alla competenza della Corte costituzionale. La risoluzione del c. di giurisdizione deve necessariamente chiudersi con l’indicazione dell’organo giurisdizionale chiamato a rendere giustizia. L’art. 362 c.p.c. deve essere inoltre coordinato con il secondo comma dell’art. 41 c.p.c., che prevede per la pubblica amministrazione, laddove non sia parte in causa, la possibilità di sollevare un c. di giurisdizione negativo, al fine di sottrarre al giudice la decisione della lite.

C. di competenza

L’incompetenza del giudice adito si verifica allorché, nel proporre la domanda, la parte attrice abbia violato i criteri di competenza previsti dalla legge. Di norma, il difetto di competenza è rilevabile anche d’ufficio, salvi i casi di competenza per territorio derogabile (art. 38 c.p.c.), rispetto ai quali la questione deve essere tempestivamente eccepita dalla parte convenuta (➔ competenza). Quando il giudice adito dichiara la propria incompetenza, indica alle parti il giudice innanzi al quale riassumere il giudizio (translatio iudicii); il c. di competenza sorge, virtualmente, laddove anche quest’ultimo giudice ritenga di non essere competente, e quindi che l’indicazione fornita dal primo giudice adito non sia corretta.

Il codice di rito si è preoccupato di evitare un c. di competenza reale, impedendo al secondo giudice di emanare una sentenza dichiarativa della propria incompetenza: egli è vincolato a decidere la controversia, a meno che siano stati violati i criteri di competenza per materia o territorio inderogabile, nel qual caso ha la possibilità di chiedere una pronunciazione della Corte di cassazione (art. 45 c.p.c.). In tal caso il procedimento in corso viene sospeso in attesa dell’ordinanza della Cassazione sulla questione di competenza (art. 48 e 375 c.p.c.). Perché il giudizio riprenda il suo corso le parti devono provvedere a riassumerlo entro sei mesi innanzi al giudice indicato come competente dalla suprema Corte. In caso di mancata riassunzione nel suddetto termine, il processo si estingue, ma la decisione della Cassazione continua a vincolare le parti in caso di riproposizione ex novo della domanda giudiziale (art. 310 co. 1 e 2, c.p.c.).

C. di poteri

Il c. tra poteri dello Stato interviene tra i suoi organi, in riferimento alle attribuzioni a essi spettanti. Più in particolare si parla, in tali eventualità, di c. interorganici, per distinguerli dai c. intersoggettivi, che si verificano tra lo Stato e le Regioni, o tra le Regioni.

Per ‘poteri dello Stato’ si intendono gli organi competenti a dichiarare in via definitiva la volontà dei poteri cui appartengono. La Corte costituzionale ha precisato (ord. 229/1975) che l’art. 37 della l. 87/1953 (che disciplina la risoluzione dei c. tra poteri dello Stato, assieme all’art. 134 Cost.) si riferisce «ad organi i cui atti o comportamenti siano idonei a configurarsi come espressione ultima ed immodificabile dei rispettivi poteri: nel senso che nessun altro organo, all’interno di ciascun potere, sia abilitato ad intervenire d’ufficio o dietro sollecitazione del potere controinteressato, rimuovendo o provocando la rimozione dell’atto o del comportamento che si assumono lesivi». La stessa Corte ha riconosciuto ai seguenti organi la possibilità di essere soggetti nei conflitti in esame: il presidente della Repubblica; la Corte costituzionale; le Camere, il Parlamento in seduta comune, le Commissioni inquirenti e d’inchiesta, relativamente alle funzioni svolte da ciascun organo; il Consiglio dei ministri, quale organo cui fa capo il potere esecutivo, il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia, in relazione alle attribuzioni conferite dalla Costituzione a questi due organi monocratici; il Consiglio Superiore della Magistratura; la Corte dei Conti, sia in veste di organo giurisdizionale sia in sede di controllo contabile; i singoli giudici, ai quali è stata riconosciuta una legittimazione diffusa a ricorrere, in quanto ciascuno di essi è espressione di un potere autonomo e indipendente; i comitati promotori dei referendum. Ne deriva un ampliamento della nozione di potere in senso soggettivo, che si realizza sia attraverso il riconoscimento di altri poteri accanto a quelli tradizionali (per es., i comitati promotori di referendum) sia tramite una configurazione non gerarchicizzata degli stessi poteri tradizionali.

L’art. 134 Cost. attribuisce alla Corte costituzionale la competenza a giudicare sui c. tra poteri dello Stato. Non sono soggetti al giudizio della predetta Corte i c. di attribuzione tra organi giurisdizionali e potere amministrativo, che investono questioni di giurisdizione (c. di attribuzione). I c. tra poteri dello Stato possono sorgere sia rispetto a qualsiasi tipo di atto lesivo (che non sia legislativo) sia in presenza di un mero comportamento, anche omissivo, o di una concreta minaccia alla sfera di attribuzioni di un potere dello Stato. Si configurano come c. sia positivi sia negativi. Le attribuzioni oggetto del c. devono essere state imputate con norma costituzionale. Il giudizio innanzi alla Corte costituzionale può essere originato sia dalla rivendicazione di competenze che si ritengono usurpate sia dalla denuncia del cattivo uso delle attribuzioni altrui che ostacola il pieno esercizio delle proprie competenze.

Il c. tra poteri si propone mediante ricorso, che può essere presentato senza limiti di tempo. Vi è una fase preliminare in cui la Corte decide con ordinanza in camera di consiglio circa l’ammissibilità del ricorso, e, ove non la escluda, ne ordina la notifica agli interessati. Entro 20 giorni dall’ultima notifica l’organo ricorrente deve costituirsi in giudizio. Da tale termine le altre parti hanno 20 giorni per l’esame degli atti e dei documenti. Nei 20 giorni successivi il presidente della Corte procede alla fissazione dell’udienza. La Corte risolve il c. dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione, e, nel caso sia stato emanato un atto viziato da difetto di attribuzione, lo annulla.

C. di attribuzione

Il c. tra poteri dello Stato può dar luogo a una questione di giurisdizione, quando nasca in un giudizio ordinario da una contestazione circa la potestà dell’autorità giudiziaria di conoscere di rapporti in cui sia coinvolto un altro potere dello Stato, normalmente un organo della pubblica amministrazione. La disciplina di tale c. è contenuta nel codice di procedura civile (art. 37, 41, 360, 362), che ne affida la risoluzione alla Corte di cassazione, la quale decide a sezioni unite (art. 374).

Originariamente i c. di attribuzione tra giudice ordinario e pubblica amministrazione erano sottoposti all’esame del Consiglio di Stato, su iniziativa della pubblica amministrazione. L’esigenza di individuare un organismo che non fosse collegato al potere esecutivo portò ad attribuire la competenza in materia alla Corte di cassazione (l. 3761/1877), che ha quindi assunto il ruolo di supremo organo giudicante su tali questioni. La successiva introduzione della competenza della Corte costituzionale sui c. tra poteri dello Stato, avvenuta con l’art. 134 della Costituzione e poi con la l. 87/1953 (art. 37, co. 2), non ha modificato la disciplina delineata dal c.p.c. in materia di questioni di giurisdizione.

Il c. di attribuzione in esame opera su un piano diverso rispetto a quello affidato alla Corte costituzionale: la questione controversa viene risolta nell’ambito del medesimo ordine giurisdizionale, senza che il giudice venga ad assumere la veste di parte, contrariamente a quanto avviene nei c. di poteri affrontati dalla Corte costituzionale. In tal modo si evita di riconoscere una posizione di privilegio all’autorità giudiziaria e si consente a ciascun potere (quindi anche alla pubblica amministrazione) di impugnare davanti alla Corte costituzionale le pronunce della Corte di cassazione, e non si impedisce al potere giudiziario di difendere la propria sfera di attribuzioni nei confronti degli altri poteri.

I c. di attribuzione sono soggetti alle medesime norme procedurali che disciplinano le questioni di giurisdizione nel processo civile. Sia i c. reali tra pubblica amministrazione e giudice ordinario (c.p.c., art. 360, co. 1 e art. 362, co. 2) sia quelli tra pubblica amministrazione e giudici speciali (c.p.c., art. 360, co. 1 e art. 362, co. 1) possono essere sollevati mediante ricorso per cassazione. I c. virtuali tra pubblica amministrazione e giudici ordinari possono essere risolti mediante regolamento preventivo di giurisdizione o ricorso ordinario per cassazione, nonché attraverso una speciale forma di regolamento, applicabile nei casi in cui la pubblica amministrazione non sia parte in causa e finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato (c.p.c., art. 41, co. 2). Quando è chiamata a pronunciarsi su un ricorso ordinario, e ritiene esistente il difetto di giurisdizione, la Corte di cassazione elimina (senza rinvio) la decisione impugnata, determinando il giudice competente. Qualora ritenga competente a decidere l’organo che ha emesso la sentenza impugnata, la elimina e rinvia la causa al medesimo ordine giurisdizionale (di norma non al medesimo organo). Il provvedimento dell’autorità incompetente viene eliminato, se emanato dall’autorità giudiziaria, ovvero dichiarato illegittimo, e poi annullato nella sede competente, se si tratta di atto amministrativo. In caso di c. negativo, l’autorità dichiarata competente ha l’obbligo di adottare i provvedimenti di propria spettanza, e qualora non vi provveda, l’interessato potrà richiederne l’esecuzione al giudice amministrativo.

C. di interessi

In materia di rappresentanza (➔), ogni ipotesi in cui il rappresentante sia portatore di un interesse contrastante e incompatibile con l’interesse del rappresentato. Il c. di interessi è causa di annullabilità del contratto se era conosciuto o conoscibile dal terzo contraente (art. 1394 c.c.).

Psicologia

conflitto C. psichico Situazione in cui l’individuo viene a trovarsi quando è sottoposto alla pressione di tendenze, bisogni e motivazioni fra loro contrastanti, che impongono un processo di adattamento e determinano una tensione emotiva. La dottrina psicanalitica riconosce importanza fondamentale al conflitto c. neurotico, indicandolo come base ezio-patogenetica delle neurosi stesse.

Scienze sociali

Relazione antagonistica fra soggetti individuali e/o collettivi, in competizione per il possesso, l’uso o il godimento dei beni disponibili per la soddisfazione dei bisogni.

Il tipo più elementare di relazione antagonistica è il c. di interessi, che si verifica quando un soggetto non può perseguire i propri scopi senza danneggiare o impedire il perseguimento degli scopi da parte di un altro soggetto. Nella teoria marxista il c. contrappone soggetti collettivi i cui interessi sono permanentemente antagonistici. Questo tipo di relazione antagonistica si sviluppa intorno all’appropriazione e al controllo dei mezzi di produzione sociale e si esprime nel c. di classe; in questo caso si parlerà di c. di struttura. Su un versante teorico opposto a quello marxista, alla teoria struttural-funzionalistica il c. non appare come inevitabile e oggettivo, ma piuttosto come risultato della cattiva integrazione del sistema sociale. Secondo questa impostazione il conflitto c. di classe costituisce un fenomeno endemico della società industriale avanzata, condizionato dall’azione contrastante esercitata sul sistema di stratificazione sociale dal complesso strumentale (lavoro, scambio e proprietà) dominato da principi ‘individualistici’, e dalla parentela, dominata da principi ‘solidaristici’ (T. Parsons). Le teorie conflittualistiche identificano nel c. una caratteristica normale di tutte le società, mentre le teorie integrazioniste lo considerano espressione di una patologia sociale. Normalità e patologia del c. vogliono significare, nel contesto delle due scuole, un giudizio di merito rispetto alle funzioni positive o negative del c., dove la positività è connessa all’impulso che esso dà al mutamento sociale e la negatività al turbamento che esso esercita sull’ordine sociale. In concreto ogni c. presenta una specifica combinazione di funzioni positive e negative, contribuendo a porre ed evidenziare problemi sociali, la cui risoluzione comporta spesso un cambiamento dell’ordine sociale esistente, e rafforzando, nello stesso tempo, i rapporti di solidarietà all’interno dei gruppi antagonistici; in questo senso il c. ha conseguenze tali per cui può essere ritenuto assolutamente necessario (R. Dahrendorf). Nella vita sociale la prevenzione e risoluzione dei c. di interesse è affidata alle norme, che regolano i rapporti fra gli individui, rafforzano la coesione e spersonalizzano il conflitto. La funzione in un certo senso stabilizzatrice del c. è pienamente realizzata nei conflitto c. regolati, come nel caso del c. fra datori di lavoro e lavoratori nelle società occidentali, dove esso è stato istituzionalizzato nel diritto di sciopero e nella sindacalizzazione; anche il diritto di voto, l’associazionismo in partiti e il dibattito parlamentare, costituiscono forme regolate di c. politico.

Oltre al tipo di interazione ostile fra soggetti individuali o collettivi (conflitto c. inter-soggettivo), in sociologia e psicologia sociale esiste una forma di c. intrasoggettivo che si pone all’origine di molte forme di comportamento deviante. In questo senso si parla propriamente di conflitto c. di ruolo, intendendo significare con questo termine quella particolare forma di c. che si produce quando un individuo si trova a occupare due posizioni sociali che comportano aspettative e prescrizioni di comportamento che risultano fra loro contrastanti o addirittura incompatibili.

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