Contratto

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Regolamento di interessi che trae la sua forza vincolante dall’accordo di coloro che lo stipulano.

Diritto civile

Il c. è l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare od estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. È la massima espressione dell’autonomia privata, del potere, cioè, che hanno i soggetti di dettare una regola ai propri interessi. La conseguenza, sul piano giuridico, di tale caratteristica è la c.d. relatività del c., vale a dire il c. produce effetto solo tra le parti; può produrre effetti nei confronti dei terzi solo nei casi ammessi dalla legge (v. Contratto a favore di terzi). Nell’ampia definizione legislativa (art. 1321 c.c.) rientrano sia i c. con prestazioni corrispettive, caratterizzati dal nesso di condizionalità reciproca esistente tra le contrapposte attribuzioni patrimoniali (tale è il significato del termine «prestazione»), sia i contratti con comunione di scopo, dove le prestazioni delle parti sono appunto dirette al conseguimento di uno scopo comune (ad es. i contratti costitutivi di società), assoggettati ad una particolare disciplina (v. artt. 1420, 1446, 1459 c.c.). Elementi essenziali del c. sono: 1) l’accordo; 2) la causa; 3) l’oggetto; 4) la forma, quando è richiesta dalla legge a pena di nullità. Lo schema più diffuso di conclusione del c. è quello della proposta e dell’accettazione; in tal modo il c. si conclude quando l’accettazione giunge a conoscenza del proponente. Altro schema è quello previsto dall’art. 1327 c.c.: quando, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il c. è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione; si tratta, quindi, di uno schema caratterizzato dal fatto che l’accettazione avviene mediante un contegno concludente. Un terzo schema è previsto dall’art. 1333 c.c.: quando la proposta è diretta a concludere un c. da cui derivino obbligazioni per il solo proponente, il mancato rifiuto del destinatario, entro il termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi, determina la conclusione del contratto. Parte notevole della dottrina dubita che si tratti di uno schema contrattuale, qualificando l’ipotesi come atto unilaterale. Quel che è sicuro è che si tratta esclusivamente di atti a titolo gratuito e che l’atto, contrariamente a quanto ritenuto da parte della dottrina, è assolutamente inidoneo al trasferimento di diritti reali. Tra le classificazioni più importanti dei c., bisogna ricordare quella relativa al momento di conclusione del c.: sono consensuali quei contratti per il cui perfezionamento è sufficiente il solo consenso, reali quei c. che richiedono, oltre al consenso, anche la consegna della cosa (ad es. il mutuo, il contratto di deposito, il contratto di comodato); quanto agli effetti, i contratti si classificano ad efficacia traslativa reale e ad efficacia obbligatoria: nei primi il diritto reale o di credito si trasferisce per effetto del solo consenso legittimamente manifestato (principio con sensualistico che informa l’ordinamento giuridico italiano), negli altri si producono effetti obbligatori. Naturalmente i due tipi di effetti possono avere la fonte in un medesimo contratto (ad es. la vendita). I c. possono, sempre sulla base del mero consenso, avere efficacia modificativa o estintiva di un precedente rapporto. I c. si classificano altresì in contratti a titolo gratuito o oneroso, a seconda che il sacrificio economico derivante dal c. sia sopportato da una sola parte o da entrambe le parti. Per quanto riguarda il contenuto i c. si classificano in tipici e atipici (meglio dire nominati e innominati) a seconda che siano disciplinati dalla legge oppure siano forgiati dai privati nell’esercizio dell’autonomia; in tale ultimo caso sono recepiti dall’ordinamento in quanto diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela (ad es. il contratto di leasing). Per quanto riguarda il loro protrarsi nel tempo, i c. possono essere di durata, nei quali il protrarsi nel tempo del rapporto ha valore essenziale per il soddisfacimento degli interessi perseguiti dalle parti; nel loro ambito è opportuno distinguere due tipi: c. ad esecuzione continuata, nei quali la prestazione di una parte ha continuità ininterrotta nel tempo (ad es. la locazione) e c. ad esecuzione periodica, nei quali la prestazione deve essere ripetuta ad intervalli periodici (ad es. la somministrazione: v. contratto di somministrazione). Infine è da ricordare che per c. normativo si intende quel c. con il quale si predispone, in tutto o in parte, il contenuto di futuri contratti, senza che le parti future siano obbligate a concluderli; ma se addivengono a tale decisione, devono uniformarsi a quanto stabilito nel c. normativo.

Contratto tipo. - Si intende per c. tipo qualsiasi modulo formulario predisposto per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali; le clausole aggiunte prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse, anche se queste ultime non sono state cancellate. Se sono contenute clausole onerose o clausole vessatorie, si applica la relativa disciplina.

Il d. legisl. 206/2005 (Codice del consumo, art. 45 e seg.), che ha sostituito, abrogandolo, il d. legisl. 50/1992, ha disciplinato i c. negoziati fuori dei locali commerciali, stipulati dai professionisti con i consumatori durante le visite a domicilio o sul posto di lavoro, o conclusi per corrispondenza, in un’area pubblica o durante un’escursione organizzata dal professionista. Sono esclusi da tale disciplina i c. relativi a beni immobili, prodotti alimentari, i c. di assicurazione e quelli riguardanti strumenti finanziari, nonché i c. per i quali il corrispettivo globale che deve essere pagato dal consumatore non supera l’importo di 26 euro. A tutela del consumatore, considerato parte debole del c., è previsto un «diritto di pentimento», mediante recesso dal c., da esercitarsi entro il termine di 10 giorni, senza penalità e senza necessità di giusta causa. Il professionista è tenuto a informare per iscritto il consumatore del diritto di recesso, pena l’applicazione di una sanzione amministrativa.

I c. agrari (associativi e di scambio) hanno per oggetto la coltivazione del fondo e lo sfruttamento del bestiame (produzione agricola), dando vita a una impresa agricola e costituendone un particolare modo di essere: non sono pertanto agrari quei c. che, pur potendo essere stipulati da un agricoltore, non hanno tuttavia per oggetto immediato la costituzione e la gestione di un’impresa agricola, come le compravendite di terreni, di animali, di sementi, di concimi, di macchine ecc.; i c. di lavoro in agricoltura; il noleggio di trebbiatrici ecc. Sono invece agrari quei c. che comportano l’assunzione o la suddivisione del rischio dell’impresa agricola, come la mezzadria, le colonìe parziarie, la soccida, l’affitto di fondi rustici, sia a coltivatore diretto sia a conduttore non coltivatore diretto. Sennonché, dopo una serie di interventi legislativi, che ha avuto inizio con la l. 756/1964, la l. 203/1982, solo in parte modificata dalla l. 29/1990, ha realizzato una progressiva tipizzazione dei c. agrari, ispirata a una decisa ostilità nei confronti dei c. agrari associativi. Si può, quindi affermare che, attualmente, salvo qualche aspetto marginale, l’unico c. agrario rilevante è l’affitto di fondi rustici.

Il c. autonomo di garanzia è un c. innominato in forza del quale un soggetto si obbliga a eseguire la prestazione dovuta da un terzo a prima richiesta, vale a dire rinunciando a opporre tutte le eccezioni relative al rapporto garantito. Dopo alcune incertezze iniziali, dovute alla difficoltà di individuare la causa di questo c., la dottrina nettamente prevalente e la giurisprudenza ormai consolidata hanno considerato ammissibile tale schema. Anzi, è stato merito della giurisprudenza ritenere ammissibile il ricorso all’exceptio doli generalis, per rimediare ai possibili abusi a cui si presta la figura, anche se in tal modo l’«astrattezza» del c. ne è stata fortemente limitata.

Il c. a favore di terzi, disciplinato dal codice civile (art. 1411-1413), è uno schema generale privo di un contenuto specifico, che richiede quindi, per la sua operatività, la conclusione di un c., non importa se tipico o atipico, di cui determina la deviazione dell’effetto in testa a un terzo; questi acquista il diritto per effetto della stipulazione senza diventare parte del contratto. Il terzo è libero di rifiutare l’acquisto già verificatosi e in tal caso il promettente dovrà eseguire la sua prestazione nei confronti dello stipulante. Se, invece, il terzo aderisce, tale atto determina di regola l’irrevocabilità della stipulazione. Il c. a favore di terzi richiede, per la sua validità, l’esistenza di un interesse dello stipulante, da non confondere con l’interesse a contrattare. Il richiamato interesse viene normalmente individuato nell’animus donandi o nell’animus solvendi. Il c. a favore di terzi è, nelle ipotesi più ricorrenti, applicato ai c. con effetti obbligatori, ma la tendenza prevalente lo ritiene applicabile anche ai c. con effetti reali, anche se l’unico esempio riguarda la costituzione di un diritto di servitù, ma, in tale ipotesi, la prestazione, in caso di rifiuto del terzo, non potrà essere eseguita nei confronti dello stipulante.

Il c. estimatorio, disciplinato dagli art. 1556-1558 c.c., è il c. mediante il quale una parte consegna all’altra una o più cose mobili e la seconda si obbliga a pagarne il prezzo se non le restituisce nel termine stabilito. Appartiene alla categoria dei c. reali, per la cui perfezione è richiesta la consegna delle cose. Se la restituzione di queste diviene impossibile per causa non imputabile a chi le ha ricevute, questi rimane comunque obbligato al pagamento del prezzo. Molto frequente nella prassi commerciale, consente al rivenditore di beni mobili che non sopporta il cosiddetto rischio dell’invenduto, di procurarsi le merci semplicemente obbligandosi a pagare il prezzo di quelle allocate e a riconsegnare quelle non vendute. Colui che ha consegnato le cose non può disporne finché non gli siano state restituite.

Il c. per conto di chi spetta, detto anche c. per conto dell’avente diritto, è stipulato in rappresentanza di un soggetto che sarà determinato successivamente, in base alla titolarità di una certa situazione giuridica soggettiva. Trovano fondamento nel codice civile la vendita per conto di chi spetta, in caso di divergenze sulla qualità e condizione della cosa venduta e della conseguente verifica giudiziale dei difetti (art. 1513), nonché l’assicurazione per conto di chi spetta (art. 1891).

Il c. misto è un atipico risultante dalla combinazione di distinti schemi negoziali, fusi insieme dall’unicità della causa del negozio giuridico, dando luogo a una convenzione unitaria per autonoma individualità (per es., i c. di albergo, di parcheggio ecc.). La sua disciplina è data o dal criterio dell’assorbimento (quando uno schema contrattuale risulta prevalente sull’altro), per cui si applicano le norme relative al tipo principale, oppure dal criterio della combinazione, per cui ogni elemento è disciplinato dalle proprie regole. Parte della dottrina ritiene che la categoria dei c. misti non abbia autonomia concettuale rispetto a quella dei c. atipici.

Il c. per persona da nominare rappresenta una forma di c. in cui un contraente si riserva la facoltà di nominare successivamente la persona che deve acquistare i diritti e assumere gli obblighi nascenti dal c. stesso. La dichiarazione di nomina, se le parti non hanno stabilito un termine diverso, deve essere effettuata entro 3 giorni e non ha effetto se non è accompagnata dall’accettazione della persona nominata, se non esiste una procura anteriore al c., o se non è fatta validamente. Dichiarazione, accettazione e procura devono rivestire la stessa forma che le parti hanno utilizzato per il contratto. Quando la dichiarazione di nomina è stata validamente fatta, la persona nominata acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dal c. con effetto dal momento in cui questo è stato stipulato (art. 1401-1405 c.c.).

Il c. preliminare, nella sua più diffusa accezione, obbliga le parti alla prestazione del consenso, vale a dire alla conclusione di un successivo c., detto definitivo, di cui viene stabilito il contenuto. È ammissibile che una sola delle parti si obblighi a prestare il consenso, mentre l’altra è libera di accettare o meno ( c. preliminare unilaterale); così, è ammissibile, anche se raro nella pratica, che una delle parti si obblighi a prestare il consenso per la conclusione di un negozio unilaterale (per es., rinuncia). Una particolare tutela è prevista in caso di preliminare di c. traslativo o costitutivo di diritti reali: la parte non inadempiente, di regola il promissorio acquirente, può chiedere, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, una sentenza che produca gli effetti del c. non concluso; a questa tutela, il legislatore di recente ne ha aggiunto un’altra, introducendo all’art. 2645 bis c.c. la trascrivibilità del c. preliminare. Questo c., che deve comunque avere la stessa forma del definitivo (art. 1351 c.c.), qualora sia concluso in forma pubblica può essere trascritto. Questa trascrizione consente al c. preliminare di «prevalere» sulle successive trascrizioni o iscrizioni effettuate contro il promettente alienante, purché sia seguito dalla trascrizione del definitivo o di altro atto che costituisca esecuzione del preliminare, ovvero della trascrizione della domanda giudiziale proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. Secondo un’autorevole dottrina, si ha un’ipotesi di prenotazione della trascrizione e non di opponibilità. La giurisprudenza ha elaborato la figura del c. preliminare a effetti anticipati; in particolare nel c. preliminare di compravendita immobiliare, le parti possono espressamente stabilire nel preliminare medesimo la consegna dell’immobile, prima della conclusione del definitivo. In caso il promissario acquirente, è mero conduttore e non possessore, e a volte erroneamente si afferma che egli può avvalersi di alcuni mezzi di tutela normalmente subordinati alla conclusione dell’atto traslativo.

Il c. tipo è qualsiasi modulo-formulario predisposto per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali; le clausole aggiunte prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse, anche se queste ultime non sono state cancellate. Se sono contenute clausole onerose o clausole vessatorie, si applica la relativa disciplina. Per i c. collegaticollegamento.

Diritto commerciale

C. di impresa. - Oltre ai c. stipulati dall’imprenditore con fornitori, lavoratori e clienti, per assicurarsi i fattori produttivi necessari allo svolgimento dell’attività di impresa, rientrano in questa tipologia anche quelli finalizzati alla distribuzione commerciale (c. di distribuzione), al finanziamento e alla riscossione dei crediti. Accanto ai c. in ordine ai quali l’inserzione nell’impresa costituisce il presupposto dell’atto stesso (per es., i c. di appalto, di subfornitura, di assicurazione, o i c. bancari) ve ne sono altri che, pur non essendo riservati all’imprenditore, svolgono una reale funzione solo se posti in essere da un imprenditore, come il trasporto, la somministrazione, la mediazione, la spedizione.

Due sono i caratteri qualificanti i c. d’impresa: l’insensibilità alle vicende personali dell’imprenditore (per es., morte, interdizione), e il trasferimento automatico del c. in capo a colui che subentra all’imprenditore nell’esercizio dell’attività, come avviene con il trasferimento, anche temporaneo, dell’azienda; in questi casi non si richiede il consenso della controparte contrattuale (come accadrebbe secondo la disciplina comune della cessione del c.), cui viene solo riconosciuto il diritto di recesso qualora ricorra una giusta causa. Il collegamento con l’esercizio dell’impresa, infatti, giustifica deroghe norma;tive alla disciplina generale (per es., la rappresentanza institoria) e condiziona il rapporto contrattuale, sul piano non soltanto contenutistico ma anche formale, con la predisposizione da parte dell’imprenditore di condizioni e clausole standard.

Con il c. di distribuzione un operatore economico formalmente indipendente (distributore integrato) assume l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti forniti dalla controparte (produttore), in cambio delle opportunità di guadagno legate al riconoscimento dell’esclusiva per la rivendita in una determinata zona. Rientra in questa tipologia contrattuale una varietà di accordi attinenti alla distribuzione commerciale, in cui gli intermediari collaborano in forma stabile e continuativa con il produttore industriale, facendo da tramite tra questo e il consumatore. In forza di questi c. viene soddisfatta l’esigenza delle imprese di non disinteressarsi della commercializzazione dei propri prodotti, pur senza sopportarne costi e rischi. I c. di distribuzione si differenziano tra loro per il diverso grado di integrazione del distributore nel sistema predisposto dal fornitore (modalità di rivendita). In alcuni casi il fornitore non ha il potere di incidere in maniera significativa sull’attività commerciale del distributore (per es., nella concessione di vendita); in altri, al contrario, il distributore è legato in maniera pressoché inscindibile al fornitore, nell’ambito di una rete distributiva unitariamente coordinata (franchising). Elemento comune ai vari c. di distribuzione – categoria che comprende figure classiche, quali il c. di agenzia, la commissione, la mediazione, e nuove forme contrattuali, come appunto il franchising – è l’impegno del distributore di acquistare periodicamente dal fornitore determinati quantitativi di merce, a condizioni predeterminate, e di promuovere la commercializzazione dei prodotti medesimi secondo modalità stabilite dal produttore.

C. di investimento

- C. aventi a oggetto la prestazione di servizi di investimento, stipulati tra un soggetto abilitato – ossia autorizzato ai sensi del d. legisl. 58/1998 (t.u. in materia di intermediazione finanziaria) – e un cliente. Una disciplina più puntuale è poi fornita dal Regolamento emanato dalla CONSOB in tema di intermediari, che integra e specifica le norme del testo unico (Regolamento 11522/1° luglio 1998, art. 30 e seg.). La stipulazione dei c. di investimento è riservata, in via generale, alle imprese di investimento (SIM) e alle banche (t.u., art. 18). Tuttavia, per alcuni tipi di servizi di investimento, e per i relativi c., sono legittimati ad agire anche altri soggetti (società di gestione del risparmio, intermediari finanziari di cui all’art. 107 del t.u. in materia bancaria, agenti di cambio, Poste Italiane s.p.a.). La disciplina generale prevede la redazione del c. in forma scritta e la consegna di un esemplare al cliente (t.u., art. 23). Tale regola è dettata a tutela dell’investitore non professionale, ed è pertanto previsto che la CONSOB possa derogarvi per particolari tipi di c., in presenza di «motivate ragioni tecniche» o in considerazione della «natura professionale» del cliente. Il mancato rispetto della forma scritta è sanzionato dalla legge con la nullità del c., che peraltro, in considerazione dell’interesse tutelato, può essere fatta valere soltanto dal cliente. È inoltre sanzionata con la nullità ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente. La legge prevede infine, a tutela del cliente, l’inversione dell’onere della prova nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati nello svolgimento dei servizi di investimento, stabilendo che spetta ai soggetti abilitati provare di aver agito con la diligenza richiesta.

C. di viaggi organizzati

- Espressione che sintetizza due tipologie contrattuali: il c. di organizzazione di viaggio e il c. di intermediazione di viaggio. Nel primo l’agenzia di viaggi offre – a fronte di un prezzo globale – una serie di prestazioni comprendenti il trasporto, il soggiorno separato dal trasporto o qualunque altro servizio a essi riferito. Nel secondo, si impegna a procurare un c. di organizzazione di viaggi, che si caratterizza per la disciplina prevista in caso di eventuali pregiudizi subiti dal cliente. L’agenzia, cui è richiesta la diligenza professionale (l. 1084/77), può stabilire un limite quantitativo al danno risarcibile, salvo per il caso di dolo o colpa grave. L’agenzia di viaggi può essere chiamata a rispondere dei danni derivanti dalla mancata prestazione, totale o parziale, da parte di terzi, mentre per quelli prodotti nel corso dell’esecuzione la sua responsabilità può essere esclusa, se si prova che ha diligentemente scelto il fornitore della prestazione. Il cliente può tuttavia intraprendere un’azione diretta nei confronti del terzo responsabile del danno. Un particolare tipo di c. di viaggio organizzato è rappresentato dal pacchetto turistico, disciplinato dal d. legisl. 206/05 (art. 82-100) e consistente nella vendita a un prezzo forfettario di un viaggio, di una vacanza di durata superiore alle 24 ore, o interessante almeno una notte, nonché di servizi quali l’alloggio, l’organizzazione di itinerari, visite, escursioni ecc. Specifica attenzione è riservata in questo caso agli elementi informativi che occorre fornire al cliente e alle possibili modificazioni delle condizioni contrattuali. Più precisamente, è previsto che il cliente possa recedere solo a seguito di modificazioni significative e che l’agenzia di viaggi possa proporre prestazioni diverse ma equivalenti, sia prima sia dopo l’inizio del viaggio.

C. di servizio di logistica

- Accordo che prevede l’erogazione di servizi ulteriori rispetto al deposito e al trasporto, comprendenti la ricezione della merce e il suo stoccaggio in magazzini, la movimentazione dei materiali, la preparazione e il consolidamento delle spedizioni, l’imballaggio, la gestione delle scorte e degli ordini, la distribuzione delle merci e l’assistenza alla clientela finale, nonché attività particolari quali la gestione contabile e la fatturazione, la riscossione di crediti e adempimenti amministrativi in genere. Esulando dallo schema dei c. tipici, (per es., deposito e trasporto) si rende necessaria una integrazione fra le discipline del tipo contrattuale prevalente e degli schemi contrattuali propri delle specifiche clausole che si discostano dal c. prevalente.

Diritto del lavoro

C. collettivi di lavoro. - Accordi tra uno o più datori di lavoro e una o più organizzazioni di lavoratori, volti a stabilire il trattamento minimo garantito a questi ultimi e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli c. individuali di lavoro stipulati sul territorio nazionale. A tal fine si distingue tra c. unilateralmente sindacali, stipulati da un singolo datore di lavoro con l’organizzazione collettiva dei lavoratori, e c. bilateralmente sindacali, stipulati da contrapposte associazioni sindacali di datori di lavoro, da un lato, e di prestatori di lavoro, dall’altro.

Sono espressione di un generale potere di autoregolamentazione di interessi afferenti a soggetti di diritto privato, in quanto sia le organizzazioni imprenditoriali, sia le organizzazioni dei lavoratori che stipulano c. presentano connotati privatistici, avendo natura giuridica di associazioni non riconosciute. L’art. 39 Cost. attribuisce ai sindacati, riuniti in rappresentanze unitarie, ciascuno con un peso proporzionale agli iscritti, il potere di stipulare c. con efficacia generale per tutta la categoria. Tale efficacia generalizzata è subordinata, peraltro, alla registrazione dell’associazione sindacale, attraverso la quale quest’ultima acquista la personalità giuridica. Tuttavia, l’art. 39 della Costituzione non ha trovato applicazione, poiché nessuna associazione sindacale ha mai provveduto a registrarsi. Per dare applicazione ai c. ci si è quindi avvalsi dello strumento dei c. di diritto comune, che caratterizzano l’esperienza giuridica italiana. Il loro contenuto è dato da clausole tendenti a determinare minimi di trattamento economico e normativo, per i c. individuali di lavoro in corso e per quelli che devono essere ancora stipulati.

Da questo punto di vista, i c. collettivi di lavoro rientrano nella categoria dei c. normativi, poiché le parti si accordano circa le condizioni cui si atterranno nella loro attività negoziale. Essi presentano anche una funzione obbligatoria, nelle clausole che consentono l’instaurazione di rapporti obbligatori facenti capo ai soggetti collettivi. Tali soggetti possono essere sia gli stessi che hanno stipulato i c., sia le loro articolazioni territoriali. I c. stipulati tra il sindacato nazionale e la contrapposta organiz;zazione imprenditoriale, per es., creano rapporti obbligatori tra sindacato provinciale e associazione provinciale degli industriali. Per quanto concerne l’ambito di efficacia, poiché nell’ordinamento italiano il rapporto tra autonomia collettiva e individuale è regolato dal meccanismo dell’inderogabilità in peius, i c. individuali non possono contenere elementi peggiorativi per il lavoratore rispetto ai c. collettivi vigenti. Al limite potranno contenere disposizioni di maggior favore per il lavoratore (derogabilità in melius).

Sotto il profilo soggettivo, i c. hanno efficacia soltanto nei confronti dei soggetti che hanno conferito all’associazione il potere di rappresentanza. Tuttavia, al fine di estenderne l’ambito di applicazione oltre gli iscritti delle associazioni stipulanti, si è soliti far ricorso all’art. 36 Cost., secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, sufficiente a garantire a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. La natura precettiva della norma determina la nullità assoluta di clausole contrastanti con tale principio. La quantificazione della retribuzione in questi termini è operata dal giudice, che utilizza i minimi retributivi contenuti nei c. come parametri di riferimento.

C. collettivi del pubblico impiego. - Accordi volti a stabilire un trattamento minimo garantito e le condizioni lavorative nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Con il d. legisl. 29/1993 la tradizionale supremazia delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei propri dipendenti è stata sostituita da un rapporto di tipo contrattuale. I c. incidono quindi in maniera diretta e immediata sul rapporto di lavoro, senza bisogno di alcun atto di ricezione da parte della pubblica amministrazione, ma la loro stipulazione è affidata al rapporto di forza negoziale che si viene a stabilire tra le parti. La contrattazione collettiva riguarda tutte le materie attinenti il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si sviluppa intorno a due livelli: c. collettivi nazionali di comparto e c. integrativi. A essi si affianca un livello intercompartimentale, costituito dai c. o accordi quadro, che vertono su argomenti comuni a tutti i lavoratori e a tutte le amministrazioni.

I c. di comparto fanno riferimento a settori omogenei o affini, determinati mediante appositi accordi tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione (ARAN) e le confederazioni che hanno nel comparto di riferimento una rappresentatività non inferiore al 5%, considerata la media tra dato associativo e dato elettorale. Le clausole contenute nei c., alla stregua dei c. collettivi di diritto comune, disciplinano in via esclusiva l’aspetto relativo al trattamento economico dei dipendenti pubblici. Le pubbliche amministrazioni, in quanto equiparate ai datori di lavoro privati, hanno l’obbligo di garantire ai propri dipendenti i minimi tabellari previsti dai c. stessi, osservando il principio di parità di trattamento. Le pubbliche amministrazioni stipulano, inoltre, c. integrativi, nel rispetto delle materie e dei limiti prefissati dai c. nazionali di comparto.

Le procedure di contrattazione sono disciplinate dalla legge. I comitati di settore deliberano gli indirizzi per l’ARAN, che successivamente dà inizio alle trattative. Una volta raggiunta l’ipotesi di accordo, l’ARAN invia il testo contrattuale al comitato di settore, al fine di acquisirne il parere. Se il parere è negativo le trattative si riaprono; se è positivo l’ARAN trasmette i dati economici alla Corte dei conti, che delibera entro 15 giorni. Se anche questo parere risulta positivo, l’ARAN procede a sottoscrivere l’accordo; in caso, invece, di esito negativo, deve assumere tutte le iniziative necessarie a riportare gli oneri contrattuali nei vincoli di bilancio.

C. collettivi comunitari

- L’attività negoziale di soggetti collettivi operanti a livello comunitario ha trovato esplicito riconoscimento nel diritto comunitario. In base agli art. 138-139 del Trattato della Comunità europea, infatti, le «parti sociali» partecipano in modo attivo alla formazione del diritto sociale comunitario mediante schemi di consultazione, partecipazione e contrattazione. Più in particolare, in base a quanto dispone l’art. 139, il dialogo fra le parti può condurre, qualora queste lo desiderano, «a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi», che possono essere attuati secondo «le procedure e le prassi proprie degli Stati membri», oppure, se le materie rientrano nell’ambito delle competenze comunitarie previste nell’art. 147 del medesimo Trattato, «mediante una decisone del Consiglio». La seconda opzione, l’unica in grado di garantire un’efficacia erga omnes alla volontà delle parti sociali, è condizionata al rispetto di una serie di requisiti. Secondo questo schema, ogniqualvolta la Commissione intende promuovere una iniziativa legislativa in materia sociale, deve consultare le parti, sull’opportunità e sul merito dell’iniziativa. Manifestata la volontà di aprire il procedimento di negoziazione, le parti dovranno concluderlo obbligatoriamente entro 9 mesi (salvo proroga). Trascorso tale periodo, l’eventuale accordo potrà essere attuato in via legislativa, attraverso l’intervento della Commissione e del Consiglio. In caso contrario, la proposta tornerà alla Commissione e segue il normale iter legislativo, di cui all’art. 137 TCE.

C. di formazione e lavoro. - Istituito con la l. 285/1977, trova la sua disciplina nella l. 863/1984 (art. 3), con le successive modifiche. In base al d. legisl. 276/2003 (art. 86, co. 9) è consentito soltanto alle pubbliche amministrazioni. Si tratta di un c. di lavoro subordinato a causa mista, in cui allo scambio tra lavoro e retribuzione si aggiunge l’obbligo formativo a carico del datore di lavoro. A tale c., che è a tempo determinato, si applica la disciplina legislativa del lavoro subordinato, in quanto non derogata da speciali disposizioni. Possono avvalersene enti pubblici economici, imprese, professionisti, gruppi di imprese, enti pubblici di ricerca, associazioni e fondazioni. La sua stipulazione è vietata per le professionalità per le quali l’impresa abbia in atto una sospensione di lavoro o abbia proceduto nei 12 mesi precedenti a una riduzione di personale, nonché per i datori di lavoro che non abbiano effettuato la trasformazione in c. a tempo indeterminato di almeno il 60% dei c. di formazione e lavoro scaduti nel biennio precedente. Il numero dei c. di questo tipo deve essere proporzionato alle dimensioni dell’organico aziendale, mediante disposizioni dei c. collettivi o attraverso i criteri amministrativi che ne regolano l’approvazione. Il c. di formazione lavoro, infatti, può essere stipulato solo con giovani di età compresa tra 16 e 24 anni, elevati a 29 per i laureati, e deve essere concluso in forma scritta (altrimenti il lavoratore si intende assunto con normale c. a tempo indeterminato), in base a un progetto approvato in via amministrativa, o conforme a regolamentazioni collettive recepite dal ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. In particolare, sono previsti due tipi di c. di formazione e lavoro. Il primo, detto ‘forte’, riguarda l’acquisizione di professionalità elevate o intermedie, ha una durata massima di 24 mesi e deve prevedere una quantità minima di formazione retribuita, pari a 80 ore per le professionalità intermedie e a 130 ore per le professionalità elevate. Il secondo tipo, detto ‘leggero’, riguarda professionalità inferiori, ha una durata massima di 12 mesi e deve prevedere una quantità minima di formazione retribuita di 20 ore, aventi a oggetto la disciplina del rapporto, l’organizzazione del lavoro e la prevenzione. In entrambi i casi i c. collettivi possono imporre ulteriori ore di formazione non retribuita. Le due tipologie godono inoltre di una riduzione contributiva. La violazione dell’obbligo formativo provoca (laddove non debba essere salvaguardato il principio del concorso) la sua conversione legale in c. di lavoro a tempo indeterminato ab origine, nonché un obbligo risarcitorio a carico del datore di lavoro e la revoca di tutti i benefici contributivi. I lavoratori assunti con c. di formazione lavoro possono essere inquadrati in un livello inferiore a quello di destinazione, con conseguente riduzione del costo del lavoro (cosiddetto salario d’ingresso).

C. di inserimento. - C. di lavoro subordinato a causa mista, in cui allo scambio tra lavoro e retribuzione si aggiunge la realizzazione di un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, finalizzato all’inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro (d. legisl. 276/2003). Può essere stipulato, oltre che con i giovani di età tra 18 e 29 anni, anche con altre categorie di lavoratori svantaggiati: disoccupati di lunga durata di età da 29 a 32 anni; disoccupati ultracinquantenni; disoccupati da oltre due anni; donne di qualsiasi età residenti in un’area con alto tasso di disoccupazione femminile; handicappati gravi. Ne possono usufruire le imprese e i loro consorzi, enti pubblici economici, gruppi di imprese, associazioni anche sindacali, fondazioni, enti di ricerca pubblici e privati. Il c. di inserimento è a tempo determinato, non è rinnovabile tra le stesse parti, ma può essere prorogato; la sua durata minima è di 9 mesi, quella massima di 18 mesi (36 per i lavoratori affetti da grave handicap). Le uniche cause di sospensione del rapporto che ne prolungano la durata sono il servizio militare e civile e la maternità. La sua stipulazione è consentita solo se viene consensualmente definito, e indicato in forma scritta, un progetto individuale di inserimento, secondo piani le cui modalità sono fissate dai c. collettivi. In difetto di forma scritta il c. è nullo e si intende costituito tra le parti un normale c. di lavoro a tempo indeterminato. Al c. di inserimento si applica la disciplina del lavoro a termine, con il limite della compatibilità e salvo diversa disciplina. La sua applicazione è vietata qualora il datore di lavoro non abbia trasformato in c. a tempo indeterminato di almeno il 60% dei c. di inserimento scaduti nei 18 mesi precedenti.

C. di riallineamento. - Disciplinati dall’art. 23 della l. 196/1997, i c. d’area rispondono a una duplice funzione: consentire l’emersione dei trattamenti retributivi sconosciuti al fisco e agli enti previdenziali e assistenziali; e adeguare progressivamente i rapporti di lavoro formalizzati, ma con trattamento economico inferiore ai minimali di legge previsti con riferimento ai c. collettivi. In tali ipotesi è previsto che, a livello aziendale, possa essere sottoscritto un accordo sindacale di recepimento dell’accordo provinciale di riallineamento retributivo, stipulato dalle associazioni imprenditoriali e dalle organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni nazionali stipulanti il c. collettivo nazionale di lavoro di riferimento, con i seguenti vantaggi: a) sanatoria «anche per i periodi pregressi per le pendenze contributive e a titolo di fiscalizzazione di leggi speciali in materia e di sanzioni a ciascuna di esse relative ovvero di sgravi contributivi»; b) estinzione dei «reati previsti da leggi speciali in materia di contributi e di premi e le obbligazioni per sanzioni amministrative e per ogni altro onere accessorio»; c) possibilità di effettuare il versamento delle ritenute di legge, senza sanzioni e interessi, sulle somme corrisposte e non denunciate. È altresì previsto che, all’atto dell’avvenuto riallineamento, le imprese godano degli incentivi previsti per i casi di nuova occupazione.

C. d’area e patti territoriali. - C. che scaturiscono da accordi tra più soggetti pubblici (anche locali), rappresentanze di lavoratori e datori di lavoro e altri soggetti eventualmente interessati. Tali accordi hanno per scopo la realizzazione di un ambiente economico favorevole all’attivazione di nuove iniziative imprenditoriali e alla creazione di nuova occupazione nei settori dell’industria, dell’agroindustria, dei servizi e del turismo, attraverso condizioni di massima flessibilità amministrativa e in presenza di investimenti qualificati, nonché di relazioni sindacali e di condizioni di accesso al credito favorevoli. Si applicano a territori circoscritti, interessati da gravi crisi occupazionali. Questo tipo di c. si differenzia dal patto territoriale, che è uno strumento della programmazione negoziata (disciplinato dall’art. 2, co. 203 e seg., della l. 662/1996), volto a coordinare interventi di tipo produttivo, promozionale e infrastrutturale ai quali concorra il finanziamento pubblico. Il p. territoriale si caratterizza per la concertazione tra i diversi attori sociali (rappresentanti delle forze sociali, degli enti locali e singoli operatori economici) finalizzata all’elaborazione di progetti concreti di sviluppo locale; è quindi uno strumento selettivo, basato su elementi qualitativi, in ordine ai tempi, agli impegni assunti dai soggetti sottoscrittori e alla selezione degli obiettivi.

C. di solidarietà

- Accordi aziendali la cui finalità è quella di evitare riduzioni del personale (c. cosiddetti difensivi) o di favorire assunzioni (c. cosiddetti espansivi) mediante riduzioni dell’orario di lavoro. Ai c. di solidarietà difensivi possono ricorrere le aziende in cui si applica la disciplina in materia di cassa integrazione guadagni straordinaria. Ne usufruisce tutto il personale dipendente, esclusi i dirigenti, gli apprendisti, i lavoratori a domicilio, i dipendenti il cui rapporto di lavoro abbia avuto inizio da meno di 90 giorni e i lavoratori assunti con c. a termine per esigenze di carattere stagionale. La riduzione dell’orario di lavoro può essere stabilita su base giornaliera, settimanale o mensile, ma la percentuale di riduzione deve essere tale che il numero delle ore complessivamente non lavorate risulti superiore al 30%, ovvero inferiore, nella stessa misura percentuale, al numero di ore che sarebbero state effettuate dai lavoratori dichiarati in esubero. L’integrazione salariale a favore dei lavoratori coinvolti deve essere pari al 60% del trattamento retributivo perso a seguito della riduzione di orario concordata. Il periodo di applicazione non può superare i 24 mesi, prorogabili per un massimo di 36 mesi nelle aree del Mezzogiorno, di 24 mesi nelle altre.

I c. di solidarietà espansivi possono essere stipulati, invece, nelle aziende in cui non si applica la cassa integrazione guadagni straordinaria, per prevedere riduzioni dell’orario di lavoro con corrispondenti riduzioni della retribuzione, al fine di incrementare gli organici attraverso nuove assunzioni a tempo indeterminato, con specifiche agevolazioni contributive per le aziende.

Diritto amministrativo

C. della pubblica amministrazione Accordi che lo Stato e gli altri enti pubblici non economici stipulano con i privati per costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici patrimoniali. Si usa distinguere tra c. di diritto comune, alla stipulazione dei quali le parti addivengono in regime di diritto privato e nei quali la pubblica amministrazione non gode di una posizione privilegiata, e c. a oggetto pubblico o di diritto pubblico, che sono collegati ad alcune tipologie di provvedimenti con i quali la pubblica amministrazione trasferisce a privati la disponibilità di beni o la gestione di servizi pubblici (per es., le cosiddette concessioni-c.) e, proprio per questo, subiscono l’influenza degli eventuali provvedimenti di revoca, per ragioni di interesse pubblico, o di annullamento, per vizi di legittimità, del provvedimento cui sono collegati.

Si definiscono c. a evidenza pubblica quelli alla cui conclusione si perviene tramite un particolare procedimento, cui partecipano l’amministrazione che è parte del c. e l’autorità che su di essa esercita il controllo. Assunta una deliberazione, o determinazione a contrattare, viene scelto il contraente privato (attraverso procedura aperta, ossia pubblico incanto o asta pubblica, procedura ristretta, ovvero licitazione privata, o attraverso procedura negoziata, comprende l’appalto-concorso e la trattativa privata), e si perviene quindi alla conclusione del c. (in forma scritta quando si sia seguita la trattativa privata, nonché nei casi di espressa riserva da parte dell’amministrazione di trasferire al momento della stipula del c. l’effetto dell’insorgenza del vincolo obbligatorio) e all’approvazione dello stesso da parte dell’autorità di controllo.

Sul piano procedurale si osservano differenze ai fini del perfezionamento dei cosiddetti c. «passivi» (vale a dire quelli che, comportano una spesa a carico dei bilanci pubblici), che trovano la propria regolamentazione anche nelle norme di derivazione comunitaria, e dei c. «attivi» (cioè quelli che comportano l’acquisizione di una entrata a vantaggio del bilancio pubblico), la cui disciplina è rinvenibile principalmente nel diritto nazionale. Nella fase dell’esecuzione del c. sono poi riconosciuti all’amministrazione specifici poteri di intervento unilaterale riconducibili alla capacità speciale di autotutela. L’esercizio di tali poteri può incidere, anche con effetto risolutivo, sul rapporto obbligatorio costituito con il contratto. In questo quadro, vanno ricordati, in particolare, i seguenti poteri dell’amministrazione: a) di sostituirsi alla controparte nell’esecuzione del c.; b) di disporre l’anticipata esecuzione del c. di appalto, prima della sua approvazione, in casi di urgenza; c) di rescindere il c. qualora il contraente privato si renda colpevole di frode o di grave negligenza, o contravvenga agli obblighi e alle condizioni stipulate; d) di recedere unilateralmente dal c.; e) di sospendere l’esecuzione del c. quando particolari circostanze ne impediscano temporaneamente l’esecuzione a regola d’arte.

Quanto agli strumenti di tutela, a fronte della tradizionale ripartizione della competenza tra giudice amministrativo e giudice ordinario (basata sull’attinenza della controversia al momento antecedente o successivo l’aggiudicazione del c.), il legislatore ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie aventi a oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, di servizi e di forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale (l. n. 205/2000, art. 6). Tali previsioni sono oggi contenute agli artt. 119 e ss. del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010, su cui si vedano le voci Giustizia amministrativa, Giurisdizione amministrativa e Processo amministrativo). Il Codice, pur avendo mantenuto agli artt. 120 ss. la distinzione netta tra la fase pubblicistica concernente lo svolgimento della gara (affidata alla cognizione del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva) e la fase privatistica di esecuzione del rapporto contrattuale (affidata alla cognizione del giudice ordinario), ha tuttavia attribuito al giudice amministrativo – in attuazione della cd. ‘Direttiva Ricorsi’ (2007/66/CE) – il potere di dichiarare anche l’inefficacia del c. qualora l’aggiudicazione sia stata annullata per gravi violazioni della normativa comunitaria (disciplinate dall’art. 121 del Codice): in questi casi, il giudice dovrà comunque tener conto degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione, dello stato di esecuzione del c. e della possibilità di subentrare nello stesso (art. 122).

Si è discusso, e in alcuni casi si continua a discutere, sull’applicabilità ai contratti della pubblica amministrazione di alcuni strumenti di tutela previsti per i rapporti tra soggetti privati. Circa la responsabilità precontrattuale (art. 1337 c.c.), è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale che la ammette quando l’amministrazione abbia deciso di procedere secondo le forme della trattativa privata, mentre sono contrastanti le pronunce giudiziarie nei casi di ricorso a procedure di gara formalizzate (anche su tali profili si veda la voce Responsabilità amministrativa). Si può inoltre ritenere applicabile alle pubbliche amministrazioni la normativa in tema di clausole vessatorie (art. 1341-1342 c.c.), almeno a seguito del recepimento della direttiva comunitaria 93/13 avente a oggetto la tutela del consumatore, che vale ugualmente nei confronti di soggetti pubblici e privati. Analogamente, l’art. 2932 c.c. sull’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre può essere applicato con la sola eccezione dell’ineseguibilità degli obblighi aventi a oggetto prestazioni infungibili, non potendo, per es., il giudice sostituirsi all’autorità amministrativa competente nell’adozione dell’atto di approvazione del contratto. Per quanto riguarda l’adempimento da parte della pubblica amministrazione delle obbligazioni pecuniarie derivanti dal contratto, si ritiene ormai che lo Stato e gli altri enti pubblici siano al riguardo soggetti alla comune disciplina civilistica, prevalendo tale principio sulla specialità di regime delle procedure contabili obbligatorie per il soggetto pubblico.

Diritto internazionale

Principi della regolamentazione. - Al fine di evitare che la conclusione dei c. internazionali continuasse a essere fonte di incertezze, specie sull’individuazione del diritto nazionale di volta in volta applicabile, nel 1994 il Consiglio di direzione dell’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT) ha pubblicato i «Principi dei c. commerciali internazionali». Concepiti sul modello dei Restatements of the law dell’esperienza statunitense, tali principi si sono affermati nella prassi, pur non avendo carattere vincolante, in virtù della loro forza persuasiva.

Elaborati in una forma volutamente flessibile, così da poterli rapidamente adattare a una prassi che è sottoposta ai mutamenti continui, i principi UNIDROIT risultano più affini alle codificazioni continentali che al sistema giuridico dei paesi di common law. Ogni articolo è corredato di commenti e di esempi illustrativi, finalizzati a spiegare la ratio della regola e le diverse funzioni che essa può svolgere nella prassi. In linea generale, enunciano norme comuni alla maggior parte dei sistemi giuridici esistenti, adottando le soluzioni che sembrano rispondere in maniera adeguata alle particolari esigenze del commercio internazionale. Alcune soluzioni, tuttavia, non trovano concreto riscontro negli ordinamenti nazionali; scelta, questa, che si spiega con la volontà di fornire strumenti il più possibile diretti a soddisfare le esigenze pratiche del commercio internazionale, tenendo anche conto delle diverse condizioni economiche e politiche esistenti nei diversi paesi.

Alla base di tali principi si possono individuare due orientamenti generali. Il primo mira a garantire – sebbene in maniera non assoluta – la libertà contrattuale delle parti nella conclusione del c. e nella determinazione del suo contenuto, nonché ad assicurare la sopravvivenza del c. stesso. I principi contengono, infatti, disposizioni che in nessun modo possono essere derogate dalle parti, e ricevono un particolare riconoscimento non soltanto in quanto accettati da queste, ma anche – in mancanza di un accordo in tal senso – qualora risulti che sono regolarmente osservati nel commercio internazionale, purché, tuttavia, la loro applicazione non sia ritenuta irragionevole. Inoltre, limitando le ipotesi di scioglimento prima della scadenza – nonostante le imperfezioni che pure possono verificarsi nel corso della formazione o della esecuzione del c. – essi puntano ad assicurare la sopravvivenza del c. (cosiddetto favor contractus). Un secondo gruppo di principi risponde all’esigenza di garantire condizioni di equilibrio e di equità nelle relazioni economiche transfrontaliere. Così, il principio di buona fede – sebbene non definito secondo i parametri adottati all’interno dei differenti sistemi giuridici nazionali – deve essere interpretato in senso oggettivo, in quanto riferito ai «criteri ordinari di correttezza nel commercio», non già nel senso soggettivo dell’agire onestamente. Allo stesso fine risponde una serie di rimedi contro i soprusi che una parte può eventualmente perpetrare sull’altra, in occasione della singola contrattazione, in virtù della sua maggiore preparazione tecnica, economica od organizzativa.

I principi UNIDROIT assolvono a una funzione non meno rilevante in sede di interpretazione e integrazione delle convenzioni internazionali, le quali, pur risultando incorporate nei vari sistemi giuridici nazionali, continuano, comunque, a rappresentare strumenti normativi elaborati ed approvati a livello internazionale. Pertanto, secondo la giurisprudenza più recente, l’interpretazione delle convenzioni internazionali deve seguire il cosiddetto metodo transnazionale o «autonomistico», basato sull’applicazione di criteri e principi autonomi e internazionalmente uniformi, quali sono, appunto, quelli UNIDROIT.

Infine, date le numerose difficoltà linguistiche alle quali sono spesso soggette le parti che stipulano c. commerciali internazionali, in quanto appartenenti a sistemi giuridici nazionali differenti, i termini e le espressioni contenuti nei principi UNIDROIT potrebbero essere utilizzati dai contraenti per accordarsi sull’adozione di una lingua neutrale, i cui termini siano univocamente definiti.

Tecnica di redazione dei c. internazionali

- Con tale espressione si fa riferimento tanto al modo di redigere il contenuto dei singoli c. internazionali, quanto alle diverse formule o tecniche seguite nella loro stipulazione. Nello specifico, il riferimento è esclusivamente alle contrattazioni di massa del commercio internazionale (per. es., c. di vendita di prodotti fungibili o di serie; c. di trasporto; operazioni bancarie ecc.) e non anche alle transazioni individuali a struttura complessa e/o di durata. I problemi connessi a tale tipo di c. internazionali riguardano anzitutto la forma, giacché alcune clausole adottate nelle contrattazioni internazionali derogano al principio generale vigente nella maggior parte degli ordinamenti interni, secondo il quale le parti non sono tenute all’osservanza di alcun tipo di requisito formale. Tra di esse spicca la clausola compromissoria che esige la forma scritta in alcuni paesi, quali la Gran Bretagna, la maggior parte delle nazioni dell’America del Nord, numerosi cantoni della Confederazione elvetica, mentre in altri ordinamenti, come quelli della Francia e dei Paesi Bassi, si ammette anche la possibilità di un accordo verbale. In Italia, oltre alla forma scritta, si ha cura di applicare la disciplina prevista dall’art. 1341, co. 2, ove tali clausole figurino in condizioni generali o in c.-tipo. Alcune convenzioni internazionali – in particolare, quelle di New York del 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere; di Ginevra del 1961, sull’arbitrato commerciale internazionale; di Bruxelles del 1968, sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale tra gli Stati membri delle Comunità europee – hanno cercato di elaborare una regolamentazione uniforme tra i vari Stati, sancendo un vincolo di forma scritta e precisando che le clausole non devono essere necessariamente inserite in un unico documento contrattuale, sottoscritto dalle parti, ma possono essere altresì stipulate in forme diverse, come lo scambio di lettere o altri sistemi equipollenti di comunicazione.

Per quel che concerne la prassi, sussistono notevoli dubbi interpretativi, in particolare circa il rinvio alla «forma che corrisponde alla prassi del rispettivo settore e di cui le parti sono o dovrebbero essere a conoscenza». Sul punto la dottrina è divisa tra quanti affermano, comunque, la necessità di applicare il requisito della forma scritta, rinviando ai principi del diritto positivo interno, tra quanti invece la negano, e tra chi, al contrario, sostiene che, dovendosi colmare una lacuna del testo normativo internazionale, occorra cercare una soluzione ‘autonoma’ o ‘transnazionale’. La richiesta forma scritta non è di per sé sufficiente a risolvere eventuali problemi inerenti alla previsione di clausole aggiuntive o modificative inserite per la prima volta, in una lettera di conferma, fattura o documento simile, che, in mancanza di espressa accettazione da parte del destinatario, siano comunque vincolanti per quest’ultimo. La novità della clausola non deve peraltro essere valutata soltanto alla stregua di quanto espressamente pattuito in forma scritta, ma occorre altresì verificare quanto tacitamente concordato, o, per altra via, inserito nel regolamento negoziale. Ai sensi dell’art. 1341, co. 1, c.c., determinate condizioni generali di c. vincolano le parti quando un contraente dimostri che l’altro, al momento del perfezionamento dell’accordo, ne era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Ciò non vale, ovviamente, ogniqualvolta le condizioni generali contengano clausole onerose o vessatorie, per le quali, ai sensi dell’art. 1341, co. 2, devono trovare applicazione le disposizioni espressamente previste agli art. 33 e 37 del Codice del consumo (d. legisl. 206/2005).

Un ulteriore problema, di notevole importanza pratica, è la questione linguistica. In particolare, sotto il profilo giuridico rileva il cosiddetto ‘rischio della lingua’, riguardante il contraente che corre il pericolo di restare vincolato a un testo contrattuale che non è in grado di comprendere immediatamente, in tutto o in parte, perché redatto in una lingua straniera. Si rileva infatti, che accanto alla ‘legge regolatrice del c.’, esiste una lingua ufficiale che le parti possono convenire di utilizzare: in tal caso il rischio linguistico ricade sul contraente che voglia avvalersi di una dichiarazione resa in una lingua diversa. L’ordinamento italiano fornisce, a tale riguardo, un utile criterio di risoluzione, in quanto subordina (art. 1341, co. 1, c.c.) l’efficacia delle condizioni generali non soltanto al fatto che la controparte le conosca, o debba conoscerle, ma anche alla circostanza che le comprenda, o debba comprenderle, sul piano linguistico, sempre secondo il parametro dell’ordinaria diligenza.

Diritto internazionale privato. - La l. 218/1995, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, afferma (art. 23): «In relazione a c. tra persone che si trovano nello stesso Stato, la persona considerata capace dalla legge dello Stato in cui il c. è concluso può invocare l’incapacità derivante dalla propria legge nazionale solo se l’altra parte contraente, al momento della conclusione del c., era a conoscenza di tale incapacità o l’ha ignorata per sua colpa». La stessa legge disciplina (art. 57) il regime delle obbligazioni derivanti da c. e rinvia alle disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, che divengono quindi il diritto comune in materia di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Le norme della Convenzione hanno portata erga omnes, si applicano cioè alle obbligazioni contrattuali laddove occorra un conflitto nell’applicazione di disposizioni normative, anche nei casi in cui la normativa ritenuta applicabile è quella di uno Stato non contraente, con esclusione di alcune specifiche categorie contrattuali (art. 2). Le parti di un accordo possono scegliere la legge applicabile a tutto il c. ovvero a una parte soltanto di esso, e il tribunale competente in caso di eventuali controversie (art. 3). Le parti possono convenire in qualsiasi momento di sottoporre il c. a una legge diversa da quella che lo regolava in precedenza (principio della libertà di scelta). Su questo punto si è tuttavia pronunciata negativamente la Corte di Cassazione, affermando (sent. 1680/1966, unico pronunciamento in cui è stato affrontato in modo articolato il problema riguardante la possibilità di scegliere la legge regolatrice delle obbligazioni contrattuali) che devono ritenersi irrilevanti le successive pattuizioni tra le stesse parti una volta che queste abbiano determinato la legge regolatrice del loro contratto. Nell’ipotesi in cui le parti non abbiano scelto esplicitamente la legge applicabile al c., l’atto è regolato dalla legge del paese con il quale presenta il collegamento più stretto, secondo il principio di prossimità. Più in particolare, a tale proposito l’art. 4.2 precisa: «si presume che il c. presenti il collegamento più stretto con il paese in cui la parte che deve fornire la prestazione caratteristica ha, al momento della conclusione del c., la propria residenza abituale o, se si tratta di una società, associazione o persona giuridica, la propria amministrazione centrale». Tuttavia, quando il c. ha per oggetto un bene immobile, si applicano norme specifiche, poiché si presume che la legge applicabile sia quella del paese in cui è situato l’immobile. Per i c. di trasporto di merci, invece, la legge applicabile è quella del luogo di carico o scarico o della sede principale del vettore. Per quanto concerne la vendita di beni mobili, si applica il regime giuridico contenuto nella Convenzione dell’Aia del 1955, che rimanda anzitutto alla scelta effettuata dalle parti, espressamente o secondo criteri interpretativi desumibili dalle disposizioni del c. (art. 2). In mancanza di tale scelta, si applica la legge del paese in cui il venditore ha la residenza abituale o lo stabilimento quando riceve l’ordine di acquisto.

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