CONTRORIFORMA

Enciclopedia Italiana (1931)

CONTRORIFORMA

Arturo Carlo Jemolo

Col nome di controriforma, o restaurazione cattolica, si designa tutta la varia e multiforme opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della Riforma protestante, e riconquistare le vaste cerchie di popolazione che questa aveva strappate alla cattolicità. Com'è noto, il dilaceramento prodotto dalla Riforma (v.) nel corpo della cristianità non poté essere più sanato, e anche in Occidente divenne una semplice aspirazione quella verso l'unico gregge e l'unico pastore; ma la cattolicità riconquistò una parte del terreno perduto, e la Chiesa, pacificandosi e rafforzandosi, non soltanto precluse al protestantesimo ulteriori conquiste, ma, per quanto può desumersi dall'esperienza degli ultimi quattro secoli, sembra aver reso impossibili nuove separazioni: invero ogni tentativo di distacco dalla Chiesa compiutosi in secoli più prossimi, ogni tentativo di dare vita a nuove confessioni religiose, intermedie tra il protestantesimo e il cattolicesimo, è fallito.

La controriforma operò nel campo del dogma e in quello della disciplina ecclesiastica, tra il clero e il laicato, con mezzi religiosi, politici, giudiziarî, polizieschi, militari, sul terreno culturale e su quello delle armi; il suo inizio può dirsi coevo alla Riforma; essa agì con particolare intensità tra il quinto e il nono decennio del sec. XVI, ma la sua opera si protrasse sino a che, con la pace di Vestfalia (1648), apparvero ormai decise le sorti religiose d'Europa, tracciati i confini territoriali fra le confessioni.

Sul terreno dogmatico l'opera della controriforma si concentra particolarmente in quell'attività del concilio di Trento (1545-63) volta a fissare il dogma cattolico nei punti in cui il protestantesimo aveva rinnegato principî tradizionali, o interpretato in modo nuovo la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa, e volta correlativamente a condannare le tesi protestanti. Il concilio conferma il simbolo della fede (sess. III, anno 1546), fissa l'elenco dei libri inspirati (sess. IV, 1546), il dogma del peccato originale, della sua trasmissione, dei suoi effetti, di quelli del battesimo (sess. IV, 1546), il dogma della giustificazione e dei suoi frutti (condanna del principio luterano della giustificazione per la sola fede, indipendentemente dalle opere, nonché, con formula prudente, della credenza nella predestinazione alla salvezza; affermazione del libero arbitrio persistente pur dopo il peccato originale (sess. VI, 1547); pubblica il decreto sui sacramenti, istituiti tutti e sette da Cristo, conferenti la grazia ex opere operato (sess. VII, 1547), quello sull'Eucaristia (che contiene vere, realiter et substantialiter corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi, ac proinde totum Christum; sess. XIII, 1551); determina del pari la dottrina del sacramento della penitenza (potere della Chiesa di rimettere i peccati, carattere giudiziale dell'assoluzione, potestà di assolvere esclusiva dei sacerdoti; sessione XIV, 1551), la dottrina del sacrificio della Messa (sess. XXII, 1562), quella dell'ordine sacro (nel Nuovo Testamento v'è un sacerdozio visibile ed esterno, esistono ordini maggiori e minori, l'ordine imprime un carattere: sess. XXIII, 1563), la dottrina del matrimonio (è sacramento, monogamico e indissolubile, la Chiesa ha facoltà di costituire impedimenti dirimenti; sess. XXIV, 1563), quelle del purgatorio, dell'invocazione e venerazione dei santi, del culto delle reliquie e delle immagini, delle indulgenze (sess. XXV, 1563).

Alla definizione del dogma e correlativa condanna degli errori degli eretici pone qualche ostacolo - ma non grave, e su cui i padri del concilio diretti dai legati pontifici passano senza difficoltà - l'imperatore, che prudenzialmente non vorrebbe si rompessero i ponti con gli eretici. L'opera si svolge con la cooperazione dei maggiori luminari della Chiesa (i cardinali Giovanni Morone, Reginaldo Pole, Marcello Cervino, i domenicani Domenico Soto e Ambrogio Catarino, Gerolamo Zeripando), e offre naturalmente modo di manifestarsi a quelle diversità di concezioni che esistevano in seno alla Chiesa e si polarizzavano nei varî ordini religiosi.

La riforma disciplinare è un'esigenza manifestatasi in seno alla Chiesa già nel tempo del grande scisma, e il cui pensiero è stato sempre presente non solo agli spiriti più religiosi, ma anche a quelli più lucidi e più consci dei pericoli che sovrastavano all'unità della Chiesa: peraltro, dopo la rivolta di Lutero, la questione è posta all'ordine del giorno, e i papi non ristanno dall'elaborare programmi riformatori.

Ma neppure la coscienza del pericolo sovrastante all'unità vale a far deflettere i varî egoismi: né in materia finanziaria ed economica, né quando si tratti di rinunciare a libertà e privilegi e di accettare una vita di maggiori sacrifici, i papi si trovano di fronte il necessario spirito di abnegazione: alto clero, religiosi, curiali nulla vogliono consentire e difendono lo statu quo. Si parla di riforma nel capo e nelle membra; ma alla periferia si vuole attendere che l'esempio parta dalla curia, e anche in curia la resistenza non manca.

Anche in questo campo il concilio, a partire dalla sessione VII del 1547, svolge opera essenziale con i decreti de reformatione. Così esso dà norme perché la scelta dei cardinali e dei vescovi cada sempre sui più degni; impone ai vescovi e a quanti han cura d'anime l'obbligo della residenza; inculca ai cardinali e ai vescovi la vita modesta, e condanna il nepotismo, ammonendo gli ecclesiastici ut omnem humanum hunc erga fratres, nepotes propinquoswe carnis affectum, unde multorum malorum in ecclesiam seminarium extat, penitus deponant (c. 1, sess. XXV, de ref.). Vieta il cumulo dei benefici curati, dà norme per accrescere l'autorità e il prestigio dei vescovi, per migliorare il clero, imponendogli tra l'altro di portare sempre l'abito chiericale, e precludendo in ogni caso agli omicidi volontarî l'accesso all'ordine sacro. Stabilisce che nessun prete possa confessare senza licenza del vescovo, e che il vescovo possa sempre inibire a qualsiasi ecclesiastico la predicazione. A evitare preti mendicanti o ridotti a espedienti per vivere, si mette come condizione per il conferimento dell'ordine sacro quella di avere un beneficio o un titulus patrimonii; a impedire il conferimento di benefici a chi non è in grado di rendersi utile alla Chiesa, si fissa il minimo di età di quattordici anni per tale collazione, e si richiedono garanzie di età (25 anni), di capacità e di cultura per conferire gli ordini sacri; norma di grande importanza è quella (c. 18, sessione XXIII, de ref.) sulla creazione dei seminarî, che dovranno ricevere giovani di almeno dodici anni, di legittimi natali, preferibilmente poveri, che sappiano leggere e scrivere, et quorum indoles et voluntas spem afferat, eos ecclesiasticis ministeriis perpetuo inservituros. Si dànno norme per assicurare la presenza dei canonici nelle rispettive cattedrali, facoltà ai vescovi di deporre i parroci che conducano vita scandalosa. È prescritta la visita annua dei vescovi a tutti gl'istituti ecclesiastici e di beneficenza della diocesi. Si cura pure una generale riforma dei regolari, proibendo loro senza eccezione la proprietà individuale, l'allontanamento dai conventi senza il permesso dei superiori, prescrivendo la clausura per tutti i monasteri di donne, dando nome perché non vi siano monasteri i quali non abbiano, in diritto e in fatto, un'autorità che vigili su di essi, e dando così ai vescovi quali delegati della S. Sede potestà sui monasteri di donne direttamente soggetti alla S. Sede: l'età minima per la professione religiosa è fissata a sedici anni. Anche la disciplina del matrimonio viene profondamente riformata, evitandosi antichi inconvenienti con l'imporre quale requisito ad substantiam la celebrazione dinnanzi al parroco, preceduta dalle pubblicazioni. Ad assicurare l'applicazione e l'uniforme interpretazione dei decreti del concilio, Pio IV, con la costituzione Alias nonnullas del 2 agosto 1564, istituiva apposita congregazione cardinalizia.

Ma l'opera della riforma non si esaurisce nel concilio: fuori di esso, i papi dànno infinite disposizioni volte a evitare il continuarsi di mali, per lo più da lunghissimo tempo deplorati, ma ai quali non si era mai riusciti a porre riparo.

Già prima del Tridentino Clemente VII con la Ad canonum conditorem del 3 giugno 1530 aveva sancito che i figli fornicarî dei preti non potessero in alcun caso ottenere i benefici ecclesiastici del loro padre; Giulio III con un decreto del 26 gennaio 1554 pone la norma che nessuno possa essere promosso cardinale se abbia un fratello vivente che faccia parte del sacro collegio. Paolo IV con la Inter coeteras del 27 novembre 1557 (interessante per i costumi dell'epoca) prende misure contro coloro che per ottenere benefici ricorrono a varie frodi, come quella di assumere false generalità; Pio IV con la Romanum Pontificem del 16 ottobre 1564 proibisce come una forma di simonia la confidentia beneficiorum, mentre nel nuovo ordinamento giudiziario per i tribunali romani contenuto nella Cum ab ipso del 30 giugno 1562 vieta ai giudici e ai loro cooperatori di ricevere regalie. Circa i regolari, si rinnovano ancora le sanzioni contro coloro che vagabondano fuori dei chiostri (Paolo III, Ex clementi e Meditatio cordis nostri, del 7 aprile 1539 e del 7 gennaio 1547, rispettivamente per i carmelitani e i conventuali); si assoggettano ai vescovi i regolari che non vivono nei chiostri (Pio IV, De salute gregis, 4 settembre 1560); si revoca ogni privilegio dei regolari in contrasto con il Tridentino (Pio IV, In Principis, 17 febbraio 1565); si disciplina la clausura delle monache, che dovrà essere in ogni caso osservata, e si vieta che alcuna donna possa sotto qualunque pretesto entrare in monasteri maschili (Pio V, Circa pastoralis officii e Regularium, del 1° febbraio e del 24 ottobre 1566). È riaffermato l'obbligo della residenza dei vescovi, e la sottomissione di ogni chierico al vescovo (Pio IV, De salute gregis, 4 settembre 1560). È revocata la facoltà di dare dispense matrimoniali che spettava a enti estranei alla gerarchia ecclesiastica, quali la Fabbrica di S. Pietro e l'ospedale di S. Spirito (Pio IV, De commisso Nobis, 19 settembre 1562).

Ma l'opera non è solo dei papi: vescovi, quali S. Carlo Borromeo, S. Alessandro Sauli, i beati Paolo d'Arezzo e Giovanni Giovenale Ancina, il cardinale Gabriele. Paleotti e altri, dànno opera al risanamento delle loro diocesi, combattendo i cattivi costumi dei preti, la dissolutezza dei religiosi, cercando di estirpare l'abuso dei frati vaganti fuori dei loro conventi, non sottoposti di fatto ad alcun superiore, delle monache che fanno dei propri monasteri luoghi di conversazione; cercando di togliere dal confessionale e dal pulpito gl'indegni e quelli la cui ignoranza potrebbe essere di scandalo; promovendo o quanto meno conservando le confraternite (v.) e gli altri istituti religiosi del laicato, ma sottoponendoli alla supremazia dell'autorità ecclesiastica. In seno al laicato, essi perseguono le meretrici, i concubinarî, spesso anche i commedianti, fanno osservare le feste, ottengono la punizione dei bestemmiatori, e, là dove è possibile, dei duellanti.

Di particolare importanza si palesa la formazione del clero. I seminarî prescritti dal Tridentino debbono significare anzitutto la fine dell'abuso, largamente praticato, di ordinare sacerdoti degl'incolti, sol che conoscessero un po' di latino; debbono rappresentare una garanzia morale del clero. Non diverrà prete se non il giovane che sia stato plasmato moralmente e intellettualmente nel seminario; l'ordine sacro verrà negato al giovane che si mostri inadatto per scarsità d'intelligenza o per tendenze repugnanti all'esemplarità dei costumi richiesta nell'ecclesiastico, o che appaia recalcitrante alla disciplina, o con pericolose tendenze intellettuali che lascino sospettare in lui il futuro critico delle credenze tradizionali. Ma i seminarî sono anche una garanzia d'indipendenza ecclesiastica, perché importano che l'educazione dei chierici si compia in istituti sottoposti esclusivamente all'autorità della Chiesa, e dove non penetrano dottrine da questa respinte, e non già in università o scuole cui più o meno dia la sua impronta il potere civile. Le disposizioni tridentine sui seminarî si realizzano con relativa celerità in Italia e in Spagna, e anche nell'Impero, se pur quivi i vescovi spesso preferiscano inviare i loro chierici nei collegi rapidamente fiorenti dei gesuiti; invece in Francia, ancora nel 1620, non esistono seminarî.

Grandi artefici dell'intera opera riformatrice sono i nuovi ordini religiosi: primo per importanza, la Compagnia di Gesù (v.), approvata da Paolo III con la Regimini militantis del 27 novembre 1540; primi in ordine di tempo i teatini (1524), cui seguono i barnabiti o congregazione di S. Paolo (1530), i somaschi (1533, approvati nel 1568), gli spedalieri di S. Giovanni di Dio (Fate-bene-fratelli: 1540, appr. 1572), i ministri degl'infermi (1582, appr. 1586), i chierici regolari minori (1588), i chierici regolari della Madre di Dio (1583; appr. 1595), gli scolopî (1600, appr. 1617).

A questa fioritura di nuovi ordini religiosi si accompagna la riforma degli antichi, che segue quasi dovunque fra sospetti e ostilità provocate sia da quanti in seno ai vecchi ordini non vogliono saperne di rinunciare alle mitigazioni, sia da quanti non sanno rassegnarsi all'idea di vedere spezzata l'unità degli ordini medesimi. Sorgono così i cappuccini (1528), i carmelitani scalzi (1562/68), gli eremitani scalzi di S. Agostino (1592/99).

Ma, come si è detto, nel campo degli ordini religiosi prevale su ogni altra l'attività della compagnia di Gesù, che si svolge nelle orbite più diverse: direzíone delle anime, nel confessionale e attraverso quel compito di direttore di coscienze che nel Cinquecento e nel Seicento andava talvolta disgiunto dalla mansione di confessore; predicazione; insegnamento in scuole secondarie e università; collegi, che sono il campo speciale della compagnia; governo di seminarî; talora compiti di alta cultura, quali nel campo della storia ecclesiastica l'opera dei bollandisti (v.), e in quello della teologia l'attività del cardinal Bellarmino, di Tommaso Sanchez e di Luigi Molina col suo celebre libro Liberi arbitrii cum gratiae donis concordia. La religiosità gesuitica dà veramente l'impronta all'epoca: così nelle caratteristiche interiori come in quelle esteriori, secondo le quali si avrà persino uno stile architettonico detto gesuitico perché adottato nelle loro chiese. Il gesuita appare dovunque come il tipo dell'ecclesiastico di costumi puri, spesso austeri, generalmente colto, devotissimo al papato, attaccatissimo alla sua compagnia, sciolto da ogni altro legame; accomodante e transigente quante volte l'interesse cattolico non sia in giuoco, inflessibile allorché si tratti di rapporti con l'eresia, o di principî che tendano a diminuire i diritti del papato o le libertà della Chiesa, o di nemici della compagnia.

Questa incontra ostilità molteplici: da parte degli antichi ordini religiosi, che temono di essere spossessati della loro posizione predominante e di vedere nuove concezioni teologiche sovrapporsi a quelle che si erano talora radicate presso di loro; da parte del clero secolare, preoccupato che i fedeli più notevoli per censo o posizione sociale disertino le chiese parrocchiali per accorrere ai confessionali o alle funzioni delle chiese gesuitiche; da parte dei giuristi sostenitori dei diritti dello stato, che scorgono nei gesuiti i difensori di tutte le immunità ecclesiastiche. Ma queste avversioni non riescono a prevalere: la compagnia ha per sé a un tempo il favore dei papi e quello dei sovrani, che non di rado prendono dei gesuiti per confessori e direttori di coscienza.

La controriforma deve lottare contro l'eresia, non soltanto attraverso un'opera polemica in difesa dei principî cattolici, ma perseguendo gli eretici che son riusciti ad annidarsi nei paesi cattolici, soffocando in questi con mezzi repressivi - la prigionia, la morte - ogni focolare di eresia. Quest'opera è in particolare modo affidata all'inquisizione.

Clemente VII con la Cum sicut del 15 gennaio 1530 dà facoltà agl'inquisitori di procedere contro i regolari di qualunque ordine, e concede indulgenze ai crocesegnati che abbiano emesso nelle mani degl'inquisitori il voto di perseguire gli eretici; Paolo III con la Apostolici culminis del 14 gennaio 1542 dà facoltà agl'inquisitori di procedere contro chiunque, qualsiasi privilegio o esenzione egli invochi, eccettuando tuttavia i vescovi; ma un passo decisivo è compiuto pochi mesi più tardi con la Licet ab initio del 21 luglio 1542, che crea sei cardinali commissarî o inquisitori generali, i quali potranno procedere contro chiunque sia sospetto di eresia, in qualsiasi autorità sia egli costituito, e deputare altri inquisitori. Giulio III vieta agl'inquisitori di ammettere dei laici (come esigevano alcuni governi) a conoscere con loro dei delitti di eresia (Licet a diversis, 15 febbraio 1551); Pio IV con la Cum sicut del 1° novembre 1561, mentre assicura l'indipendenza degl'inquisitori con lo stabilire che essi non sono tenuti a rendere conto del loro operato ad alcun altro all'infuori del papa e dei cardinali inquisitori, dà una particolare impronta alla loro procedura col disporre che essi non sono obbligati a pubblicare e comunque a rivelare le deposizioni contro gli eretici e scismatici; con la Pastoralis officii munus del 12 ottobre 1562 riafferma la facoltà degl'inquisitori di procedere contro chiunque, ma per i vescovi, cardinali e re è riservato al papa di pronunciare condanne.

L'Inquisizione, sola fra i tribunali ecclesiastici, fa uso della tortura come mezzo istruttorio; procede con forme atte a impressionare il popolo e a imprimere il terrore, come allorché conduce i condannati al rogo e alla cerimonia dell'abiura vestiti di abiti speciali: il sambenito, per i penitenti; la Samarra, o dalmatica di colore nero sparsa di fiamme intercalate da diavoli in atto di piombare l'eretico all'inferno, per i relapsi impenitenti destinati al rogo; la mitra, per coloro che all'eresia avessero aggiunto la bestemmia, la poligamia, l'esercizio dell'arte magica o divinatoria. Essa applica la pena medievale dell'abbruciamento contro l'eretico impenitente: l'abbruciamento, previo strangolamento, contro l'eretico recidivo, che si sia però all'ultimo pentito; la reclusione, il sequestro dei beni, la reclusione nella propria casa, inasprita talora da digiuni e da apposite penitenze, agli eretici pentiti, ai sospetti di eresia, a coloro che comunque abbiano offeso la dottrina ecclesiastica in materia di fede.

Connessa all'attività dell'Inquisizione, è l'attività di prevenzione, che agisce soprattutto con l'evitare che i cattolici siano pervertiti a mezzo della stampa. Essa si esplica con la censura preventiva (sottoposizione all'imprimatur) e repressiva (condanna di libri).

Già Leone X con la Inter sollicitudines del 4 maggio 1515 emanata nel V Concilio lateranense aveva disposto, in relazione alle possibilità dell'ampia diffusione di libri creata dalla scoperta della stampa, che nessun libro potesse essere stampato senza previo visto ecclesiastico. Il concilio di Trento nella sua IV sessione (8 aprile 1546) emise il Decretum de editione et usu sacrorum librorum, dove si vietava a chiunque di stampare, vendere o tenere quosvis libros de rebus sacris, che non recassero nome d'autore e non fossero stati approvati dal vescovo, con approvazione da stamparsi sul frontespizio del libro.

In tema di censura repressiva, intorno alla metà del Cinquecento, vediamo pullulare i cataloghi o indici di libri proibiti: ne pubblica l'università di Lovanio (1546-50-58), la Sorbona (1544-47-51), il legato pontificio Giovanni della Casa in Venezia (1549), l'arcivescovo Arcimboldi a Milano (1554), il senato di Lucca (1545), l'Inquisizione di Venezia (1554). L'Inquisizione spagnola pubblica nel 1551 il suo primo indice; un indice ufficiale romano si ha nel 1557, ma ne viene divulgata soltanto l'edizione del 1558, allorché il breve Quia in futurorum del 21 dicembre 1558 revocò tutte le licenze di leggere libri proibiti in precedenza concesse; è del 1559 un Index auctorum et librorum vietati dall'Inquisizione romana. Il concilio di Trento, mentre fin dalla IV sess. (8 aprile 1546) diede norme sulla pubblicazione delle Sacre Scritture, nella XVIII sess. (26 febbraio 1562) invitò i vescovi a esporre al concilio le loro proposte per una più efficace censura dei libri in genere, salvo a prendere atto nell'ultima sua riunione (sess. XXV cont., 4 dicembre 1563) che i lavori dei vescovi non erano ancora a tal punto da permettere al sinodo una matura deliberazione, e a ordinare loro ut quicquid ab illis praestitum est fosse rimesso al papa, et eius iudicio aique auctoritate venisse condotto a termine e divulgato.

In seguito a ciò Pio IV pubblicò le dieci regole cosiddette tridentine, la prima delle quali fa salve le condanne pronunciate da papi o concilî generali anteriormente al 1515, anche se i libri condannati non figurino nell'Indice, mentre la quarta concerne l'uso della Bibbia in volgare, la settima i libri osceni, la nona i libri di magia; la regola decima conferma le norme di Leone X sulla censura preventiva, e stabilisce che incorra senz'altro nella scomunica chi legga o abbia libri condannati perché eretici, che cada in peccato mortale e sia punito severamente a giudizio del vescovo chi abbia libri proibiti per altre cause.

Il primo Indice con le dieci regole venne approvato dalla Dominici gregis del 24 marzo 1564: nello stesso giorno la Cum pro munere revocava ogni licenza di leggere libri luterani o sospetti di eresia. Questo indice fu ristampato con aggiunte ad Anversa (1570), a Lisbona (1581), e a Monaco (1582). Nel 1571 Pio V eresse una congregazione, di quattro cardinali e nove consultori, per il proseguimento dell'Indice e per gli affari connessi con la proibizione dei libri; Gregorio XIII con breve 13 settembre 1572 portò a sette i cardinali e precisò i compiti della congregazione, confermati da Sisto V con la bolla Immensa del 22 gennaio 1587. Sisto V poco prima di morire fece stampare un'edizione aumentata dell'Indice di Pio IV (1590), ma morto il papa l'edizione non fu diffusa: solo nel 1596 si stampò la nuova edizione che riproduceva l'Indice del 1564, con un'appendice tratta in gran parte dall'edizione del 1590.

A tutte le restanti attività in cui si concreta la controriforma va aggiunta quella politica e militare, che la Chiesa non poté realizzare essa medesima, ma che non ristette fin dall'inizio dal raccomandare agli stati, incoraggiando le imprese volte a vincere sui campi di battaglia gli eretici e a sgominarne le coalizioni.

La storia della controriforma coincide con quella delle guerre di religione. La Germania è il loro campo principale; qui esse s'iniziano, qui durano circa un secolo, dalla formazione della lega smalcaldica alla pace di Vestfalia, avendo a principali momenti la vittoria cattolica di Mühlberg (1547), la convenzione di Passavia e la pace di Augusta (1555), e, dopo mezzo secolo di relativa pace, la formazione dell'Unione protestante per iniziativa dell'elettore del Palatinato (1608), la vittoria cattolica della Montagna Bianca (1620) e lo schiacciamento dell'elettore (1623); infine, l'estendersi della guerra con il soccorso danese e svedese ai protestanti, Gustavo Adolfo, meteora minacciosa per la cattolicità, il dilagare della guerra fino a coinvolgere l'Europa intera, la pace di Münster, che è un ritorno alle disposizioni di Passavia e di Augusta, comprendendovi, oltre ai luterani, anche i calvinisti, e togliendo il reservatum ecclesiasticunn. Ma nella riconquista o nella difesa dei territorî dell'Impero la azione militare procede sempre di pari passo con quella dei religiosi: degli abili nunzî apostolici come Bartolomeo Portia, Feliciano Ninguarda, Alfonso Visconti, Minuccio Minucci, dei pii vescovi come Giacomo Cristoforo Blarer a Basilea, Giulio Echter a Würzburg, l'abate Baldassarre von Dernbach a Fulda, Daniele Brendel a Magonza, Urbano von Trennbach a Passavia.

In Francia la questione religiosa si complica con quella nazionale e dinastica; l'avversione antispagnola e quella della famiglia regnante contro i Guisa prevalgono sul sentimento cattolico. Pur dopo la notte di S. Bartolomeo (1572) la regina Caterina e i suoi figli sentono che non è nel loro interesse ristabilire nel paese l'unità religiosa. L'ultimo periodo del pontificato di Gregorio XIII è angosciato dal timore di vedere la Francia divenire il sostegno del protestantesimo in Europa; timore giustificato dal trattato del 1579 della Francia con Berna e Soletta, in difesa di Ginevra minacciata dai cantoni cattolici e dal duca di Savoia, dall'appoggio dato da Francesco d'Angiò agl'insorti nederlandesi, dal progetto di matrimonio dell'Angiò con Elisabetta d'Inghilterra. Sisto V considera con occhio realistico la situazione in Francia, e si rende conto che lo stesso interesse della Chiesa esige sia evitato un trionfo spagnolo, che finirebbe d'infeudare il papato al re cattolico; che è preferibile la vittoria dei Borboni, purché convertiti, con la tolleranza concessa al protestantesimo, alla Francia ridotta a potenza di secondo ordine. Clemente VIII è il fortunato realizzatore di questa concezione.

In Polonia i dieci anni di regno di Stefano Báthory vedono una restaurazione cattolica attuata senza violenza, con l'appoggio del sovrano, ma soprattutto per l'opera dei gesuiti, tra cui il popolare Pietro Skarga, per la savia direzione dei nunzî, per l'opera di buoni vescovi, primo Stanislao Hosio.

Quale fu il risultato della controriforma, quello intimo, non segnato dai confini tracciati tra paesi cattolici e paesi protestanti, né dalle statistiche degli appartenenti alle due confessioni?

Essa poté isterilire lo spirito del Rinascimento (se pur non si pensi che fosse ormai scoccata l'ora del suo spontaneo esaurirsi), come apparve soprattutto nel campo della letteratura; ma non poté annullarne l'opera. Il Rinascimento aveva modificato non poco le masse cattoliche: con la controriforma la teologia non ritorna a essere regina delle scienze com'era stata nel Medioevo, né si vede rinascere quella medesima forma di religiosità medievale.

Lo spirito di mortificazione della carne rimane bensì parte essenziale della pietà cattolica, ma scompaiono o si attenuano certe forme di asperrima e pubblica penitenza. I santi della controriforma saranno spesso purissimi asceti, ma non trascineranno più dietro di sé compagnie di flagellanti che rinuncino a ogni bene terreno per seguirli.

La religiosità della controriforma accetta l'uomo qual'è ormai, quale il Rinascimento lo è venuto foggiando: l'uomo credente, che vuole obbedire alla legge morale e all'autorità della Chiesa, pur non rinunciando a valutare e giudicare con severità i mancamenti dei suoi ministri.

Nel campo intellettuale la teologia della controriforma si mostra più sollecita di tutelare la libertà umana e la realtà del merito delle buone opere, pur mantenendo tutte le tradizionali affermazioni sulla necessità e potenza della grazia; essa anche si studia maggiormente di porre in piena luce i fondamenti positivi del dogma cattolico: basti ricordare i nomi dei teologi domenicani Vitoria, Cano, Soto, Bañez e quelli dei gesuiti Bellarmino, Valenza, Suarez, Petau. Nel campo morale poi predomina una maggiore benignità, un senso più vivo e una valutazione più estesa di tutte le condizioni psicologiche degli atti umani. Aumenta anche grandemente la cura per il miglioramento del costume degli ecclesiastici, l'attività sociale e benefica del clero, che rimarrà come vigile scolta in un campo su cui incombe ognora un pericolo, in cui il nemico dà tregua per preparare nuove armi.

L'importanza del sacerdozio, che era stato elemento vitale sin dagl'inizî della Chiesa cattolica, è ancora accresciuta se possibile, ma non manca come in passato qualche laico che assurge a figura di primo rango nella vita della Chiesa e molti ecclesiastici i quali abbiano in essa un'importanza senza alcun rapporto con la loro posizione gerarchica; ora la militia Christi, di fronte al pericolo incombente, assume sempre più un atteggiamento corrispondente a quello dell'altra milizia: i diritti della gerarchia dànno luogo a un'organizzazione sempre più forte e disciplinata; il primato papale afferma con sempre maggiore fermezza i suoi attributi.

Chi da un punto di vista strettamente religioso instauri raffronti tra lo spirito dei primi secoli del cristianesimo, quello della cristianità medievale, e quello della controriforma, potrà pur non preferire quest'ultima età alle due precedenti. Ma è certo che la controriforma ebbe, accanto alle sue pagine sanguinose, pagine bellissime segnate dal rapido miglioramento del costume cattolico; fu una ricca sorgente d'iniziative religiose, di opere di carità e d'intraprese culturali, che a quasi quattro secoli di distanza sono ancora lungi dall'esaurirsi; soprattutto diede alla Chiesa un'intima struttura che, da quasi quattrocento anni, si palesa sempre meglio adatta a difenderla contro ogni tentativo, esterno e interno, di disgregazione, contro ogni influenza perturbatrice che miri a deviarla dal suo cammino.

Bibl.: Oltre alla trattazione generale della controriforma di E. Gothein, Stato e società nell'età della controriforma, trad. ital., 2ª ed., Venezia 1929, v.: A. Gindely, Geschichte des dreissigjährigen Krieges, Praga 1860-80; W. Maurenbrecher, Studien und Skizzen zur Geschichte d. Reformationszeit, Lipsia 1874; Th. Wiedemann, Gesch. d. Reform. u. Gegenreform. in Ländern unter der Enns, Praga 1880; W. Maurenbrecher, Geschichte der kathol. Reformation, Bonn 1881; G. Hanotaux, Études sur le XVIme et le XVIIme siècle, Parigi 1886; M. Ritter, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation und des dreissigjährigen Krieges, Stoccarda 1889-1908; S. Ehses, A. Meister, J. Schweizer, R. Reichenberger, Nuntiaturberichte aus Deutschland (Görres-Gesellschaft), Paderborn 1899-1905-1919; A. Gindely, Geschichte der Gegenreformation in Böhmen, Lipsia 1894; L. Pastor, Storia dei papi, trad. ital., Roma 1909 segg.; P. Tacchi-Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, 2ª ed., Roma 1931; H. Baudet, Les nonciatures apostoliques permanentes, Helsinki 1910; J. Janssen, Geschichte des deutschen Volkes seit dem Ausgang des Mittelalters, Friburgo in B. 1913-17; id, L'Allemagne et la Réforme, trad. francese, Parigi 1887-1914; A. Berga, Pierre Skarga (1536-1612). Étude sur la Pologne du seizième siècle, Parigi 1916; M. Menéndez y Pelayo, Historia de los heterodoxos españoles, IV-V, Madrid 1928; P. Richard, Le concile de Trente, in Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, IX, Parigi 1930-31. Sulla vita culturale in Italia nell'età della cotroriforma, cfr. B. Croce, Storia dell'età barocca, Bari 1929; sul pensiero politico della controriforma, oltre a G. Saitta, La scolastica del sec. XVI e la politica dei gesuiti, Torino 1911, e a G. Toffanin, Machiavelli e il Tacitismo, Padova 1921, cfr. in genere F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino 1924.

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