MARTIRANO, Coriolano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTIRANO, Coriolano

Elena Valeri

Nacque a Cosenza nel 1503 da Giovan Battista; ignoto è il nome della madre. La famiglia, di antica nobiltà calabrese, era composta anche dai fratelli Bernardino, Giovanni Antonio e Girolamo.

Nella città natale frequentò la scuola fondata da Aulo Giano Parrasio, come il fratello maggiore Bernardino, sebbene in una lettera indirizzata a quest’ultimo affermi di avere avuto come maestro un tale Lattanzio. Successivamente perfezionò gli studi a Napoli, dove giunse probabilmente al seguito del padre, giovandosi del successo rapidamente riscosso dal fratello in quella città. Un sostegno importante e un legame profondo e duraturo, quello con Bernardino, con il quale il M., che in una missiva lo appellava «mea lux» (Epistolae familiares, c. 12v), condivise molta parte della propria esistenza, gli interessi letterari e l’impegno intellettuale. Il 3 marzo 1529, grazie ai «meriti» di Bernardino, allora già segretario del Regno, il M. fu nominato doganiere del maggior fondaco di Gaeta. Il documento di nomina, oltre a rappresentare la prima menzione del M. in una fonte ufficiale, costituisce anche la prima di una lunga serie di citazioni insieme con il fratello maggiore. Nel 1532 il cosentino Piero Cimino, allievo anche lui di Parrasio, dedicò al M. l’edizione degli Institutionum grammaticarum libri V di Flavio Sosipatro Carisio (Napoli, G. Sultzbach). La dedicatoria si conclude (c. II) con un roboante elogio del potente segretario Bernardino e con alcune notizie di altri membri meno noti della famiglia. Nel 1533 l’umanista Giovanni Filocalo, in una sorta di rassegna degli esponenti più illustri del mondo letterario meridionale, tra i quali comparivano Iacopo Sannazzaro, Giovanni Francesco (Giano) Anisio, Girolamo Borgia, Marco Antonio Epicuro, Lucio Vopisco, Camillo Querno, Benedetto Di Falco, Berardino Rota, Scipione Capece, inserì anche i due fratelli Martirano («uterque Martirane») senza fornire ulteriori specificazioni.

Alla fine degli anni Venti il M. lasciò Napoli e si trasferì a Roma, dove intraprese la carriera ecclesiastica. Il 20 giugno 1530 fu nominato da Clemente VII vescovo di San Marco Argentano in Calabria. Tenne l’amministrazione della diocesi, ma la consacrazione episcopale venne da lui differita più volte nel tempo e nell’aprile del 1535 ancora chiedeva un rinvio di quattro mesi. A Roma il M. strinse rapporti con gli ambienti letterari, come si ricava dal suo epistolario. Frequentò il giovane Bernardino Telesio – che allora insegnava a Roma e che raccomandò al fratello Bernardino per le sue egregie virtù –, Marcello Cervini (futuro papa Marcello II), Claudio Tolomei, Francesco Maria Molza, Pietro Bembo, incaricandosi, talvolta, di introdurre in questi circoli anche i letterati meridionali, come fece per Luigi Tansillo. Nello stesso modo si occupò della circolazione manoscritta delle opere del fratello, in particolare del Pianto di Aretusa, raccogliendo e comunicando a Bernardino i diversi giudizi espressi dagli illustri lettori dell’Urbe, in vista di una eventuale edizione del poemetto.

Tra costoro fu anche l’umanista tedesco Johann Albrecht Widmanstetter (1506-57), rimasto a lungo celato agli studiosi dietro il nome di Iohannes Lucretius Oesiander. Questi, recatosi a Napoli all’inizio degli anni Trenta, era entrato in contatto con gli ambienti accademici della città, stringendo amicizia con Girolamo Seripando (attraverso il quale poté accedere alla biblioteca di Parrasio confluita nel convento di S. Giovanni a Carbonara), con i fratelli Giano e Cosimo Anisio, che gli dedicarono numerosi epigrammi, e con i fratelli Martirano, grazie ai quali riuscì poi a entrare in possesso di parte dei manoscritti appartenuti a Iacopo Sannazzaro, oggi conservati presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. La citata lettera dedicatoria di Piero Cimino al M., premessa all’edizione degli Institutionum grammaticarum libri V di Flavio Sosipatro Carisio, esplicitava questi rapporti con un lusinghiero omaggio a Widmanstetter e al suo ruolo tra gli accademici napoletani.

Dopo avere trascorso all’incirca quindici anni a Roma, il M. si recò a Trento e fu nello sparuto gruppo dei quattro fedelissimi vescovi meridionali, di cui due spagnoli, designati dal viceré Pedro de Toledo a partecipare al concilio in rappresentanza di tutto l’episcopato del Regno di Napoli, cui se ne aggiunsero altri otto, in seguito alla dura protesta papale contro l’arbitrarietà del provvedimento spagnolo. Il M. arrivò a Trento il 1° giugno 1545, circostanza che gli consentì di svolgere provvisoriamente la funzione di segretario del concilio, resasi vacante dopo la partenza di Ludovico Beccadelli e la rinuncia di Marcantonio Flaminio e di Alvise Priuli. Tenne l’orazione di apertura della seconda sessione, il 7 genn. 1546, svolgendo un discorso sulle cause della crisi morale e religiosa in atto nella Chiesa e sull’importanza del concilio, che riscosse molti consensi e qualche comprensibile diffidenza, in quanto il M. era un prelato di nomina imperiale. Scrisse anche il testo dell’orazione che avrebbe dovuto tenere in occasione della settima sessione, sulla necessità di proseguire senza trasferimenti di sede il concilio, fonte ormai di tante aspettative per una riforma della Chiesa, ma che non poté declamare perché ammalato. Tranne alcuni brevi assenze da Trento, per recarsi a Venezia tra l’8 febbraio e il 1° marzo 1546, forse per procurare la pubblicazione del Pianto di Aretusa presso un tipografo lagunare, e ancora tra il 21 giugno e il 6 luglio 1546, tra il 26 dicembre e i primi di gennaio 1547, il M. prese parte attiva ai lavori conciliari, esponendo il proprio punto di vista in quasi tutte le sedute in cui si trovava presente e collocandosi per lo più sulla linea dell’episcopato spagnolo guidato dal cardinale Pedro Pacheco y Vilena. Fu membro della commissione presieduta dal cardinale Marcello Cervini, principalmente preposta alla trattazione delle questioni teologiche e i cui verbali sono andati largamente perduti. Si trattenne a Trento sino alla fine del 1548. Vi tornò di nuovo nell’agosto 1551 e vi rimase fino al 1552, lasciando a Napoli un segretario sostituto. A uno di questi soggiorni risale anche un viaggio a Innsbruck, per incontrare l’amico Widmanstetter, che in una lettera del 15 dic. 1555 a Girolamo Seripando lo avrebbe ancora ricordato affettuosamente.

Dopo avere sostenuto la posizione imperiale di assoluta contrarietà al trasferimento del concilio a Bologna, il M. fece ritorno a Napoli in seguito alla morte del fratello, avvenuta il 16 nov. 1548. Il 13 gennaio successivo scrisse al cardinale Cristoforo Madruzzo, scusandosi della propria partenza. Nel marzo dello stesso anno compariva nella carica di «segretarius» del Regno, per tanti anni ricoperta dal fratello, ufficio che tenne almeno sino alla fine del 1554, allorquando il 25 novembre pronunciò l’orazione di saluto al nuovo viceré di Napoli, il cardinale Pacheco y Vilena, Oratio r. ac illustris viri Coriolani Martyrani S. Marci episcopi et sereniss. Philippi Austrii fidei cath. defensoris Neap. regis a secretis edita et ab eo recitata MDLIIII. XXV Novemb. coram prorege et Vasti marchione pro ipso rege nuntio in capiundo Regno, et omnibus Regni principibus (Napoli, M. Cancer, 1555). L’anno successivo il M. pubblicò le Epistolae familiares (Napoli, [G.M. Simonetta]).

Sono 53, scritte in latino, eccetto due missive in greco, quasi tutte prive della data e del luogo, ma risalgono a diversi periodi della sua vita. Destinatari sono, fra gli altri, il fratello Bernardino (26), Widmanstetter (7), Vincenzo Pontieri (4), i nipoti (2), Antonio Telesio (2), Antonio Perrenot de Granvelle (2), Marcello Cervini, Francesco Franchini, Giano Anisio, Antonio Guidoni, Antonio Guido Martirano. Nonostante la raccolta presenti il problema dell’attendibilità delle notizie fornite, le lettere attestano una rete di relazioni e di amicizie facenti capo, da una parte, al mondo umanistico romano e a quello meridionale e, dall’altra, agli ambienti imperiali della Napoli vicereale. Il M. è stato ravvisato in uno dei personaggi del Diálogo de la lengua di Juan de Valdés, composto a Napoli tra il 1535 e il 1536. A parte alcuni accenni a viaggi compiuti dal M. in Inghilterra, attraverso la Germania, o in Spagna, tornando per la Francia, va ricordata la lettera a Widmanstetter in cui annunciava la morte del fratello, «columen illud Martiranorum et Athlantem meum» (c. 39v), così come le richieste di aiuto rivolte in quei frangenti al cardinale Granvelle, tramite Marcello Cervini.

Ancora nel 1556 e per i tipi di G.M. Simonetta uscirono le Tragoedie VIII… Comoediae II.

Nella prefatoria indirizzata al cardinale Cristoforo Madruzzo, Marzio Martirano, nipote del M. e curatore dell’opera, confessava di avere salvato le composizioni, destinate alle fiamme dal loro autore. Si trattava di otto tragedie redatte in latino e ispirate all’antichità greca (Medea, Electra, Hippolytus, Bacchae, Cyclops, Phoenissae, Prometheus), oltre al Christus, probabilmente l’opera più interessante del M., da annoverare, insieme con il De partu Virginis di Iacopo Sannazzaro e la Christiades di Girolamo Vida, tra i più riusciti confronti degli umanisti con la tematica cristiana, anche se non del tutto originale, perché ispirata a una tragedia di Gregorio Nazianzeno, Christus patiens. Seguono nel volume due commedie (Plutus e Nubes) una traduzione in versi latini dei primi dodici libri dell’Odissea, della Batrachomyomachia e dell’Argonautica.

Ampiamente conosciute ed elogiate nella seconda metà del Cinquecento, le opere del M. vennero presto dimenticate dagli studiosi e quasi scomparvero nei secoli successivi. Opere manoscritte, fra cui elegie, epigrammi e una traduzione di sette libri dell’Iliade, furono raccolte alla fine del secolo dal letterato cosentino Sertorio Quattromani, che ne progettava la pubblicazione, poi non realizzata (Pometti, p. 158). Nel XVIII secolo Girolamo Tiraboschi non riuscì a leggere le opere del M. e tuttavia non si peritò di dare un giudizio largamente positivo sulle tragedie e le commedie, appoggiandosi alle testimonianze di molti altri scrittori citate da Tafuri. La tragedia Christus patiens fu pubblicata con la traduzione in versi italiani a Parma nel 1786.

Il M. trascorse gli ultimi anni a Napoli, nella villa Leucopetra, per i frequentatori della quale aveva composto tempo addietro argute norme comportamentali, le Leges geniales (Epistolae familiares, cc. 40-41), e dove aveva trasferito una importante collezione di manoscritti, stampe e antichità, incrementata negli anni anche con le opere provenienti dalla biblioteca di Sannazzaro. Il M. continuò a rappresentare un punto di riferimento per i letterati napoletani, soprattutto per quelli cosentini trasferitisi nella capitale del Regno, come testimonia il sonetto proemiale della Silva de la vita humana (Napoli 1551) del calabrese Camillo Fera, in cui il M. è celebrato come l’«eletto a serenar il fiume / torbido e periglioso Luterano».

Nel 1557 probabilmente il M. aveva già rinunciato alla carica di segretario del Regno, che passò al nipote Marzio, come risulta dalle dediche di due libri stampati a Napoli da M. Cancer in quell’anno, la Periocha de accentibus di Francesco Balisteri e il Libellus quo ad Peripateticas aures… di Francesco Storella.

Generosità di breve durata, quella del M., dato che Marzio morì prematuramente quindici giorni prima della scomparsa dello stesso M., avvenuta a Napoli il 26 ag. 1557.

La ricchissima biblioteca dei fratelli Martirano passò agli eredi, insieme con gli altri beni, per confluire poi, in parte, tramite Girolamo Seripando, nella biblioteca della chiesa di S. Giovanni a Carbonara.

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