Corpo

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Corpo

Umberto Galimberti

Alla concezione del c. come sfondo di tutti gli eventi psichici si è giunti nel 20° sec., dopo che la psicologia ha compiuto la sua emancipazione dall'ambito filosofico, in cui era inclusa, e ha tentato di cogliere il nesso soma-psiche. La filosofia aveva infatti separato questo nesso nell'antichità con il dualismo platonico, e nell'età moderna con la dicotomia cartesiana tra res extensa e res cogitans, che L. Binswanger (1881-1966) considera "il cancro di ogni psicologia" (Über daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychiatrie, 1946; trad. it. in Il caso Ellen West e altri saggi, 1973, p. 22). I luoghi eminenti del superamento di questo dualismo sono: 1) l'elaborazione dello schema corporeo; 2) la teoria freudiana delle pulsioni; 3) la concezione bioenergetica; 4) la tipologia somatico-costituzionale; 5) la lettura fenomenologica del c. e la sua distinzione dall'organismo.

Il corpo e la sua immagine

In questo ambito gli studi più significativi sono stati condotti da P. Schilder (1886-1940), il quale scrive: "Con l'espressione 'immagine del corpo umano' intendiamo il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del nostro corpo, abbiamo impressioni tattili, termiche, dolorose, sensazioni indicanti le deformazioni del muscolo provenienti dalla muscolatura e dalle guaine muscolari, sensazioni provenienti dalle innervazioni muscolari e sensazioni di origine viscerale. Ma al di là di tutto questo vi è l'esperienza immediata dell'esistenza di un'unità corporea, che, se è vero che viene percepita, è d'altra parte qualcosa di più di una percezione: noi la definiamo schema del nostro corpo o schema corporeo, oppure, seguendo la concezione di Head che sottolinea l'importanza della conoscenza della posizione del corpo, modello posturale del corpo. Lo schema corporeo è l'immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea. Questo termine indica che non si tratta semplicemente di una sensazione o di un'immagine mentale, ma che il corpo assume un certo aspetto anche rispetto a sé stesso. Esso implica inoltre che l'immagine non è semplicemente percezione sebbene ci giunga attraverso i sensi, ma comporta schemi e rappresentazioni mentali, pur non essendo semplicemente una rappresentazione" (Das Körperschema. Eine Beitrag zur Lehre vom Bewusstsein des eigenen Körpers, 1923; trad. it. 1973, p. 35).

Lo schema corporeo non è dunque solo il risultato di sensazioni e percezioni, ma anche una costruzione che il soggetto si fa attraverso la rappresentazione che ha del proprio c., alla cui elaborazione concorrono le componenti libidiche e la sociologia delle immagini corporee. La componente libidica accentua, per es., l'importanza delle zone erogene, traduce in sintomi corporei processi psichici, si modifica in base alla presenza del dolore o del piacere, innesta processi di ipocondria, isteria, spersonalizzazione che modificano l'immagine del proprio c., si coniuga con il narcisismo accentuandone l'erotizzazione ecc., mentre la componente sociale concorre alla costruzione della propria immagine corporea attraverso i processi di identificazione e di imitazione, i modelli culturalmente proposti, il confronto tra la propria immagine corporea e le immagini corporee degli altri, per cui, come scrive Schilder, "non agiamo semplicemente come un apparato percettivo, ma vi è sempre una personalità che sente la percezione, per cui spero di riuscire a dimostrare che il modello posturale del nostro corpo è una continua attività interna di autocostruzione e autodistruzione, esso vive continuando a differenziarsi ed integrarsi" (p. 40).

Accanto alla tendenza che porta a unificare le parti del c. in quell'unità che poi l'immagine corporea si incarica di esprimere, c'è anche la tendenza che porta a distruggere tale immagine, personificando le singole parti e proiettandole fuori di sé come fantasmi. È l'esperienza della dissociazione, in cui non è più possibile riconoscere la relazione tra le parti e la totalità del proprio c. e dove cade quella frontiera che delimita il nostro c. distinguendolo dal mondo. A questo proposito G. Pankow scrive che "le strutture fondamentali dell'ordine simbolico, che appaiono nel linguaggio e che contengono l'esperienza primaria del corpo, sono semplicemente deformate nella nevrosi, mentre sono distrutte nella psicosi" (1969; trad. it. 1977, p. 7), per cui, se l'immagine è il modello originario della dialettica tra parti e totalità e tra io e mondo, "un intervento psicoterapeutico nel processo della psicosi riesce quando si arriva a reintegrare la parte rifiutata, esclusa da ogni contesto, nellà del corpo, e a ristabilire l'ordine di questo corpo senza il quale il malato non può entrare nell'ordine della sua storia" (p. 201). Per questo è necessario tuttavia condurre il paziente al riconoscimento dei limiti del proprio c., perché solo vivendosi come limitato potrà incontrare un mondo come non-io e, nel mondo, l'altro come non identico a sé: "Se, a livello nevrotico, psicoanalizzare significa rimettere in moto una dinamica immobilizzata procedendo attraverso catene associative rimosse ma esistenti, a livello psicotico si tratta di fissare in un legame strutturale l'assoluto eterogeneo, e se è il caso innestare ciò che probabilmente non è mai arrivato all'esistenza" (p. 56).

Il corpo e la teoria freudiana delle pulsioni

S. Freud (1856-1939) vede nel c. la fonte di quelle rappresentazioni di cui la psiche si alimenta, e in proposito scrive: "Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origine da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l'eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come un certo ammontare di energia, che preme verso una determinata direzione. Da questo premere le deriva il nome di pulsione. Si parla di pulsioni 'attive' e 'passive', ma si dovrebbe dire più esattamente: mete pulsionali attive e passive, poiché anche per raggiungere una meta passiva occorre un certo dispendio di attività. La meta può essere raggiunta nel proprio corpo; di regola, però, si inserisce un oggetto esterno in relazione al quale la pulsione raggiunge la sua meta esterna; la meta interna rimane sempre la stessa, cioè il cambiamento corporeo percepito come soddisfacimento. Non siamo riusciti a chiarire se la relazione con la fonte somatica conferisca alla pulsione una sua specificità, e quale" (Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, 1932; trad. it. in Opere, 11° vol., 1979, p. 205).

A partire da queste premesse Freud elabora il concetto di compiacenza somatica per indicare la disponibilità del c. e, più specificamente, di un organo o di un apparato, a divenire oggetto di conversione, ossia di trasposizione di un conflitto psichico rimosso in un sintomo somatico. La compiacenza somatica caratterizza l'isteria di conversione che, a parere di Freud, "non può insorgere senza una certa compiacenza somatica, offerta da un processo normale o patologico in un organo o su un organo del corpo" (Bruchstück einer Hysterie-Analyse, 1901; trad. it. in Opere, 4° vol., 1970, p. 333). Per questo l'isteria si distingue dalle altre forme di psiconevrosi; infatti "per un buon tratto i processi psichici sono gli stessi in tutte le psiconevrosi, finché a un certo punto entra in campo la compiacenza somatica che procura uno sfogo organico ai processi psichici inconsci. Quando questo fattore non interviene, dallo stato generale emerge qualcosa di diverso da un sintomo isterico e pur tuttavia ad esso affine: una fobia, per esempio, oppure un'ossessione, in breve un sintomo psichico" (p. 334). La scelta dell'organo avviene o per la debolezza congenita o acquisita dell'organo stesso che offre una minore resistenza, oppure per il particolare legame che quell'organo ha con la situazione in cui è avvenuta la rimozione del conflitto, o infine per qualche connessione simbolica che l'organo ha con il conflitto. Il concetto di compiacenza somatica è stato ripreso ed esteso dalla psicosomatica oltre il campo dell'isteria, allo scopo di segnalare il potere espressivo del c. e la sua attitudine a significare il rimosso o l'investimento narcisistico del proprio corpo.

La lettura bioenergetica del corpo e le implicanze psicosomatiche

In questo ambito si ritiene di poter pervenire a uno studio e a una classificazione della personalità a partire dai processi energetici del corpo. La premessa è quella freudiana secondo cui il disturbo psicosomatico è l'esito di un conflitto psichico tra la pulsione, che tende alla soddisfazione del desiderio, e l'istanza difensiva, che tende alla sua repressione. Il sintomo organico nella malattia psicosomatica è significante perché in esso è leggibile la soddisfazione deformata e parziale della pulsione e le esigenze di rimozione. A tale proposito Freud parla di conversione isterica, quando il sintomo corporeo è il rappresentante di un contenuto psichico inaccettabile e perciò rimosso, e di nevrosi d'angoscia, quando si è in presenza di un'eccitazione sessuale che si trasforma direttamente in sintomo senza mediazione psichica.

Partendo da queste premesse W. Reich (1897-1957) ipotizza che tutti i processi biologici seguono il binario di carica e scarica nella formula: tensione meccanica, carica elettrica, scarica elettrica e distensione meccanica. Quando la scarica è impedita, tutto l'organismo vive in uno stato di carica senza sfogo; se tale condizione diventa uno stato cronico, si forma a livello psichico una corazza caratteriale e a livello fisico una corazza muscolare. Queste armature sono una continua operazione di controllo delle emozioni e una potente struttura di difesa da esse. Ciò è particolarmente evidente a livello sessuale dove, quando alla carica, avvertita come piacevole, non segue la scarica, l'accumulo di energia si traduce a livello fisico in tensione muscolare e a livello psichico in esperienza angosciante. Per Reich, quindi, i disturbi organici e quelli psichici sono riconducibili alle corazze in cui si esprime la sovraccarica cronica, da cui dipende l'ipertono simpatico e la contrazione muscolare responsabile dei disturbi organici. Ne consegue che non è possibile sciogliere gli irrigidimenti muscolari senza risolvere il conflitto analogo di natura psichica, così come non è possibile risolvere nevrosi senza intervenire sul loro corrispondente corporeo.

A. Lowen si appropria dei capisaldi della pratica terapeutica reichiana e, tenendo fermo il concetto di connessione c.-mente, elabora la teoria dell'identità funzionale di tensione muscolare e blocco emotivo, unitamente a quella del rapporto tra inibizione della reattività emotiva e limitazione della respirazione. Inoltre, se Reich collegava gli squilibri nevrotici a un blocco delle soddisfazioni sessuali, attribuendo all'analisi il compito di liberare l'energia sessuale inibita, Lowen riduce l'importanza della sessualità e modifica l'obiettivo terapeutico di Reich allargandolo alla più generale capacità di provare piacere e di sperimentare la gioia di vivere.

La tipologia degli individui a partire dagli indici morfologici del corpo

Nell'antichità, la tradizione medica ippocratico-galenica aveva introdotto la prima ripartizione tipologica a partire dalla teoria degli umori responsabili delle differenze emotive osservabili, con conseguente distinzione dei tipi umani in sanguigni, flemmatici, collerici e melanconici. Nel 20° sec. E. Kretschmer (1888-1964) ha stabilito una correlazione fra indici morfologici del c. umano (fenotipo) e determinate caratteristiche della personalità che valgono sia per individui normali, sia per psicotici con differenze solo quantitative. I tipi individuati sono quattro, di cui tre fondamentali e uno accessorio: il tipo picnico, caratterizzato sul piano somatico da rotondità di contorni, ampiezza delle cavità del c., abbondanti depositi di grasso, e sul piano psicologico da una predisposizione ciclotimica con fasi maniacali e depressive; il tipo leptosomico o astenico, caratterizzato sul piano somatico dalla predominanza delle misure verticali, e sul piano psicologico da una disposizione schizotimica che nel caso di psicosi si volge in schizofrenia; il tipo atletico, caratterizzato sul piano somatico da un sistema muscolare ben sviluppato, e sul piano psicologico da una disposizione viscosa con lentezza di pensiero, perseverazione e irritabilità. Infine il tipo displasico, predisposto all'epilessia e con molte varietà dismorfiche. Secondo Kretschmer, tale tipologia corrisponde anche a differenze fisiologiche con riferimento soprattutto alle ghiandole endocrine e al metabolismo.

Dopo Kretschmer, W.H. Sheldon (1898-1977) inaugura una tipologia costruita a partire da un sistema morfologico a tre dimensioni che corrispondono ad altrettanti stadi evolutivi dei tessuti derivati dai tre foglietti embrionali: ectoderma, mesoderma ed endoderma. All'ectomorfismo corrisponde il tipo cerebrotonico, dove prevale la razionalità con tratti di ipersensibilità, tendenza alla solitudine e alla vita interiore; al mesomorfismo corrisponde il tipo somatotonico, con tratti di dinamismo, facilità nei rapporti sociali e tendenza all'esercizio fisico; all'endomorfismo corrisponde il tipo viscerotonico, dove prevale l'affettività con tratti di passività, socievolezza e tendenza alla vita sedentaria.

Nell'ambito della medicina costituzionale, N. Pende (1880-1970) ha descritto una varietà di tipi psicologici a partire dal difetto o dall'eccesso di funzionamento delle ghiandole endocrine, con conseguenti effetti sulla costituzione fisica e sulla disposizione psicologica. Tali sono il tipo ipertiroideo contrapposto all'ipotiroideo, distinti per l'eccesso o il difetto della secrezione della tiroide; i tipi iperpituitarico e ipopituitarico, differenziati dallo sviluppo eccessivo o insufficiente dell'ipofisi; con lo stesso criterio Pende distingue l'ipertimico dall'ipotimico, l'ipersurrenalico dall'iposurrenalico, e così di seguito a partire da tutti i centri di secrezione ormonale.

La lettura fenomenologica del corpo e la sua distinzione dall'organismo

Grazie alla sua strumentazione teorica, l'impostazione fenomenologica si è rivelata la più idonea al superamento del dualismo, prima platonico e poi cartesiano, che aveva separato la mente dal corpo. Infatti, scrive E. Husserl (1859-1938): "Tra i corpi di questa natura io trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l'unico a non essere mero corpo fisico (Körper), ma proprio corpo vivente (Leib)" (Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, 1931; trad. it. 1960 p. 107). Si instaura così la distinzione tra il c. oggettivato dalla scienza, che si offre all'indagine anatomica e fisiologica (Körper), e il proprio c. come è concretamente vissuto e sperimentato dall'esistenza (Leib), a cui solamente si riconosce rilevanza psichica.

Infatti il "mio corpo", che conosco nella molteplicità delle esperienze quotidiane, si rivela come ciò che mi inserisce in un mondo, ciò grazie a cui esiste per me un mondo, mentre il "corpo-cosa" (Körperding) illustrato dai libri di anatomia e fisiologia non è un'altra realtà, ma è la stessa presente in un'altra modalità, nella modalità oggettivante della scienza. Nel primo caso ho presente il mio c. perché lo sono e con esso mi intenziono al mondo, nel secondo ho presente il mio c. perché lo vedo, perché, nell'orizzonte della presenza, con cui sempre coincido perché altrimenti non sarei al mondo, esperisco il mio c. come mia estraneità.

Da queste premesse husserliane sarebbe nata quella psichiatria a orientamento fenomenologico in cui vengono prese in considerazione le modalità con le quali il "corpo proprio" si spazializza, si temporalizza, si mondanizza creando quei vissuti (Erlebnisse) di uno spazio non geometrico, di un tempo non cronologico, di un mondo visualizzato nei modi della propria esistenza (Dasein) e della propria co-esistenza (Mit-dasein). Sostituendo alla tradizionale relazione "anima-corpo" la relazione "corpo-mondo", dove al c. è riconosciuta un'originaria apertura e intenzionalità al mondo, la psichiatria fenomenologica è in grado di leggere le disfunzioni patologiche come modalità particolari di strutturare la propria presenza al mondo. Tale presenza ha nel c. il suo primo ancoraggio, perché, come scrive J.-P. Sartre (1905-1980) nel discutere le premesse e gli sviluppi dell'impostazione fenomenologica: "il corpo è l'oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico" (L'être et le néant, 1943; trad. it. 1968, p. 429).

Il corpo tra natura e cultura

Natura e cultura non sono gli estremi di un itinerario che l'umanità non ha mai percorso, ma semplicemente due nomi che qui si impiegano per designare l'ambivalenza con cui il c. si esprimeva nelle società arcaiche e l'equivalenza a cui è stato ridotto nelle nostre società dai codici che le governano e dal corredo delle loro iscrizioni.

L'ambivalenza del corpo. - Sommerso dai segni con cui la scienza, l'economia, la religione, la psicoanalisi, la sociologia di volta in volta l'hanno connotato, il c. è stato vissuto, in conformità alla logica e alla struttura dei vari saperi, come organismo da sanare, come forza-lavoro da impiegare, come carne da redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere. Continua a passare inavvertita la sua ambivalenza, la quale, incurante del principio di identità e differenza con cui ogni codice esprime la sua specularità bivalente, dice di essere questo, ma anche quello.

Proponendosi come questo ma anche quello, il c., che si concede a tutte le iscrizioni ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza le fa tutte oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nelle comunità primitive, il c. è diventato in Occidente il negativo di ogni valore, che il sapere, con la fedele complicità del potere, è andato accumulando. Dalla 'follia del c.' di Platone alla 'maledizione della carne' nella religione biblica, dalla 'lacerazione' cartesiana della sua unità, alla sua 'anatomia' a opera della scienza, il c. vede concludere la sua storia con la sua riduzione a forza-lavoro nell'economia, dove è più evidente l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza, ma diviene anche più aperta la sfida del c. sul registro dell'ambivalenza. Qui 'sfida' non significa che il c. si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua mortificazione. Questa, se da un lato ha lasciato il c. senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, a partire dal quale il c. può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui sapere e potere l'hanno ripartito.

Tutto ciò non è un preludio alla 'liberazione' del c., al giorno in cui gli verrà restituita la sua es-pressione contro la re-pressione del sistema, perché qualsiasi sistema di liberazione - a cui peraltro dà man forte tutta la letteratura sul c., sempre più diffusa - è oltremodo insidioso; finisce infatti per mobilitare e non per liberare le sue potenzialità espressive (che sono state confiscate dall''anima', dallo 'spirito' o dai 'valori'), al fine di un'emancipazione programmata, in vista di uno sfruttamento più razionale e sistematico. Così, paradossalmente, questa 'scoperta' del c., che si vuole presentare come premessa per la sua liberazione, viene utilizzata per liquidarlo definitivamente nell'ingranaggio del sistema e della sua produzione che, oltre a sfruttare la sua forza-lavoro, ne sfrutta anche la forza del desiderio, con quegli ideali di bellezza, giovinezza, salute, sessualità che sono poi, invero, i nuovi valori da vendere.

Mobilitato dal sistema nel processo di appetizione-soddisfazione, a cui tutti i moti di liberazione del c. danno il loro inconsapevole contributo, il c. diventa quell'istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui si consumano gli ultimi resti della sua alienazione. Tutte le religioni della spontaneità, della libertà, della creatività, della sessualità grondano del peso del produttivismo e della logica dei valori, che possono crescere e accumularsi solo se il c. si lascia sedurre e abbandona il suo naturale campo di gioco, che è quello dell'ambivalenza.

L'innocenza del corpo. - Sotto la stratificazione dei saperi occorre recuperare l'innocenza del c., il quale apre uno spazio non geometrico, un tempo non cronologico, un mondo (Welt) che si raccoglie in quel mondo-ambiente (Um-welt) in cui si dispiegano le sue cose, tra quelle distanze che sono proporzionali ai suoi gesti, accompagnati da quelle parole che giungono fin dove giunge il suono della sua voce. Declinandosi come c. d'amore, gioca con il pudore, con la carne, con le vesti, incontra l'altro c. e con lui misura lo spazio di libertà che la situazione gli concede, fino a quella situazione-limite che è la morte, dov'è il congedo del c., il suo silenzio.

Non più l'anima e il c., ma il c. e il mondo, in quella originaria co-esposizione che è il primitivo senso del mondo, il suo scaturire immotivato, a cui il c., dopo il primo ingenuo contatto, cerca di dar senso. Abitando il mondo, il c. contrae abitudini in uno spazio che non lo ignora, tra cose che dicono il suo vissuto, dove conoscere è riconoscere, è sentirsi a casa, perché le cose sono caricate di quel senso che, trascendendo la loro pura oggettività, le sottrae al loro anonimato, per restituirle ai gesti abituali, che gli consentono di sentirsi fra le sue cose, presso di sé.

Ma proprio qui l'innocenza del c. incontra la sua connaturata ambivalenza. Essere-nel-mondo significa infatti, per il c., sfuggire all'assedio del mondo per abitarlo, fuggire dal proprio essere in mezzo al mondo per averlo come luogo d'abitazione. In questo gioco dell'ambivalenza, il c. deve anche fuggire da sé per prendersi cura di sé. La sua cura è per sé e per il mondo; solo correndo verso il mondo il c. si soccorre. In questo senso il c. è sempre fuori di sé, è intenzionalità, trascendenza, immediato sbocco sulle cose, apertura originaria, continuo progetto e perciò proiezione futura.

Ogni mio atto, infatti, rivela che la mia presenza è corporea e che il c. è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce non sono le espressioni esteriori di un io trascendentale e nascosto, ma sono io, così come il mio volto non è un'immagine di me, ma sono io stesso. Nel c., infatti, c'è perfetta identità tra essere e apparire, e accettare questa identità è la prima condizione dell'equilibrio. Non esiste un pensiero al di fuori della parola che lo esprime, perché solo abitando il mondo della parola il pensiero può risvegliarsi. Allo stesso modo non esiste un uomo al di fuori del suo c., perché il suo c. è lui stesso nella realizzazione della sua esistenza. Se non si accetta la totalità di questa presenza, è impossibile accedere alla comprensione della realtà umana e all'ordine dei suoi progetti.

La follia del corpo. - Quando il c., da veicolo nel mondo, diventa lda superare per essere al mondo, allora è l: il c. erra enigmaticamente in regioni dove il senso si fa controsenso, dove tutte le cose sono cariche di significati inquietanti, eccedenti, perché la sua ambivalenza si declina in quella polivalenza per cui tutto diventa possibile; il reale si è a tal punto allontanato, da lasciare dietro di sé solo tracce allucinate. Eppure anche qui il c. non rinuncia al suo modo di essere al mondo come apertura originaria, declina la sua presenza secondo modalità così desuete che lo rendono incomunicabile nella sua radicale solitudine.

Siamo alla follia del c. che la medicina, la psichiatria e la psicoanalisi non possono comprendere, per la semplice ragione che non conoscono il c., avendo frequentato sempre e solo l'organismo, il quale non dispone di un'intenzionalità dispiegata nel mondo. Finché la medicina, la psichiatria e la psicoanalisi non supereranno la disgiunzione cartesiana tra res cogitans e res extensa, tra mente e c., tra soma e psiche, tra conscio e inconscio, tratteranno il c. umano come un qualsiasi oggetto della natura, con un atteggiamento che, lungi dall'essere naturale come queste discipline pretendono, è naturalistico. Di fronte alla malattia, al suo insorgere, al suo aggravarsi o alleviarsi, si troveranno allora, come scrive K. Jaspers (1883-1969), nella condizione di: "spiegare qualcosa, senza nulla comprendere" (Allgemeine Psychopathologie, 1912; trad. it. 2000, p. 30), a meno di non considerare 'compreso' un fenomeno per il fatto che gli si è assegnato il nome magico di conversione oppure di somatizzazione, intorno a cui si sollevano le polemiche degli organicisti e degli psicologisti, impegnati entrambi a far collimare le due parti di un'unità che non la natura, ma le esigenze metodologiche della scienza hanno impropriamente tenuto divisa e separata.

I metodi della scienza, tuttavia, non sono idonei a valutare i progetti d'esistenza, e la follia è pur sempre un progetto d'esistenza, un modo diverso di essere-nel-mondo. A questo punto ci si chiede come può uno psichiatra 'comprendere' la soggettività di un paziente se la dottrina di cui dispone serve soltanto a oggettivarlo e quindi a tenerlo a distanza. L'obiezione vale anche per il linguaggio psicoanalitico. Infatti, termini come mente e corpo, psiche e soma, Es, Io, Super-io, conscio e inconscio, oltre a dividere l'uomo secondo il sistema di riferimento presupposto, si riferiscono all'uomo considerato come un'entità isolata, la cui qualità essenziale non è quella di essere in rapporto con gli altri e con il mondo.

Evitando di sovraccaricare l'esistente di una struttura teorica a lui estranea, per lasciare che si imponga all'evidenza così come esso è, ciò che appare non saranno le sue carenze o i suoi eccessi, ma i suoi modi di essere. Questi, là dove la presenza non è pre-codificata, non si riveleranno come dis-funzioni, ma semplicemente come funzioni di una certa strutturazione della presenza, ossia di un certo modo di essere-nel-mondo per progettare un mondo. In tal modo si può rinunciare a privilegiare un mondo rispetto a un altro, il mondo del 'sano' rispetto a quello del 'malato', e per distinguere, nel loro specifico costituirsi, i 'mondi' delle diverse forme dell'alienazione, sarà sufficiente, senza ricorrere ad alcuna visione del mondo precostitutivamente assunta a norma e a modello, scoprire le incrinature presenti nelle strutture trascendentali che presiedono la formazione di un mondo. Tali sono le strutture con cui un c. si dà il tempo, lo spazio, il mondo, la co-esistenza.

L'iscrizione del corpo. - Proprio dall'analisi della coesistenza è possibile constatare che da sempre il c. è superficie di scrittura atta a ricevere il testo visibile della legge che la società detta ai propri membri, marchiandoli. Ogni cicatrice è una traccia indelebile, un ostacolo all'oblio, un segno che fa del c. una memoria. Per questo le società arcaiche iniziavano gli adolescenti alla vita sociale con il rito della tortura: marchiando il c., lo de-signavano come l'unico spazio idoneo a portare il 'segno' del gruppo, la 'traccia' del passaggio che con-segna l'individuo alla società. Un uomo iniziato, infatti, è un uomo segnato, as-segnato alla vita del gruppo che, con cicatrici indelebili, gli in-segna la sua definitiva appartenenza sociale.

L'iscrizione dei primitivi non sopprime però l'ambivalenza simbolica del c., per la semplice ragione che nelle comunità arcaiche la circolazione dei simboli è libera e fluttuante e non ha nulla in comune con la rigida circolazione dei segni all'interno di un codice, come risulta nell'ordine delle nostre società, dove i corpi sono sottratti all'ambivalenza dei loro possibili significati, per essere consegnati a quel Significante che di volta in volta li connota.

Questa è la vera crudeltà dell'iscrizione, più dolorosa dell'iscrizione cruenta, perché, incarnando un segno, la cui comparsa annulla tutta l'ambivalenza del c., la sua disponibilità per altre indicazioni, il c. non dice più di sé, ma del Significante che l'ha segnato e a cui ha con-segnato la propria potenza, da cui il Significante attinge la sua forza per adoperarla contro i c., riproducendosi in essi.

Si sa che per accaparrarsi il potere basta far funzionare i c. secondo un determinato registro di segni. In questo regime i segni acquistano serietà e i c. diventano solo lo spazio della loro scrittura. Il loro linguaggio cessa di essere espressivo per diventare indicativo del Significante supremo, di cui i c. si limitano a recitare il nome. Un nome vuoto, che non ha bisogno di un segno proprio, perché l'impossibilità di attribuirgliene uno è la prova della sua trascendenza, dell'assolutezza del suo senso. Il suo modo di dominare, infatti, non è nell'imporre un senso, come facevano i primitivi con il marchio, ma nello svuotare di senso tutti gli altri segni a cui il c., nella sua originaria ambivalenza, potrebbe consegnarsi.

Marchiato dalla divisione sessuale, iscritto nel feticismo dei bisogni, nell'immaginario dei desideri, nel luogo della legge, nelle discipline del potere, il c. si produce inutilmente nella trasgressione, altro mito non meno insidioso di quello della liberazione del c., perché il divieto che essa incrocia e spezza si ricompone alle sue spalle come un'onda di poca memoria. Divieto e trasgressione devono l'uno all'altra la densità del loro essere, ciò verso cui la trasgressione si scatena è il limite che la incatena. La trasgressione è la glorificazione del limite imposto dalla legge e dalle sue iscrizioni.

La sfida del corpo. - Giocando sul registro dell'ambivalenza, per cui questo è questo, ma anche altro, il c. può sottrarsi a tutti i segni prodotti dalla logica disgiuntiva propria di ogni Significante che fa passare per realtà i suoi effetti di codice. Tali sono l'Oro per le merci, il Padre per i figli, il Fallo per le pulsioni, il Senso per le parole, il Dio per gli dèi, l'Anima per i corpi. La storia del pensiero occidentale, infatti, è percorsa per intero dal tentativo di annodare il particolare all'universale, il contingente al necessario, il molteplice all'unitario, il terrestre al celeste, il profano al divino, il reale all'ideale, il relativo all'assoluto, e perché questa operazione potesse riuscire non c'era altro punto di partenza se non la rimozione del c. e della certezza sensibile di cui il c. è depositario.

Rifiutando di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, infine all'economia dei segni come supporto di significazioni, il c. può sottrarre a tutti questi codici il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato valore, il loro senso. Può farlo perché, nonostante le iscrizioni abbiano sempre cercato di ricondurlo, nel loro immaginario, all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un codice, il c. è ambivalente, ossia è una cosa ma anche l'altra, per cui: o la vita del sistema dei codici sulla divisione del c., o la vita del c. sulla frantumazione dei codici, con conseguente dissoluzione del loro valore accumulato.

Tra i codici nati dalla logica della separazione, inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, particolare rilevanza assume il codice della psicologia, la quale, se vuol essere coerente con sé stessa, non può parlare del c. se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per c. non intenda l'idea di c. che come scienza si è data. Tuttavia se il c. anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è il luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del c. la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro sé stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata, ha fondato sé stessa come scienza, e ancora si conserva.

Da questo punto di vista il c. non rappresenta un argomento psicologico, un luogo d'indagine tra i molti che la psicologia può esplorare, ma indica l, il luogo a partire dal quale la psicologia deve rivedere sé stessa dalle radici, sottraendole a quel terreno metafisico che, ricoprendole, ancora alimenta la psicologia come scienza, e allo stesso tempo cela, come ogni terreno che ricopre, l'antico errore.

Il c., infatti, è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psiche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il c. si cela non perché nasconde sé stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del c. prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico si è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica, dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce.

Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data - a partire da quell'alba greca in cui, con la rimozione del c., ha preso avvio l'autonomizzazione della psiche - non solo non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del c., ma sarà costretta a errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.

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