Corte costituzionale

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

Corte costituzionale

Fabrizio Politi

Nella recente giurisprudenza costituzionale emerge una chiara attenzione a sottoporre le scelte del legislatore ad un test di ragionevolezza anche con riferimento al bilanciamento fra diverse esigenze costituzionali e meritano attenzione a questo proposito le pronunce relative al godimento dei benefici penitenziari. La focalizzazione sulla tutela dei diritti fondamentali evidenzia l’acquisizione di uno specifico ruolo dell’ordinamento europeo ove la tutela dei diritti può trovarsi in concorrenza con il giudizio di costituzionalità. E, con riguardo specifico al processo costituzionale, una recente questione problematica attiene alla richiesta dell’Autorità garante della concorrenza di vedersi riconosciuto il potere di sollevare questione di costituzionalità.

La ricognizione. La ragionevolezza e il bilanciamento

Il ruolo della Corte costituzionale nelle dinamiche dell’ordinamento è il risultato di molteplici fattori. Nell’ultimo anno poco significativa (sia da un punto di vista quantitativo che con riguardo alle tematiche trattate) si presenta l’attività della Corte in sede di conflitto e di ammissibilità del referendum, ed è toccato dunque al controllo di costituzionalità manifestare le principali direttrici della giurisprudenza costituzionale. A questo proposito, può dirsi (in via estremamente riassuntiva) che la funzione di tutela della Costituzione si è esplicata con una peculiare attenzione da parte della Corte verso la ragionevolezza delle scelte del legislatore e nella verifica del rispetto di un adeguato bilanciamento fra tutti i valori e le esigenze costituzionali in gioco, dichiarando l’incostituzionalità di norme che ponevano (soprattutto, ma non solo, in materia di libertà) preclusioni assolute con conseguenze appunto irragionevoli. Test di ragionevolezza e principio di bilanciamento vengono così a rappresentare il comune denominatore di numerose pronunce, adottate negli ultimi mesi, che hanno interessato materie di grande attualità: dal tema dei vaccini (C. cost., 18.1.2018, n. 5)1 a quello delle pensioni (C. cost., 1.12.2017, n. 250), dall’Ilva (C. cost., 23.3.2018, n. 58) che ha dichiarato incostituzionale il decreto del 2015 giacché il legislatore ha privilegiato le esigenze dell’iniziativa economica sacrificando completamente la tutela della salute dei lavoratori) alla tutela dei diritti degli extracomunitari e dei condannati. E così nella sent. 20.7.2018, n. 166 la Corte ha dichiarato incostituzionale per contrasto con il principio di ragionevolezza e non discriminazione l’art. 11, co. 13, d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133, che richiede per i cittadini extracomunitari per l’accesso al cd. “bonus affitti” (contributo concesso agli indigenti per il pagamento del canone di locazione) il requisito della residenza quinquennale sul territorio regionale o decennale su quello nazionale. La Corte non esclude che il legislatore possa subordinare tale beneficio a requisiti volti a comprovare il “radicamento sociale” del richiedente, ma ha ritenuto tale norma incostituzionale in quanto subordina l’accesso al beneficio (destinato ad alleviare situazioni di estrema povertà) alla permanenza dei cittadini extracomunitari sul territorio nazionale o regionale per una durata sproporzionata ed eccessiva (in senso simile la sent. 25.5.2018, n. 107 ha dichiarato incostituzionale la legge della Regione Veneto che richiedeva il requisito della residenza protratta per 15 anni come titolo di precedenza per l’accesso agli asili nido. Per la Corte non vi è alcuna «ragionevole correlazione» fra residenza prolungata in Veneto e le situazioni di bisogno o di disagio). Ma è senz’altro con riguardo ai profili legati alla funzione della pena e al diritto del condannato al reinserimento sociale che si registrano le pronunce più significative. E così la sent. 23.7.2018, n. 174 ha dichiarato incostituzionale l’art. 21 bis l. 5.7.1975, n. 354 che, nei confronti delle detenute per determinati reati (cd. “ostativi”), subordina l’accesso al beneficio dell’assistenza esterna ai figli minori di dieci anni alla collaborazione con la giustizia. La Corte dichiara l’incostituzionalità di tale norma che, negando in assoluto la possibilità per la madre di accedere a modalità agevolate di espiazione della pena (ed impedendo al giudice una valutazione della concreta sussistenza di esigenze di difesa sociale), impedisce un bilanciamento fra le esigenze di sicurezza sociale, la necessità di espiazione della pena e l’interesse del minore (che si trova ad essere totalmente sacrificato). Per la Corte la scelta di subordinare il beneficio dell’assistenza esterna ai figli minori di dieci anni alla decisione di collaborare con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto fra madre e figlio in tenera età al “ravvedimento” della detenuta (indirizzando dunque il beneficio alla finalità della risocializzazione del detenuto), ma determinando così una incostituzionale compressione dell’interesse (costituzionalmente garantito) del figlio minore ad un rapporto (quanto più possibile normale) con la madre. Sempre con riguardo ai benefici penitenziari, la sent. 11.7.2018, n. 149 dichiara incostituzionale l’art. 58 quater, co. 4, l. n. 354/1975, laddove nega qualsiasi beneficio ai condannati all’ergastolo per aver causato la morte di una persona sequestrata a scopo di estorsione, terrorismo o eversione, prima che abbiano scontato almeno 26 anni di detenzione. Questa preclusione assoluta è per la Corte irragionevole in quanto in contrasto con il principio stabilito dall’art. 27, co. 3, Cost. secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La Corte ricorda che, per l’ordinamento penitenziario, il condannato all’ergastolo deve essere aiutato a reinserirsi nella società, attraverso benefici che gradualmente attenuino il regime carcerario. Pertanto è incostituzionale la previsione di un “rigido automatismo” che, impedendo al giudice la valutazione dei progressi compiuti dal condannato, sacrifica del tutto la funzione rieducativa della pena, mentre lo Stato deve «consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena». E così va ricordata la sent. 2.3.2018, n. 41, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 656, co. 5, c.p.p. «nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni». La disposizione prevedeva la sospensione della pena detentiva solo per pene fino a tre anni, ma per la Corte tale norma è irragionevole in ragione del “disequilibrio normativo” determinatosi in seguito all’introduzione nel 2013 dell’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali per pene fino a quattro anni. Avendo il legislatore creato un “tendenziale parallelismo” tra la sospensione della pena e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova, si è determinata una “incongruità” legislativa priva di ragionevole giustificazione. E se spetta alla discrezionalità del legislatore stabilire deroghe a questo parallelismo (ad esempio per reati di particolare pericolosità), «il modo in cui la legge configura l’affidamento in prova ... reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione».

La focalizzazione. La teoria dei controlimiti

Con la sent. 31.5.2018, n. 115 si è chiusa una vicenda che, nell’ultimo biennio, molto aveva impegnato la giurisprudenza (penale e costituzionale) e che si era aperta in seguito alla pronuncia Taricco con cui la Corte di giustizia, facendo leva sull’art. 325 TFUE, aveva affermato l’obbligo per il giudice penale di disapplicare le norme sulla prescrizione dei reati nei “significativi casi” di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Con l’ordinanza 26.1.2017, n. 24 la Corte aveva posto alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, tre quesiti sull’interpretazione dell’art. 325, par. 1 e 2, TFUE conseguenti proprio a quanto statuito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco, prospettando una soluzione volta ad escludere il conflitto tra la normativa europea e quella interna (ribadendo il primato del diritto europeo), ma affermando anche l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla applicazione della “regola Taricco” nell’ordinamento italiano (ed invocando l’identità costituzionale della Repubblica italiana). Con la sentenza del 5 dicembre 2017, la Corte di giustizia (causa C42/17, M.A.S. e MB) aveva riconosciuto che l’obbligo per i tribunali nazionali di disapplicare la legislazione nazionale sui termini di prescrizione sulla base della “regola Taricco”, non va applicata quando comporta una violazione del principio di determinatezza dei reati e delle pene, a causa dell’incertezza sulla legge applicabile o dell’applicazione retroattiva di un quadro giuridico più rigido rispetto a quello vigente all’epoca della commissione del reato. Per il giudice europeo questo divieto deriva direttamente dal diritto dell’Unione (art. 49 della Carta di Nizza) e non richiede alcun ulteriore controllo da parte delle autorità giudiziarie nazionali, mentre è rimesso a queste ultime il compito di verificare la compatibilità della “regola di Taricco” con il principio di certezza nel rispettivo diritto penale. Con la sent. n. 115/2018, la Corte ha ribadito sì il primato del diritto dell’Unione ma anche (in base alla cd. teoria dei controlimiti) la intangibilità dei principi supremi dell’ordinamento nazionale e dei diritti inalienabili della persona (quale «condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia»), specificando che il principio di legalità in materia penale, laddove pone i principi di determinatezza e di irretroattività della norma penale (art. 25, co. 2, Cost.) «esprime un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo». Conseguenzialmente nella sent. n. 115/2018 la Corte costituzionale ha affermato che la “regola Taricco” deve essere ritenuta inapplicabile con riguardo ai fatti verificatisi prima dell’8 settembre 2015 e, indipendentemente dal momento in cui si sono verificati i fatti, i giudici non possono applicare la “regola di Taricco” perché contrasta con il principio di certezza della legge (ex art. 25, co. 2, Cost.). All’interno di questo “dialogo” fra Corte costituzionale e Corte di giustizia va collocata anche la sent. 14.12.2017, n. 269 in cui, in merito al complesso rapporto tra ordinamento interno e diritto europeo, la Corte ribadisce il principio per cui la questione di compatibilità con il diritto dell’Unione europea costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di legittimità costituzionale in via incidentale. Pertanto, ove la legge interna collida con una norma dell’Unione europea, il giudice («fallita qualsiasi ricomposizione del contrasto su base interpretativa, o, se del caso, attraverso rinvio pregiudiziale») deve applicare direttamente la disposizione europea dotata di effetti diretti, mentre se una disposizione di diritto interno diverge da norma europea priva di effetti diretti, occorre sollevare una questione di costituzionalità (e senza delibare preventivamente i profili di incompatibilità con il diritto europeo giacché in questa ipotesi spetta alla Corte costituzionale giudicare sulla legge in riferimento ai parametri europei). Ma la peculiarità della sent. n. 269/2017 è data dall’esplicito riconoscimento da parte della Corte costituzionale di una diretta applicabilità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (ovviamente facendo leva sull’art. 6, par. 1, TUE e probabilmente anche in seguito a quanto affermato dalla Corte di giustizia nella pronuncia del 5 dicembre 2017 sopra ricordata). La Corte riconosce alla Carta la qualità di norma dell’Unione «dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale» e prende atto che i «principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» con la possibile conseguenza della contemporanea violazione sia delle garanzie previste dalla Carta, sia di quelle contenute nella Costituzione.

Pertanto la “sopravvenienza” delle garanzie previste dalla Carta a quelle contenute nella Costituzione italiana può dar vita ad un “concorso di rimedi giurisdizionali” riguardo ai quali il diritto dell’Unione “non osta” al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità, ferma rimanendo la libertà dei giudici ordinari di sottoporre alla Corte di giustizia qualsiasi questione pregiudiziale («a loro giudizio necessari») o di adottare qualsiasi misura ritenuta necessaria per garantire la tutela giurisdizionale dei diritti conferiti dall’ordinamento europeo o anche di disapplicare la norma nazionale (anche quando abbia superato il vaglio di costituzionalità), «ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». La Corte individua dunque, con riferimento ai dubbi di costituzionalità di una norma che lede contemporaneamente diritti protetti dalla Costituzione italiana nonché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la coesistenza del canale di accesso al giudizio di costituzionalità e del rinvio pregiudiziale «per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione».

I profili problematici

Con riguardo all’accesso al giudizio di costituzionalità, una assoluta novità è rappresentata dalla ordinanza del 3 maggio 2018 con cui l’Autorità garante della concorrenza ha sollevato questione di costituzionalità della norma relativa al potere di vigilanza disciplinare del consiglio notarile.

L’Autorità garante della concorrenza quale giudice a quo

Come noto, la questione di costituzionalità nel giudizio in via incidentale può essere sollevata da un “giudice” nell’ambito di un “giudizio” e da tempo dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’escludere le autorità indipendenti dal novero della giurisdizione. Indubbiamente la giurisprudenza costituzionale ha un orientamento volto ad ampliare la nozione di giudice a quo, non limitando tale ruolo ai soli titolari degli organi di giurisdizione (ordinaria e speciale)2 e ricomprendendo anche quegli organi investiti di «funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge» e «all’uopo posti in posizione super partes»3, anche in ragione della “esigenza” di ammettere al sindacato di costituzionalità leggi che altrimenti, per le strettoie del giudizio in via incidentale, difficilmente potrebbero giungere al giudizio della Corte. Sotto il profilo soggettivo, l’Autorità ricorda la propria posizione di indipendenza e di neutralità (discendente dalla procedura di nomina dei membri, dalla durata del mandato, dalla inamovibilità e dal regime di incompatibilità) che consente una «assimilabilità» della stessa «ai soggetti che svolgono funzioni giurisdizionali», e tale “assimilabilità” è ritenuta sussistente anche dal punto di vista oggettivo giacché la stessa svolge “funzioni analoghe a quelle giurisdizionali”, poiché «si limita, al pari di un giudice, ad applicare la legge al caso concreto». L’Autorità cita inoltre “l’ampio spazio” riconosciuto, nei procedimenti che si svolgono dinanzi alla medesima, ai principi del contraddittorio e della parità delle armi e ricorda anche i propri poteri inibitori e la separazione tra gli uffici che svolgono l’attività istruttoria e l’organo competente ad assumere le decisioni. In attesa della decisione della Corte, va rilevato che se l’ampliamento dei canali di accesso al giudizio di costituzionalità merita senz’altro apprezzamento, più di un dubbio fa sorgere la parte motiva dell’ordinanza in cui l’Autorità svolge considerazioni in cui tende a legittimare se stessa come autorità giudiziaria. Colpisce infatti nell’ordinanza del 3 maggio 2018 la peculiare attenzione dell’Autorità ad illustrare (non tanto la “zona d’ombra” in cui cadrebbero alcune norme rispetto all’accesso al giudizio di costituzionalità, quanto) il possesso dei caratteri di organo che svolge funzioni giudiziarie in posizione di terzietà. Ma l’esperienza di questi decenni, l’abbondante giurisprudenza (soprattutto amministrativa, ma anche ordinaria e costituzionale) e la oramai imponente riflessione dottrinale in materia indicano nell’Antitrust un soggetto amministrativo (sia pure caratterizzato da peculiari aspetti di neutralità ed indipendenza) e pertanto l’unica motivazione che potrebbe giustificarne il potere di sollevare questione di costituzionalità è quella legata alla considerazione per cui talune leggi verrebbero a essere escluse dal sindacato della Corte. Ma proprio il caso di specie dimostra il contrario (giacché in caso di applicazione della norma impugnata – relativa a potere disciplinare del consiglio notarile – il destinatario ben può rivolgersi all’autorità giudiziaria).

Note

1 Nella sent. n. 5/2018 l’obbligatorietà dei vaccini è ritenuta una scelta non irragionevole spettante al legislatore nazionale volta a tutelare la salute individuale e collettiva ed è fondata sul dovere di solidarietà nel prevenire la diffusione di alcune malattie.

2 C. cost., 30.12.1961, n. 78; 6.7.1970, n. 114; 2.2.1971, n. 12; 23.1.1990, n. 26; 20.2.1995, n. 52, 14.6.1995, n. 244; 21.7.1995, n. 345; 6.3.2001, n. 51 e 28.11.2001, n. 376.

3 C. cost., 19.3.1966, n. 83; 18.11.1976, n. 226; 14.7.1989, n. 406; 17.10.1991, n. 384.

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