CORTE

Enciclopedia Italiana (1931)

CORTE

Evaristo BRECCIA
Francesco COGNASSO
Angelo PERNICE
Pietro PISANI
Mariano D'AMELIO
Piero CALAMANDREI
Domenico RENDE
Luigi PERLA
Gabriele SALVIOLI
Bruno BRESCHI
Gabriele SALVIOLI
Salvatore BATTAGLIA
*- Giovanni Battista BOREA D’OLMO
Armando Valente

. Il lat. cohors, chors, o cors (connesso etimologicamente con hortus e col ted. Garten) indica anzitutto il cortile, il terreno adiacente alla villa; da questo significato si è svolto quello di gruppo d'animali o di uomini e successivamente quello di parte della legione, di coorte (v.): i grammatici preferiscono per il primo significato la grafia cors, per il secondo cohors.

La voce continua del Medioevo per indicare l'insediamento rurale, cioè l'insieme degli edifici e dei territorî adiacenti; la voce, nella forma medievale curtis (v. curtense, sistema), significa pressappoco "villaggio" e si ritrova molto diffusa nella toponomastica (Graincourt, Cortemaggiore, ecc.). Di qui anche cortina, che designa in alcuni luoghi (Arezzo, Camerino, Todi) il territorio immediatamente adiacente alla città; e dà pure origine a toponimi (Cortina d'Ampezzo).

Dalla corte, cioè dalla residenza dei re Franchi, trae origine una nuova accezione della parola, di aula regia, di curia (forse anzi il lat. med. curia contribuì a che corte prendesse questo nuovo significato).

Oltre che alle residenze sovrane, il nome si applicò poi alle persone del seguito (cortigiani), alle assemblee bandite dai sovrani (oggi in Spagna il parlamento porta ancora il nome di Cortes), a magistrature in origine direttamente dipendenti dal sovrano.

Sommario: Le corti dei sovrani (p. 528); La Corte di cassazione (p. 535); La Corte d'appello (p. 540); La Corte d'assise (p. 541); La Gran Corte criminale (pagina 543); La Corte dei conti (p. 543); La Corte permanente di arbitrato (p. 545); La Corte permanente di giustizia internazionale (p. 546); La Corte internazionale delle prede (p. 546); Le corti d'Amore (p. 547).

Le corti dei sovrani.

Antichità. - La corte nelle monarchie orientali. - La distinzione, ovvia nello stato moderno, fra cariche di corte e cariche di governo, è assai meno netta nelle antiche monarchie orientali, come del resto è stato anche in Occidente sino al temperamento e alla sparizione del potere assoluto del re. Spesso i governatori e alti funzionarî dello stato, gli equivalenti ai nostri ministri delle Finanze, del Tesoro, della Guerra, ecc. sono a un tempo i cortigiani più vicini al sovrano, e i suoi favoriti. Così nell'Egitto faraonico il "ministro del Sud" o delle provincie meridionali, nelle cui mani si accentrava al tempo della XVIII dinastia l'alta soprintendenza al tesoro e alla giustizia, e altri dignitarî come "i Dieci del Sud" furono probabilmente cortigiani e uomini di governo; più precisi e distinti uffici di corte ci appaiono nell'impero assiro, ove accanto al primo ministro vediamo il grande fornaio, il grande coppiere, il comandante di palazzo e il gran maggiordomo. Ma la corte la cui organizzazione fastosa ci è più nota attraverso le descrizioni dei classici (soprattutto Senofonte nella Ciropedia) e che dopo la conquista macedone più influì nella formazione delle corti ellenistiche (v. appresso) è la persiana, che agli occhi degli Elleni fu sempre quasi modello e simbolo di quella civiltà barbarica con cui essi vennero a contatto: ivi il Gran re con l'alta tiara rigida e ricinta del diadema, il manto bianco e purpureo e le altre vesti pure di porpora, sedeva in trono, nel palazzo regale di Susa o Persepoli, circondato di un cerimoniale che lo staccava dall'umanità e innalzava a onori e prerogative quasi di essere soprannaturale (si ricordi fra l'altro la famosa prosternazione o proscinesi, che tanto vivace reazione destò in ambiente greco): ai suoi fianchi erano il gran cuoco e il gran coppiere che sono in realtà grandi dignitari e intimi consiglieri del re, il medico particolare, il grande lanciere o arciere di corte, il capo scudiere e il capo cacciatore, con uno stuolo di cortigiani minori.

Ancor prima che sul mondo ellenistico, le corti delle grandi monarchie orientali dovettero influire sulla formazione di quella ebraica: numerosi particolari ci sono dati dalla Bibbia sulla corte di David, di cui abbiamo notizie circa i suoi "consiglieri", come Achitofel, i 37 guerrieri, specie di paladini, a capo della guardia del corpo del sovrano, gli "amici" (denominazione in uso anche presso le corti dei Faraoni e più tardi tanto diffusa nelle monarchie ellenistiche, a indicare intimi consiglieri e compagni del sovrano), segretarî e storiografi di corte. Questa organizzazione gerarchica fondata da David fu ulteriormente allargata e perfezionata da Salomone, la cui corte sfarzosa ha lasciato anche nella leggenda durevole ricordo.

L'eredità del potere assoluto regale e della pompa cortigiana con esso connessa, passata dalla Persia ai regni ellenistici, rivisse più tardi su quello stesso suolo con la monarchia sassanidica, che venne poi a esercitare, sia pure indirettamente, sullo stato e la civiltà musulmana sua soppiantatrice ed erede, la stessa influenza che quella achemenide aveva esercitato sulla greca. La rigida e complessa organizzazione della corte sassanide, quale si conveniva a uno stato a caste chiuse, con i cortigiani divisi per classi, i cui rapporti col sovrano erano regolati da minutissime norme di etichetta, ci è abbastanza nota dalle tarde narrazioni di autori arabi, che spesso però attingono a fonti ufficiali o semi-ufficiali di cerimoniale e protocollo medio-persiano; e tutta la corte del califfato ‛abbāside di Baghdād e dei posteriori stati musulmani, col gran visir e i visir minori, ciambellani e segretarî, fantasticamente stilizzata nella letteratura aneddotica e romanzesca (Mille e una notte), è anche storicamente ricostruibile in molti particolari per via letteraria e epigrafica, e continua, sino al sultanato ottomano recentemente estinto, una linea di sviluppo della concezione del potere sovrano e dell'organizzazione di corte, per molti lati risalente alle antichissime monarchie d'Egitto e dell'Asia anteriore.

Le monarchie ellenistiche. - Nelle monarchie ellenistiche sorte dalla divisione dell'impero fondato da Alessandro Magno (v.) la residenza reale è il vero centro dello stato, che si muove e funziona per gl'impulsi provenienti dal sovrano e da quelli che vivono nella sua immediata vicinanza, nel palazzo, nella corte. Di qui emanano tutti gli atti, qui si trattano e deliberano tutti gli affari che concernono la pubblica cosa, la vita dello stato. Descrivendo quindi l'organizzazione della corte regia, e lo stesso fatto si verificherà in gran parte per quella dell'impero, bisogna aver di mira tanto i dignitarî e gli addetti al servizio che costituiscono la famiglia in largo senso, l'alto e basso personale di palazzo, quanto i funzionarî che hanno una parte consultiva o esecutiva nello svolgimento dell'azione politica. Dato il cumulo assai frequente della qualità di funzionario e di dignitario, la distinzione tra le cariche propriamente amministrative e le cariche auliche in senso stretto è assai difficile e incerta.

È intuitivo che in tutte le monarchie ellenistiche l'organizzazione della corte deve essere stata il risultato di varie e complesse influenze; tuttavia non è facile sceverare tali influenze - delle preesistenti corti macedonica, persiana, faraonica e altre orientali - né a dispetto della ricchezza di documenti papiracei forniti dall'Egitto, possiamo dire di conoscere con chiarezza il sistema gerarchico, la distribuzione degli uffici e le mansioni di ciascuno. Non tenendo conto di secondarie differenze nella terminologia, si può ritenere che l'organizzazione qui esposta, basata soprattutto sulla corte tolemaica, rappresenti il modello comune a tutte le monarchie ellenistiche.

Soltanto con Antioco III in Síria (223-187 a. C.) e con Tolomeo V in Egitto (205-180 a. C.) la casa reale appare costituita con una ben determinata gerarchia. Finora in nessuno dei documenti anteriori a Tolomeo V, figurano i titoli qui enumerati, tranne quello di capitani della guardia del corpo, ma è lecito supporre che molte se non tutte le cariche preesistessero e la gerarchia si fosse andata a poco a poco costituendo di fatto: l'Epifane l'avrebbe sviluppata, fissata e disciplinata in un organismo definitivo.

Alla cima stanno i cosiddetti parenti del re; seguono i capitani della guardia del corpo, poi gli amici, tra i quali si distinguono i primi amici, o amici di prima categoria; infine all'inizio della carriera i successori o diadochi, i quali probabilmente costituivano il vivaio in cui venivano scelti, man mano, i designati ai posti superiori. Oltre a queste principali categorie vi era la massa degli addetti al vero e proprio servizio di corte: íntroduttori, maggiordomi, dispensieri, scudieri e il corpo dei paggi reali. Il titolo di συγγενής (parente o se si vuole cugino) assimila a un membro della famiglia reale chi ne è investito, tanto che il sovrano si rivolge a lui chiamandolo addirittura fratello, ἀδελϕός. Il numero dei parenti doveva essere ristretto. Sotto Evergete II (170-116) cominciano ad apparire eli assimilati ai parenti, ἰσότιμοι o gli assimilati ai primi amici, grado dal quale si può essere promossi a parente e a primo amico effettivo. Il titolo di capitani della guardia del corpo poteva essere indipendente dalla funzione anche se ornato di una formula superlativa - ἀρχισωματοϕύλαξ - e costituiva quindi una decorazione per dignitarî anche lontani dalla corte e da Alessandria. Ma la funzione a corte esisteva ed era realmente esercitata; invero conosciamo capitani della guardia del corpo cui è affidata, con la custodia della persona del sovrano, quella del regio sigillo. Peraltro i somatofilaci che prestavano effettivamente servizio a corte dovevano essere in numero assai limitato e avere soltanto funzioni dirigenti; la guardia del corpo vera e propria era costituita dai dorifori o satelliti e dal corpo speciale dei βασιλικοὶ παῖδες.

Gli amici ed i primi amici corrispondono all'incirca ai consiglieri di stato o forse meglio ai consiglieri segreti di certe monarchie moderne, dove possono esercitare effettivamente la funzione indicata dal titolo, oppure essere di questo rivestiti come di una semplice onorificenza. I parenti, gli amici e i primi amici erano consiglieri ufficialmente riconosciuti, e dapprima tra essi soltanto vennero scelti i membri del consiglio del re o sinedrio. Con l'andar del tempo i membri del sinedrio vennero scelti anche al di fuori di essi, ma sempre tra gli alti funzionarî e dignitarî residenti alla corte.

Le cariche non erano ereditarie e in alcuni casi troviamo che i figli precedono i padri. Non possediamo nessun cursus honorum il quale ci permetta di sapere se le promozioni fossero strettamente regolate oppure no, di grado in grado, ma dato il potere assoluto del re è chiaro che la sua volontà e la sua simpatia rendevano tali regole, anche se esistenti, di valore molto precario e ipotetico. L'alto personale di corte con funzioni più o meno domestiche comprendeva il gran ciambellano o introduttore (εἰσαγγελεύς), il gran cacciatore (ἀρχικυνηγός), il gran maggiordomo (ἀρχεδέατρος), il gran coppiere (ἀρχιοινοχόος), il medico o protomedico del re (βασιλικός ἰατρός, ἀρχίατρος).

Attorno e al di sotto era una quantità d' impiegati addetti ai varî servizi (ὑπηρέται, ἀρχυπηρέται) e alla corte in generale (οἱ περὶ τὴν αὐλήν). Distinto da questa massa è il corpo assai numeroso dei paggi reali reclutati naturalmente nelle famiglie più ragguardevoli e allevati insieme coi principi, sotto la direzione di un precettore (τροϕεύς). Essi, dopo compiuta l'educazione militare, formavano un corpo speciale di guardia che prestava servizio nella corte o nella residenza del sovrano in viaggio o al campo, ed erano naturalmente i candidati a future cariche di fiducia.

I dignitarî o famigliari fin qui enumerati costituivano la casa civile e militare del sovrano, ma non erano, almeno formalmente, quelli che lo consigliavano e con lui collaboravano nel governo dello stato. Il consiglio o sinedrio era formato come abbiamo già esposto. L'organo immediato della volontà regia è l'epistolografo, titolo equivalente a segretario di stato e capo della cancelleria. Sembra verosimile che di regola spettasse all'epistolografo la custodia del sigillo attestante l'autenticità della corrispondenza emanata dal re e il carattere esecutivo di tutti gli atti e rescritti sovrani. È probabile che la cancelleria fosse divisa in parecchie sezioni o uffici secondo varie competenze e quindi che designati con lo stesso nome o altrimenti (lo ὑπομνηματογράϕος ricordato da Strabone tra i magistrati alessandrini?) vi fossero parecchi funzionarî n capo di tali sezioni. Il diocete corrispondeva a ministro delle Finanze ed era una specie di gran visir; egli stesso o altri poteva essere a capo dell'amministrazione del patrimonio privato del re (ὁ πρὸς τῷ ἰδίῳ λόγῳ). Senza dubbio la nostra conoscenza del personale addetto alla corte dei sovrani ellenistici è ancora molto imperfetta e incompleta; documenti recentissimamente scoperti hanno p. es. fatto conoscere un nuovo titolo ὁ πρὸς τοῖς προχείροις) le cui funzioni non si riesce per il momento a determinare. L'esistenza dell'epitropo, tutore o reggente, era, come ben s'intende, soltanto occasionale e temporanea. Nelle monarchie di Macedonia e di Siria, Tito Livio conosce i purpurati, ma non dice a chi fosse riservato questo manto reale; certamente peraltro a personaggi molto vicini al re, a personaggi di corte. Anche i cappelli di porpora a larghe calde (causia) e le clamidi erano doni sovrani per eccellenza, ma non esclusivamente riservati a funzionarî di palazzo e in servizio attivo.

La corte imperiale romana. - La corte imperiale ha finito per modellarsi molto sulla corte regia, ma ha subito una lunga evoluzione con mutamenti che possono rendere non perfettamente esatto il quadro dell'organizzazione, da un imperatore all'altro. Per il periodo del principato non possiamo certo ritenere che avesse lo sviluppo raggiunto all'inizio del terzo secolo. Invero per molto tempo la corte conservò a Roma il carattere e l'aspetto dell'azienda famigliare di una grande casata; né sono mancati imperatori abili e austeri che di tempo in tempo si sono energicamente adoperati per ostacolare l'invasione delle forme in uso nelle corti regie. Poiché il principato non era ereditario, i membri della famiglia dell'imperatore non avevano speciali poteri, onori e titoli all'infuori di quelli ad essi conferiti dal Senato, su richiesta o con l'approvazione dell'imperatore. L'imperatrice di solito riceveva il titolo di Augusta, i principi portano il titolo di Cesare fino ad Adriano, che lo riservò alla persona designata come successore. Il prefetto del pretorio era responsabile della persona dell'imperatore affidato alla sua custodia e difesa, e quindi possiamo considerarlo come capo della casa militare, sebbene i suoi poteri si estendessero di là dal palazzo imperiale; egli divenne il membro più importante del consilium quando Adriano ne ebbe fatto un corpo permanente con carattere in prevalenza giuridico.

La corte vera e propria era costituita da un personale assai numeroso di domestici e di funzionarî.

I liberti e gli schiavi addetti alla persona dell'imperatore e della sua famiglia si contano a migliaia, distribuiti in differenti uffici e in un' infinità di sezioni e sottosezioni. Citiamo ad es. il servizio delle udienze, officium admissionis; il servizio di tavola, quello dell'abbigliamento, a veste; dei piaceri e divertimenti, a voluptatibus; di scorta, pedissequi; d'igiene e di sanità, a valetudine; di camera, cubicularii; e il servizio per l'istruzione dei giovani schiavi, paedagogi. A capo di ciascun ufficio e sezione stava un praepositus, assistito spesso da contabili (tabularii), da intendenti incaricati di distribuire le somme necessarie per le spese (dispensatores), e da segretarî, archivisti, scrivani (commentarienses, scribae). È evidente che tutti questi servizî non avrebbero potuto funzionare se non fossero stati subordinati a una direzione superiore incaricata di sorvegliarli e di fornire i fondi necessarî, ma è ancora dubbio se si debba identificare questa intendenza generale con la ratio castrensis.

O. Hirschfeld e dopo di lui Émile Fairon vedono nel procurator castrensis l'amministratore generale della corte; il Mommsen e il De Sanctis vi scorgono il funzionario preposto all'organizzazione dei viaggi imperiali; il Rostovtzeff, l'amministratore di quell'ufficio di corte relativo all'imperatore in quanto comandante supremo dell'esercito; l'ufficio accentratore dei varî servizî del palazzo sarebbe stato quello chiamato ratio thesaurorum. Comunque sia di ciò, non v'ha dubbio che un tale ufficio esisteva: alcuni dei suoi organi li intravediamo nel subprocurator domus Augustanae e nel contrascriptor domus Augustanae. Il procurator patrimonii, secondo ogni probabilità, non presiedeva all'intendenza di corte, ma alla gestione dei beni imperiali. Il personale era scelto tra gli schiavi e liberti della famiglia imperiale, sistema questo che permetteva da un lato di circondarsi di servitù sicuramente devota e dall'altro di distribuire le varie incombenze a seconda delle particolari attitudini, potendosi ricorrere a tutte le più varie nazionalità. Infatti gl'imperatori utilizzarono soprattutto individui provenienti dalle provincie di lingua greca, data la loro sveltezza, le loro molteplici capacità e la varia cultura. Del resto nei primi decennî non si sarebbero trovati cittadini romani, anche se di umile condizione, disposti, sotto qualunque gerarca, ad assumere funzioni servili. Liberti imperiali erano il maggiordomo e il gran ciambellano, la cui influenza fu assai grande sotto Caligola e sotto altri imperatori di simile stampo. Fino a Vitellio i liberti hanno avuto l'incontrastato maneggio di tutti quanti gli uffici di corte, benché questi fossero venuti assumendo il carattere di veri e proprî uffici di stato. Da Vitellio comincia l'assegnazione dei più importanti di tali uffici ai cavalieri o equites, ma soltanto a partire da Adriano gli equites occupano di regola quasi tutti gli uffici direttivi di corte. I dispensatores, adoperati in gran numero come computisti, tesorieri, intendenti, erano sempre scelti tra i più ragguardevoli schiavi dell'imperatore, ma la serie degli uffici a cui schiavi e liberti potevano pervenire era molto estesa. Tra il personale di palazzo non dobbiamo dimenticare i danzatori, mimi, buffoni e le numerose serie di paggi imperiali.

I principali uffici annessi alla corte e non aventi carattere di servizio personale erano i seguenti: a rationibus, ab epistulis, a libellis, a cognitionibus, a memoria. L'ufficio a rationibus amministrava le somme necessarie al mantenimento della corte e alle spese personali dell'imperatore, per cui si provvedeva coi beni di sua famigliare proprietà - res privata - ma anche coi proventi del fisco imperiale. I proventi del fisco erano in gran parte destinati a opere di pubblico interesse e ad elargizioni, ma una netta distinzione tra i due patrimonî non è forse mai esistita. Dell'ufficio a rationibus, prima diretto da un liberto e più tardi da un procurator Augusti d'ordine equestre, facevano parte molti tabularii e minori funzionarî. Come ben si comprende grande importanza ebbero i capi della segreteria - ab epistulis - e quelli dell'ufficio delle petizioni e decreti - a libellis. La segreteria e l'ufficio dei dispacci e lettere erano divisi in due sezioni: una latina e una greca, con uno speciale direttore. Per occupare questi importante carica si richiedevano intelligenza e cultura notevoli, tanto che dalla fine del secolo I vi aspirarono cavalieri di riconosciuto valore letterario. Perciò l'imperatore accordò talvolta ai suoi liberti l'ingenuitas e la dignità equestre, quando li nominò a tale carica. Gli addetti dll'ufficio a cognitionibus erano incaricati di fare inchieste e raccogliere elementi di giudizio per le questioni sottoposte al potere giudiziario dell'imperatore, e naturalmente dovevano possedere in grado notevole conoscenze giuridiche. Anche qui prima troviamo liberti e poi cavalieri. Gli addetti all'ufficio a memoria, creato nel secolo II, erano adibiti a preparare materiale per la pubbliche allocuzioni dell'imperatore oppure a elaborare nella forma dovuta, per essere rese pubbliche, le decisioni imperiali. Sul finire del secolo I cominciarono ad aspirare a cariche di corte che non implicassero funzioni di carattere propriamente servile pur non essendo direttive - consiglieri di studî, bibliotecarî, precettori dei principi, medici - anche persone di origine libera. Attorno alla corte e nella sua atmosfera, pur senza incarichi specifici, vivevano stabilmente o temporaneamente, a seconda dei gusti e delle tendenze del sovrano, poeti, filosofi, artisti, eruditi. Oltre alla casa civile e militare, alla servitù alta e bassa, cerimonieri, introduttori, ciambellani ecc., oltre ai cortigiani, per dir tutto in una parola, l'imperatore aveva accanto a sé un folto gruppo di "amici", tali essendo considerati coloro che erano ammessi ai mattutini, quotidiani ricevimenti di palazzo. Nella categoria degli amici si andò sviluppando la distinzione tra i più intimi e i meno intimi, tra amici di primo e di secondo grado. Specialmente tra i protamici gli imperatori sceglievano i membri del consiglio privato e del consiglio di stato, e i compagni facenti parte del seguito in ogni viaggio e spedizione fuori d'Italia. Questi compagni, comites Augusti secondo il titolo ufficiale, sempre scelti nell'ordine senatorio, sebbene avessero una paga speciale, durante il viaggio alloggiavano ed erano accampati insieme con l'imperatore o nelle sue immediate vicinanze; essi avevano le funzioni di consiglieri o ricevevano l'incarico di sbrigare, a volta a volta, singoli affari di stato. Per solito gli amici più cari e più devoti erano quelli che dell'imperatore regnante erano stati compagni d'infanzia e di giovinezza, poiché, e anche qui scorgiamo un riflesso e un influsso delle corti regie ellenistiche, molti figli e figlie di nobilissime casate o di principi stranieri venivano chiamati a corte e ivi allevati coi principi imperiali.

S'intende di per sé che col sorgere e col progredire del principato si andò sviluppando un determinato cerimoniale di corte. L'imperatore aveva il diritto di comparire in pubblico sempre e ovunque, con la toga di magistrato orlata di porpora e, in occasione di pubbliche cerimonie, con la toga di porpora ricamata in oro. Caratteri distintivi del principe erano la corona d'alloro sul capo e la spada: lo scettro era portato soltanto nelle processioni trionfali. Quando lasciava Roma, i funzionarî di corte che non prendevano parte al viaggio e il Senato lo accompagnavano fin oltre le porte della città e ivi lo andavano ad attendere al ritorno. Grande importanza aveva il ricevimento mattutino a palazzo e non era senza pericolo l'esservi poco sollecito o, peggio ancora, l'astenersene; per gli amici di primo grado, era di regola il comparirvi ogni giorno. A corte si davano spesso pranzi ufficiali, ed era segno di particolare distinzione l'esservi invitati. Era di prammatica intervenirvi con la toga e con le insegne delle proprie funzioni; gli addetti al servizio vestivano una tunica bianca, o bianca con ricami d'oro. Data la grande frequenza di ambascerie che accorrevano a Roma dalle provincie per ottenere udienza dall'imperatore e data la frequenza di ricevimenti generali in occasione di feste, squadre numerose del personale di corte erano addette a mantenere l'ordine nell'interno del palazzo, a disciplinare le entrate e le uscite, ad annunciare e a introdurre coloro che erano ammessi alla presenza del sovrano.

Se al principio del sec. III la corte imperiale appare disciplinata da numerose regole assai precise e molto più complessa che non fosse stata durante il periodo del principato, sul principio del sec. IV la sua organizzazione subisce ancora un ulteriore notevole sviluppo. Con Costantino il potere imperiale andò assumendo un carattere sempre più assoluto e di diritto divino, e siffatta evoluzione non rimase senza effetto sulla corte e sul cerimoniale: splendore e ricchezza nell'abbigliamento, nel diadema, nella porpora; solennità e pompa nell'etichetta, magnificenza e fasto esteriore in tutto, sempre crescenti, fino a divenire a Costantinopoli sbalorditivi e, agli occhi di un occidentale, perfino ridicoli (ne sorrideva ironicamente Liutprando, vescovo di Cremona, inviato da Ottone come ambasciatore presso Niceforo Foca). Ogni funzionario dello stato era anche insignito d'un grado onorifico a corte e il rapporto tra funzioni e nobiltà aulica era rigorosamente regolato e inviolabile. Alcuni titoli di questa nobiltà amministrativa, per esempio conte o duca, sopravvivono nei titoli nobiliari moderni. L'organizzazione della reggia s'andò facendo sempre più composita, con successive modificazioni di titoli e di attribuzioni.

Dal principio del sec. III la casa militare per il servizio di onore e di guardia è costituita da un corpo di cavalieri detto dei protettori - protectores - dal quale già prima di Diocleziano s'era separato e distinto quello dei protectores domestici comprendente una sezione di fanteria. A partire da Costantino comparisce un nuovo corpo di guardia, la milizia palatina, scholae palatinae. La casa civile si divide in tre sezioni: cancelleria, protocollo, servizio di polizia, sotto la direzione generale del maestro degli uffici, ciascuna con un capo speciale, ma suddivisa e con numerosi applicati. L'immenso personale della corte comprende un'infinità di dignitarî, di funzionarî e di addetti: il titolo di curopalata fu dapprima riservato ai principi imperiali, ma questi furono poi designati con l'epiteto di Cesare o despota; seguivano i dignitarî, cui erano attribuiti i titoli di nobilissimo, sebaste, protosebaste, sebastocrator. Il comandante delle guardie (domestici, escubitori, spatarî) era capo della casa militare; il maestro degli uffici, capo della casa civile; il gran ciambellano (praepositus sacri cubiculi) sovrintendeva a tutto il palazzo; il primicerius sacri cubiculi agli appartamenti imperiali; alla guardaroba presiedeva il comes sacrae vestis; il maggiordomo portava il titolo di castrensis sacri cubiculi; gli addetti al gabinetto si nominavano a secretis, cartularii. L'imperatrice aveva intorno a sé le cubiculariae e le dame d'onore, patriciae zostae. Da queste alte cariche per numerosi gradi intermedî si scendeva fino agli uscieri, decuriones, silentiarii, fino agli stratores incaricati delle scuderie, e fino alle famose fazioni dei verdi e degli Azzurri divenute un'appendice decorativa della corte.

Il cerimoniale, assurto a grande importanza fin dai primi tempi del Basso Impero, divenne sempre più complicato con attribuzioni e prerogative specificate e assegnate in maniera minuziosissima; ogni piccolo atto, rigorosamente disciplinato, vi ebbe il valore di un simbolo. Chi abbia studiato le corti delle moderne monarchie occidentali sa quanti elementi e quanti più o meno notevoli riflessi e residui di quell'antica organizzazione siano sopravvissuti fino alla Rivoluzione francese, e anche dopo.

Bibl.: G. Lumbroso, Recherches sur l'économie politique de l'Égypte sous les Lagides, Torino 1876, pp. 189-211; G.F. Hertzberg, Geschichte des römischen Kaiserreiches, Berlino 1880, p. 38 seg.; Th. Mommsen, Manuel d'antiquités romaines (trad. Humbert), Parigi 1896, V, p. 279 seg.; É. Fairon, La "ratio castrensis" ou l'intendance du palais impérial, in Musée Belge, II (1898), pp. 241-266; III (1899), pp. 1-5; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, Berlino 1905, pp. 307-342; L. Bouché-Leclercq, Histoire des Lagides, Parigi 1906-07, III, pp. 101-22; id., Histoire des Seleucides, Parigi 1913, p. 474 seg.; M. Friedländer, Die Freunde und Begleiter der Kaiser, in Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, 9ª ed., Lipsia 1921, IV, pp. 56-76; F. Drexel, Zum kaiserlichen Hofzeremoniell, in Philologische Wochenschrift, 1926, p. 157 seg.; L. Homo, Les institutions politiques romaines: De la cité à l'état, Parigi 1927, p. 343 seg.; O. Walter, Zum Hofzeremoniell des Hellenismus, in 'Επιτύμβιον H. Svoboda, Reichenberg 1927, pp. 194-200; E. Bevan, A History of Egypt under the Ptolemaic Dynasty, Londra 1927, pp. 118-124; M. Strack, Griechische Titel im Ptolemärreich, in Rheinisches Museum, LV, pp. 161-190; H. Berve, Das Alexanderreich auf prosographischer Grundlagen, Monaco 1920, cap. III: Die Hoforganisation; P. Collomp, Recherches sur le Chancellerie et la Diplomatie des Lagides, Strasburgo 1926. Per il Basso Impero e l'Impero bizantino: Ch. Diehl, La civilisation byzantine, in Études byz., p. 114 seg.; N. Turchi, La civiltà bizantina, Torino 1915, p. 26 seg.; O. Seek, Geschichte des Unterganges der antiken Welt, 2ª ediz., Stoccarda 1921; II; Hof und Provinzen; J.E. Dunlop, The Office of the Grand Chamberlain in the later Roman and Byzantine Empires, in University of Michigan Studies, Humanistic series, XIV. New York 1924.

Medioevo ed Età moderna. - La corte nell'età barbarica. - Nell'età romano-barbarica la corte eredita e continua con contaminazioni germaniche i caratteri di quella dell'età costantiniana e postcostantiniana: vi è infatti la stessa confusione delle funzioni statali e dei servizî personali del re. Essa viene indicata con varî termini tutti di provenienza romana: palatium, sacrum o sanctum palatium, aula regia, palatina domus. Così quelli che ne fanno parte sono detti aulici, palatini; i personaggi più eminenti sono detti principes palatii o viri magnificentissimi o viri illustres. Ma le varie categorie restano indistinte: tutti sono servitori del re. Alle funzioni di origine romana si aggiunsero altre di origine germanica. Tra le varie corti vi è qualche differenza secondo la maggiore o minore complessità dell'organizzazione.

La corte di Odoȧcre è totalmente romana; caratteri romani pronunciati ha la corte ostrogota, nella quale troviamo il magister officiorum, il praefectus praetorio, il quaestor, il comes patrimonii, il comes sacrarum largitionum, ecc. Meno ricco di quello ostrogoto è il palatium visigoto, che però conserva in tutto il sec. VII alcune cariche romane caratteristiche: tutti i seniores palatini di Toledo conservano il titolo di comes (comes cubiculi, comes stabuli, comes patrimonii). Il palatium franco ha i cubicularii, i camerarii, il comes stabuli, il maiordomus e vicino al sinischalk, che governa i servi il marischalk, preposto alla scuderia. Poche persone ha il palazzo regio dei re longobardi: il marphais o maresciallo, lo stolesar o maggiordomo, il nesterarius o tesoriere, lo spatharius o portaspada, e poi alcuni referendarii e notarii, che rappresentano il vecchio servizio degli scrinia imperiali. Alla corte regia si è chiamati spesso sin da giovani, ricevendo una particolare educazione e istruzione, sì da potere utilmente servire il re.

Bibl.: Th. Mommsen, Ostgothische Studien, in Neues Archiv. d. Ges. f. ält. deutsche geschichtsh., XIV; Fustel de Coulanges, La monarchie franque, Parigi 1888; F. Dahn, Die Könige der Germanen, Lipsia e Wüzburg 1861 e segg.

La corte bizantina. - Notevolissimo fu l'influsso esercitato dalla corte sulla vita cittadina di Costantinopoli. In tutti i tempi la corte imperiale diede il tono alla vita esteriore e col suo lusso, con la magnificenza delle sue manifestazioni, costituì una delle attrattive principali di Costantinopoli. Come si è visto più sopra, nel sacro palazzo intorno all'imperatore c'era una corte numerosa, splendida: membri della famiglia imperiale investiti della dignità di Cesare o despota, capi dei servizî dello stato e dell'amministrazione del palazzo, che portarono diversi nomi nelle diverse epoche (curopalati, magistri officiorum, prepositi, parachimomeni), membri del senato: e poi la folla dei cubicularî, degli eunuchi, degli escubitori e delle guardie imperiali. Erano tutti ordinati in una rigida gerarchia secondo gli uffici e le dignità. Nell'etichetta di corte ogni loro atto, ogni movimento erano regolati minuziosamente.

Nulla può dare un'immagine più adeguata della monarchia bizantina e della vita di Costantinopoli nel Medioevo come la descrizione che di questa corte e delle sue cerimonie dà il libro di Costantino VII Porfirogenito intitolato appunto Delle Cerimonie. Esse avevano un carattere nello stesso tempo ieratico e civile, e si svolgevano con un lusso meraviglioso in cortei e processioni che dal palazzo andavano a S. Sofia, all'Ippodromo e, attraverso la Mese, nei principali santuarî della città. I mosaici dorati della reggia e delle chiese, le colonne e le statue delle vie e delle piazze erano una degna cornice a queste solenni manifestazioni. E gli inviati delle potenze straniere e i forestieri di ogni nazione che vi assistevano concepivano un alto concetto della dignità e della potenza dell'imperatore.

Bibl.: v. costantinopoli.

Le corti feudali e le corti del Rinascimento. - La storia delle corti dall'età feudale alla Rivoluzione francese ha un duplice interesse: dal punto di vista politico rappresenta la lenta evoluzione e la successiva intima dissoluzione della monarchia assoluta; dal punto di vista della storia della civiltà essa riassume come centro naturale tutto lo sviluppo culturale nei suoi varî aspetti (storia delle lettere e delle arti, del costume, ecc.).

Una vera e propria organizzazione della corte feudale nella sua più caratteristica fisionomia non comincia che col sec. XII e XIII per opera dei signori feudali della Francia meridionale e dell'Italia. Nella corte di Palermo uno dei sette grandi ufficiali di Sicilia, il gran siniscalco, sopraintendeva alla casa reale e intorno alla corte si riuniva il fior fiore dell'intellettualità del regno, senza alcun pregiudizio di religione e di casta. La monarchia normanna ha una sede normale stabile: Palermo; i signori feudali delle altre parti d'Italia e d'Europa vanno di castello in castello e alternano la sede dell'uno con quella dell'altro.

Le corti dell'Italia settentrionale e della Francia meridionale furono ospitali ai trovatori e molti signori furono anche poeti, come Tommaso II di Savoia. Al gusto della poesia si accompagnava in queste corti anche quello della musica. I principali divertimenti erano, inoltre, le quintane, i tornei, i caroselli, le giostre: vi furono principi che ebbero per il torneare una vera passione, come il Conte Verde e il Conte Rosso, e l'arte del torneare nel sec. XIV fu portata anche in oriente da cavalieri sabaudi. Un altro caratteristico divertimento erano i castelli d'amore, che si attaccavano con fiori, melarance e confetti e si difendevano con acque odorose e zuccherini. La caccia era la passione predominante di re e principi feudali e vi fu chi di essa, come Federico II, dissertò anche dottamente: si faceva, per lo più, a cavallo in comitiva. Si cacciava di preferenza col falcone, ma le dame usavano sparvieri e smerli. I principi tenevano banchetti luculliani - allietati dai motti dei giullari - e nei giorni solenni con la corona in testa tenevano corte bandita, cioè pranzavano in presenza del pubblico. I giochi degli scacchi o dei dadi ingannavano gli ozî della corte nelle serate.

Ma più vigorosamente che nelle corti feudali la vita fiorisce nelle corti del Rinascimento: la corte allora assomma in sé tutte le manifestazioni della vita dei popoli. "La cultura del Rinascimento e la vita informata a quella cultura raggiunge la perfezione - dice il Graf - appunto nelle corti, e l'uomo che più pienamente sa vivere quella vita è il cortigiano". Condizione essenziale per far parte delle corti è sempre nelle monarchie di origine feudale la nobiltà di sangue, ma specialmente e prima di tutte nelle corti italiane d'origine signorile, la cultura, la raffinatezza e l'eleganza dei modi e del vestire possono sostituire come doti essenziali la purezza del sangue. La corte diventa più numerosa nei cortigiani e nel personale della casa, pur senza giungere ancora a quelle cifre, cui giungeranno le monarchie di Spagna e di Francia nel Seicento. La corte di Urbino, per es., conta ben cinquecento persone.

Le corti hanno sede nelle città, e quindi i principi cominciano ad abbellirle, a regolarle secondo piani sistematici: esempio tipico Ferrara, una delle prime città organizzate secondo un piano regolare.

Il palazzo del principe viene ammobiliato con fine gusto e tutto l'insieme del mobilio presenta uno stile, un'armonica compenetrazione di tutte le sue parti. Tappeti, quadri, statue e arazzi finissimi adornano le sale dei palazzi principeschi: famosi gli arazzi delle corti estense e borgognona. Come la città moderna, così per le esigenze della corte sorge la villa principesca moderna con i suoi ombrosi giardini, le sue fontane zampillanti, i suoi affreschi: per es., le belle ville di Belriguardo, Belvedere e Montana degli Estensi. Uno dei primi requisiti del cortigiano era l'eleganza e lo sfarzo nel vestire: le dame portavano abiti di gran costo con fregi d'oro e d'argento e motti ricamati. La conoscenza delle norme e delle consuetudini cortigiane era anche una condizione essenziale, come dimostra il sorgere di opere quali quelle di Eleonora di Poitiers, del Castiglione, del Della Casa. Occorreva, infine, vasta e varia cultura, e le biblioteche di corte - ricchissima p. es. quella estense - contenevano non solo opere letterarie, ma anche filosofiche, scientifiche, sulla caccia, sulle armi, sugli scacchi, i dadi ecc.

I principali trattenimenti di corte erano la commedia, i concerti, i balli, spesso mascherati, i giuochi degli scacchi, dei tarocchi e varî giuochi di società allora inventati, come quello cosiddetto delle sorti; le cacce al falcone o anche al leopardo (i leopardi erano per lo più addomesticati e ammaestrati a Venezia); i tornei e i caroselli, sempre in voga specialmente nelle corti d'origine feudale. Nelle conversazioni, molto spigliate, erano apprezzati soprattutto la sottigliezza d'ingegno nelle questioni, specie d'amore che si trattavano, e i motti di spirito. Sorsero anzi dei veri e proprî professionisti del motteggiare: i buffoni. Coi buffoni, un'altra classe contribuiva a dare il tono alla vita gioconda delle corti del Rinascimento: i nani (v. Buffone).

Tutti i grandi avvenimenti di corte e le leggendarie origini delle dinastie erano cantate dai poeti e gli storiografi di corte narravano le gesta dei loro padroni con forma paludata. Nelle corti si tenevano banchetti colossali (v. Banchetto). La medicina, pure, prosperò all'ombra delle corti per la protezione che i sovrani, fin dall'epoca dei Normanni, diedero ai medici più celebrati, anche se ebrei o arabi. Curiosa caratteristica delle corti del Rinascimento è il prestigio che vi godono gli astrologi: i re, i principi, i cortigiani più spregiudicati credono loro ciecamente. Già nel sec. XIII Federico II aveva il suo astrologo Teodoro, ed Ezzelino da Romano Guido Bonatti e Paolo di Baghdād dalla lunga barba; nel Rinascimento l'uso si generalizzò. Le corti con città marittime o fluviali possedevano un'intera flottiglia col Bucintoro per andare a diporto.

Ma la vita di corte non trascorreva sempre lietamente: v'era anche il complicato gioco degl'intrighi con le alterne vicende di grazia e disgrazia dei cortigiani; v'erano i drammi intimi delle famiglie principesche che il riserbo dei principi, i mormorii maligni dei cortigiani e l'atmosfera romantico-cavalleresca della cultura rendevano suggestivamente misteriosi.

Una meravigliosa organizzazione regolava gli uffici di corte con una sapiente divisione di lavoro. Maestra di tutte in tal campo la corte di Borgogna, con la sua ripartizione in 4 estats: dei panetiers, dell'échanson, dell'escuyer trenchant e dell'escuyer d'escuyrie. Sul modello borgognone era in Italia organizzata la corte sabauda, divisa in tre classi di ufficiali: i maestri d'ostello, incaricati del governo della casa; i ciambellani, che sopraintendevano alla camera privata del sovrano, ai divertimenti e agli spettacoli; gli scudieri, che curavano le armi, le tende, le bandiere, l'educazione dei paggi, le scuderie. Alla testa delle tre classi vi erano rispettivamente il gran maestro dell'ostello, il primo maggiordomo e il grande scudiere, cariche tutte coperte e ambite dal fior fiore della nobiltà. Per la corrispondenza del re vi erano i segretarî e per l'amministrazione della casa i tesorieri. Spese eccessive facevano i principi per mantenere le corti, salvo i Savoia che erano in genere molto economi e sapevano spendere in opportune circostanze.

Bibl.: Per un quadro d'insieme: J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, 3ª ed., Firenze 1927; P. Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, Milano 1895-96, 2ª ed. Per una trattazione particolareggiata d'una corte: F. Malaguzzi-Valeri, La Corte di Lodovico il Moro, Milano 1913 e segg. Per la corte di Borgogna: O. De La Marche, Mémoires (Collection complète des Mémoires relatifs à l'histoire de France, ed., Petitot, X), Parigi 1820; O. Cartellieri, Am Hofe der Herzöge von Burgund, Basilea 1926. Per le feste: V. Promis, Feste alla corte di Savoia nel secolo XVII, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, pp. 186-204, 351-79. Per il lusso: A. Luzio e R. Renier, Il lusso d'Isabella d'Este, in N. Ant., giugno-ott. 1896. Per l'abbigliamento: Merkel, Tre corredi milanesi del Quatt., in Bull. de l'Ist. Stor., XIII. Per gli arazzi: G. Campori, L'arazzeria estense, in Atti e mem. della R. Dep. di st. patr. per le prov. parmensi e modenesi, s. 1ª, VIII; G. Bertoni, Poesie, leggende, costumanze del Medioevo, Modena 1927. Per le biblioteche: G. Bertoni, La Bibl. Estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I, Torino 1903. Per le residenze reali: G. Bertoni e P. Vicini, Il castello di Ferrara ai tempi di Niccolò III, Bologna 1907. Per la suppellettile: G. Pardi, La suppellettile dei castelli estensi, Ferrara 1908; A. Luzio, La Galleria Gonzaga venduta all'Inghilterra, Milano 1913; id., Contributo alla storia delle suppellettili del palazzo ducale di Mantova, in Atti Acc. Virg., 1914. Per la musica: L. J. Valdrighi, Cappelle, concerti e musiche di casa d'Este, in Atti e memorie della Dep. di st. patr. per le provincie modenesi e parmensi, s. 3ª, parte 2ª, pp. 415-94. Per gli astrologi: F. Gabotto, L'astrologia nel '400 in rapporto alla civiltà, Torino 1889; id., Nuove ricerche e documenti sull'astrologia alle corti degli Estensi e degli Sforza, Torino 1891. Per i buffoni: A. Bartoli, Buffoni di corte, in Fanfulla della Domenica, 1882; F. Gabotto, l'epopea del buffone, Bra 1892; A. Graf, Attraverso il Cinquecento, Torino 1916; A. Luzio e R. Renier, Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este, in N. Ant. ag.-sett. 1891; s. 3ª; V. Cian, Fra Serafino buffone, in Arch. stor. lombardo, XVIII (1891), pp. 406-14. Per i giuochi: G. Campori, Le carte da gioco dipinte per gli Estensi nel sec. XV, in Atti e memorie della Deputaz. di st. patr. per le prov. modenesi e parmensi, VII (1874), p. 123 segg.; L. Frati, Giochi e amori alla corte d'Isabella d'Este, in Arch. stor. lombardo, XXV (1898), pp. 350-65. Per i viaggi: L.A. Gandini, Viaggi, cavalli, bardature e stalle degli Estensi, in Atti e mem. della Dep. di st. patr. per le prov. di Romagna, 1892. Per usi e costumi in genere: L. A. Gandini, Usi e costumanze della Corte di Ferrara ai tempi di Niccolò III, in Atti e memorie della R. Deput. di st. patr. per la prov. di Romagna, s. 3ª, IX, p. 148 segg., e per i riflessi nella poesia cavalleresca G. Bertoni, Nuovi studi su M. M. Boiardo, Bologna 1914. Per l'educazione dei principi: L. Cibrario, Dei governatori, dei maestri e delle biblioteche dei principi di Savoia, Torino 1839. Per gli schiavi: A. Zanelli, Le schiave orientali in Firenze, Firenze 1885.

Le corti nei secoli XVII e XVIII. - Le corti del sec. XVII rappresentano il momento culminante, l'apoteosi dell'età dell'assolutismo; quelle del sec. XVIII ne esprimono, invece, lo stadio declinante per intima corrosione.

Le corti del Seicento derivano dalla fusione e diffusione degli usi e consuetudini della corte di Borgogna con gli usi e i costumi delle corti italiane del Rinascimento. Dalla prima le corti di Spagna e di Francia ereditarono, perfezionarono e sistemarono la tendenza a rappresentare superbamente la sovranità, il rigido e meticoloso cerimoniale, lo sfarzo nelle vesti. Dalle corti d'Italia vennero alla Francia lo splendido mecenatismo, l'intima connessione della vita di corte con la vita artistica, le maniere raffinate ed eleganti, il gusto per la causerie vivace e arguta. Ma nella corte di Borgogna si rivelava evidente lo sforzo del sovrano feudale di elevarsi dalla sua posizione di primus inter pares a quella di signore assoluto: nelle corti di Spagna e di Francia del Seicento questo sforzo è divenuto una realtà che nessuno osa più negare. Nell'assenza di norme fisse, nel libero conversare e motteggiare col proprio signore e in molte altre usanze si rivelano nella corte italiana del Rinascimento l'origine popolare e borghese e il libero moto dello spirito. Nel Seicento, invece, il sovrano si stacca decisamente dalla massa della corte e si eleva su di essa come un nume che bisogna adorare. In questo culto del re nella corte la monarchia assoluta esprime la sua fisionomia originale, che non è più quella d'un signore vincolato da patti feudali o eletto da assemblee, ma è quella di un monarca sacro, intangibile, il cui potere deriva direttamente da Dio e le cui origini dinastiche si perdono nelle più lontane leggende.

A rendere questo culto era chiamata tutta la nazione e in principal modo la nobiltà, che, vivendo nel palazzo reale o nei dintorni del palazzo reale, venne a costituire la corte. Nel Cinquecento non v'era obbligo di andare a corte e Filippo II preferiva vivere nell'Escuriale solo coi suoi monaci e i suoi morti. Più frequentata da nobili e da dame, ma liberamente frequentata, era la corte di Francia. Al principio del Seicento, invece, Filippo III di Spagna chiamò i nobili alla corte, che si andò rapidamente affollando. Più lenta invece fu la formazione della corte francese: ci volle più di mezzo secolo per trasformare i rozzi compagni d'arme di Enrico IV e i cortigiani audaci e impertinenti di Luigi XIII nel cortigiano di Luigi XIV e per rendere obbligatoria la frequenza a corte. Luigi XIV non concedeva onori e impieghi se non a chi gli faceva la corte. Si venne così a formare una società in miniatura, che aveva bisogno d'un codice e d'un personale che la regolasse. Le norme rigide del cerimoniale consistevano in consuetudini viventi nell'uso, o conservate scritte nella sezione cerimoniale degli archivî regi e compulsate con cura allorché si presentassero casi dubbî.

Il personale di casa reale, secondo il costume borgognone, era suddiviso in varî dipartimenti con funzioni prestabilite, e alla testa di ogni dipartimento v'era un ufficiale con l'appellativo preposto grande in Francia (gran maestro di Francia, gran ciambellano, grande elemosiniere, gran cacciatore ecc.) o posposto maggiore in Spagna (maggiordomo maggiore, cappellano maggiore, dispensiere maggiore, cameriera maggiore). Il principale dovere della corte era innanzi tutto riverire il sovrano e assistere alla sua levata, ai suoi pasti, alle sue passeggiate, al suo coricarsi. Seguiva quello di onorare Dio: ogni giorno il re con la corte ascoltava la messa. Spesso gli oratori sacri più celebrati (Bossuet, Bourdaloue, Massillon) tenevano dinanzi alla corte i loro elogi funebri e le loro prediche, nelle quali i più ferventi di fede si spingevano perfino ad attaccare abbastanza chiaramente i cattivi costumi della corte. Pittori, scultori, architetti tra i più valenti venivano stipendiati dal re e lavoravano per la corte. I poeti ne cantavano gli avvenimenti solenni, gli storiografi narravano le gesta del sovrano o dei suoi avi. Ai suoi ospiti il re prodigava tutti i divertimenti del tempo. Tre sere alla settimana si recitava commedia o tragedia o melodramma nella corte di Francia. Alla corte si rivelarono Corneille, Racine, Molière e nelle corti nacque e prosperò il melodramma. Oltre al teatro, i divertimenti di corte erano il giuoco, i balli e i balletti, talvolta mascherati, talvolta allegorici; le cacce, che furono una vera passione di monarchi e cortigiani e dapprima erano fatte con preferenza al falcone (Filippo III), poi con lo schioppo. Quando il re si moveva dalla sua residenza abituale verso un altro dei suoi siti, si portava dietro tutta o quasi tutta la corte in lussuose carrozze, alcune delle quali erano vere precorritrici delle nostre carozze-letto e offrivano tutte le comodità desiderabili.

Infine, quando non si faceva altro, si conversava e si conversava molto, specie alla corte di Francia: avvenimenti del giorno, intrighi, pettegolezzi, bons mots, boutades, arguzie. Dava il tono alla causerie la regina o più spesso l'amante del re. Il prevalere della regina o dell'amante dipendeva dall'esprit di cui esse erano dotate: Enrichetta d'Inghilterra, la Montespan, la Pompadour, furono le vere regine della corte di Francia, ma quando la regina aveva dell'esprit, come Maria Antonietta, allora era lei a dominare.

La corte era insomma una grandiosa e continua rappresentazione, che rivelava all'estero e all'interno la potenza del monarca. E il rigore con cui si faceva valere il cerimoniale all'estero e all'interno era il punto d'onore della monarchia. Gli ambasciatori stranieri assistevano a tutta la vita di corte e il re, specie Luigi XIV, si compiaceva di riceverli in udienza pubblica in mezzo alla corte. Anche le umiliazioni dei potentati stranieri, come quelle del doge di Genova e del re di Spagna per l'affare delle carrozze, furono fatte dal re Sole in presenza della corte. Il popolo vedeva il re nelle grandi occasioni. Dapprima era ammesso anche nei viali di Versailles, ma poi ne fu escluso.

Nel mantenimento di una corte numerosa la monarchia faceva spese enormi. Già il Botero notava come eccessive fossero tali spese, e tale osservazione venne più volte ripetuta, finché divenne coscienza generale nel sec. XVIII e ci spiega come in Francia un semplice problema tecnico finanziario abbia potuto dare occasione alla più grande rivoluzione che ricordi la storia. Nella vita della corte, perduta nell'adorazione d'un uomo, si andava a poco a poco annientando il senso della dignità umana, in cui nome protestò l'antico orgoglio nobiliare per bocca del Saint-Simon. E contro la corte, che col suo velo dorato impediva al re di vedere la nazione, si scagliava Fénélon.

Ma la corte si dissolveva intimamente da sé nel corso nel secolo XVIII, grazie all'azione dell'esprit filosofico. Un'estrema libertà di linguaggio e di critica caratterizza la vita di corte nel sec. XVIII, libertà che, mentre permette alla conversazione di toccare un grado di amabilità, di piacevolezza, di brio mai raggiunto, distrugge pure con l'arma terribile del ridicolo quelle idee, quelle usanze, quelle cerimonie, sulle quali poggiava il prestigio della monarchia assoluta. Nei salotti della corte si criticavano liberamente gli atti del governo, e nei petits soupers i cortigiani motteggiavano lo stesso re Luigi XV, che non se ne offendeva. D'altro canto la passione del giuoco, degenerata in quella del giuoco d'azzardo, introduceva nella corte una quantità di avventurieri che ne inquinavano la vita. Il re Luigi XV cercava di sveltire Versailles e toglierle quell'aria grave che le aveva data Luigi XIV. Maria Antonietta amava frequentare in incognito i balli mascherati all'Opéra. In tal modo la regalità declinava e perdeva quel prestigio che le avevano dato Luigi XIV e i superbi monarchi spagnuoli. L'anglomania, poi, che aveva invaso la corte di Francia con le sue mode, con le sue carrozze, coi suoi giardini, col suo gusto per le corse e per il tè, presentava anche ai cortigiani un ideale di governo ben diverso da quello dei loro avi. Gli abati - tipo caratteristico l'italiano Galiani - si burlavano per i primi della religione e que connubio tra religione e politica, che aveva caratterizzato l'inizio della vita di corte finì con lo sfasciarsi.

La Rivoluzione francese spazzò via le corti. Napoleone I tutto poté fare, salvo ricostruire la vita di corte, che risultò sotto di lui un bizzarro amalgama di vecchio e di nuovo regime, governato dalla più opprimente delle etichette. Né molto più felici si fu dopo la restaurazione. Soltanto Napoleone III riuscì, in pieno secolo XIX, a far rivivere in parte la brillante corte delle vecchie monarchie assolute europee.

Si sono tenute presenti sin qui specialmente le corti di Francia e di Spagna. Le corti italiane continuano nel Seicento le tradizioni gloriose del Rinascimento, ma risentono molto nelle più rigide norme cortigiane dell'influsso del cerimoniale della corte spagnola, specialmente la corte sabauda che derivava come la spagnola da quella borgognona. Tuttavia vi era in Italia, specie nelle corti di Toscana e di Mantova, un buon gusto e una finezza di tratto nei principi, che contrastava con l'alterigia da semidio dei sovrani d'oltre Alpe. Nel sec. XVIII, invece, le corti italiane subirono l'influsso francese, in particolar modo le corti di Napoli e di Parma, nella moda, nel costume, nel linguaggio che comunemente si parlava, nella creazione di Versailles italiane (Caserta, Colorno). Le corti tedesche a poco a poco entrarono nell'orbita del costume francese dopo le guerre di Luigi XIV e più d'un principotto tedesco si rovinò per imitare il Re Sole, ma, tranne la corte di Weimar, quella di Vienna e quella di Berlino per certi aspetti, esse non riuscirono a realizzare quell'ideale di vita brillante, implicito nella corte dell'assolutismo. La corte inglese ebbe il suo momento culminante ai tempi di Carlo II, ma divenne grigia e monotona dopo la rivoluzione del 1688, allorché gl'Inglesi reputarono più utile affollare le anticamere dei ministri. Nella corte russa usi e costumi europei furono introdotti da Pietro il Grande, ma non trionfarono che con Caterina II e furono sempre commisti con quel sensualismo grossolano e quell'atmosfera da congiure di palazzo, che caratterizzano le corti orientali e sembrano un'eredità della corte bizantina.

V. tavv. CV-CVIII.

Bibl.: Per le corti italiane del Rinascimento e per quella borgognona v. sopra. Per la corte di Spagna, Barozzi e Berchet, Relazioni degli ambasciatori veneti nel sec. XVII; contessa d'Aulnoy, Mémoires de la cour d'Espagne, Parigi 1690; id., La cour et la ville de Madrid vers la fin du XVIIe siècle, Parigi 1874; E. Rousseeuw Saint-Hilaire, La corte de España en el reinado de Carlos II, in Revista Histórica Latina, Madrid I (1874), nn. 6 e 8; M. Hume, Court of Philipp IV. Spain in decadence, New York 1907; N. Alonso Cortés, La corte de Felipe II en Valladolid, Valladolid 1908; G. Maura Gamazo, Carlos II y su corte, Madrid 1911; J. Agápito y Revilla, Últimas gestiones de Valladolid para el traslado de la corte, in Boletín de la Sociedad Española de Excursiones, XXXI (1923), pp. 260-80; Per la corte di Francia: Barozzi e Berchet, op. cit.; i Mémoires e gli epistolarî del tempo, sui quali E. Bourgeois e L. André, Les sources de l'histoire de France, XVIIe siècle, II, Parigi 1913; per Versailles e le amanti del re, v. le voci corrispondenti; per trattazioni d'insieme della vita di corte: A. Franklin, La civilté, l'étiquette, la mode, le bon ton du XIIIe au XIXe siècle, Parigi 1908, II, pp. 141-178; L. Batiffol, La vie de la cour au Louvre sous Henry IV e Louis XIII, Parigi 1930; M.me Saint-René Taillandier, Le Grand Roi et sa cour, Parigi [1930]; M.me Saint-René Taillandier, Le Grand Roi et sa cour, Parigi [1930]; Ch. De Nolhac, M.me Pompadour et la cour de France, nuova ed., Parigi 1930; G. Maugras, La fin d'une société. Le duc de Lauzun et la cour intime de Louis XV, Parigi 1893; id., La fin d'une société. Le duc de Lauzun et la cour de Marie Antoinette, Parigi 1895. Per la corte di Napoleone I: L. Madelin, La France de l'Empire, Parigi 1928; per quella di Napoleone III: J. Bac, La cour brillante du Second Empire, Parigi 1930. Per le corti italiane: A. Solerti, Musica, poesia e melodramma alla Corte dei Medici, Firenze 1905; G. Imbert, Seicento fiorentino, Milano 1930; G. Gorani, Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernements et des moeurs des principaux états de l'Italie, voll. 3, Parigi 1793. Per la corte di Federico II: G. Maugras, Trois mois à la cour de Frédéric, Parigi 1886 (da lettere del d'Alembert). Per la corte di Caterina II: Sabatier de Cabres, Catherine II, sa cour et la Russie en 1772, Berlino 1862 (è un rapporto dell'agente del re di Francia).

La corte nell'epoca contemporanea. - Oggi l'espressione di corte, o più precisamente corte reale, è indifferentemente usata per indicare il palazzo del sovrano, l'insieme dei personaggi che lo circondano, e anche, nei rapporti di politica estera, il governo dello stato. Peraltro nel suo significato proprio e primo la corte è la rappresentanza esteriore della monarchia, ossia l'insieme delle alte cariche che circondano il sovrano e la famiglia reale e alle quali è specialmente commessa l'osservanza del cerimoniale. A capo di queste cariche stanno funzionarî di cui alcuni hanno impiego esclusivamente onorifico, altri retribuito sulla lista civile. Nelle cessate dinastie tedesche tali cariche erano ereditarie.

La corte della casa regnante italiana. - Il Re ha la casa civile e quella militare. La prima è composta di tre alte cariche di corte: ministro, prefetto di palazzo, e primo aiutante di campo; e dei funzionarî di corte: grande scudiero, gran cacciatore, segretario generale presso il ministero, primo mastro delle cerimonie di corte, mastri delle cerimonie di corte, e il medico del re. D'altra parte, fanno parte della casa militare il primo aiutante di campo generale, due aiutanti di campo generali e cinque aiutanti di campo.

La regina ha una corte composta di sette dame di corte effettive e quattro onorarie; cinque gentiluomini di corte effettivi e due onorarî e ventuno gentiluomini di palazzo, più le dame di palazzo che fanno servizio nelle varie città, e precisamente: 17 per Roma, 6 per Torino, 8 per Milano, 5 per Venezia, 5 per Genova, 4 per Firenze, 5 per Napoli, 5 per Palermo e 3 per Catania.

I principi e le principesse hanno anch'essi le rispettive case e corti. Il principe di Piemonte ha un primo aiutante di campo (generale di divisione), quattro ufficiali di ordinanza effettivi e cinque onorarî. La corte della principessa di Piemonte si compone di quattro dame di palazzo e quattro gentiluomini di palazzo.

Per gli altri principi e principesse si ha: 1. Casa ducale di Savoia-Aosta. Per il duca d'Aosta: un primo aiutante di campo, due ufficiali di ordinanza, cinque aiutanti di campo onorarî, e un ufficiale d'ordinanza onorario. Per la duchessa d'Aosta: tre dame di palazzo effettive e due onorarie, tre gentiluomini di corte effettivi e quattro onorarî. Per il duca della Puglie: un aiutante di campo. Per la duchessa delle Puglie: due dame di palazzo, due gentiluomini di corte effettivi e uno onorario. Per il duca di Spoleto: un ufficiale addetto alla persona. Per il conte di Torino: un aiutante di campo effettivo e uno onorario. Per il duca degli Abruzzi: un ufficiale a disposizione. 2. Casa ducale di Savoia-Genova. Per il duca di Genova: un primo aiutante di campo, un aiutante di campo, un primo aiutante di campo onorario, nove aiutanti di campo onorarî e tre ufficiali d'ordinanza onorarî. Il duca di Pistoia ha un aiutante di campo e un ufficiale d'ordinanza. La duchessa di Pistoia ha due dame di palazzo e due gentiluomini di corte. Il duca di Bergamo e il duca di Ancona hanno ciascuno un ufficiale addetto dlla loro persona. La principessa Maria Adelaide ha una dama.

Bibl.: V. Pizzi, Precedenze a corte. Famiglia Reale, Cerimoniale, Roma 1928-29.

La corte pontificia. - È l'insieme delle persone ecclesiastiche e secolari addette effettivamente o per onore al servizio domestico del papa e ai differenti uffici del palazzo apostolico. È detta anche "famiglia pontificia" e, nel linguaggio ufficiale, "Famiglia della Santità di Nostro Signore". Il più antico documento storico dell'esistenza di una vera e propria corte papale nel senso sopra esposto (una certa organizzazione si dové avere anche in tempo più remoto) è un Ordo romanus del 590 in cui sono elencati i più importanti servizî coi titoli dei funzionarî e degli addetti, che vanno dal maggiordomo (primicerius) al prior stabuli, soprintendente delle scuderie pontificie.

La corte papale raggiunse il suo massimo splendore durante la dimora dei papi in Avignone (1306-1376), dando luogo ad abusi energicamente repressi da Innocenzo VI, che rinviò alle proprie diocesi i vescovi e prelati in cura d'anime. Da tempo immemorabile il personale dei palazzi apostolici era sotto l'alta direzione del Magister sacri hospitii, che era un laico. Martino V (1417-1431) soppresse questa carica, sostituendola con la prefettura del sacro palazzo apostolico, affidata a un ecclesiastico, che sotto Urbano VIII prese il nome di maggiordomo.

La corte pontificia seguiva il papa quando egli doveva v-aggiare; specialmente nei viaggi per l'Italia, il pontefice era spesso accompagnato da un seguito numerosissimo, costituito da mille e più persone, alle quali si aggiungevano talora gli ambasciatori delle potenze amiche con le rispettive famiglie.

Ecco lo stato attuale della corte pontificia. Vengono in prima linea i cardinali e prelati palatini, così detti perché una volta avevano diritto all'abitazione nel palazzo apostolica. I cardinali prima erano quattro, oggi sono due, cioè il cardinale datario, o prefetto della Dataria apostolica, e il cardinale segretario di stato, che sono le due più alte dignità della famiglia Pontificia.

Segue la Nobile Anticamera segreta, costituita dai quattro prelati palatini, da non confondersi coi prelati di .fiocchetti, che appartengono propriamente alla cappella pontificia.

Sono prelati palatini il maggiordomo di sua Santità (Praefectus Palatii Ap.), il maestro di camera (Praefectus cubiculi secreti), l'uditore di S. S. e il maestro dei sacri palazzi apostolici.

Fanno pure parte della famiglia pontificia: 1. i camerieri segreti, distinti in partecipanti e soprannumerarî; i primi in numero di nove, fra cui l'elemosiniere segreto, il segretario dei brevi ai principi, il segretario delle lettere latine e il parroco dei sacri palazzi apostolici, o sacrista di S. S., che è un arcivescovo titolare dell'ordine di S. Agostino; essi risiedono in Vaticano, tranne il reggente della Dataria; 2. i prelati domestici (Antistites urbani) del qual titolo sono insigniti de iure gli arcivescovi e vescovi assistenti al Soglio, come pure i protonotari apostolici (suddivisi in partecipanti, soprannumerarî e ad instar) che fanno parte della cappella pontificia, nonché i membri dei collegi della prelatura, che lo ottennero prima della promozione; 3. i maestri delle cerimonie pontificie, costituiti in collegio di otto membri, con a capo un prefetto; 4. i camerieri d'onore in abito paonazzo; 5. i cappellani segreti, distinti in cappellani segreti di numero (quattro residenti a Roma) e d'onore "extra urbem" 6. i chierici segreti (due); 7. i cappellani comuni, costituiti in collegio; di cui sette partecipanti e 12 soprannumerarî. Chiude la serie degli ecclesiastici che fanno parte della corte romana il predicatore apostolico (un cappuccino), il confessore della famiglia (un servo di Maria) e il sottosacrista dei sacri palazzi apostolici (un agostiniano).

I prelati domestici, i camerieri segreti soprannumerarî e i cappellani d'onore extra urbem si contano a centinaia, sparsi in tutte le diocesi del mondo. La loro nomina è riservata al pontefice, alla cui morte cessano dall'ufficio, ma vengono regolarmente confermati dal successore. I nomi di questi ecclesiastici sono pubblicati ogni anno nell'Annuario Pontificio che aggiunge anche la data della loro nomina, di cui si tien conto nelle questioni di precedenza.

Oltre agli ecclesiastici, appartengono alla famiglia pontificia numerosi laici con uffici in gran parte corrispondenti a quelli in vigore nelle corti dei sovrani, specialmente nei tempi anteriori alla Rivoluzione francese. Risale a quei tempi la magnificenza della corte romana, spesso esagerata dai luterani, dai calvinisti e in generale dagli avversarî della Sede apostolica, con la quale usavano confonderla per artificio polemico. Da Pio VI in poi i servizî laici della corte papale furono notevolmente ridotti, pur conservando nei quadri e nelle linee generali l'antico splendore.

Le principali cariche di corte, tuttora ereditarie nelle nobili famiglie romane, sono: il gran maestro del S. Ospizio (principi Ruspoli); il foriere maggiore, che si occupa dell'amministrazione domestica, del mobilio e delle riparazioni dei sacri palazzi (marchesi Sacchetti); il cavallerizzo maggiore, che si occupa - o meglio si occupava - dei cavalli e delle scuderie pontificie, sostituite dalle automobili e relative rimesse (marchesi Serlupi); il sopraintendente generale alle poste (principi Massimo). I titolari di queste tre ultime cariche, come pure il comandante, i tenenti e gli esenti delle guardie nobili e il colonnello della guardia svizzera, sono di diritto camerieri segreti di cappa e spada partecipanti.

Il titolo di cameriere segreto di spada e cappa (cubicularii intimi ab ense et lacerna) costituisce un'onorificenza pontificia delle più ambite. Ve ne sono quattro di numero; gli altri, soprannumerarî, appartengono ad ogni nazionalità e prestano servizio per turno nella Nobile Anticamera pontificia.

Vi sono poi i camerieri d'onore (cubicularii honoris) di spada e cappa, cìnque di numero, gli altri soprannumerarî.

Completano la serie dei dignitarî laici il medico, l'aiutante di camera, il decano e lo scalco segreto, che aveva l'ufficio di vigilare alla mensa del pontefice ed era spesso incaricato delle spese private del pontefice: ufficio divenuto da tempo poco più che nominale.

I bussolanti sono camerieri laici alla guardia della bussola di Damasco (così detta dalla stoffa rossa che la ricopre) che sta alla porta dell'anticamera precedente quella delle guardie nobili. Essi ricevono le persone ammesse all'udienza pontificia e le introducono dal cameriere d'onore di servizio; portano la sedia gestatoria e hanno altri incarichi affini all'ufficio di corrieri. Ve ne sono 12 partecipanti; i soprannumerarî sostituiscono per anzianità i partecipanti che cessano dal servizio.

La corte romana ha avuto quasi sempre i suoi corpi armati, che sono tre (senza contare le guardie nobili pontificie, che formano una categoria a parte): la guardia svizzera, la guardia palatina d'onore e la gendarmeria pontificia (v. vaticano, città del).

Bibl.: F. Tantouche, Traité de tout ce qui s'observe dans la cour de Rome, Parigi 1623; A. Cornaro, Relazione della corte di Roma, Leida 1663; J. Aymon, Tableau de la cour de Rome, L'Aia 1707; G. M. Allegri, Lo spirito delle corti di Roma, Napoli 1725; G. Lunadoro, Relazione della corte di Roma, Bracciano 1641, Roma 1830; Nodot, Relation de la cour de Rome, Parigi 1701; R. A. De Vertot, Origine de la grandeur de la cour de Rome, Losanna 1745; J.H. Bangen, Die römische Curie, ihre gegenwärtige Zusammensetzung undihr Geschäftsgang, Münster 1854. V. anche G. Moroni, Dizionario di erudizione ecclesiastica alle voci Corte romana e Famiglia Pontificia; T. Ortolan, in Dictionnaire de théologie catholique, III, ii, s. v. Cour romaine, Parigi 1923.

La Corte di cassazione.

Storia. - Roma. - La ricerca delle origini dell'istituto della cassazione nelle fonti romane non ha mai dato risultati positivi. Anche a sintesi rapidissime poco giova scorrere i varî periodi dell'ordinamento processuale romano per trovarvi qualche particolare atteggiamento di istituto, che abbia analogie col moderno. Forse può essere utile ricordare soltanto le più notevoli tra queste analogie nell'intento di dimostrare la fallacia della loro pretesa derivazione dottrinale dalle fonti. Esse appaiono la logica conseguenza della formazione nel mondo romano di condizioni politiche non dissimili da quelle prodottesi nel sec. XVIII in Francia, culla della cassazione. Da ciò non analogia come rapporto storico, ma semplice rassomiglianza formale.

È risaputo che originariamente la sentenza romana era pronunziata in prima e ultima istanza (unus iudex), giacché al senso politico di Roma ciò che più premeva era che il litigio fosse presto definito. Nel diritto repubblicano, durante il procedimento delle legis actiones, mancò ogni mezzo d'impugnare una sentenza. Concetto logico, quando si pensi che il giudice teoricamente era il popolo. Vi erano però sentenze nulle (intendendosi la parola nullità come equivalente a inesistenza) per mancanza di presupposti processuali, quali il potere del giudice o la capacità delle parti; ma sentenze annullabili, nel significato moderno, non erano conosciute. Più tardi si cominciò ad ammettere che potevano esservi sentenze viziate da errori che ne toglievano l'efficacia giuridica. Gli errori dovevano essere di diritto e non di fatto. Casi celebri che possono interessarci sono due. Nel primo caso il giureconsulto Macro (Dig., XLIX, 8, quae sententiae sine appellatione rescindantur) esamina l'ipotesi di un cittadino che chiede di essere dispensato dall'ufficio di tutela, affermando aver raggiunto l'età, essere padre di tanti figli e avere uffici che gli consentono di declinare quello della tutela. Il giudice, in tale ipotesi, deve decidere la questione prima in iure e vedere, cioè, se vi sia una legge che esoneri dall'ufficio di tutore chi abbia raggiunto la tale età o abbia il tal numero di figli o le tali cariche, e poi deve giudicare in facto se il reclamante si trovi in una delle condizioni chieste dalla legge per l'esonero. Nell'altro caso, l'imperatore Alessandro (Cod., VII, 64, quando provocare non est necesse, 2) esamina la validità del testamento, impugnato dall'erede legittimo, il quale afferma che il testatore non aveva capacità di testare, essendo morto prima dei quattordici anni. Il giudice deve prima esaminare se sussista una legge, che neghi la capacità di testare al minore di quattordici anni (giudizio in iure) e poi accertare, se la legge esiste, la circostanza che il testatore sia morto prima dell'età legale (giudizio in facto). A questa distinzione corrispondeva una diversa facoltà del giudice, così indicata da Papiniano: facti queadam quaestio sit in potestatem iudicantium, iuris tamen auctoritas non sit. Da ciò derivò un importante principio, quello cioè che fosse più grave l'errore in diritto che quello in fatto e che le sentenze fossero nulle quando l'errore che contenevano fosse contra ius constitutionis, mentre l'altro, essendo contra ius litigatoris, non ne produceva la nullità. In questo sistema giudiziario romano i fautori della moderna cassazione hanno scorto un accenno a questo istituto. Ma il sistema diventa più interessante quando lo si voglia spiegare (Kohler) come una misura politica suggerita agl'imperatori dal bisogno di difendere il diritto imperiale romano contro la resistenza dei diritti locali, che, specie nelle provincie lontane, tentavano di sopraffarlo, e salvaguardare così l'unità della legge.

Di questa opposizione fra il diritto centrale e quello locale si hanno prove sicure. Si sarebbero, quindi, verificate duemila anni prima quelle stesse condizioni politiche, che in Francia determinarono la lotta fra il re e i parlamenti per annullare le decisioni giudiziarie che disconoscevano il diritto regio e provocarono la costituzione del Conseil des parties, immediata origine del Tribunal de cassation. Ma è subito da avvertire che una grande differenza corre tra i due istituti giudiziarî, giacché in quello romano le sentenze contra ius constitutionis erano nulle, cioè inesistenti, mentre nel diritto giudiziario francese erano semplicemente annullabili (Calamandrei).

Col diritto imperiale l'amministrazione della giustizia si trasformò radicalmente e alle antiche magistrature repubblicane fu sostituita una complessa gerarchia di funzionarî. La giustizia non fu più funzione del popolo, ma ufficio dei funzionarî. Allora sorse spontaneo il ricorso al funzionario superiore contro la sentenza di quello inferiore, e all'intercessio, che fino allora aveva avuto luogo, specie da parte dei tribuni della plebe contro la decisione del privatus iudex, si sostituì l'appellatio. Il giudice d'appello giudicava ex novo la causa e correggeva, se del caso, la prima decisione anche nel merito. Si ebbe così una terza categoria di sentenze, oltre a quella valida o inesistente: la sentenza appellabile. Essendosi poi man mano accumulati tutti i poteri pubblici nella persona dell'imperatore, questi fu considerato il giudice supremo, che delegava a una gerarchia ben ordinata di giudici i poteri giurisdizionali. Il passaggio dell'amministrazione della giustizia dal popolo al potere imperiale fu agevolato dalle cognitiones extra ordinem. Dal nostro punto di vista, giova ricordare che l'accentramento della giurisdizione nelle mani dell'imperatore favoriva l'uniforme applicazione del diritto e Giustiniano, geloso della sua opera di codificazione, poté decretare: leges interpretari solum dignum imperio esse oportet (Cod., I, 14 de legibus, 12,3). Sì è notato che lo stesso accentramento giovò all'uniformità giurisprudenziale; ma è più esatto ritenere che a Roma non si desse molta importanza ai precedenti giurisprudenziali. Non exemplis sed legibus iudicandum est (Cod., VII, 45, de sint. et int., 13). In questa epoca imperiale, tuttavia, i rescripta principis, decidendo i casi dubbî di giurisprudenza, che erano sottoposti dal giudice all'imperatore, esercitavano un potere unificatore della giurisprudenza, sia per l'autorità della decisione, sia per i principî di diritto che questa poteva contenere. Servivano poi a reprimere le accennate ribellioni di diritti locali al diritto centrale. Qualche volta il rescriptum agisce come oggi la cassazione, togliendo cioè di mezzo la sentenza errata senza decidere il merito della controversia, che rinvia ad altro giudice; nella maggior parte dei casi però essa reca anche la nuova decisione. Quando, infine, le funzioni giudiziarie dell'imperatore furono confidate al Praefectus praetorio, la supplicatio diretta all'imperatore contro le sentenze di questo alto magistrato non differiva dall'appellatio. Si cerca invano una analogia col nostro ricorso in cassazione.

Medioevo ed età moderna. - Con le invasioni barbariche l'ordinamento del processo civile, per quanto concerne i gravami giudiziarî, ebbe notevoli modificazioni. Per una lontana relazione che ha col nostro tema, va ricordato che l'istituto della Urteilsschelte, comune a molti gruppi di diritti germanici e in onore presso i popoli invasori d'Italia, era il modo come prevenire una sentenza ingiusta, e non un gravame per riformarla. Il giudice era costituito dall'assemblea dei rachimburgi e poi degli scabini, presieduta dal rappresentante del potere sovrano, e teneva sedute presente il popolo; ciascuno dei presenti, compresi i litiganti, come membri della collettività giudicante, poteva contraddire l'opinamento dei giudici, finché questo non era accolto dal presidente. Si trattava di una impugnativa che precedeva la decisione e mirava a darle un contenuto più giusto. Non sembra quindi fondato il rapporto che scrittori tedeschi hanno voluto scorgere tra l'Urteilsschelte e la Revision e indirettamente, quindi, con la cassazione. È da notare, inoltre, che in questo periodo storico del processo germanico non esisteva legge scritta e i giudici erano anche legislatori, deducendo dalle consuetudini e dalla loro coscienza la norma da applicare. La sentenza equivaleva a una norma di legge. La disapprovazione della sentenza, dal punto di vista formale, non esisteva.

In Italia il processo giudiziario barbarico si amalgamò con quello romano. Tale fusione appare più o meno manifesta nelle leggi del gruppo franco (Lex Salica e Ripuaria); ma nell'Edictum Theodorici, nella Lex Romana Burgundionum, nella Lex Romana Visigothorum vigono i principi del diritto romano.

Nel diritto longobardo il mutato ordinamento dell'amministrazione della giustizia ammise il ricorso al re contro le sentenze ingiuste. Ve ne è traccia nell'Editto di Rotari e nelle leggi di Liutprando. Il rimedio ha il carattere di un attacco al giudice per il contenuto della sentenza, tanto che il sovrano nell'accogliere o nel rigettare il ricorso condannava rispettivamente il giudice o il reclamante temerario a pena pecuniaria. La sentenza è annullata per la sua ingiustizia, non mai per errore nel processo di formazione.

Italia. - La rinascita dello studio del diritto romano rinnovò, specie nel diritto statutario italiano, l'ordinamento processuale, facendo rivivere il principio dell'annullabilità delle sentenze per errores in procedendo. Ebbe così origine la querela nullitatis, ignota al diritto romano e al germanico, ma fusione di entrambi, giacché dal primo ritraeva la possibilità del gravame, dall'altro l'esistenza formale della sentenza in mancanza di gravame. I primi statuti che l'accolgono sono del sec. XII; in quelli del sec. XIV la querela nullitatis raggiunge il massimo svolgimento. La querela porta la causa al giudice superiore, che pronunzia un semplice iudicium rescindens, sempre quando si tratti di errores in procedendo, e rinvia la causa ad altro giudice. In ciò la querela nullitatis si differenzia dall'appellatio, per la quale il giudice conosceva anche il merito della lite.

L'opinione secondo la quale la querela nullitatis, quando era sperimentata per errori della sentenza contra ius, serviva a garentire l'esatta osservanza della legge da parte del giudice e ad impedirgli di fare opera di legislatore (Chiovenda) ha fatto attribuire all'istituto un carattere politico, associando la difesa del privato a quella dell'interesse generale e riconoscere a essa una funzione non lontana da quella del moderno ricorso per cassazione. L'affermazione non è sufficientemente sicura per quanto concerne le finalità istituzionali della querela, pur apparendo manifesta nei suoi effetti pratici.

Gli statuti avevano altri magistrati che vigilavano all'uniformità dell'interpretazione della legge, come i Conservatori delle leggi a Venezia, a Vicenza e a Firenze, lo Iudex duodecim sapientium a Ferrara, l'Exgravator a Milano, i Sindacatores a Genova. Più tardi, nel 1770, il Regno di Sardegna promulgava il principio che le sentenze pronunziate contro le disposizioni della costituzione non passavano in cosa giudicata e potevano essere annullate nel periodo di trenta anni. Lo Stato Pontificio col tribunale Signatura Iustitiae (1562) iniziò un sindacato sulle sentenze errate in procedendo, con attività puramente negativa, quella cioè di annullare la sentenza errata e far rinnovare il giudizio.

Circa l'istituzione dei grandi tribunali in Italia, bastino i dati seguenti. Presso i Savoia il Consilium residens di Amedeo III e la Suprema generalis audentia, presieduta dal principe (1353), e più tardi il Senato; a Milano il Senato e più tardi il Supremo tribunale di giustizia per tutta la Lombardia austriaca (1786); a Modena il Supremo consiglio di giustizia (1771); a Parma e Piacenza il Consilium iustitiae (1594); a Genova il Senato; a Venezia le Quarantie; in Toscana la Consulta; a Roma i due tribunali supremi della Sacra Ruota e della Segnatura; a Napoli il Sacro regio consiglio; in Sicilia la Corte del gran giustiziere (1559) sostanzialmente la loro posizione costituzionale è unica. Il sovrano, accentrando tutti i poteri, esercita anche quello giurisdizionale; ma lo delega a organi di sua fiducia, i quali godono di una grande autorità nell'interpretazione della legge e possono anche modificarla quand0 (come nei primi anni della loro costituzione) il sovrano interveniva alle loro sedute. Qualcuno, come la Signatura iustitiae, vigila anche la regolare applicazione della legge processuale da parte degli organi inferiori e ha potere di annullare le sentenze che vi contravvengono. Ma nessuno di essi è l'antenato della cassazione. Opinioni contrarie sono state espresse al riguardo da alcuni scrittori, come il Niccolini, il Gargiulo, ecc., ma, come dice il Calamandrei, "gli ingegnosi raffronti che sono stati fatti per dimostrare che da essi comincia la storia della cassazione, se da una parte depongono a favore del patriottismo di chi li ha fatti, dimostrano dall'altra a quali erronei risultati può condurre nell'indagine storica il nazionalismo scientifico".

Francia. - Un processo analogo a quello che indusse alla creazione dei tribunali supremi in Italia si verificò in Francia. Anche qui l'effetto della lotta secolare del re contro i grandi feudatarî finì con l'accentrare nelle mani del sovrano, con gli altri poteri, la potestà giurisdizionale, ch'egli dové poi delegare, come già si è osservato negli stati italiani, a un consiglio, detto Parlement. Non era infatti possibile al sovrano di decidere da solo le cause per la loro importanza e per il loro numero. Nei primi tempi anche il parlamento fu presieduto dal sovrano: ma più tardi questo consesso acquistò autonomia ed esistenza propria, pur pronunziando le sentenze in nome del re. Diventato un tribunale supremo senza il re, si verificò anche qui il fenomeno naturale del ricorso diretto al re contro le sentenze del parlamento. Di tale sindacato sovrano si ha un primo accenno nell'Établissement de Saint Louis (1273). Il reclamo al re si rivolgeva mediante una proposition d'erreur o di requête civile e il sovrano deliberava mediante le lettres de justice, dette anche lettres de la Chancellerie dall'ufficio che le redigeva. Principali elementi della storia di tali gravami sono l'ordinanza di Blois del 1579 e l'Ordonnance civile di Luigi XIV del 1667. Intanto il parlamento, istituito prima a Parigi, sorse in altre città di Francia; assunse atteggiamenti di completa indipendenza dal sovrano e si arrogò due facoltà molto importanti, quella dell'enregistrement degli atti legislativi e quella di emettere arrêts de règlement. La prima si risolveva in una specie di controllo sul potere legislativo sovrano; la seconda conferiva un potere regolamentare nei confini della giurisdizione di ciascun parlamento. Infine, i parlamenti si ritennero liberi di applicare la legge secondo l'equità; il che valeva la facoltà di modificarla a loro talento. Si determinò così una lotta lunga e tenace fra i re di Francia e i parlamenti, che rifiutarono talvolta la registrazione di ordinanze reali e si federarono infine per opporre al sovrano un corpo politico nazionale. La lotta sboccò nella Rivoluzione francese.

Le loro ribellioni consistevano spesso nel giudicare controversie che il sovrano aveva avocate al proprio giudizio o nel disconoscere le ordinanze reali; il sovrano prendeva la rivincita, annullando le decisioni mediante le lettres de justice. Ma talvolta le sentenze erano annullate anche per violazione delle leggi processuali. La prima disposizione di carattere generale contro i parlamenti fu adottata con l'ordinanza di Blois, già ricordata; altre ne seguirono, fino a quella del 1667, che dichiarò con particolare rigore la nullità di tutte le sentenze e decisioni dei parlamenti contrarie alle ordinanze o editti reali e stabilì che i giudici che li avessero contraddetti nelle loro sentenze sarebbero responsabili dei danni e interessi. Questo potere di cassation del re, spesso provocato da demandes en cassation delle parti, esercitato dal re nel Consiglio di stato, è riconosciuto generalmente come la vera origine della nostra corte di cassazione. Nel 1571 fu creata una speciale sezione del Consiglio di stato, detta Conseil des Parties, per esaminare le domande in cassazione che riguardavano materie di semplice interesse privato. Il regolamento di questo istituto, che ha tanto interesse per la storia della cassazione moderna, si trova nel Règlement concernant la procédure que Sa Majesté veut être observée en son Conseil (28 giugno 1739), dovuto al cancelliere d'Aguesseau. Nel titolo IV si tratta des demandes en cassation d'arrêts ou de jugements rendus en dernier essor. Così, attraverso l'attività privata dei ricorrenti, il sovrano infrenava quella dei parlamenti e giudicando dei reclami dei privati riaffermava il valore delle sue ordinanze e consolidava la sua autorità. Dal punto di vita processuale le demandes en cassation non erano né un mezzo ordinario né un mezzo straordinario. In fondo esse intervenivano quando erano esauriti tutti i gravami, e aprivano al processo un nuovo orizzonte, sul quale appariva il sovrano come tutore supremo del diritto. Era una nuova fase politica del processo. Il Conseil des Parties annullava la sentenza perché violatrice del diritto, e questo bastava alle sue finalità essenzialmente politiche. La causa per il giudizio di merito veniva rinviata ad altro giudice. Se vi sono esempî di decisioni del Conseil des Parties anche nel merito, ciò è dovuto soltanto all'eccezionale gravità della controversia. Conforme alle sue finalità fu la costituzione di questo tribunale, senza alcuna garenzia nella scelta dei giudici e per l'indipendenza dei giudizî. Dal punto di vista tecnico, poi, ciò che lo differenzia maggiormente dalla nostra Corte di cassazione è l'assenza di ogni attività diretta a mantenere attraverso l'uniforme interpretazione della legge l'eguaglianza della stessa di fronte a tutti i cittadini.

La Rivoluzione francese si mostrò molto avversa ai Conseils des Parties, nnche perché era generale convincimento che le sue decisioni fossero molto spesso falsificate dai funzionarî corrotti, falsificate financo nel sigillo reale. Ma, mentre essa fu innovatrice radicale in tanti campi, in questo si attenne piuttosto al passato. Il dogma della divisione dei poteri, promulgato dal Montesquieu, favoriva il mantenimento di un tribunale supremo incaricato di fare osservare le leggi da parte di tutte le giurisdizioni. L'Assemblea nazionale, nella seduta del 24 marzo 1790, nel deliberare il Tribunal de Cassation, consolidava l'ancien régime. Le caratteristiche dell'istituto sono scolpite nel decreto 16 agosto 1790: "Les tribunaux ne pourront prendre directement ou indirectement aucune part à l'exercice du pouvoir législatif, ni empêcher ou suspendre l'exécution des décrets du corps législatif sanctionnés par le roi". Lo stesso decreto (art. 12, tit. II) stabilì le référé législatif facoltativo, in forza del quale i giudici toutes les fois qu'ils croiront nécéssaire soit d'interpréter une loi, soit d'en faire une nouvelle dovranno rivolgersi al corpo legislativo. La cosa sembra naturale per quanto si riferisce alla creazione d'una legge nuova, ma per interpretarne una esistente, il ricorso al corpo legislativo era un'abolizione della facoltà di giudicare. Più tardi si ebbe anche il référé obligatoire au législateur (art. 256 Cost. del 5 Frutt., a. III), il quale si verificava nel caso che il Tribunale di cassazione avesse annullato una sentenza di merito e la seconda sentenza di merito fosse stata conforme a quella annullata e quindi denunziata alla cassazione per gli stessi motivi. In tal caso si arrestava il potere giudiziario e la parola spettava al legislatore. Questi due istituti, che sono stati giustificati dal punto di vista costituzionale con ragioni più o meno valevoli, erano ispirati dal pensiero più vasto e radicale della rivoluzione dei poteri, e cioè di fare a meno della giurisprudenza e di non ammettere un'opinione di giudici obbligatoria per i cittadini, ma soltanto l'obbligatorietà della parola della legge. Niun dubbio, quindi, che il Tribunale di Cassazione fu inizialmente costituito quale organo di controllo del potere legislativo sul giudiziario. Non aveva un carattere giurisdizionale; non faceva neppure parte dell'ordinamento giudiziario.

Il codice napoleonico abolì l'istituto del référé e restitui al potere giudiziario il diritto e il dovere dell'interpretazione delle leggi. Si è detto giustamente che ciò segnò la rinascita della giurisprudenza. La Corte di cassazione riebbe quindi il potere di annullare le sentenze per fausse interprétation des lois. Da questo momento si osserva una lenta ma costante evoluzione dell'istituto, che all'attività puramente negativa di annullamento aggiunge quella di dare al giudice di rinvio le direttive per l'esatta definizione della lite. Dell'evoluzione è traccia nelle leggi dell'anno VIII, del 1807 e del 1828, che qui sarebbe lungo esaminare. La cassazione ricevé il suo statuto definitivo nella legge del 1° aprile 1837. Con questa legge la cassazione entra a far parte del sistema giudiziario. Essa decide le controversie su reclamo delle parti nell'interesse delle stesse, quando il tribunale inferiore abbia violato la legge, sia in procedendo, sia in iudicando; ma la decisione del caso concreto ha un'efficacia maggiore di quella necessaria ai litiganti, giacché diventa normativa per altre controversie nelle quali si dibattono le stesse questioni di diritto. È vero che i giudici inferiori non sono tenuti ad osservare la "massima" fissata dalla cassazione; anzi anche quelli che giudicano in sede di rinvio la stessa causa possono non accettarla; ma allora può aver luogo altro ricorso, e se la cassazione confermerà la sua decisione, questa, per il caso deciso, deve aver valore di legge. Così l'organo giurisdizionale serve alla legge, mentre giudica del singolo caso. Ma poiché tale finalità non potrebbe conseguire senza il ricorso delle parti, e sentenze violatrici della legge potrebbero continuare ad aver vigore per l'inerzia delle parti, sorge l'istituto del Ricorso nell'interesse della legge, che annulla la sentenza contraria alla legge o alla sua uniforme interpretazione, senza che la sentenza annullata perda i suoi effetti nel confronto delle parti. Ne sententia ad exemplum trahatur. In tal caso la cassazione tutela un puro interesse pubblico in una lite di interesse privato.

La cassazione italiana. - Storia. - L'istituto della cassazione italiana è un'immediata derivazione della cassazione francese. Nel sec. XVIII giuristi e filosofi italiani (Muratori, Pagano, ecc.) avevano osservato il bisogno di porre dei confini all'attività dei giudici nell'interpretazione della legge, che talvolta giungeva alla modificazione della legge stessa, e avevano accennato all'opportunità di un organo supremo, che reprimesse quest'invasione del potere giudiziario nella zona riservata a quello legislativo. Ma nella legislazione italiana di quel tempo non vi è traccia d'istituzioni analoghe al Tribunal de Cassation. Fino ad allora gli organi supremi di giustizia erano il re e il suo consiglio politico, e il ricorso alla sovranità era il supremo mezzo d'impugnazione delle sentenze dei giudici ordinarî. I tribunali supremi, allora esistenti, dei quali si è già fatto parola, non erano che una degenerazione avvenuta nel consiglio politico del principe, e non hanno somiglianza sostanziale con la Corte di cassazione. Scrittori e legislatori concepivano in quel tempo l'istituto del Tribunale supremo senza carattere giurisdizionale. La Corte di cassazione è stata importata in Italia con le armi e le vittorie francesi. Essa sorse in Piemonte nel 1799, quando codesta regione, diventata dipartimento francese, ebbe quale tribunale supremo il Tribunal de Cassation di Parigi; in Milano nel 1796, ove fu istituito un proprio Tribunale di cassazione; in Venezia, che, dopo il trattato di Presburgo (1805), ebbe come tribunale supremo la cassazione di Milano; in Genova, ove, con la costituzione della repubblica ligure (1797), sorse un Tribunale di cassazione secondo le norme della costituzione francese; in Toscana (1808), che sostituì alla Consulta la cassazione di Parigi; in Lucca, che, costituita in principato (1805), fondò anch'essa il Tribunale di cassazione; in Roma, in cui la costituzione della repubblica romana (1798) recò il Tribunale di alta pretura con le funzioni della cassazione francese; in Napoli, che, con la costituzione della repubblica partenopea (1799), ebbe, a sua volta, il Tribunale di cassazione, mantenuto poi con l'avvento del regno di Napoli (1806) sotto la monarchia francese. Dall'esame delle norme dei varî ordinamenti giudiziarî che concernono il funzionamento del Tribunale della cassazione in questo momento storico appare manifesto che esso fu ideato come organo di controllo politico sul potere giudiziario e non come istituzione giudiziaria diretta all'unificazione dell'interpretazione delle leggi.

La caduta dell'Impero segnò la crisi dell'istituto. La restaurazione degli antichi governi fu accompagnata dal ritorno nei diversi stati degli istituti e delle leggi processuali precedenti alla rivoluzione. Soltanto a Napoli la cassazione sopravvisse alla restaurazione e prese il nome di Corte suprema di giustizia (legge 29 maggio 1817). In Piemonte si ritornò al sistema della terza istanza, esteso più tardi a Genova, riunita al Piemonte (1814)). Nel Lombardo-veneto, il Regolamento generale del processo civile pel regno Lombardo- Veneto ristabilì il sistema dell'appellazione, della revisione e della querela di nullità e la giurisdizione dell'Aulico supremo tribunale di giustizia in Vienna. Il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla ebbe un unico Tribunale d'appello e di cassazione; e Modena un Supremo consiglio di Giustizia con funzioni di terza istanza. In Roma ritornò in vigore il Tribunale supremo della Segnatura, cui il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili di papa Gregorio XVI (1834) diede notevole perfezione nel funzionamento. In Toscana riebbe vita la Consulta.

Ma il ricordo dell'istituto della cassazione rimase vivo in tutti, sorretto dal convincimento che facesse parte di quell'insieme di riforme liberali, che da ogni parte s'invocavano. E dove primieramente queste si accennarono, vale a dire nel Regno di Sardegna, la cassazione ritornò in vigore con il r. editto del 30 ottobre 1847 di re Carlo Alberto. A sua volta, la Toscana, col motu proprio leopoldino del 6 agosto 1848, vide il ritorno della Corte suprema di cassazione, con ordine e forme di giudizio ispirate dal diritto giudiziario francese.

In tal modo, all'unificazione del regno esistevano quattro corti di cassazione, a Torino, Firenze, Napoli e Palermo, un Tribunale supremo di terza istanza a Vienna, per il Lombardo-veneto, e tre Tribunali supremi, a Parma, Modena e Roma. Si provvide per il primo momento a una sistemazione provvisoria. Le corti di cassazione furono mantenute. Al supremo tribunale di Vienna fu sostituito dapprima un Tribunale di terza istanza con sede a Milano (r. decr. 24 luglio 1859), poi la Corte di cassazione di Torino (legge 2 aprile 1865), che estese la sua giurisdizione a tutta la Lombardia. Ai supremi tribunali di Parma e Modena successe la stessa cassazione (r. decr. 26 novembre 1860), che allora aveva sede temporanea a Milano. Più tardi, dopo l'annessione del Veneto, venne istituita una Sezione di terza istanza aVenezia (r. decr. 13 ottobre 1866), soppressa poi con legge del 26 marzo 1871, che estese a Venezia la giurisdizione della cassazione di Firenze. Dopo l'annessione di Roma, la legge 12 dicembre 1875 istituī due sezioni temporanee di Corte di cassazione nella capitale, con competenza esclusiva per tutto il regno per alcune speciali materie indicate all'art. 3.

Questo, in breve, fu il processo di espansione della Corte di cassazione in tutto il regno. In questo momento storico, essa ha carattere e funzioni strettamente giudiziarî. L'evoluzione dell'istituto osservata in Francia si era compiuta egualmente in Italia. Le sue finalità sono scolpite nel proemio dell'editto di Carlo Alberto, già ricordato: "Stabilita da Noi l'uniformità della legislazione civile e criminale, restava che venisse assicurata l'uniforme applicazione della legge... e, a questo effetto, Ci siamo disposti di istituire nella nostra capitale un magistrato di Cassazione, a cui sarà delegata l'alta missione di mantenere l'unità dei principî e dí ricondurre costantemente all'eseguimento delle leggi tutte le parti dell'ordine giudiziario, che tendessero a deviarne". Ciò che veramente era singolare presso di noi era la pluralità delle corti, dovuto al fatto storico del precedente frazionamento politico del paese in più stati, pluralità che era in antitesi stridente col concetto stesso dell'istituto.

Contemporaneamente all'istituzione di nuove corti di cassazione per le provincie annesse, cominciò il movimento per la loro unificazione. Non è necessario ricordare le varie fasi dell'unificazione, i tentativi legislativi e le opposizioni a un provvedimento, che doveva sembrare così naturale e urgente. Basti menzionare le principali leggi che vi ci condussero.

Oltre alla legge 12 dicembre 1875, già ricordata, che attribuì alla cassazione di Roma una speciale competenza su tutto il regno per determinate materie, la legge 31 marzo 1877 deferì alle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione non solo la risoluzione dei conflitti d'attribuzione fra l'autorità giudiziaria e l'autorità amministrativa, ma anche la cognizione. dei ricorsi contro le decisioni delle giurisdizioni speciali per incompetenza o eccesso di potere.

Ma la prima vera legge d'unificazione fu quella del 6 dicembre 1888, che abolì la sezione penale nelle corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli, Palermo (art. 4), istituì due sezioni penali presso la Corte di cassazione di Roma (art. 2) e a esse deferì le attribuzioni fino allora spettanti alle altre corti di cassazione del regno in materia penale. Attribuì inoltre alla Corte di cassazione di Roma, anche in materia civile, tutti i ricorsi a sezioni unite. Il processo d'unificazione sofferse poi una notevole sosta. Soltanto con la legge 24 marzo 1923, le cassazioni civili di Torino, Firenze, Roma, Napoli e Palermo vennero soppresse, e fu istituita a Roma la Corte di cassazione del regno con due sezioni civili e ilue penah. Dopo l'annessione delle provincie ex-austriache, nelle quali fu conservato per i primi anni l'insieme delle leggi austro-ungariche, fu necessità istituire presso la Corte di cassazione una sezione speciale per i ricorsi che fino allora erano stati di competenza delle cassazioni di Vienna e di Budapest. Detta sezione fu poi soppressa col r. decr. legge 14 aprile 1927, n. 573, convertito in legge 16 giugno 1927, n. 988. Ma per l'aumento del numero dei ricorsi, che intanto si era verificato, fu istituita con la giessa legge una terza sezione civile.

Ordinamento e natura giuridica. - La Corte di cassazione è oggi cvstituita da cinque sezioni: tre civili e due penali. Le sezioni civili seggono tutti i giorni lavorativi, secondo il calendario giudiziario. Due di dette sezioni civili, scelte alternativamente, costituiscono la Corte di cassazione a sezioni unite. Presso la Corte di cassazione civile non vi ha una sezione per l'esame preventivo e sommario dei ricorsi per giudicare della loro ammissibilità formale o della loro manifesta fondatezza, come presso la cassazione francese (Chambre des Requêtes). Le sezioni penali hanno seduta ciascuna due volte la settimana e si adunano in sezioni unite a seconda dell'esigenza.

Bastano poche parole per spiegare quale sia la natura giuridica dell'attività della Corte. L'ordinamento giudiziario afferma che la Corte di cassazione è costituita "per mantenere l'esatta osservanza delle leggi". La frase di valore storico sta a significare che la Corte di cassazione serve a uno scopo diverso da quello cui servono tutti gli altri organi giurisdizionali. Ma essa non deve indurre in errore. La Corte di cassazione ha oggi carattere strettamente giurisdizionale. Essa compie il controllo sull'attività di tutti gli organi giurisdizionali inferiori. Ciò non significa che essa segua e vigili, smisurato Argo, l'immenso e quotidiano lavoro dell'attuazione di ogni singolo precetto di legge nella vita individuale del popolo; ma conosce di quegli episodî della vita giuridica del paese che sono portati alla conoscenza degli organi giurisdizionali per la controversia insorta fra le parti e sui quali i giudici hanno emesso la loro decisione, che una almeno delle parti non ha accettata. Ad essa è vietato accertare d'ufficio l'errore di una decisione dei detti giudici. Le è financo vietato di rilevare d'ufficio nella stessa sentenza impugnata altri errori, che le parti non abbiano denunziati. Come ogni organo giurisdizionale, essa ha bisogno che la sua attività sia eccitata dal ricorrente. È vero che vi ha il ricorso nell'interesse della legge (art. 93 dell'ord. giud. 30 dic. 1923, n. 2790), ma anche in questo caso la sua attività deve essere eccitata dal rappresentante del pubblico ministero, ed è dubbio che, in questo caso, essa eserciti una funzione giurisdizionale. Quale è dunque l'esatto significato della frase "mantenere l'esatta osservanza delle leggi"? Poco monta conoscere quale sia stato quello originale. Oggi la frase vuole indicare che la Corte di cassazione ha la finalità di mantenere l'uniformità dell'interpretazione della legge e di evitare, per quanto è possibile, le fluttuazioni della giurisprudenza. Sotto questo punto di vista va spiegata anche l'altra frase tradizionale, che l'attività della Corte di cassazione è d'interesse pubblico, giacché è d'interesse pubblico garantire la giustizia ai cittadini. Ma, mentre l'attività degli altri organi giurisdizionali ha lo scopo di dirimere controversie nell'interesse privato dei litiganti, quella della Corte di cassazione ha anche l'altro di mantenere l'uniformità dell'applicazione della legge di fronte a tutti i cittadini. In tal modo, la Corte di cassazione prosegue e concreta l'opera della legge. Un autorevole scrittore, il Mortara, nota che la legge è la statica del diritto obiettivo; la giurisprudenza ne è la dinamica. In tale rapporto sta il necessario collegamento fra la volontà del legislatore e quella del giudice.

Palese appare quindi la posizione costituzionale della Corte di cassazione nel sistema italiano. In Italia l'interpretazione autentica della legge in modo obbligatorio per tutti è funzione legislativa (art. 73 dello statuto). L'interpretazione caso per caso, per ogni singola controversia, è, invece, funzione di ciascun giudice, che la esercita in conformità del proprio convincimento, con assoluta autonomia e indipendenza. In conseguenza, le interpretazioni di una norma legislativa possono essere molte e contradditorie, e la norma può variare di valore e di significato nelle varie zone soggette a giurisdizioni diverse. L'unità della legge può essere così spezzata. Tale risultato non è soltanto un grave danno morale e politico, ma anche una grave ingiustizia, giacché la giustizia non risulta più eguale per tutti i cittadini. Il compito della cassazione è di ricomporre a unità la legge, annullando la sentenza che l'abbia infranta. La tutela dell'interesse privato coincide con quello della legge. L'autorità dell'organo che ha pronunziato la sentenza e il prestigio che gode inducono normalmente gli organi inferiori ad accettarla. Essi però non hanno tale obbligo. Se il rifiuto si verifica, è dato il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione, le quali decidono definitivamente la controversia e la loro decisione per il caso deciso ha valore di legge (art. 547 cod. proc. civ.).

La tutela dell'unità della legge da parte della Corte di cassazione è esercitata in confronto di tutti gli organi di giurisdizione ordinaria, quando la decisione possa essere denunziata per cassazione secondo la legge processuale; ma non può essere esercitata di fronte a tutte le giurisdizioni speciali. Le decisioni di questi organi possono essere controllate dalla cassazione per incompetenza o per eccesso di potere, come si dirà in seguito, ma non per violazione di legge, salvo che la legge stessa disponga diversamente. Si è affermato che ciò dipenda dal fatto che detti organi sono quasi sempre unici e che hanno spesso un organo superiore di controllo appositamente costituito. In realtà, oggi non è così: le giurisdizioni speciali oggi hanno numerosi organi che pronunziano con completa autonomia e spesso manca il controllo giurisdizionale. Vi ha molta difformità di giurisprudenza, ma nessun rimedio giudiziario analogo a quello del ricorso in cassazione. La cassazione, per raggiungere integralmente le sue finalità, dovrebbe sindacare le decisioni delle giurisdizioni speciali anche nel caso di violazione di legge.

L'ufficio della Corte di cassazione, di cui si è discorso, ha fatto giudicare l'istituto preferibile a quello del Tribunale di terza istanza che pure in Italia ha avuto non pochi fautori. Costoro hanno invocato i precedenti italiani e più l'esempio della Revision e della Oberrevision e la posizione e l'ordinamento del Reichsgericht in Germania per contrapporli alla cassazione. Ma bisogna riconoscere che l'istituto della cassazione, nella sua ultima evoluzione, perduta la rigidità originaria, quale organo di polizia costituzionale, è entrato a far parte dell'ordinamento giudiziario come il Reichsgericht, assolvendo, tuttavia, il compito dell'unificazione della giurisprudenza, ciò che ha fatto invidiare l'istituto italiano da molti scrittori tedeschi. Il Reichsgericht, a sua volta, dopo le Novelle del 1905 e 1910 ha visto notevolmente avvicinato il proprio ordinamento a quello della cassazione. Una profonda e radicale differenza istituzionale fra i due organi supremi di giustizia non sussiste, pur mantenendo la cassazione un'attività di più larga ispirazione dal punto di vista sociale e giuridico.

Mantenere l'uniformità dell'interpretazione della legge non è compito facile alla Corte di cassazione, specie quando essa, a causa del gran numero dei ricorsi, sia costituita in più sezioni civili e penali e sia obbligata a un lavoro eccessivo e sollecito. Ecco perché tutte le corti di cassazione devono registrare oscillazioni di giurisprudenza, che contraddicono al precipuo loro scopo. Non già che la giurisprudenza della Corte debba irrigidirsi in una serie di massime, da riprodursi quasi meccanicamente ogni volta che si presenta alla Corte la stessa legge da interpretare. Anzi, il pericolo della cristallizzazione della giurisprudenza fu opposto per gran tempo ai progetti per l'unificazione delle cassazioni. La giurisprudenza, come ogni organismo vivente, è soggetta a evolversi, e ogni progresso della giurisprudenza, che si trasformi sotto l'influsso della critica giuridica, della dottrina scientifica o delle esigenze sociali è da accogliere con vivo compiacimento. Ecco perché le divergenze, quando rappresentano un meditato cambiamento del pensiero giuridico del collegio, non debbono preoccupare. Quelle che invece debbono a ogni costo evitarsi sono le difformità prodottesi incoscientemente, cioè senza che il collegio sappia che vi sia stata altra decisione di altra sezione o della stessa in senso contrario e senza che abbia lungamente meditato su di essa prima di ripudiarla. Per fortuna, presso la Corte di cassazione italiana, le oscillazioni, anche nei primi tempi della sua costituzione, sono state rare, benché occorresse provvedere all'unificazione psicologica dei suoi varî componenti provenienti dalle diverse corti soppresse, ciascuna delle quali aveva una tradizionale giurisprudenza, e chiamati d'un tratto a comporre la nuova cassazione unica.

Nell'intento, però, di evitare addirittura qualsiasi involontaria oscillazione giurisprudenziale e di facilitare nello stesso tempo il lavciro della Corte, sono stati creati nel seno della cassazione due istituti sussidiarî: l'Ufficio del massimario e l'Ufficio del ruolo. Il primo (decr. legge 22 febbraio 1924, n. 268, convertito in legge il 7 aprile 1925, n. 473), costituito da pochi magistrati di grado non superiore a quello di consigliere d'appello, deduce da ciascuna sentenza la massima contenuta e la trascrive su apposita scheda destinata allo schedario della Corte, ove tutte le massime sono registrate sotto determinate voci, in ordine alfabetico. L'altro ufficio (legge 28 giugno 1928, n. 1487), costituito anch'esso di pochi magistrati dello stesso grado, ha il compito di esaminare preventivamente ciascun ricorso e il relativo processo, di dedurne la controversia di diritto che ne forma l'obietto, di riassumerla esattamente su apposito modulo, annesso al processo, di ricercare nell'Ufficio del massimario le precedenti decisioni di controversie identiche o analoghe indicando le massime adottate, e di rilevare nello stesso tempo quegli inadempimenti formali, che possono rendere irricevibile il ricorso, compiendo per questi ultimi casi, in qualche modo, la funzione affidata in Francia alla Chambre des Requêtes. ll modulo accompagna il processo presso il pubblico ministero e presso il relatore, i quali hanno così agevolato lo studio della causa e apprendono i precedenti giurisprudenziali, che dovranno servire di norma. Il primo presidente, a sua volta, sulla base del modulo, ha un'immediata e rapida conoscenza del contenuto dei ricorsi e può assegnare a ciascuna sezione particolari categorie di controversie, come quelle in materia finanziaria, ecclesiastica, fallimentare, industriale, di diritto corporativo, ecc., conseguendo in tal modo una relativa specificazione di lavoro per ciascuna sezione, e può prescegliere come relatore per ciascuna causa il magistrato che già ebbe a riferire su controversia identica o analoga, e che quindi ha più completa conoscenza della giurisprudenza della Corte sulla questione da decidere.

L'unità sostanziale dell'ufficio di giurisdizione civile non è punto infranta dalla molteplicità e diversità degli organi in cui esso è distribuito. Ciò permette di sottoporre gli organi al controllo di un'unica autorità superiore, per contenere l'attività di ciascuno nella sfera della propria giurisdizione. Ciò spiega la duplice particolare funzione che la legge del 31 marzo 1877 ha conferito all'organo supremo della giurisdizione ordinaria, cioè alla Corte di cassazione a sezioni unite. La prima consiste nel sindacato e nell'annullamento delle sentenze di tutte le giurisdizioni speciali per il vizio d'incompetenza o di eccesso di potere. Mediante tale potere le innumerevoli giurisdizioni speciali (moltiplicatesi nel periodo della guerra e del dopo-guerra) hanno osservato i confini segnati dalla legge per ciascuna di esse e sono state represse tutte le invasioni nel campo riservato agli organi della giurisdizione ordinaria. Questo principio moderatore e regolatore della competenza delle giurisdizioni speciali è considerato nel nostro diritto pubblico come fondamentale e la dottrina e la giurisprudenza ammettono che esso impera anche quando la legge dichiari che la decisione della giurisdizione speciale non va soggetta ad alcun gravame né in sede amministrativa né in sede giudiziaria. Si ritiene che anche in questo caso sia fatto salvo il ricorso alle sezioni unite in base alla legge i marzo 1877 per eccesso di potere o per incompetenza.

L'altra funzione assegnata alla cassazione a sezioni unite dalla stessa legge è quella di risolvere i conflitti fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali. Può verificarsi che tanto l'una quanto l'altra giurisdizione emettano dichiarazioni di competenza ovvero d'incompetenza per una medesima controversia. Allora sorge il conflitto di giurisdizione positivo o negativo. Il giudizio della Corte di cassazione costituisce sulla competenza giudicato irrevocabile. ll conflitto può essere sollevato anche dal prefetto (art. 13). Egli ha facoltà di presentare all'autorità giudiziaria innanzi cui pende la lite una richiesta per la decisione diretta della Corte di cassazione sull'eccezione d'incompetenza che egli propone. Il giudizio rimane sospeso. Anche in questo caso, la decisione sulla competenza spetta alle sezioni unite della Corte di cassazione e la sentenza ha la stessa efficacia sopra accennata.

La Corte di cassazione, nel suo tradizionale e austero ordinamento, non ha altre attribuzioni. Essa non dà pareri, che siano richiesti per legge, pur avendo spesso dato al governo avvisi tecnici su disegni di legge e specie su progetti di codice, chiesti ad essa come a corpo scientifico, dotato di molta esperienza. Si è avanzata la proposta di affidare alla Corte di cassazione la convalida delle elezioni dei deputati al parlamento e quella della nomina dei senatori, ma essa non ha avuto seguito. La cassazione non esercita oggi altra funzione che non sia strettamente giudiziaria. Essa funziona, è vero, come tribunale supremo dei conflitti, come si è visto poco innanzi; ma l'unità sostanziale della giurisdizione e la tutela di quella degli organi ordinarî entrati in conflitto con quelli speciali spiegano l'attribuzione di tale ufficio alle sezioni unite della Corte di cassazione.

La Corte di cassazione italiana non ha nessuna attività di controllo sulla costituzionalità delle leggi, che sia anche lontanamente paragonabile a quella affidata alla Corte di equità degli Stati Uniti di America. Anche per la cassazione vale il principio che il magistrato giudica non de legibus, sed secundum legem. Ciò non toglie che la cassazione, come ogni altro organo di giurisdizione ordinaria, possa esercitare il sindacato sugli elementi formali della legge per conoscere se vi sia stata la concorde manifestazione di volontà dei tre organi di formazione della legge (Camera dei deputati, Senato e Re); se i testi approvati dai due rami del parlamento siano uniformi, ecc. Il sindacato formale si arresta agli interna corporis di ciascun organo deliberante della legge, e quindi non può controllare se il disegno di legge conseguì la debita maggioranza in ciascun ramo del parlamento; se fu votato nei modi prescritti dal rispettivo regolamento, ecc.

Fino a poco tempo fa vi fu vivissima discussione circa la potestà delle autorità giudiziarie di negare efficacia giuridica ai decreti-legge sindacandone i motivi d'urgenza e di necessità, che aveva il potere esecutivo a emetterli, sostituendosi a quello legislativo. Il problema si poneva non nei confronti della Corte di cassazione, ma in quello di ogni organo giurisdizionale. Oggi la questione ha perduto importanza dopo la promulgazione della legge 30 gennaio 1926, n. 100, che all'art. 3 ha disciplinato la facoltà del govemo di emettere decreti-legge e ha riservato soltanto al parlamento la facoltà di sindacare i motivi d'urgenza e di necessità addotti dal governo per la loro giustificazione. All'autorità giudiziaria spetterà però sempre di dichiarare decaduto il decreto-legge, se esso non sia stato nei termini di legge presentato al parlamento per la conversione o non sia stato convertito in legge, ecc.

Lo stesso è a dire per quanto riguarda il sindacato giudiziario sulle delegazioni legislative al governo per determinati provvedimenti e sulla facoltà regolamentare del potere esecutivo. Anche per questi delicati e gravi argomenti il problema non concerne la Corte di cassazione, ma ogni organo giurisdizionale.

Il ricorso per cassazione in materia civile, nel quadro dei mezzi d'impugnativa delle sentenze, è considerato come un mezzo straordinario (465 cod. proc. civ). Molto si è discusso presso di noi circa la bontà e il significato di tale definizione. Non è il caso qui di riassumere le discussioni dottrinali; basta accennare alle conclusioni che allo stato attuale è dato desumere. Secondo le stesse, la distinzione fra il ricorso per cassazione e gli altri mezzi d'impugnare la sentenza è da ammettere, giacché mentre questi rappresentano un vero gravame, il ricorso per cassazione è una pura impugnativa di nullità della sentenza (querela nullitatis del nostro diritto statutario); mentre i primi dànno adito ad un iudicium rescissorium, l'altro dà adito a un iudicium rescindens, mirando soltanto all'annullamento della sentenza. Ma nella pratica ormai il giudizio di cassazione è considerato come un terzo grado del giudizio o, come suol dirsi, una terza istanza in iure.

Le sentenze che possono essere impugnate col ricorso in cassazione in materia civile sono quelle pronunziate in grado d'appello, escluse le sentenze contumaciali d'appello per le quali non sia scaduto il termine per fare opposizione (art. 517 cod. proc. civ.). Non sono soggette alla stessa impugnativa le sentenze dichiarate inappellabili dalla legge, tranne che si tratti di sentenze di giurisdizioni speciali, impugnate per incompetenza o eccesso di potere (art. 3, legge 31 marzo 1877). Sono invece impugnabili le sentenze pronunziate dalla Corte d'appello in unico grado di giurisdizione, quelle degli arbitri in grado d'appello, tranne che gli arbitri abbiano giudicato da amichevoli compositori, e quelle espressamente indicate da leggi particolari (art. 90 r. decr. 1 luglio 1926, n. 1130, per l'attuazione della legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina dei rapporti collettivi del lavoro; art. 110 decr. legge 9 ottobre 1919, n. 2161, sulle acque pubbliche, ecc.).

I motivi per ricorrere in cassazione sono indicati dallo stesso art. 517, che ne enumera otto. Possono suddividersi in due categorie: errores in iudicando ed errores in procedendo. Alla prima categoria appartiene quello indicato al n. 3: violazione o falsa applicazione della legge; alla seconda quelli indicati in tutti gli altri numeri, e cioè:1. se le forme prescritte sotto pena di nullità siano state omesse o violate nel corso del giudizio, sempre quando la nullità non sia stata sanata espressamente o tacitamente; 2. se la sentenza sia nulla a norma dell'art. 361 dello stesso codice; 4. se abbia pronunziato su cosa non domandata; 5. se abbia aggiudicato più di quello che era domandato; 6. se abbia omesso di pronunziare sopra alcuni dei capi della domanda, stati dedotti per conclusioni specifiche; se contenga disposizioni contradditorie; 8. se sia contraria ad altra sentenza precedentemente pronunziata tra le stesse parti, sul medesimo oggetto, e passata in giudicato, sempreché abbia pronunziato sull'eccezione di cosa giudicata.

In materia penale, l'art. 524 cod. proc. pen. del 1930 consente il ricorso per cassazione per i seguenti motivi: 1. inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale; 2. esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi, ovvero non consentita ai pubblici poteri; 3. inosservanza delle norme stabilite a pena di nullità, d'inammissibilità o di decadenza, stabilite dal cod. di proc. penale. Il ricorso, oltre che nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni, può essere diretto contro le sentenze pronunciate nel giudizio inappellabilmente o in grado d'appello dall'autorità giudiziaria ordinaria. Può essere proposto anche contro le sentenze di condanna di un giudice penale speciale, eccettuato il Senato costituito in Alta Corte di giustizia, qualora tali sentenze non possano essere altrimenti impugnate e la legge non le dichiari espressamente sottratte a ogni impugnazione. In tal caso, il ricorso può aver luogo in ogni tempo prima che la pena si estingua, per gli stessi motivi sopra indicati.

Il gravame si propone per mezzo di ricorso. Le forme del procedimento civile sono indicate dagli articoli 518-553 cod. proc. civ.; quelle del procedimento penale dagli art. 529-552 cod. proc. pen. del 1930. Un'analisi dei motivi del ricorso e l'esame particolareggiato dei procedimenti e delle innumerevoli controversie d'interpretazione non rientrano nella presente trattazione.

La cassazione fuori d'Italia. - Il sistema della cassazione come organo supremo giurisdizionale (con ordinamenti che possono variare ma che non ne alterano però la costituzione dogmatica e non ne dissimulano la derivazione immediata dalla cassazione di Francia) è in vigore oggi, oltre che in Italia, nel Belgio, nell'Olanda, nel Lussemburgo, nella Spagna, nel Portogallo, nella Grecia, nella Romania, nella Serbia, nella Bulgaria, nella Polonia, nella Turchia, nella Russia. Hanno invece adottato un sistema che si avvicina notevolmente a quello germanico l'Austria, l'Ungheria, la Svizzera e la Finlandia. Gli ordinamenti della Danimarca, della Svezia, della Norvegia hanno all'apice delle gerarchie giurisdizionali una Corte suprema, che decide come magistratura di seconda o di terza istanza, e che non ha rapporto alcuno di derivazione o di somiglianza con la Corte di cassazione o la Revisione tedesca.

Più interessante è l'ordinamento dell'istituto inglese della Appeal to the House of Lords. Si è negato che sullo stesso abbia avuto alcuna influenza la cassazione francese, ma non se ne sono potute disconoscere le somiglianze. Il suo statuto è, in gran parte, nell'Appellate Jurisdiction Act dell'11 agosto 1876. L'appello si propone alla Camera dei lord e si chiede che l'esame avvenga avanti al re nel suo parlamento per essere giudicato conformemente alle leggi e ai costumi del regno. II tribunale costituito dai Law Lords, e cioè dai componenti la Camera alta che abbiano esercitato funzioni giudiziarie, l'intervento dei quali è facoltativo, e da quattro Lords of Appeal in ordinary; funzionarî nominati dal re, l'intervento dei quali è obbligatorio. In fondo, come è stato osservato, la Camera dei lord non presta che il nome e la sede al tribunale supremo, ciò che basta per dargli il massimo prestigio nell'opinione pubblica. ll tribunale giudica generalmente degli errors in law, ma non gli è vietato di emettere giudizî di merito, senza rinviare la causa ad altro giudice. La sua sentenza ha valore di legge.

Negli Stati Uniti d'America la Supreme Court of the United States giudica in grado d'appello delle cause di valore superiore ai 5000 dollari e delle cause in cui si tratti dell'interpretazione della costituzione degli stati Uniti, o si contesti la costituzionalità di una legge federale o di uno stato dell'Unione, che si affermi in conflitto con la Costituzione federale, o, infine, di un trattato concluso dagli Stati Uniti. È giudice di diritto e di fatto. Ha qualche somiglianza con la cassazione nella sua concezione fondamentale, perché è incaricata di vigilare sull'integrità della legge federale; ma si differenzia grandemente da essa per molti rapporti. Basti por mente alla facoltà di dichiarare incostituzionali le leggi di un singolo stato e della stessa Federazione se in contrasto con le leggi costituzionali degli Stati Uniti. Di tale facoltà la Corte suprema ha fatto uso più volte, condannando diverse leggi di carattere sociale, che contrastavano indirettamente coi principî informatori della veneranda Costituzione degli Stati Uniti. Si è perciò insorti contro il "governo dei giudici", che è parso superiore a ogni altro potere dello stato, e che per difendere la legge costituzionale, sovrappone il proprio criterio a quello della potestà legislativa. Sono intervenuti accomodamenti volta per volta, e il "governo dei giudici" ha continuato a funzionare, sempre più ammirato che compreso.

Bibl.: Oltre a tutti i trattati e manuali di procedura civile e penale italiani, che contengono l'esposizione particolareggiata del funzionamento della cassazione e notizie della sua storia, cfr. P. Calamandrei, La Cassazione civile, voll. 2, Milano 1920, l'opera più completa sulla storia e la dogmatica dell'istituto, che contiene anche la più ricca bibliografia di carattere generale e particolare: S. Magnus, Die höchsten Gerichte der Welt, Lipsia 1929, che contiene studî particolareggiati su tutte le corti supreme del mondo; cfr. inoltre Benevolo, Cassazione e Corte di cassazione (penale), in Dig. it.; Carbellotto, Cassazione e corte di cassazione (civile), in Dig. it.; F. Gargiulo, Cassazione, in Enciclop. giur. it.; G. Venzi, Cassazione, in Diz. di dir. priv., I: Dalloz, Cassation, in Rép. alph. de législ.; E. Glasson, Cassation, in Grande Encyclop.; Th. Crépon, Du pourvoi en cassation, Parigi 1892; O. Bähr, Das Rechtsmittel zweiter Instanz im deutschen Civilprozess, Jena 1871; L. Bar, Das deutsche Reichsgericht, in Zeitu. Streitfragen di F.V. Holtzendorff e W. Oncken, LX, 1875; P.V. Harrasowsky, Die Rechtsmittel im Civilprocesse, Vienna 1879; R. Schmidt, Lehrb. des deutschen Zivilprocessrechts, Lipsia 1906; F. Stein, Das private Wissen des Richters, Lipsia 1893; C. De Franqueville, Le système judiciaire de la Grande Bretagne, Parigi 1893; Sarfatti, Il processo civile inglese, in Giur. it., IV (1914), p. 137; V.E. Tiranti, Introduz. allo studio della giustizia in Inghilterra, Pisa 1911; A. Nerincx, L'organisation judiciaire aux États Unis, Parigi 1909; C.A. Beard, The Supreme Court and the Constitution, New York 1912.

La Corte d'appello.

La Corte d'appello, nell'ordinamento italiano, è un organo giudiziario ordinario a formazione collegiale, tipicamente destinato, in materia civile e in materia penale, a decidere in secondo grado le controversie decise in primo grado dai Tribunali. A questa, che è l'attribuzione principale e distintiva, si aggiungono svariate attribuzioni accessorie che non hanno attinenza necessaria con la funzione dalla quale la Corte d'appello prende il nome.

Origine storica. - La Corte d'appello dell'ordinamento italiano in vigore ha nella legislazione francese, creata dalla Rivoluzione, il suo immediato precedente storico. Anche negli stati italiani dei secoli XVIl e XVIII esistevano con svariatissimi nomi organi giudiziarî appositamente costituiti, assai volte come emanazione del supremo potere giurisdizionale spettante al sovrano, per decidere in seconda o terza istanza le cause già decise dai giudici inferiori; ma la caratteristica delle corti d'appello attuali è quella di essere ordinate secondo il sistema del doppio grado di giurisdizione (v. appello), al di sopra del quale si ha soltanto la Corte di cassazione, con funzione tipicamente distinta da quella di un organo di terza istanza. Tale sistema, istituito in Francia dal decr. 1o marzo 1790, diede luogo, dopo un breve periodo, in cui, perdurando la diffidenza contro le temute reincarnazioni degli aboliti parlamenti, fu in vigore l'appello reciproco fra i tribunali limitrofi, all'istituzione di appositi tribunali di secondo grado, che poi sotto l'Impero assunsero il nome di Cours d'appel. ll loro ordinamento e il loro nome furono importati in Italia dalla legislazione napoleonica; e, sia pur con diverso n0me, esse restarono in sostanza, dopo la Restaurazione, in quella legislazione italiana che più fedelmente accolse il sistema del doppio grado, completato dalla cassazione: specialmente nelle legislazioni toscana, napoletana, sarda e piemontese, dalla quale ultima le corti d'appello passarono nella legislazione dell'Italia unificata.

Costituzione. - Le corti d'appello sono costituite da magistrdti (consiglieri) in numero variabile, alla dipendenza gerarchica del primo presidente. Esercitano le loro funzioni giurisdizionali collegialmente: anche nelle legislazioni che ammettono il giudice unico in prima istanza, la collegialità è quasi sempre mantenuta in appello. Le corti giudicano invariabilmente col numero di cinque votanti nelle cause civili, e di quattro nelle cause penali; sono divise in sezioni (almeno due), ciascuna delle quali esercita in atto le facoltà che spettano alla magistratura e ne riproduce, come collegio giudicante, la composizione. Annualmente i presidenti di sezione e la composizione e le attribuzioni dí ciascuna sezione (civili, penali, promiscue) sono stabiliti con decreto reale. La riunione di tutti i magistrati componenti le sezioni costituisce l'assemblea generale.

Le funzioni di pubblico ministero (v. pubblico ministero) sono esercitate da un procuratore generale, il quale compie le sue funzioni personalmente o per mezzo di avvocati generali o di sostituti procuratori generali.

La circoscrizione territoriale nella quale si estende la giurisdizione di una corte d'appello si dice distretto: attualmente i distretti di corte d'appello hanno sede in Ancona, Aquila, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste, Venezia. Fuori del regno, una Corte d'appello si trova a Tripoli. In certi distretti possono esservi sezioni staccate, le quali hanno sede diversa da quella della corte da cui dipendono, e hanno le stesse attribuzioni autonome, anche per ciò che riguardA gli affari di carattere amministrativo. Attualmente si hanno sezioni staccate di Corte d'appello a Lecce (Bari), Perugia (Roma), Potenza (Napoli), Trento (Venezia), Fiume (Trieste). Fuori del regno una sezione speciale autonoma è istituita a Rodi. L'ordinamento delle corti comprende, oltre alle sezioni civili e penali che possono denominarsi ordinarie, sezioni speciali, che pur appartenendo organicamente alla Corte d'appello, funzionalmente esercitano in prevalenza giurisdizione di primo grado; tali sono, in materia civile, i Tribunali delle acque pubbliche e la Magistratura del lavoro; e in materia penale, sotto un certo aspetto, la sezione di accusa.

Ogni distretto comprende almeno un circolo di assise. Speciali organi collegiali, costituiti presso ogni Corte d'appello, sono il Consiglio disciplinare e il Consiglio giudiziario. Presso ogni Corte d'appello è istituita una commissione per il gratuito patrocinio.

Atiribuzioni delle corti d'appello. - Attribuzioni dell'assemblea generale. - Delibera su materie d'ordine e di servizio interno che interessino l'intiero corpo e dà al governo pareri richiesti sopra disegni di legge e altri oggetti di pubblico interesse.

Attribuzioni di giurisdizione contenziosa delle sezioni ordinarie. - a) Giurisdizione contenziosa di secondo grado. - L'attribuzione tipica e principale delle corti d'appello, in materia civile e penale, è quella di giudicare in secondo grado le controversie decise in primo grado dai tribunali. Se non si può dire che la Corte d'appello sia nel nostro ordinamento giudiziario l'unico giudice ordinario di secondo grado, essa è, tra i giudici ordinarî, quello che (normalmente) ha soltanto funzioni di secondo grado. Per la estensione dei poteri del giudice di appello in genere, v. appello.

Più particolarmente, le corti d'appello in materia civile giudicano sugli appelli contro le sentenze di primo grado appellabili dei tribunali (art. 87 cod. proc. civ.) e degli arbitri quando la causa decisa sarebbe stata di competenza di un tribunale (art. 29 cod. proc. civ.); sull'opposizione costumaciale (art. 474 segg. cod. proc. civ.); sulle domande di revocazione (art. 494 e 498 cod. proc. civ.); sull'opposizione di terzo (art. 510 segg.) contro sentenze pronunciate da corti d'appello; sulle domande di nullità o di revocazione contro decisioni arbitrali di secondo grado quando la controversia in primo grado sarebbe stata di competenza di un tribunale (art. 30, 32, 33 cod. proc. civ.). In materia penale le corti d'appello giudicano degli appelli contro le sentenze di primo grado appellabili dei tribunali. Per la ripartizione territoriale degli appelli tra le varie corti, ciascuna di esse ha competenza (funzionale inderogabile) sugli appelli contro sentenze di primo grado emanate da tribunali appartenenti al proprio distretto. Speciale competenza territoriale funzionale hanno la Corte d'appello di Roma, sugli appelli civili e penali contro le sentenze di giudici coloniali, e la Corte d'appello di Genova e la sezione speciale autonoma di Rodi sugli appelli contro le sentenze dei tribunali consolari.

b) Giurisdizione contenziosa di primo grado in materia civile. - In casi specialmente stabiliti dalla legge le corti d'appello (sezioni civili) hanno competenza di prima (e unica) istanza: sui giudizî di delibazione, per dar forza esecutiva alle sentenze delle autorità giudiziarie straniere (articoli 941, 950 cod. proc. civ. e r. decr. 20 luglio 1919, n. 1272, conv. in legge 20 maggio 1925, n. 832); sull'esecutorietà delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate da tribunali ecclesiastici, o del provvedimento di dispensa del matrimonio rato e non consumato (art. 17 e 22 della legge 27 maggio 1929, n. 847); sulle azioni per pagamento di spese e onorarî in cause promosse dinanzi la Corte d'appello (art. 103 cod. proc. civ.); sulle azioni civili contro magistrati (art. 785 e 787 cod. proc. civ.); su certi reclami concernenti le liste elettorali (art. 36 t. u. legge elettorale politica 2 settembre 1928, n. 1993), o l'eleggibilità a conciliatori (art. 3 legge 16 giugno 1892, n. 261). Altre speciali competenze di primo grado sono oggi abolite.

Giurisdizione di primo grado in materia penale. - In casi specialmente stabiliti dalla legge, la Corte d'appello (sezioni penali) ha competenza di primo grado: così delibera in materia di riconoscimento delle sentenze penali straniere (art. 674 cod. proc. pen. 1930); in materia di estradizione, attraverso la sezione istruttoria (art. 662 cod. proc. pen.); provvede sulle istanze di riabilitazione giudiziale (art. 597 e segg. cod. proc. pen.); decide sull'opposizione all'iscrizione d'ipoteca legale e al sequestro conservativo (art. 618 cod. proc. pen.); rende esecutivi nello stato gli atti istruttorî esteri (art. 658 cod. proc. pen.).

Attribuzioni di volontaria giurisdizione. - a) Delle sezioni civili: in materia di adozione (art. 213 segg., cod. civ.); legittimazione di figli naturali (art. 200 cod. civ.); remozione dei registri delle ipoteche (art. 2074 cod. civ.); trascrizione del matrimonio religioso (art. 21 legge 27 maggio 1929, n. 847). Inoltre possono essere investite del reclamo contro i provvedimenti di giurisdizione volontaria emessi da autorità inferiore (art. 781 cod. proc. civ.); b) Del presidente: ha competenza sui reclami contro i provvedimenti di volontaria giurisdizione emessi dal presidente del tribunale (p. es., art. 223 cod. civ.); c) Del procuratore generale: può autorizzare il matrimonio in caso di rifiuto di consenso degli ascendenti (art. 3 legge 27 maggio 1929, n. 847).

Attribuzioni amministrative derivanti da superiorità gerarchica. - a) Delle sezioni civili: regolamento di competenza quando la Corte d'appello è il giudice immediatamente superiore ad ambedue i giudici tra i quali la competenza deve essere regolata (art. 108 e 115 cod. proc. civ.); designazione di tribunale per decidere sulla ricusazione dei giudici di altro tribunale (art. 126 cod. proc. civ.); b) Del primo presidente: provvede con decreto a incaricare un pretore o un giudice del distretto di supplire temporaneamente altro pretore mancante o impedito (testo unico art. 25); provvede con decreto a nominare, sospendere, dispensare o revocare i conciliatori del distretto (art. 2 legge 16 giugno 1892, n. 261); designa il presidente e uno dei membri della commissione per il gratuito patrocinio (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3282, art. 5, nn. 1 e 3); provvede alla nomina del presidente della Corte d'assise in certi casi (art. 54 e 57 testo unico); provvede in certi casi alla nomina dei membri dei collegi arbitrali obbligatorî (per es., r. decr. 25 novembre 1909, n. 756, art. 2); c) Del procuratore generale: designa uno dei membri della commissione per il gratuito patrocinio (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 22, art. 5, n. 2).

Attribuzioni concernenti la disciplina e le promozioni. - Le corti d'appello hanno potere di sorveglianza disciplinare sul personale dei tribunali e preture del loro distretto (art. 179 testo unico) e sugli ufficiali del pubblico ministero (art. 204 testo unico); tali poteri sono esercitati dal Consiglio disciplinare, dal primo presidente (e dal presidente di sezione distaccata) e dal procuratore generale. Il Consiglio giudiziario giudica sulla promovibilità dei giudici aggiunti e sull'ammissione allo scrutinio dei giudici e sostituti procuratori del re (art. 112 e 116 testo unico).

Attribuzioni di sezioni speciali: v. sezione d'accusa; lavoro: Magistratura del lavoro; acque pubbliche.

Bibl.: Oltre alle opere citate nella bibliografia alla voce appello, e le notizie contenute nei trattati (cfr. specialmente Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, 3ª e 4ª ed., Napoli 1923-28, VI, par. 20; Manzini, Trattato di diritto processuale penale, Torino 1925, II, n. 140 segg.), cfr. Berio, Corte d'Appello, in Dizionario pratico del diritto privato, Milano, pp. 493-95; Corte d'appello, in Il Digesto ital., Torino, VIII, parte 4ª, pp. 15-22; ma si tratta di lavori arretrati.

La Corte d'assise.

La Corte d'assise è un organo giudiziario, che è caratterizzato dall'essere composto (in modo vario secondo le epoche e i popoli) di magistrati che ne formano l'elemento permanente, e di giudici popolari che ne formano l'elemento variabile di processo in processo.

Storia. - L'origine prossima della Corte d'assise va ricercata in Inghilterra, da cui, dopo la Rivoluzione francese, passò nel continente europeo, e prima in Francia, onde ne derivarono appunto due tipi - l'inglese e il francese - di cui parleremo appresso. L'origine remota, però, va ricercata in Atene, nell'Areopago (v.), e in Roma. Quivi, durante la repubblica, venivano, di tanto in tanto, create delle commissioni d'inchiesta (quaestiones) le quali erano, dietro apposita deliberazione del Senato o del popolo, incaricate di ricercare gli autori di certi fatti, già avvenuti e che si reputassero pregiudizievoli allo stato e perciò punibili, quantunque nessuna legge fino a quel momento li colpisse. Tali organi erano presieduti da un magistrato o ex magistrato e composti soltanto di senatori fino all'anno 684 di Roma, ma, dopo tale anno, per la lex Aurelia, di senatori, cavalieri e tribuni aerarii iscritti nelle liste generali dei iudices. Nel sec. II a. C., però, e poi specialmente al tempo di Silla, le dette commissioni eccezionali diventarono ordinarie (quaestiones perpetuae) per alcuni crimina già designati da una legge o senatoconsulto, che stabilivano anche l'organo e la sua procedura. Il procedimento era informato strettamente al sistema accusatorio. L'accusatio avanti alla quaestio perpetua era sostenuta da un cittadino che la presentava al presidente di essa (quaesitor) con la nominis delatio, e poteva in seguito recederne. Se il presidente, in base alle prove dedotte, si convinceva della fondatezza dell'accusa, iscriveva il nome dell'accusato nel ruolo dei giudicabili (nomen accipere) e fissava l'udienza. Il consilium quaestionis era composto di un numero di indices, tratti a sorte, doppio di quello occorrente e che variò dai 51 ai 75, e tanto l'accusatore quanto l'accusato potevano esercitare sulla metà il diritto di ricusa (reiectio) che variò secondo i tempi. Costituito il consilium, poteva accordarsi all'accusatore e all'accusato un termine per la raccolta delle prove, e il primo poteva farsi assistere anche da un certo numero di comites ad inquirendum e aiutare da organi pubblici forniti di poteri di polizia. Alla ripresa, bastava un numero di giudici uguale alla maggioranza dei delecti (cioè di quelli sorteggiati e non ricusati). Prima del dibattimento, i giudici, a eccezione del magistrato presidente, prestavano giuramento di adempiere al loro ufficio giusta i termini della legge costitutiva della quaestio (e perciò si chiamavano iudices ad homines iurati o semplicemente iurati).

Il dibattito era iniziato dall'accusatore con una esposizione sintetica dei termini dell'accusa e degli argomenti che ne costituivano il fondamento (inferre, obicere crimen, in crimen vocare). Parlava poi l'accusato, il quale, dopo avere risposto personalmente alle interrogazioni rivoltegli dal quaesitor, poteva scendere alla confutazione degli argomenti contrarî o affidare tale compito a un suo patronus o advocatus (patronus era l'orator; advocatus, is qui ius suggerebat aut presentiam suam amico commodabat).

A tali orazioni seguivano la produzione e la discussione dei diversi mezzi di prova, sulla cui ammissibilità il quaesitor usava provvedere d'intesa col consilium; il quale, però, se non era interrogato, doveva assistere passivamente. Esaurita tale discussione, i giudici erano invitati dal quaesitor a votare (in consilium ire, donde la nostra frase "ritirarsi in camera di consiglio"). Il voto poteva essere palese su richiesta dell'accusato e quando la legge costitutiva della quaestio non vi si opponesse, altrimenti era segreto ed espresso per mezzo di tabellae, il che divenne normale dopo la lex Aurelia. I giudici, che stimassero di non poter pronunciare un sicuro giudizio sulla base degli elementi di prova raccolti, avevano facoltà di astenersi dal votare, usando la formula mihi non liquet; ma, quando il numero degli astenuti era tale da non lasciar luogo alla formazione di una maggioranza nel senso o della condanna o dell'assoluzione, il giudizio si aggiornava (ampliatio) e si ripeteva in altro giorno, anzi poteva ripetersi più volte, il che costituiva un mezzo dilatorio in mano di accusati potenti, onde qualche legge prescrisse che reus eodem die illo iudicaretur. In caso di parità di voti affermativi e negativi della responsabilità dell'accusato, è dubbio se egli dovesse essere assoluto definitivamente o se il giudizio dovesse ripetersi, essendovi su ciò due passi contraddittorî: uno nell'orazione di Cicerone Pro Cluentio e l'altro in una lettera di Celio a questo. Il quaesitor, per mezzo degli scribae, redigeva di tutto (in tabulae o codices o commentaria) quello che con frase moderna si chiama il processo verbale.

Alcuni vogliono contrapporre alla Corte d'assise l'istituzione dello scabinato. Sennonché anche questo non è che una derivazione del consilium quaestionis, adattato, naturalmente, ai tempi. Gli scabini sorsero al tempo di Carlo Magno e costituivano un collegio di giudici permanenti, aventi carattere di pubblici funzionarî e forniti di tutte quelle qualità che a tale ufficio si reputavano necessarie. La nomina degli scabini, però, non toglieva agli uomini liberi il diritto di prendere parte alle assemblee giudiziarie; ma gli scabini ne avevano il dovere, e pare dovessero essere almeno in numero di sette, alle volte però è ingiunto al conte di circondarsi di dodici scabini (i nostri dodici giurati), scegliendoli lui, se tanti non ne fossero già eletti.

In Germania lo scabinato successe all'antichissima forma dei giudizî detta mallum, e corrispose all'epoca del diritto consuetudinario, anteriore all'introduzione del diritto romano. Nello scabinato il iudex rappresentava solo il momento della potestas, dell'imperium; convocava gli scabini, dirigeva la discussione e pronunciava il risultato della loro decisione, come il praetor nelle quaestiones perpetuae.

Lo scabinato decadde con l'introduzione del diritto scritto, che rese necessaria nei tribunali la presenza dei giuristi, e specialmente con la promulgazione della costituzione Carolina (il codice criminale pubblicato nel 1532 da Carlo V, che ebbe vigore fin quasi agli ultimi tempi in Germania). Dal 1° ottobre 1879, per effetto della legge dell'Impero 25 gennaio 1877, il tribunale degli scabini si trova accanto alla Corte d'assise, in quanto questa giudica dei delitti maggiori, e quello dei minori, ma oggi vi è la tendenza a sopprimere la giuria.

In Inghilterra, invece, la Corte d'assise costituisce il tribunale ordinario, sia in materia penale sia in materia civile. Il titolo di "assise" (assizes) - dice Seymour F. Harris - è quello popolare dato ai tribunali tenuti periodicamente in ogni contea del regno, e detti tecnicamente Corti di "udire e decidere" e di "liberare le prigioni" (Oyer and Termines e Goal Delivery). La Corte di istruire, udire e decidere non può procedere se non dietro accusa emanata dal Gran Giurì (corrispondente alla nostra Sezione d'accusa, ch'è una sezione della Corte d'appello), e cioè istruisce per mezzo del Gran Giurì, ode e decide per mezzo del Piccolo Giurì. La Corte di liberar le prigioni, invece, giudica (per qualunque imputazione) soltanto quelli che si trovano detenuti al giungere della Corte in un dato luogo e senza previa accusa del Gran Giurì.

Dall'Inghilterra la Corte d'assise passò, col relativo procedimento, negli stati Uniti d'America, e poi, dopo la Rivoluzione francese, in Francia e in quasi tutti gli altri stati del continente europeo.

Natura giuridica. - L'essenza del giurì consiste nell'essere composto di elementi presi dal popolo, cioè dalla massa di quasi tutti i cittadini, per la ragione detta dal Beccaria che nel cercare le prove di un delitto si richiedono abilità e destrezza; nel presentarne il risultato chiarezza e precisione; ma nel giudicarne il risultato si richiede "un semplice e ordinario buon senso, men fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovare rei e che tutto riduce a un sistema fattizio imprestato dai suoi studî", il che era in gran parte vero per i tempi dello scrittore. In base a tali concetti, nel continente europeo il procedimento per i reati di competenza della Corte d'assise si è fatto misto, cioè a tipo inquisitorio fino alla sentenza di rinvio e a tipo accusatorio dopo.

Per il nuovo codice di procedura penale italiano, pubblicato il 9 ottobre 1930 e andato in vigore il 1° luglio 1931, compiuta l'istruzione, il giudice istruttore, se il reato è di competenza della Corte d'assise, comunica gli atti al procuratore generale presso la corte d'appello, il quale presenta allo stesso giudice le sue requisitorie, con cui chiede o che si dichiari non doversi procedere o il rinvio al giudizio della Corte d'assise, se non sia competente altro giudice, ordinario o speciale (articoli 369, 373, 374), salvo che sia possibile concedere il perdono giudiziale e il giudice creda di concederlo. Il procuratore generale (art. 234) può rimettere l'istruzione alla sezione istruttoria della Corte d'appello (corrispondente alla Sezione d'accusa dei vecchi codici) e allora quanto sopra è detto, è compiuto, invece che dal giudice istruttore, dalla Sezione istruttoria.

Ciò in quanto all'istruzione formale. Ma anche per i reati di competenza della Corte d'assise è ammessa l'istruzione sommaria che può essere compiuta o dal procuratore del re o dal procuratore generale, se questi creda di avocarla a sé (art. 392). Compiuta tale istruzione, il procuratore generale (non il procuratore del re: articolo 392, ultima parte), se crede che non si debba procedere, anche solo per taluno degl'imputati o per taluna delle imputazioni, chiede che il giudice istruttore o la Sezione istruttoria pronuncino la relativa sentenza o altrimenti chiede che il presidente della Corte d'assise emani il decreto di citazione (art. 396).

Con tale decreto, sia nell'istruzione formale che nella sommaria, s'instaura il giudizio avanti la Corte. Nelle Corti d'assise a tipo inglese e francese, i giurati giudicano solo del fatto con un atto chiamato verdetto e composto di affermazioni o negazioni ai vari quesiti proposti dal presidente; questi, in seguito al verdetto, assolve o condanna a una pena l'imputato.

In Italia, in base all'autorizzazione data al governo con la legge 24 dicembre 1925, n. 2260, fu emanato il decreto legislativo 23 marzo 1931, n. 249, che dà alla Corte d'assise un nuovo ordinamento. La Corte d'assise, cioè, assume un tipo misto, poiché (art. 2) viene composta di due magistrati (un presidente di corte d'appello, che la presiede, e un consigliere di corte d'appello o un presidente o presidente di sezione di tribunale, che rappresentano l'elemento tecnico) e di cinque assessori popolari, che abbiano i requisiti richiesti dall'art. 4. Magistrati e assessori costituiscono unico un collegio, che giudica di tutta la causa, sia in fatto che in diritto, emanando sia i provvedimenti incidentali sia la sentenza di assoluzione o di condanna. Però, se occorre durante il dibattimento qualche atto processuale, non può essere delegato a compierlo che uno dei magistrati. La sentenza è, di regola, compilata da uno di questi, ma può essere redatta anche da un assessore (art. 20). Contro di essa è ammesso solo il ricorso per cassazione, ai sensi degli articoli 524 e seg. del codice di procedura penale. Con questo nuovo ordinamento, come dichiara la relazione del guardasigilli al re sul detto decreto, si è voluto "integrare il giudizio del magistrato con elementi esperti della vita e dei sentimenti del popolo".

Il verdetto (veredictum visineti, verdetto del vicinato) in Inghilterra, alle origini, aveva valore e di testimonianza e di giudizi0 delle persone probe della comunità (convocate dallo sceriffo) in mezzo alla quale era stato commesso il delitto, onde il reo si diceva iudicatum per famam patriae; per iurata patriae legitime testatus. Ma poi passò a esprimere soltanto il giudizio.

Attualmente esistono due tipi di verdetti: quello a sistema inglese, vigente anche nella Scozia e in parecchi stati americani del nord, e quello a sistema francese, vigente generalmente nel continente europeo. Secondo il sistema inglese "non si propongono ai giurati speciali questioni, ma essi devono decidere complessivamente se l'accusato sia o non sia colpevole del reato che forma argomento dell'atto di accusa, o, subordinatamente, di un reato minore". Possono però i giurati anche affermare soltanto il fatto, ma domandare alla Corte di volerne trarre essa le conseguenze legali (per es., se il fatto stesso costituisca omicidio qualificato o semplice).

Secondo il sistema francese, invece, i giurati giudicano soltanto degli elementi di fatto attribuiti all'imputato dall'accusa, mediante risposte a speciali domande, che prendono il nome di questioni, formulate dal presidente col concorso più o meno largo del pubblico ministero e dei difensori delle parti private. Secondo il regolamento processuale di Brunswick e il codice ungherese, la formulazione delle questioni è compito del pubblico ministero, ma la difesa ha il diritto di presentare proposte od opposizioni, che la corte vaglia e accoglie o respinge. Il presidente, poi, trae le conseguenze giuridiche dagli elementi di fatto affermati o negati dai giurati, e dichiara, o no, la colpevolezza dell'imputato, nel primo caso condannando alla pena comminata dalla legge, nel secondo caso assolvendo. Tutte le legislazioni sono d'accordo nell'escludere la motivazione del verdetto, il che è una conseguenza della natura del giurì, ma produce talvolta delle contraddizioni, tal'altra delle assurdità o delle mostruosità.

Bibl.: G. Pisanelli, Della istituzione dei giurati, Torino 1856; H. Brunner, Die Entstehung der Schwurgerichte, Berlino 1872; F. Carrara, Pensieri sulla giuria, in Reminiscenze di cattedra e foro, Lucca 1883; C. de Franqueville, Le système judiciaire de la Grande-Bretagne, voll. 2, Parigi 1893; H.F. Hitzig, Die Herkunft des Schwurgerichts in röm. Strafprozess, Zurigo 1909; M. D'Amelio, La Corte d'assise, in Nuova Antologia, LXI [1926]; D. Rende, La riforma della Corte d'assise, in Scuola positiva, 1927; U. Spirito, Giuria e scabinato, in Il nuovo diritto penale, 1929.

La gran corte criminale.

Organo giudiziario che funzionò nelle provincie meridionali dal 1808 finché, dopo l'unificazione politica, vi furono istituite le corti d'assise. Sotto il dominio di Giuseppe Napoleone la legge del 20 maggio 1808 con la quale si provvide all'organizzazione giudiziaria del regno di Napoli istituì un tribunale criminale per ogni provincia, composto di un presidente, di cinque giudici, di un procuratore regio e di un cancelliere. Dopo la restaurazione borbonica l'istituto, introdotto sotto il dominio francese in sostituzione della giuria, che non era sembrata adatta alle costumanze e alle tradizioni locali, fu mantenuto e riordinato nella legge organica dell'ordine giudiziario del 29 maggio 1817. Ai tribunali criminali fu attribuito ufficialmente il nome di gran corti criminali, che già dapprima era entrato nell'uso. Le gran corti criminali, istituite in ogni provincia, giudicavano in prima e unica istanza le cause di alto crimine e in grado di appello riesaminavano le sentenze emesse da giudici di circondario (corrispondenti agli attuali pretori) nei giudizî correzionali e di semplice polizia. Contro le loro decisioni non competeva altro rimedio che il ricorso per annullamento alla Suprema corte di giustizia (corrispondente all'attuale cassazione). Una sezione esercitava giurisdizione istruttoria in camera di consiglio per legittimare o no la cattura, e giurisdizione di accusa per giudicare se fosse da rinviare l'accusato al pubblico giudizio. Ogni gran corte criminale era composta di un presidente, di sei giudici, di un procuratore generale e di un cancelliere. Per alcuni reati interessanti più particolarmente l'ordine pubblico e la sicurezza dello stato le gran corti criminali assumevano, nei casi contemplati dalla legge, il titolo di Corte speciale, con l'aggiunta di due votanti. Solamente la dichiarazione di composizione della Corte speciale, pronunziata con sei voti, poteva essere impugnata presso la Suprema corte di giustizia; ma, rigettato il ricorso, le decisiohi della corte speciale non erano soggette a gravame alcuno.

Nelle discussioni sorte a proposito dell'abolizione della giuria (v. pag. preced.), è stato in Italia rievocato il nome delle gran corti criminali per indicare un collegio giudicante composto di soli magistrati togati in sostituzione delle corti di assise.

Bibl.: N. Nicolini, Della procedura penale nel Regno delle due Sicilie, 2ª edizione, II, i, Napoli 1845. Il Nicolini occupò fin dalla prima istituzione il posto di procuratore generale presso la Gran corte criminale di Terra di Lavoro. Vedi il discorso inaugurale da lui pronunziato in Questioni di diritto, VI, Napoli 1840-45; C. Ratti, Storia delle giurisdizioni penali in Italia, Catania 1878. Sull'attività delle corti speciali nei processi politici dopo la rivoluzione del 1848-1849 vedi M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli, Milano-Roma 1913. Circa alcune questioni giuridiche che furono discusse a scopo defensionale in quei processi, vedi la memoria di P.S. Mancini scritta in Torino il 1 dicembre 1851 per il processo relativo ai fatti del 15 maggio, pubblicata in Due scritti politici, con prefazione e commenti di A. Pierantoni, Roma 1899. Il Mancini, tra l'altro, sosteneva che le corti speciali rivestissero il carattere di tribunali straordinarî e fossero perciò da ritenere abolite in forza dell'art. 83 dello Statuto dell'11 febbraio 1848.

La Corte dei conti.

È la magistratura che esercita la vigilanza suprema sull'amministrazione finanziaria dello stato. Risalendo alle origini di questo istituto, taluni autori giungono a collegarlo al tribunale dei logisti, eletto dagli Ateniesi per giudicare coloro che cessavano da una carica pubblica, e alle commissioni del Senato romano che esaminavano i conti dei questori, consoli e pubblicani. In fatto, però, esso si affaccia negli ordinamenti di stato soltanto nel sec. XIII con la creazione delle camere dei conti.

Nei primi tempi della monarchia feudale i sovrani si facevano assistere, nell'esercizio della loro autorità, dai vassalli maggiori, i quali costituivano i cosiddetti consigli del re chiamati a coadiuvare il monarca nella risoluzione delle varie questioni di carattere religioso, politico, amministrativo e finanziario. In origine, data la ristrettezza dei territorî costituenti le signorie feudali, il potere del sovrano era molto limitato, e l'attività dei consigli del re saltuaria e di scarso rilievo, ma via via che il dominio della corona si allargò con l'incameramento delle spoglie dei grandi vassalli, il potere del re aumentò, e, parallelamente, si sviluppò l'importanza dei consigli, i quali giunsero a potersi costituire, in alcune epoche dell'anno, in corti sovrane di giustizia, gettando le prime basi dei due grandi poteri giudiziarî del Medioevo: il parlamento e la camera dei conti. Si parla già di una camera dei conti ai tempi del re Luigi IX di Francia ma la definitiva costituzione di questa speciale giurisdizione fu sancita dalla ordinanza del Louvre del 1262, integrata da una successiva ordinanza del 1318 con la quale Filippo il Lungo disciplinava le attribuzioni, la competenza, l'organizzazione e il rango della Camera dei conti fra gli organi dello stato, fissando anche il principio dell'incompatibilità fra le funzioni di eontabile e quelle di membro della Camera stessa. Istituti similari funzionavano nel regno delle Due Sicilie col nome di Curia Magna e di Camera Summaria, durante il governo dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi; le repubbliche di Genova, Firenze, Venezia, Pisa, Siena e Lucca e quasi tutti i comuni a governo libero affidavano il controllo della cosa pubblica a un corpo speciale di sindaci e il Piemonte, sin dal sec. XIV, faceva controllare l'operato dei gestori dei beni del principe dai magistri auditores computorum ordinati nel 1342 a magistratura collegiale dalla quale nacque la prima Camera dei conti italiana, istituita a Chambéry nel 1351. A questa fece seguito, nel 1575, la Camera di Torino nella quale si fondeva, poi, quella di Chambéry in base all'ordinanza 7 gennaio 1720 di Vittorio Amedeo II.

Sopravvenuta l'occupazione francese, si estendevano al Piemonte gli ordinamenti finanziarî della repubblica, la cui Assemblea costituente, con le leggi 17-29 settembre 1791, aveva soppresso le camere dei conti per riservare a sé stessa la revisione delle contabilità e il giudizio sui conti a denaro presentati dagli agenti. Quest'ultimo giudizio, però, per effetto della costituzione del 1793 e di quelle dell'anno terzo e dell'anno ottavo, veniva affidato a speciali commissioni i cui membri dovevano essere scelti all'infuori degli appartenenti all'assemblea. L'azione di tali commissioni risultò presto inadeguata alle necessità del controllo, sia nei riguardi della tutela degl'interessi dell'amministrazione finanziaria, sia nei confronti dei contabili, e per ovviare a tali deficienze il ministro Mollien propose a Napoleone, nel 1807, di deferire il giudizio dei conti a una magistratura speciale di ordine superiore, la quale avesse facoltà di appurare i conti, dare scarico ai contabili e dichiarare, in seguito a verifica fatta su documenti autentici, l'esattezza dei conti finanziarî, dando all'approvazione di essi la forma e l'importanza di una sentenza giudiziaria. A questa magistratura propose venisse dato il nome di Corte dei conti, e come tale, infatti, essa fu costituita dalla legge francese del 16 settembre 1807. Nel Regno di Sardegna, invece, dopo la restaurazione della monarchia sabauda continuò a funzionare la Camera dei conti. Cavour ne propose la soppressione con un disegno di legge del 5 marzo 1852, per sostituirvi una Corte dei conti, allo scopo - secondo dichiara la relazione che precede il disegno di legge - di riunire il controllo preventivo a quello giudiziario, di facilitare i lavori legislativi e portare ordine ed economia nell'amministrazione dello stato. Ma la proposta non ebbe favorevole accoglimento e solo con decreto legislativo 30 ottobre 1859 si poté fare luogo all'istituzione della nuova magistratura, il cui ordinamento organico venne fissato con la legge 14 agosto 1862, n. 800.

Secondo la legge stessa, tenuto conto di talune modificazioni apportatevi successivamente, il presidente della Corte, i presidenti di sezione e i consiglieri costituiscono l'elemento giuridico della Corte medesima e godono di assoluta indipendenza e di piena inamovibilità. Infatti, essi sono nominati con decreto reale su proposta del ministro delle Finanze, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, e non possono essere revocati, né collocati a riposo di ufficio, prima del compimento del settantacinquesimo anno di età, né allontanati in qualsiasi altro modo, se non per decreto reale adottato in seguito a parere conforme di una commissione composta dei presidenti e vice presidenti del Senato e della Camera e presieduta dal presidente del Senato. Una grandissima garanzia protegge quindi la magistratura della Corte dei conti italiana: tuttavia taluni stati vanno ancora oltre, come ad esempio il Belgio, ove i magistrati della corte sono nominati con atto legislativo approvato dalle due camere.

Le funzioni di competenza della Corte dei conti italiana sono di triplice natura: amministrative, costituzionali-contabili e giurisdizionali, alle quali si aggiunge una funzione attiva che riguarda la liquidazione delle pensioni per il personale delle varie amministrazioni statali.

a) Le funzioni amministrative si esplicano nella vigilanza sulla riscossione delle entrate e sui valori, in denaro o in materie, di pertinenza dello stato; nella vigilanza sulle cauzioni (esercitata col visto sugli atti che fissano l'ammontare delle cauzioni, ne riducono l'importo o ne consentono il trasporto o la cancellazione) e nella sorveglianza sui buoni del tesoro.

b) Le funzioni costituzionali-contabili comprendono la vigilanza sugli atti del potere esecutivo che derivano dall'esecuzione del bilancio (controllo preventivo) e l'esame e l'approvazione del rendiconto generale dell'amministrazione dello stato (controllo posteriore). Il controllo preventivo assume due forme diverse, l'una di legittimità e l'altra di controllo finanziario. Il controllo di legittimità è volto ad accertare se gli atti siano contrarî a disposizioni legislative o regolamentari in vigore, senza alcun riguardo alla maggiore o minore convenienza politica degli atti stessi: esso investe i decreti ministeriali con i quali si approvano contratti per un importo superiore a lire ventimila o si autorizzano altre spese per un ammontare superiore a lire diecimila, nonché gli atti di nomina, promozione o cessazione dal servizio d'impiegati e agenti dello stato, e quelli con i quali si conferiscono stipendî e altri assegni di carattere continuativo a carico del bilancio statale. Tale controllo si esercita con la registrazione degli atti stessi prima che divengano esecutivi, con l'obbligo da parte della Corte di negare la registrazione quando l'atto contravvenga a disposizioni di legge. A evitare, tuttavia, che la Corte dei conti possa sovrapporsi e sostituirsi al ministro responsabile, arrestando o inceppando l'azione del governo, il diniego del visto e della registrazione per gli atti soggetti al controllo di legittimità non annulla gli atti stessi, perché il ministro che li ha adottati può sempre ricorrere al giudizio di secondo grado del Consiglio dei ministri il quale, quando ritenga valide le ragioni del ministro ricorrente, ha facoltà di ordinare la registrazione con riserva. Questa speciale forma giuridica contempera le necessità del controllo preventivo e quelle dell'esplicarsi dell'azione del potere esecutivo, in quanto, al fine di evitare una eccessiva libertà di movimento da parte di questo, la forma stessa trova un vincolo nell'obbligo fatto alla Corte di comunicare quindicinalmente alle presidenze delle due camere l'elenco delle registrazioni eseguite con riserva perché il parlamento possa pronunciarsi in merito. Di più, la registrazione con riserva non ha applicazione nei riguardi degli atti sui quali si esplica, oltre al controllo di legittimità, anche quello finanziario, il quale è volto a impedire le infrazioni alla legge del bilancio. Il rifiuto della Corte è assoluto, senza possibilità di fare luogo a registrazione con riserva, nel caso di ordini di pagamento emessi in eccedenza alla somma autorizzata dal bilancio, o erroneamente imputati al conto della competenza anziché a quello dei residui o viceversa; nel caso di decreti di nomina e di promozione di funzionarî in eccedenza sul numero dei posti fissati in organico e nel caso di ordini di accreditamento a favore di funzionarî delegati al pagamento di determinate spese, nel caso in cui l'importo di tali ordini ecceda i limiti fissati dalla legge.

c) Le funzioni giurisdizionali riguardano la decisione di ricorsi in materia di pensioni; il giudizio sui conti che debbono presentare tutti i funzionarî che, eseguendo operazioni d' introito o di pagamento, hanno maneggio di denaro, e il giudizio sulla responsabilità amministrativa-patrimoniale dei funzionarî che hanno facoltà di assumere impegni e di disporre pagamenti, nonché sulla responsabilità dei capi delle ragionerie centrali e dei funzionarî ai quali son commessi il riscontro e la verificazione delle casse e dei magazzini. A queste si aggiunge il giudizio di seconda istanza che la Corte dei conti può essere chiamata a dare sulla responsabilità degli amministratori dei comuni, delle provincie e delle opere pie. Tutti questi giudizî si concretano in speciali decisioni che hanno valore di sentenze, sono emesse in nome del re, sono sempre motivate e ammettono taluni rimedî conseguibili mediante ricorsi rivolti a ottenere l'annullamento o la revocazione delle decisioni stesse. I ricorsi di annullamento sono ammessi per motivi di eccesso di potere, oppure d'incompetenza per ragione di materia, e su di essi decide la Corte di cassazione del regno a sezioni unite; i ricorsi per revocazione possono invece essere presentati quando vi sia stato errore di fatto o di calcolo, quando si sia riconosciuta omissione o doppio impiego, quando si siano rinvenuti nuovi documenti dopo pronunciata la decisione e, finalmente, quando la decisione sia stata emessa sulla base di documenti riconosciuti falsi.

In aggiunta a queste funzioni istituzionali altre sono state conferite alla Corte dei conti con leggi e decreti speciali, e tra esse meritano particolare rilievo: il riscontro dell'amministrazione della Cassa depositi e prestiti (legge 17 marzo 1863, n. 1270, e regio decr. 31 dicembre 1899, n. 505); il riscontro e la vigilanza dell'amministrazione del Fondo per il culto (legge 22 giugno 1874, n. 1962); il giudizio sulle controversie nascenti dagli atti esecutivi disposti contro gli antichi agenti delle riscossioni delle imposte dirette (legge 22 marzo 1877, n. 3756); la sorveglianza sulla cassa speciale del tesoro per i biglietti a debito dello stato (legge 7 aprile 1881, n. 133); il sindacato sull'officina delle carte valori (regi decreti 16 giugno 1881, n. 253, 8 luglio 1904, n. 346 e 12 ottobre 1924, n. 1575); il riscontro e la vigilanza sull'amministrazione del fondo speciale di beneficenza e di religione della città di Roma (legge 14 luglio 1887, n. 4728); il riscontro effettivo sui magazzini e depositi di materie e merci di proprietà dello stato (legge 11 luglio 1897, n. 256); il riscontro sull'amministrazione delle ferrovie dello stato (leggi 7 luglio 1907, n. 429 e 5 aprile 1908, n. 111); il riscontro speciale sull'azienda del demanio forestale di stato (legge 2 luglio 1910, n. 2771); l'innovazione ai giudizî e il riscontro sui conti dei corpi, istituti e stabilimenti militari (legge 17 luglio 1910, n. 511); il controllo, la vigilanza e la giurisdizione sull'amministrazione degli economati dei benefici vacanti (legge 21 luglio 1911, n. 781); la giurisdizione sui conti consuntivi dei convitti nazionali (r. decr. 9 agosto 1912, n. 1076); il controllo sull'amministrazione degli archivî notarili (legge 16 febbraio 1913, n. 89); il giudizio su tutte le controversie che sorgano in ordine all'opera di previdenza del personale delle ferrovie dello stato (legge 19 giugno 1913, n. 641); il controllo sull'amministrazione del fondo massa per il corpo della regia guardia di finanza (r. decr.4 settembre 1925, n. 1627).

Nei riguardi degli stati esteri, è da osservare che quasi tutte le nazioni hanno costituito una magistratura superiore di controllo con fisionomia analoga a quella della Corte dei conti italiana, fatta eccezione pei i paesi anglo-sassoni, i cui ordinamenti finanziarî hanno un aspetto caratteristico. Non possono, infatti, essere paragonati alla Corte dei conti né il General Accounting office organizzato negli Stati Uniti d'America dal Budget and Accounting Act del 10 giugno 1911, né l'Exchequer and audit department istituito da Gladstone il 28 giugno 1866 e tuttora esistente in Inghilterra, al quale si inspira anche l'analogo istituto creato dal Giappone nel maggio 1889.

In Germania Bismarck costituì nel 1872 una Camera dei conti, poi trasformata nella Corte dei conti dell'Impero, che è stata conservata nella costituzione dell'11 agosto 1919. Essa compie soltanto una superrevisione posteriore, mentre il controllo preliminare viene effettuato dagli organi amministrativi competenti.

In Austria, la prima Corte dei conti fu creata con ordinanza imperiale del 21 novembre 1866 per trasformazione della Camera dei conti istituita da Maria Teresa nel 1761, e dopo il crollo della monarchia essa è stata mantenuta in vigore con l'articolo 128 della costituzione 10 ottobre 1920 e regolata definitivamente dalla legge 30 luglio 1925.

L'Ungheria, anteriormente allo scioglimento dell'Impero austroungarico, era assoggettata, per le spese comuni con l'Austria, alla Corte suprema dei conti istituita a Vienna in base al compromesso austriaco-ungherese del 1867. Però, per il controllo del proprio bilancio particolare, essa aveva una separata Corte dei conti organizzata con le leggi 11 giugno 1870 e 24 dicembre 1880. Questa Corte dei conti sussiste tuttora ed è regolata da una legge del 1920 e dalla legge IV del 1924.

Nella Spagna la carta del Tribunal de cuentas riposa nella legge 25 giugno 1870, completata da un regolamento in data 8 novembre 1871.

In Polonia è stata istituita, con l'articolo 9 della costituzione del 17 marzo 1921, una Corte suprema di controllo che ha l'incarico di vigilare su tutta la gestione finanziaria dello stato e di proporre alla Dieta, ogni anno, l'approvazione o la disapprovazione (discarico o rifiuto di discarico) dell'opera del governo.

La Cecoslovacchia ha costituito la sua Corte dei conti in applicazione dell'articolo 53 della costituzione 29 febbraio 1920, con l'obbligo di controllare, non soltanto la regolarità e la legalità delle entrate e delle spese, ma anche il grado di utilità di queste ultime, sulla traccia dei criterî che regolano la Corte dei conti germanica. Seguendo, inoltre, la tradizione austriaca, alla stessa Corte dei conti cecoslovacca è affidato l'incarico di preparare il rendiconto e di presentarlo al parlamento, avvalendosi degli elementi contabili che le debbono essere comunicati mensilmente dai servizî ordinatori.

In Romania la prima legge sulla Corte dei conti risale al 24 febbraio 1864, modificata più tardi da altra legge del 1874 e infine dalla costituzione del 29 marzo 1923.

La Bulgaria è addivenuta alla creazione della Corte dei conti solo con la legge 22 marzo 1921 che s'inspira agli ordinamenti italiani.

Parimenti nel 1921 è stata costituita nella Svezia una Camera dei conti (Kammarraten) alle cui dipendenze è posto l'ufficio centrale dei conti dello stato (Riksratenskapsverket).

In Grecia, la Corte dei conti è sorta con legge dell'ottobre 1852 ed è stata mantenuta dalla costituzione del 1866. Per effetto di successive variazioni portate alla legge istitutiva, essa è venuta ad assumere fisionomia analoga a quella delle corti dei conti italiana e belga, soprattutto in seguito al decreto 4 luglio 1923, i cui concetti hanno avuto conferma nella nuova costituzione del 3 giugno 1927.

In Turchia un'ordinanza del 1862 aveva istituito la Corte dei conti, alla quale la costituzione del 23 dicembre 1876 sostituiva un Consiglio dei conti che ebbe però breve durata, perché nel 1877 la Corte dei conti venne ricostituita. Una legge del 14 febbraio 1911 affidava a questa corte il controllo preventivo secondo le norme adottate dall'Italia e dal Belgio, ma la costituzione della repubblica di Angora, in data 23 maggio 1924, diede all'istituto una fisionomia affatto diversa, trasformandolo in commissione parlamentare composta di dodici membri da nominarsi dalla Assemblea nazionale fra persone estranee all'assemblea stessa.

Finalmente, la Cina ha organizzata la propria Corte dei conti con la costituzione dell'ottobre 1923.

Bibl.: L. Say, Dictionnaire des finances, Parigi 1889; G.B. Ugo, la Corte dei Conti, Torino 1882; A. De Brun, La Corte dei conti e le sue funzioni di controllo sull'amministrazione dello stato, Milano 1912; A. Casulli, La funzione istituzionale della Corte dei Conti e la riforma del controllo in Italia, Roma 1928; V. De Marcè, Le contrôle des finances en France et à l'étranger, Parigi 1928.

La corte permanente di arbitrato.

Dell'istituzione di una Corte permanente di arbitrato si occupò la prima conferenza della pace dell'Aia nella convenzione del 29 luglio 1899; nella seconda conferenza della pace si addivenne alla formulazione di una nuova convenzione (18 ottobre 1907) che introdusse però solo alcune modificazioni e completamenti alla precedente. Tali convenzioni non contengono un'obbligazione di natura arbitrale tra gli stati: esse si limitano a porre delle norme attinenti all'organizzazione e al funzionamento della Corte, nel caso che le parti acconsentano a sottoporre ad essa le controversie che sorgono tra di loro. Gli sforzi fatti per pervenire alla stipulazione di un vincolo di arbitrato obbligatorio, fino dalla prima conferenza e più ampiamente nella seconda, non approdarono a un risultato concreto, particolarmente per l'opposizione della Germania. L'art. 16 della convenzione del 1899 si era limitato a stabilire il principio che "dans les questions d'ordre juridique et en premier lieu dans les questions d'interprétation ou d'application des conventions internationales l'arbitrage est reconnu par les Puissances signataires comme le moyen le plus efficace et en même temps le plus équitable de régler les litiges qui n'ont pas été résolus par les moyens diplomatiques". Compito della conferenza successiva, secondo il programma russo, doveva essere, fra l'altro, quello di "améliorations à apporter aux dispositions de la Convention relative au règlement pacifique des conflits internationaux en ce qui regarde la Cour d'arbitrage et les Commissions d'enquête". Il punto essenziale era però quello di addivenire a un accordo che sancisse l'obbligo di ricorrere alla corte per la soluzione delle controversie fra le parti. Furono presentati e difesi varî progetti: alcuni stabilivano il principio dell'obbligatorietà di sottoporre alla Corte le controversie di carattere giudirico ad esclusione di quelle che toccassero l'indipendenza, gl'interessi vitali, ecc., delle parti, ovvero gl'interessi di altri stati; altri progetti contenevano l'indicazione di alcune materie per le quali si doveva sancire l'obbligazione incondizionata di ricorso, cioè con esclusione delle suddette riserve, altri infine miravano a conciliare i due criterî. Dopo ampie discussioni, il comitato di esame finì con l'addivenire con una notevole maggioranza alla formulazione di un progetto, detto progetto anglo-portoghese-americano; in esso si stabiliva il principio generale dell'obbligatorietà del ricorso all'arbitrato per le controversie d'ordine giuridico e in particolar modo per quelle relative all'interpretazione dei trattati, con la condizione però che esse non mettessero in causa gl'interessi vitali, l'indipendenza o l'onore di una delle parti o che non toccassero gl'interessi di terzi stati. Per rendere l'obbligazione meno illusoria si stabiliva una lista di casi in cui l'obbligo del ricorso doveva essere senza riserve: ogni governo avrebbe indicato per quali casi accettava l'arbitrato obbligatorio, e sulla base delle dichiarazioni di ogni stato si sarebbe costituito un tableau degl'impegni incondizionati tenuto al corrente per comunicazione dei singoli stati al Bureau international dell'Aia. Ma benché tale progetto - per la latitudine che lasciava ai varî stati - non potesse giudicarsi troppo rigoroso, pure non ottenne, nella discussione plenaria, l'unanimità (9 voti contrarî e 3 astensionali). E così fallì il tentativo del 1907 in favore dell'arbitrato obbligatorio. La conferenza peraltro decise all'unanimità di comprendere nel suo atto finale la seguente dichiarazione non priva certamente di valore morale. La Conferenza "est unanime:1. à reconnaître le principe de l'arbitrage obligatoire; 2. à déclarer que certains différends, et notamment ceux relatifs à l'interprétation et à l'application des stipulations conventionelles internationales sont susceptibles d'être soumis à l'arbitrage obbligatoire sans aucune restriction".

Difficoltà non meno gravi dovevano superarsi nel fissare la composizione della Corte. In questo campo infatti la pretesa dei piccoli stati a un trattamento eguale nella scelta dei giudici si contrapponeva al volere delle grandi potenze di ottenere un trattamento conforme all'innegabile diversità nella situazione di fatto: né può dirsi che tale difficoltà sia stata superata nelle conferenze dell'Aia. In base a queste ogni stato designa, al massimo, quattro persone della più alta considerazione morale e d'una competenza notoria nel diritto internazionale: tutti costoro sono i membri della Corte di arbitrato; sono nominati per sei anni e sono rieleggibili. Dato, naturalmente, che un consesso così numeroso d'individui non potrebbe agire come collegio giudicante, la Corte di arbitrato, a onta del nome, non è un tribunale, ma è una semplice lista di persone, tra le quali devono scegliersi i giudici per la costituzione del tribunale internazionale. Perché questo esista e funzioni occorre però che gli stati siano d'accordo di sottoporre ad esso la decisione di una controversia e abbiano provveduto alla sua costituzione.

L'impegno di sottoposizione all'arbitrato sorge con la stipulazione di un compromesso nei riguardi d'una vertenza già nota. La costituzione della vera Corte di arbitrato giudicante - formata di cinque giudici - può avvenire o con una scelta fatta di comune accordo da parte dei due stati, in seno ai membri della corte, ovvero, in mancanza di accordo diretto, con la procedura seguente. Ogni parte designa due arbitri, di cui uno soltanto può essere proprio cittadino ovvero scelto tra le persone che erano state da essa designate come membri della Corte. I quattro arbitri scelgono poi un superarbitro: in caso di parità di voti, la scelta del superarbitro è affidata a un terzo stato designato di comune accordo dai due precedenti. Se l'accordo non si raggiunge su questo punto, ciascuna parte designa uno stato diverso e la scelta del superarbitro è fatta dai due stati così designati. Nel caso che neppure questi due stati riescano a mettersi d'accordo, ognuno di essi presenta due candidati scelti nella lista dei membri della Corte (che non siano membri già designati dalle parti in conflitto né loro cittadini) e la sorte stabilirà quale dei due candidati così presentati debba essere il superarbitro.

Può darsi che gli stati si siano già vincolati con un trattato di arbitrato o con la clausola compromissoria, a sottoporre alla Corte le future, eventuali controversie che possano sorgere tra di loro. La stipulazione del compromesso al verificarsi della vertenza e la nomina dei giudici costituisce allora un dovere per gli stati: se essi non riescono ad addivenire al compromesso, il rapporto processuale dinnanzi alla Corte non può tuttavia sorgere. Si è cercato di rimediare, ma solo parzialmente, a questa manchevolezza, insita d'altra parte nel sistema delle convenzioni dell'Aia, con una disposizione introdotta in seguito a suggerimento tedesco. Se le parti non riescono a intendersi sui termini del compromesso, questo potrà venire fissato da una commissione di 5 membri della Corte, costituita secondo la procedura per la formazione del tribunale arbitrale. E questa commissione potrà essa stessa poi funzionare come tribunale per la risoluzione della vertenza, salva volontà contraria delle parti. Si aggiunge che, nel caso di trattato generale di arbitrato, se non risulta esclusa la competenza della Corte a fissare il compromesso, la commissione potrà provvedervi anche in seguito a ricorso unilaterale di una parte: basta però la dichiarazione dell'altra parte che si tratti di controversia non arbitrabile perché la commissione debba astenersi dal provvedere.

La convenzione del 1907 - completando e migliorando la convenzione precedente - ha stabilito il sistema processuale che si svolge innanzi alla Corte, ma le sue norme sono puramente dispositive, potendo le parti in conflitto stabilire una procedura diversa. Nel caso poi che arbitro sia un capo di stato spetta a lui stabilire la procedura. La procedura si divide in due fasi: la scritta e l'orale: ognuna delle parti a mezzo dei proprî agenti o delegati deve produrre le proprie memorie e tutti i documenti ritenuti necessarî per la propria difesa: segue poi il dibattimento orale tra le parti, chiuso il quale il tribunale si ritira per deliberare. La decisione è presa a maggioranza; la sentenza viene letta in seduta pubblica e notificata alle parti. La sentenza deve essere motivata: essa deve fondarsi sul diritto internazionale: non si volle assegnare ai giudici anche la facoltà di decidere ex aequo et bono, ma s'intende che se le parti acconsentono a ciò nel compromesso, il tribunale potrà farlo senz'altro. La facoltà per i giudici di minoranza di rendere noto il loro dissenso, prevista nella convenzione del 1899, venne soppressa in quella del 1907. Le parti hanno il dovere di eseguire in buona fede le sentenze della Corte. Si applicano per esse i criterî generali sui limiti soggettivi e oggettivi della cosa giudicata. Una sentenza interpretativa di una convenzione plurilaterale fa stato anche contro i terzi stati i quali siano intervenuti al processo. Non è ammesso appello dalle sentenze della Corte: è contemplato solo l'istituto della revocazione, il cui presupposto è la scoperta di un fatto nuovo di natura tale da esercitare un'influenza decisiva sul modo di decidere, fatto che sia rimasto prima ignorato al tribunale e alla parte che chiede il giudizio di revocazione. La Corte è competente a interpretare le proprie sentenze e a giudicare su controversie concernenti la loro esecuzione. Nel capo IV del titolo IV della convenzione del 1907 è regolata la procedura sommaria: riduzione nella composizione del tribunale, maggiore semplicità di forme.

Bibl.: Actes de la Conf. internat. de la Paix, Roma 1899; Deuxième Conf. internat. de la Paix, L'Aia 1907; D. Anzilotti, Corso di Dir. Intern., III, Roma 1915 (per le Teorie generali, in op. cit., I, 3ª ed., 1927); G. Diena, Principî di dir. intern. pubblico, 3ª ed., Milano 1930; A. Lapradelle, La Conférence de la Paix, Parigi 1900; A.S. de Bustamante y Sirven, La segunda Conferencia de la paz, Madrid 1908; F. Despagnet, Cours de droit internat. public, 4ª ed., Parigi 1910; H. Lammasch, Die Rechtskraft internationaler Schiedssprüche, Monaco 1913; id., Die Lehre von der Schiedsgerichtsbarkeit, in Handb. di Fr. Stier-Somlo, Stoccarda 1914; H. Wehberg, Kommentar zu dem Haager Abkommen betr. die friedliche Erledigung intern. Streitigk. von 18 Oktober 1907, Tubinga 1911; K. Strupp, Die internat. Schiedsgerichtsbarkeit, Berlino 1914; A. Pearce Higgins, The Hague Peace Conferences, Cambridge 1900; F. W. Holls, The Peace Conference at the Hague, Londra 1915; J. B. Scott, Texts of the Peace Conferences at the Hague 1899 and 1907, Boston 1908.

La corte permanente di giustizia internazionale.

La tendenza alla creazione di un tribunale permanente per la decisione delle controversie fra stati risale a periodi molto remoti. I primi tentativi di attuazione pratica si ebbero nelle due conferenze dell'Aia, del 1899 e del 1907, nelle quali si pervenne soltanto alla creazione di una Corte permanente di arbitrato (v.). Dopo la guerra mondiale, l'idea di una giurisdizione internazionale fu ripresa con migliore successo nel patto della Società delle nazioni, compreso nel trattato di Versailles del 28 giugno 1919: il quale (art. 14) attribuì al consiglio della Società il compito di preparare un disegno per l'istituzione di una Corte permanente di giustizia internazionale, chiamata a decidere le controversie di carattere internazionale, e ad esprimere pareri sulle questioni ad essa proposte dal consiglio o dall'assemblea. Un apposito comitato di giuristi preparò il progetto di statuto della Corte, che fu approvato dall'assemblea della Società delle nazioni il 13 novembre 1920 e nel corso dell'anno successivo fu ratificato dalla maggior parte degli stati membri della Società. La Corte si riunì per la prima volta, all'Aia, nel gennaio 1922; e si diede anzitutto un proprio regolamento, modificato nel 1926.

La Corte si compone di undici giudici titolari e quattro supplenti. I giudici sono eletti separatamente dall'assemblea e dal consiglio della Società delle nazioni, in base a una lista di persone presentate dai gruppi nazionali della Corte di arbitrato dell'Aia. I candidati che ottengono la maggioranza assoluta dei voti nell'assemblea e nel consiglio sono proclamati eletti. Una speciale procedura è prevista per l'ipotesi che l'elezione da parte di questi organi, ripetuta fino al terzo scrutinio, non conduca a risultati completi. I membri della Corte durano in ufficio nove anni, e sono rieleggibili. La loro funzione è incompatibile con ogni altra funzione politica o amministrativa. Essi godono dei privilegi e delle immunità diplomatiche. Il presidente e il vicepresidente sono eletti dalla Corte per un periodo di tre anni. Il cancelliere è nominato dalla Corte per un periodo di sette anni.

La prima elezione dei giudici è avvenuta nel settembre 1921, risultando eletti cittadini dei seguenti paesi: Brasile, Cuba, Danimarca, Francia, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Spagna, Stati Uniti, Svizzera (giudici titolari); Cina, Iugoslavia, Norvegia, Romania (giudici supplenti). Presidenti della Corte, nel periodo 1921-1930, sono stati successivamente: Loder (Olanda); Huber (Svizzera); Anzilotti (Italia).

La Corte risiede all'Aia, e tiene ogni anno una sessione ordinaria, che comincia il 15 giugno; inoltre è spesso convocata in sessioni straordinarie.

Soltanto gli stati o i membri della Società delle nazioni possono essere parti nei giudizî avanti la corte. Per i membri della società (e stati assimilati) l'accesso alla Corte è dato senza speciali condizioni: per gli altri stati, occorre che essi abbiano preventivamente dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte, impegnandosi a eseguirne le decisioni.

La giurisdizione della Corte presuppone, in linea generale, il consenso delle parti: cioè, ha carattere facoltativo. Tuttavia, in virtù di clausole, generali o speciali, di trattati internazionali, la giurisdizione della Corte può essere resa obbligatoria nei rapporti fra gli stati contraenti. Ciò si verifica specialmente per effetto di una speciale dichiarazione, che gli stati possono fare al momento della ratifica dello statuto della Corte, o successivamente, nei riguardi degli altri stati che accettino lo stesso obbligo. L'accettazione di questa "clausola opzionale", dapprima limitata a pochi stati, si è venuta estendendo in questi ultimi anni, anche da parte di alcune grandi potenze, fra le quali l'Italia.

Il procedimento davanti la Corte si compone di una prima fase scritta e di una seconda orale. Istituito il giudizio, le parti possono depositare, entro certi termini, le loro memorie e contromemorie, contenenti le conclusioni e l'esposizione dei motivi. Dopo il deposito degli atti scritti, s'inizia il procedimento orale. Le lingue ufficiali sono il francese e l'inglese: in certi casi, la corte può autorizzare l'uso di altre lingue. Durante il procedimento, è ammesso l'intervento di terzi stati, che siano direttamente interessati nella vertenza.

Nelle sue decisioni, la Corte applica: 1. le convenzioni internazionali riconosciute dagli stati contendenti; 2. le consuetudini internazionali; 3. i principî generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; 4. le decisioni giudiziarie e gl'insegnamenti dei più reputati pubblicisti delle varie nazioni. Le sentenze della Corte sono definitive e senza ricorso. È ammesso soltanto, in certi casi, un giudizio di revisione.

La Corte è chiamata non soltanto a decidere le controversie internazionali, ma anche a dare pareri consultivi sulle questioni ad essa sottoposte dagli organi della Società delle nazioni. Quest'attività consultiva è disciplinata con un procedimento analogo a quello degli affari contenziosi: in particolare, i governi e le organizzazioni interessate sono messi in grado di esporre le proprie deduzioni, sia con la produzione di documenti, sia con la partecipazione alle udienze.

Dal 1922 la Corte ha tenuto una serie di sessioni, ordinarie e straordinarie, emanando varie decisioni su affari contenziosi e molti pareri in sede consultiva. Tra i più importanti casi decisi ricordiamo quelli del vapore Wimbledon (Germania-Francia, Inghilterra, Italia, Ciappone), delle concessioni Mavrommatis in Palestina (Grecia-Inghilterra), sulla interpretazione del trattato di Neuilly (Grecia-Bulgaria), su certi interessi tedeschi nell'Alta Slesia (Germania-Polonia) e l'affare del Lotus (Francia-Inghilterra). Tra i pareri consultivi ricordiamo quelli sui decreti di nazionalità in Tunisia e nel Marocco, sulle minoranze tedesche in Polonia, sullo scambio delle popolazioni greche e turche, sulla competenza dell'organizzazione internazionale del lavoro, sulla competenza della commissione europea del Danubio.

Gli atti della Corte sono contenuti in cinque serie di pubblicazioni ufficiali, che riguardano rispettivamente: le sentenze, i pareri consultivi, gli atti e documenti relativi alle sentenze e ai pareri, gli atti e documenti relativi all'organizzazione della Corte, i rapporti annuali.

Bibl.: A.S. de Bustamante y Sirvén, La Cour permanente de Justice Internat., Parigi 1925; G. Diena, La Cour permanente, ecc., in Scientia, 1921; B. C. J. Loder, The permanent Court of Internat. Juistice, Londra 1920; L. Meriggi, Le funzioni consultive della Corte permanente di giustizia internaz., in Rivista di diritto internaz., 1930; J. Morellet, L'organisation de la Court etc., Parigi 1921; N. Politis, La Justice internat., Parigi 1924; A. P. Fachiri, The permanent court, ecc., Londra 1925; G. Salvioli, La Corte permanente, ecc., Roma 1928.

La corte internazionale delle prede.

È regolata dalla XII convenzione del 18 ottobre 1907 della seconda conferenza internazionale della pace dell'Aia. La Corte però, non è mai entrata in funzione per mancanza delle ratifiche richieste. Scopo della convenzione doveva essere quello di sottoporre al controllo di un organo internazionale la legalità internazionale della condotta degli stati in materia di prede marittime. Maggiore garanzia d'imparzialità si assicurava così nel collegio giudicante rispetto ai tribunali interni dello stato cattore. La sentenza della Corte si doveva poi basare sul diritto internazionale, mentre gli organi interni giudicano in base al diritto interno che può eventualmente trovarsi in contrasto col diritto internazionale: era conferita inoltre alla Corte, in assenza di norme precise di diritto di guerra, la funzione di giudice di equità, principio questo notevolissimo per il completamento e lo sviluppo del diritto di guerra marittima.

La Corte è formata di quindici giudici, giuristi di competenza riconosciuta in diritto internazionale marittimo e godenti della più alta considerazione morale; però può anche sedere con un minimo di nove giudici.

Si presentò alla conferenza la necessità di risolvere il punto delicato della limitazione dei componenti il collegio giudicante rispetto agli stati vincolati dalla convenzione, ma infine si riconobbe la prevalenza degli interessi delle grandi potenze. Infatti i giudici nominati da queste potenze (Germania, Stati Uniti, Austria-Ungheria, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone e Russia) siederanno sempre di diritto nel tribunale; i giudici degli altri stati saranno chiamati a turno. Nel caso però che uno di questi stati si trovasse nella condizione di belligerante avrebbe diritto ad avere il proprio giudice nella Corte: onde evitare un aumento del numero dei componenti il tribunale, si stabilì peraltro che uno dei giudici di turno (purché non di potenza belligerante) - determinato dalla sorte - dovesse in tal caso astenersi.

Secondo la convenzione le giurisdizioni interne delle prede non vengono soppresse: i tribunali interni rimangono, ma non possono essere più di due gradi. Dalle sentenze definitive interne è ammesso il ricorso alla Corte: però, se entro due anni i tribunali nazionali non si sono pronunziati, la Corte può essere adita direttamente. È lasciato poi alle legislazioni interne lo stabilire se, nel caso di ricorso, si debba o no sospendere l'esecuzione della sentenza. La possibilità del ricorso è generale quando si tratti di proprietà di uno stato o cittadino neutro; quando invece si tratti di beni nemici la possibilità del ricorso è ammessa solo al verificarsi delle seguenti ipotesi: a) che i beni siano stati catturati su nave neutra; b) che la cattura di nave nemica sia avvenuta in acque neutre; c) che il ricorso si basi sulla violazione di una disposizione convenzionale in vigore tra i belligeranti ovvero di una norma interna dello stesso stato cattore.

Può agire di fronte alla Corte lo stato neutro, in difesa dei diritti dei proprî cittadini o quando pretenda che sia avvenuta una violazione delle proprie acque territoriali per cattura di nave nemica ivi avvenuta (il privato nemico non può invece, a questo titolo, adire la Corte), o ancora nella qualità di proprietario dei beni catturati. Può adire la Corte il privato neutro, ma il suo stato può sostituirsi a lui ovvero impedirgli di ricorrere; e infine il privato nemico solo però quando si tratti di beni su nave neutrale o di violazione di convenzione tra i belligeranti o di norma interna dello stato cattore. Il ricorso può essere esercitato anche da terzi aventi diritto, dal proprietario della nave e del carico: occorre però che questi siano intervenuti nel processo interno: essi poi ricorreranno nelle stesse condizioni dei proprietarî.

La facoltà concessa ai privati di agire dinanzi la Corte ha dato luogo nella sistematica scientifica del diritto internazionale a un problema del più alto interesse. Coloro i quali affermavano che gl'individui non potessero essere soggetti di diritto internazionale tentarono di spiegare la nuova situazione giuridica mediante costruzioni più o meno ingegnose, ma sempre artificiose. Si è parlato di cessionarî di azione, di rappresentanti, di organi, di azione popolare, di terzi beneficiarî, ecc. Una visione più serena ha dimostrato invece che non vi ha alcuna ragione dogmatica per cui gl'individui non possano anch'essi diventare soggetti nell'ordinamento internazionale; se una norma internazionale attribuisce loro direttamente un diritto soggettivo, diventano in quel momento stesso soggetti di diritto internazionale. In tale ipotesi sarebbe rientrata la convenzione sulla Corte delle prede qualora fosse entrata in vigore.

Il termine per ricorrere è di 120 giorni dal giorno in cui la sentenza può ritenersi conosciuta dalle parti. La procedura è scritta e orale; nella istruzione della causa è confermato il principio del contraddittorio ed è ammessa una certa iniziativa del tribunale; notevole è poi il principio in materia di prova, per cui la Corte dovrà attenersi alle regole di diritto internazionale (criterio importante per la questione dell'onere della prova addossata di frequente nelle legislazioni interne al catturato). La Corte delibera a porte chiuse; la sentenza dev'essere motivata e pronunciata in seduta pubblica. La Corte deve applicare, prima di tutto, le regole convenzionali fra le parti; se non ve ne sono, quelle generali, e, in mancanza di queste, le consuetudini; e infine "si des règles généralement reconnues n'existent pas, la cour statue d'après les principes généraux du droit et de l'equité". La sentenza può: a) confermare la validità della cattura; b) pronunziare la nullità della cattura; c) statuire sul risarcimento dei danni. Le potenze firmatarie s'impegnano a eseguire in buona fede, nel più breve termine possibile, la sentenza pronunziata dalla corte.

Bibl.: F. Liszt, Das Wesen des völkerrechtlichen Staatenverbandes und der internationale Prisenhof, in Festgate f. Gierke, Breslavia 1910; F. Hold von Ferneck, in Zeitschrift für Völkerrecht u: Bundestaatsrecht, Breslavia 1906 segg.; VI; H. Pohl, Deutsche Prisengerichtsbar., Tubinga 1911; D. Anzilotti, in Rivista di diritto internazionale, 1910; A. Cavaglieri, La natura giuridica della Corte internazionale delle prede, ibidem, 1914; Ch. Ozanam, La juridsdiction internationale des prises maritimes, Parigi 1910; F. Donker Curtius, la Cour internationale des prises, in Revue de droit international et de Législation comparée, 1909; F. Despagnet, Cours de droit international public, Parigi 1910; C. Dupuis, Le droit de la guerre maritime d'après les Conférence de La Haye et de Londres, Parigi 1911; A. S. de Bustamante y Sirven, La segunda Conferencia de la paz, Madrid 1908; T. J. Lawrence, International Problems and Hague Conferences, Londra 1908.

Le corti d'amore.

L'esistenza delle Corti d'amore come veri e proprî tribunali, istituiti presso la nobiltà provenzale e francese dei secoli XII-XIV per decidere intorno a questioni d'amore secondo una casistica giuridica e una procedura segreta, è affatto leggendaria. Ma intese come finzione poetica e legate a un particolare gusto letterario e a un particolare clima sociale, esse trovano larga testimonianza nella lirica e nella precettistica romanze. In un mondo poetico dominato in prevalenza dall'ansia amorosa e da una pratica cortese e mondana, qual'è quello dei trovatori, la stessa passione finisce con l'essere impersonata e divinizzata e le sue manifestazioni sentimentali subiscono una meccanica classificazione, tanto che si viene a creare un aristocratico e fragilissimo culto e una speciale e raffinata arte psicologica. Così per Corte d'amore i poeti di Provenza intendono, in un primo momento, un tribunale ideale e astratto, in cui è solo giudice e arbitro lo stesso Dio dell'amore, al quale l'artista è solito appellarsi nella sua solitudine lirica; ma poco per volta, col prevalere della moda letteraria e dell'oziosa casistica, il rimatore propone a sé stesso o ad altri, al di fuori d'ogni necessità interiore, una sottile questione di psicologia amorosa o di condotta pratica, il cui dibattito trova la sua forma metrica nei jocs partitz o partimens (v. tenzone). Da queste consuetudini poetiche, frutto di pura immaginazione, è facile intuire risonanze più ampie e concepire un "giudizio d'amore" in mezzo a una corte, fra gentildonne e cavalieri, ma sempre con carattere di disputa galante, e mai come soluzione di casi reali (si pensi alle "Questioni d'amore" nel Filocolo del Boccaccio, e al loro valore di passatempo mondano). Il più antico trattatista, che introduce l'idea delle Corti d'amore, con un primo questionario, è Andrea Cappellano, con il suo De Amore. Vissuto nella seconda metà del sec. XII e nelle prime decadi del seguente, cappellano del re di Francia - com'egli dichiara - Andrea dovette comporre il suo libro sotto l'esperienza diretta della vita cortigiana del Poitou. Le dame ch'egli ricorda e le loro corti (Eleonora di Poitou, regina di Francia e d'Inghilterta, morta nel 1204; Maria di Champagne, morta nel 1198; Ermengarda di Narbona, morta prima del 1197; la contessa di Fiandra, forse Isabella di Vermandois, morta nel 1182), sono figure e centri politici che esercitarono una grande influenza sulle origini, gli sviluppi e la diffusione della lirica cortese: a questa si ricollega il De Amore.

L'opera è divisa in tre libri: nel primo si discetta intorno all'amore e alla sua essenza, sulle persone che ne sono degne e predisposte, sul modo di sedurre l'animo femminile secondo la diversa condizione sociale, e infine sulle pene da destinare alle donne che non contraccambiano la passione ideale. Il secondo tratta i varî modi per mantenere l'amore e accrescerlo, oppure - se è il caso - per affievolirlo o eliminarlo. A questo punto è incastonata una parentesi di casistica amorosa, discussa in quattro circoli mondani, presieduti dalle principesse testé ricordate (De variis indiciis amoris). Il terzo libro è leggermente contraddittorio, occupato dalla riprovazione dell'amore, come passione peccaminosa; ma vi è quella stessa antinomia morale insita nella lirica trovadorica e nella vita contemporanea. Così Andrea codificava, alla luce della sua cultura latina e ovidiana soprattutto, le teorie amorose di quella società nobiliare e letteraria, rispecchiandone gli aspetti più tipici (v. Provenza: Letteratura).

Bibl.: La veridicità storica delle Corti d'amore, asserita da Jean de Notre-Dame, il mistificatore delle biografie trovadoriche (1575), e accolta da F.J. Raynouard (Les cours d'amour, in Choix des poésies originales des troubadours, II, Parigi 1817), fu risolutamente negata dalla filologia: cfr. F. Diez, Éber die Minnehöfe, in Beiträge z. Kenntniss der romant. Poesie, I, Berlino 1825; G. Paris, in Romania, XII (1883), pp. 523-532; id., in Journal des savants, 1888, pp. 664-75 e 727-36; P. Rajna, Le Corti d'amore, Milano 1890; V. Crescini, Per gli studi romanzi, Padova 1892, p. 81 segg.; P. Rajna, Per la storia del libro di Amore, in Studi di fil. rom. V (1891); A.C. De Amore libri tres, a cura di E. Trojel, Copenaghen 1892; Ch. V. Langlois, in Romania, XXXII (1903), p. 588 segg.; e, il più completo, V. Crescini, Nuove postille al trattato di A. C., in Atti del R. Ist. ven., LXIX (1909-10), ii, pp. 1-99 e 473-504.

Per l'Alta corte di giustizia, v. senato.

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