Classe, coscienza di

Enciclopedia delle scienze sociali (1992)

Classe, coscienza di

Iring Fetscher

Introduzione

Il concetto di coscienza di classe è stato sviluppato da Marx e dal marxismo, ma si è in seguito diffuso più ampiamente e viene oggi usato - in un senso meno preciso rispetto a quello di Marx - anche da parte di altri autori. Bertrand Russell, ad esempio, in Teoria e prassi del bolscevismo (1920) parla di una 'coscienza di classe' dei dirigenti del Partito Comunista Sovietico. Noi ci proponiamo, invece, di mettere a fuoco il concetto marxista di coscienza di classe. Le società risultano divise in classi solo a partire dal momento in cui le differenze sociali più antiche, fissate giuridicamente (o anche religiosamente), sono superate, oppure hanno perso in misura così considerevole il loro significato da non possedere più alcuna rilevanza per il destino degli individui. In una società basata sulle caste (come nell'India) il destino dell'individuo è largamente determinato dall'appartenenza a una casta fissata dalla religione. Le variazioni del destino individuale all'interno delle caste sono notevolmente limitate. La possibilità di passare a una casta più elevata è esclusa a priori. La mobilità sociale viene sostituita, sul piano religioso, dalla prospettiva di rinascere in una forma diversa (sia quella di un animale, sia quella di un appartenente a una casta più elevata). Anche nelle antiche società schiaviste il destino individuale degli schiavi (o della maggior parte di essi) è rigidamente fissato. Sono possibili tuttavia variazioni di tale destino assai più ampie di quelle della società basata sulle caste. Nella Roma imperiale, singoli schiavi potevano ascendere a posizioni dignitose. Si potrebbe dire che la società schiavista nella tarda età romana abbia cominciato a dissolversi in una società divisa in classi.

Nella società medievale fondata sui ceti, nel suo periodo di fioritura, la vita di ogni individuo è ampiamente determinata dalla sua appartenenza a un ceto. Un conte rimane sempre un conte, qualunque cosa faccia o gli accada. Egli non 'diviene' nulla, bensì è già sempre qualcosa: un conte, appunto.Al membro di un ceto - soprattutto dei ceti più elevati - appartiene ovviamente sin dall'inizio la coscienza di ceto. Un conte, ad esempio, non è affatto in primo luogo un individuo, che debba solo in seguito divenire cosciente di appartenere a un gruppo omogeneo, bensì è essenzialmente sin dall'inizio un nobile, un conte, ovvero un 'esemplare' di un gruppo in sé omogeneo, e si comprende come tale. Il suo concetto di onore, il suo orgoglio, la sua autocoscienza appartengono al suo ceto, non alla sua individuali tà. Il suo ethos consiste nell'essere all'altezza del ceto cui appartiene. Nella misura in cui, con l'ascesa e l'arricchimento della borghesia cittadina (e della monarchia assoluta), l'appartenenza al ceto perde progressivamente significato per il destino individuale - poiché i borghesi accedono ai posti direttivi (e costituiscono una 'nobiltà della funzione'), oppure sopravanzano anche la vecchia nobiltà in splendore e ricchezza - si modifica anche il ruolo della coscienza di ceto. Mentre presso gli uni essa acquista una crescente aggressività e arroganza (soprattutto nei gruppi inferiori dei ceti più elevati), presso gli altri va progressivamente perduta.

Nella cerchia degli osservatori perspicaci di quei mutamenti sociali si annoverano anche i transfughi del clero e della nobiltà verso il Terzo stato, prima e dopo la Rivoluzione francese. Questi esponenti del clero e della nobiltà non si sentivano certo membri della borghesia in ascesa, però divenivano coscienti dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani, togliendo perciò credibilità alle differenze di ceto. La divisione in ceti più o meno elevati, distinti sulla base di privilegi dal resto della popolazione, perse in tal modo plausibilità e legittimità. La coscienza di ceto sopravvisse soprattutto presso i (piccoli) funzionari, gli appartenenti alle libere professioni, gli artigiani, ecc., nutrita dal risentimento contro la dinamica della società borghese-capitalistica, e dunque rivolta al passato. Questi gruppi sociali cercavano di difendersi, con l'ausilio del concetto di ceto, dal livellamento della società industriale capitalistica.

L'esempio della coscienza di ceto può servire a illustrare, e contrario, le peculiarità della coscienza di classe in senso marxiano. Alla persona di rango elevato appartiene sin dall'inizio l'autocoscienza di ceto. Gli appartenenti a una classe costituiscono un collettivo solo oggettivamente, perlomeno all'inizio. La loro autocoscienza quali membri di un tutto (la classe) emerge solo come risultato di un processo di presa di coscienza, compiuto non senza sforzo teorico. Nel caso della coscienza di ceto l'autocoscienza collettiva è data all'inizio e va perduta nel corso del tempo, parallelamente alla dissoluzione della società fondata sui ceti, nella misura in cui quell'autocoscienza non viene tenuta ferma, in una difesa reazionaria, contro la dinamica della società divisa in classi. La coscienza di classe si trova solo alla fine d'un processo di presa di coscienza, cui corrisponde una determinata organizzazione.

La coscienza di classe borghese

La prima classe in senso moderno è la borghesia. Sotto questo nome Marx comprende i proprietari dei (grandi) mezzi di produzione, che vengono utilizzati economicamente ai fini della massimizzazione dell'utile e dell'accumulazione del capitale. Definito il concetto in questo modo, appartengono per esempio già alla borghesia settori della nobiltà fondiaria inglese del XVII secolo. Più esattamente, si tratta di capitalisti agrari, che si differenziano dalla nobiltà più antica non per la proprietà, bensì per il modo in cui l'amministrano. Mentre la nobiltà fondiaria tradizionale utilizza la sua ricchezza per vivere come si conviene al suo ceto e per funzioni di rappresentanza, il che implica anche l'assunzione di funzioni pubbliche, il proprietario terriero che amministra in modo moderno, anche se appartiene alla nobiltà, usa la proprietà per ricavarne una rendita, possibilmente elevata, e investe una parte del surplus in altre imprese lucrose (in città o in campagna).

Questo nuovo modo di utilizzazione della proprietà si sviluppa di pari passo con la distruzione degli antichi legami patriarcali fra signore feudale e servo della gleba (o schiavo). Il lavoratore salariato libero e il fittavolo legato a contratti di breve durata entrano con il signore solo in rapporti mediati dal denaro (o da scambi in natura). La premura 'paterna' del proprietario nei confronti dei suoi lavoranti viene bensì mantenuta come ideologia, ma perde sempre più la sua forza normativa. I contrasti di interessi nel processo del clearing of estates, delle recinzioni e della trasformazione di grandi appezzamenti di terreni coltivabili in pascoli, con la corrispondente espulsione dei contadini dalla terra, vengono a cadere. Questi proprietari terrieri imborghesiti non hanno ancora una coscienza di classe borghese, ma sanno bene come far valere i propri interessi nella Camera alta inglese (e tramite i loro figli più giovani anche nella Camera bassa).Un'autocoscienza e una coscienza di classe della borghesia molto più intense si sviluppano sul continente, in Francia. Certamente si è avuta anche qui una fusione fra la borghesia in ascesa (e frequentemente nobilitata) e la nobiltà, ma, soprattutto nei decenni precedenti la Rivoluzione, gli appartenenti alla nobiltà si sono richiamati in misura ancora maggiore ai loro privilegi, pretendendo per sé in modo esclusivo i posti più elevati nell'esercito, ai vertici delle diocesi, a corte, ecc. La borghesia, che formava lo strato superiore del Terzo stato, già da tempo economicamente rafforzata, non volle rassegnarsi a questa discriminazione. L'abate Sieyès, formalmente appartenente al Primo stato (quello del clero), ma in realtà uno degli scrittori che ha contribuito all'educazione della borghesia, formula il diritto di quest'ultima a governare designando - in forma per noi retrospettivamente paradossale - l'intero Terzo stato come la nazione: "Che cos'è il Terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento statale? Nulla. Che cosa vuole? Diventare qualcosa". Al Terzo stato appartenevano tutti quei Francesi che non facevano parte del clero o della nobiltà. Ma di fatto Sieyès parlava già in nome della parte possidente di quel ceto, una parte che s'identificava con il tutto e di fatto rappresentò - temporaneamente - gli interessi del tutto (dell'intera popolazione dei non privilegiati).

Nel postulato del diritto da parte del Terzo stato a esercitare una funzione decisionale si articola, si può dire, l'incipiente coscienza politica di classe della borghesia. La coscienza di classe in questo senso (allora del tutto inconsueto) significa anche autocoscienza del valore e del ruolo della propria classe, a differenza delle altre classi (privilegiate). In questo senso già Voltaire, tra gli altri, aveva distinto la borghesia lavoratrice e istruita dalla nobiltà oziosa e dal clero parassita.

La sempre più forte autocoscienza della borghesia si alimenta dell'orgoglio per le proprie prestazioni e dell'affermazione d'una propria più elevata moralità. Nella misura in cui riesce a coloro che pensano in senso borghese di rendere dominanti le norme morali della borghesia - diligenza, coscienziosità, fedeltà al contratto - ovvero di conquistare l''egemonia' culturale, i ceti privilegiati sono costretti sulla difensiva. Saint-Simon, che viene abitualmente annoverato fra i socialisti utopisti, nella sua polemica contro gli "oziosi" ha solo raccolto un topos borghese, utilizzandolo nella lotta contro la Restaurazione in Francia. In una sua famosa parabola ha contrapposto l'ipotesi della perdita di 50 appartenenti all'alta nobiltà, all'alto clero, ecc., alle conseguenze della perdita dei 50 più importanti fra "tecnici, ingegneri, architetti, banchieri, uomini d'affari, contadini, muratori, falegnami, carpentieri". "La loro perdita lascerebbe la Francia senza anima e vita, mentre la perdita degli alti funzionari di corte, dei ministri, dei consiglieri di Stato, dei cardinali, dei ricchi proprietari, ecc., affliggerebbe senz'altro i Francesi, perché sono buoni [...]. Ma questa perdita dei 30.000 Francesi presuntivamente più importanti li preoccuperebbe per motivi puramente sentimentali, poiché da essa non deriverebbe alcuno svantaggio per lo Stato".

Nel novero dei Francesi utili troviamo, gli uni accanto agli altri, proprietari di capitali e lavoratori salariati, riuniti da Saint-Simon sotto il concetto di industriels, ove industrie significa al tempo stesso 'operosità' e 'industria'. Di contro a loro il resto della società appare composto di "lussuriosi nullafacenti", meri consumatori che vivono sulle spalle della Francia attiva e produttiva. Bisogna però prestare attenzione al fatto che Saint-Simon annovera tra i diligenti produttori anche i banchieri. Vengono esclusi da lui solo quei borghesi che vivono della loro rendita da capitale e non sono attivi come dirigenti d'azienda sul piano economico e organizzativo. "Il lavoro tende naturalmente all'ordine. Il disordine proviene in ultima istanza sempre dai nullafacenti" (L'organisateur, 1819-1820). Questo concetto rimane un nucleo dell'ideologia e dell'autocoscienza borghesi, finché esso si articola soprattutto nella delimitazione sociale rispetto ai ceti privilegiati. Una svolta interviene solo quando comincia a formarsi, di contro alla borghesia (ai proprietari di capitale), una nuova classe, il proletariato industriale. Allora la demarcazione non può più essere costituita dall'opposizione tra attività produttiva e ozio. La maggior parte dei socialisti usa anzi questa demarcazione nei confronti dei proprietari di capitali, dei quali viene evidenziata la natura tendenzialmente superflua.Una forma di strategia difensiva della borghesia rispetto alla classe dei lavoratori consiste nella ripresa del concetto di ceto; un'altra nell'accentuazione delle differenze individuali (d'intelligenza, forza di volontà, 'valore'), che vengono indicate come cause dell'appartenenza a una classe: "ognuno è artefice del proprio destino"; le classi sarebbero solo descrizioni mutevoli di uno stato sociale in sé dinamico e variabile. Fondamentalmente, nell'analisi borghese, non esistono classi, bensì solo 'ruoli' offerti dalla società, che possono essere ricoperti da tutti a seconda delle prestazioni di cui ciascuno è capace. Da questo abbozzo necessariamente semplificato si deduce che una coscienza di classe borghese in forma marcata si è avuta soprattutto durante il contrasto con l'ancien régime e con i privilegi dei primi due stati. In questa fase l'interesse di classe della borghesia in ascesa fu identificato con l'interesse di tutta la popolazione non privilegiata. Quando la posizione della borghesia fu messa in discussione dall'avvento di una nuova classe - il proletariato industriale -, o si restaurò il concetto di ceto (da parte dei conservatori, ancora nel nostro secolo: si veda per ciò Othmar Spann e il concetto fascista di ceto, integrato nel corporativismo), oppure si contestò l'esistenza in generale di classi chiaramente definite. La sociologia borghese o ha accettato l'idea di una società 'stratificata', con una molteplicità di ruoli sociali, oppure ha parlato - ad esempio nella Germania Federale - di una società livellata di ceti medi. Ralf Dahrendorf, per esempio, ha inteso conservare il concetto di classe nell'ambito della struttura politica della società, ma lo ha rifiutato come obsoleto per la struttura sociale.

Con la sostituzione del concetto di classe con quello di strato sociale e la differenziazione dell'appartenenza sociale secondo intrecci di elementi caratterizzanti, viene al tempo stesso negata la possibilità di una 'coscienza di classe'. Una 'coscienza di strato' non è possibile in quanto l'appartenenza a uno strato specifico è in larga misura variabile, e in una società del benessere e dei consumi le illusioni sulla propria appartenenza a uno strato (o a una classe) giocano un ruolo fondamentale. Gli strati vengono distinti fra l'altro in base ai seguenti criteri: cultura, lusso dell'abitazione, attività professionale (white collar, blue collar, ecc.), utilizzazione del tempo libero, ecc. In una società di ineguali, orientata alla ricerca del prestigio e alla competizione per il raggiungimento di un certo status, vi è una tendenza generalizzata a voler dare l'impressione di appartenere a uno strato più elevato. A ciò si oppone la solidarietà di classe dei salariati (operai e impiegati), che viene perciò sensibilmente repressa.

L'impossibilità di una coscienza di classe piccolo-borghese

La coscienza di classe borghese si è sviluppata, come si è detto, dal confronto con i ceti privilegiati dell'ancien régime. Essa si concepisce, innanzitutto, come coscienza del Terzo stato (di tutte le persone non privilegiate) in generale, e avanza per questo ceto la pretesa di essere 'la nazione'. La piccola borghesia, nella quale Marx include i piccoli produttori di merci della città e della campagna, dispone bensì, come la borghesia (la "classe dei capitalisti"), di propri mezzi di produzione, ma non di lavoratori salariati. In genere, i piccoli contadini lavorano la loro terra (o quella affittata) con l'ausilio dei membri della famiglia; gli artigiani operano nella loro officina, assieme ai membri della famiglia e a uno o due lavoranti che aspirano a mettersi in proprio; i commercianti stanno nel loro negozio e dispongono di un loro magazzino di merci. La piccola borghesia resta legata più a lungo degli altri al concetto di ceto, perché esso sembra assicurarle l'appartenenza alla borghesia. Essa non si concepisce come classe, non sviluppa una propria coscienza di classe. Quanto più si sviluppa un proletariato organizzato, tanto più decisamente i piccoli borghesi (artigiani, contadini) insistono sulla loro appartenenza al ceto borghese e sono disposti, ancora oggi, a consentire che i grandi proprietari e i grandi imprenditori rappresentino i loro interessi.Per un settore della piccola borghesia dominante in Francia nel 1850, e cioè i contadini piccoli proprietari, Marx ha chiarito in modo preciso, nel 1851-1852, la loro incapacità di sviluppare una coscienza di classe politica. I piccoli contadini, che costituiscono la maggioranza della popolazione francese, formano secondo Marx la base sociale del Secondo Impero. Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte egli scrive: "I contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme, i cui membri vivono nella stessa situazione, ma senza essere uniti gli uni agli altri da relazioni molteplici. Il loro modo di produzione, anziché stabilire tra di loro rapporti reciproci, li isola gli uni dagli altri. Questo isolamento è aggravato dai cattivi mezzi di comunicazione della Francia e dalla povertà dei contadini stessi. Il loro campo di produzione, il piccolo appezzamento di terreno, non consente nessuna divisione del lavoro nella sua coltivazione, nessuna applicazione di procedimenti scientifici e quindi nessuna varietà di sviluppo, nessuna diversità di talenti, nessuna ricchezza di rapporti sociali. Ogni singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se stessa, produce direttamente la maggior parte di ciò che consuma e guadagna quindi i suoi mezzi di sussistenza più nello scambio con la natura che nel commercio con la società. Un piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia; un po' più in là un altro piccolo appezzamento di terreno, un altro contadino e un'altra famiglia [...]. Così la grande massa della nazione francese si forma con una semplice somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un sacco di patate risulta dalle patate che sono in un sacco" (v. Marx, 1852; tr. it., p. 195). Ciò che qui viene considerato assente nei contadini piccoli proprietari rappresenta, al contrario, il presupposto della coscienza di classe, sia per la borghesia durante l'ancien régime, sia per il proletariato nelle società capitalistiche sviluppate. Solo il primo fondamento oggettivo di tale coscienza, e cioè l'identità del modo di produzione, è presente nel caso dei contadini piccoli proprietari. Mancano invece tutti gli altri: il rapporto reciproco, che porta alla coesione di una classe, la coscienza della cooperazione di diverse imprese dello stesso settore o di settori differenti (divisione del lavoro tra le aziende), l'idea dell'interesse comune derivante da tale contesto e della necessità dell'accordo fra interessi diversi in vista dell'interesse di classe collettivo. Tutto questo manca, a differenza di quanto avviene nella borghesia, soprattutto perché i contatti fra i contadini piccoli proprietari o non esistono affatto, o sono molto limitati, e le loro aziende producono in larga misura in modo autarchico i mezzi di sostentamento.

Quanto sia dannosa l'autarchia locale per lo sviluppo di rapporti liberi, è stato illustrato da Marx con l'esempio del 'modo di produzione asiatico', in India e altrove. Lì sono i villaggi che, in quanto strutture pienamente autarchiche, subiscono lo sfruttamento da parte di un potere burocratico centrale; in Francia sono i contadini piccoli proprietari che, essendo incapaci di articolare i loro interessi, si sottomettono a una figura simbolica: Napoleone III. Marx riassume il risultato della sua descrizione nel modo seguente: "Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono i loro modi di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe" (pp. 195-196). Dunque in termini oggettivi i contadini piccoli proprietari costituiscono una classe. "Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un'unione politica su scala nazionale e un'organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un parlamento, sia attraverso una convenzione" (p. 196).Per la coscienza di classe della borghesia fu importante l'istituzione del parlamento, nel quale si può scorgere una specie di stanza di compensazione per i differenti interessi parziali della borghesia stessa. Dalla discussione e dal compromesso fra tali interessi parziali risulta poi l'interesse di classe, la cui tutela nei confronti del resto della popolazione viene assicurata inizialmente dal suffragio basato sul censo, ovvero con l'esclusione dal diritto di voto degli strati sociali inferiori. In seguito è riuscito alla borghesia di legare a sé una parte degli strati inferiori (della piccola borghesia e di settori del proletariato) mediante ideologie nazionalistiche e imperialistiche. Ai contadini piccoli proprietari non è stato possibile, a causa dei limiti locali della loro unione, creare un'organizzazione comune (un partito) o una rappresentazione sociale complessiva dei loro interessi. Il loro status di classe 'in sé' non ha potuto costituirsi in una coscienza di classe ('classe per sé').

Un destino analogo, secondo Marx, è proprio della piccola borghesia in generale, che viene per così dire 'schiacciata' fra la borghesia e il proletariato organizzato e può decidersi solo per l'una o per l'altra delle due classi organizzate. Ma anche se non si può più considerare corretta la previsione marxiana e marxista circa il tendenziale dissolvimento degli strati intermedi (la nascita di nuovi strati intermedi è stata comunque evidenziata da Marx stesso come caratteristica del capitalismo sviluppato), rimane importante la sua teoria dell'ostacolo, per la formazione d'una coscienza di classe, costituito da modalità di lavoro e di vita 'isolanti'. L'esempio della coscienza di classe proletaria renderà visibile ancora una volta quale sia al contrario il presupposto della presa di coscienza dell'interesse collettivo di classe.

La coscienza di classe proletaria

Nella Miseria della filosofia (1847) Marx descrive nel modo seguente il processo di formazione della coscienza di classe proletaria: "La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell'associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti vedendo come gli operai sacrifichino una buona parte del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano state istituite solo a favore del salario. In questa lotta - vera guerra civile - si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l'associazione acquista un carattere politico" (v. Marx, 1847; tr. it., pp. 223-224).

In altre parole, a differenza dei contadini piccoli proprietari francesi del 1851, in questo caso riesce il passaggio dall'identità degli interessi all'unità di una organizzazione, che per parte sua diviene, da semplice mezzo per gli interessi individuali, un fine in sé, per il quale vengono sacrificati perfino gli interessi individuali immediati. "Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta [...] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica" (p. 224).

Mentre dalle argomentazioni di Marx si potrebbe concludere che lo sviluppo della coscienza di classe proletaria sorga per così dire spontaneamente dal contrasto fra le classi, Lenin ha espressamente sottolineato, nel Che fare? (1902), la necessità di "diffondere la coscienza politica di classe nel proletariato". Da questa concezione - che prende le mosse da una osservazione di Karl Kautsky - è derivata anche la teoria leniniana del 'partito di tipo nuovo'. "Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora avere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere apportata loro solo dall'esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sue sole forze, può elaborare soltanto una coscienza tradunionistica" (v. Lenin, 1902; tr. it., p. 39). Tra la lotta economica, che gli operai conducono con l'aiuto del sindacato per migliori condizioni salariali e di lavoro, e la lotta politica per il potere nello Stato non c'è continuità. Corrispondentemente, c'è un salto anche tra la coscienza dello sfruttamento economico nella fabbrica e la coscienza politica di classe, salto che la classe operaia non può compiere senza aiuti esterni: "La lotta economica è la lotta collettiva degli operai contro i loro padroni per conquistare vantaggiose condizioni di vendita della forza lavoro, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli operai. Questa lotta è necessariamente sindacale, poiché le condizioni di lavoro sono estremamente diverse nelle diverse categorie e quindi la lotta per il miglioramento di tali condizioni deve essere condotta per categorie" (p. 78). Si ha l'impressione che Lenin abbia qui presenti i sindacati inglesi, divisi secondo le categorie professionali (non secondo le industrie). È comunque lunga la strada che conduce dalla lotta economica alla lotta politica di classe. Gli operai, secondo Lenin, invitano gli intellettuali a fornir loro il 'sapere politico', senza il quale non possono sviluppare una coscienza di classe politica. L'errore fondamentale degli 'economicisti' nel movimento operaio russo è, secondo Lenin, quello di credere che "la coscienza politica di classe degli operai si possa sviluppare dall'interno, sulla base della loro lotta economica, cioè muovendo solo [...] da questa lotta, partendo solo (o quantomeno principalmente) da questa lotta" (p. 96). Per contro Lenin ribadisce energicamente la sua posizione: "La coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica, dall'esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa conoscenza è quello dei rapporti fra tutte le classi e gli strati sociali e lo Stato e il governo, il campo dei rapporti reciproci fra tutte le classi" (p. 97).

Rosa Luxemburg ha decisamente respinto questa concezione leniniana già nel 1903, ribadendo in seguito la propria critica soprattutto in base alle sue esperienze della rivoluzione russa del 1905. Ella non vede un salto tra le lotte economiche (fino allo sciopero di massa) e le lotte politiche, bensì una continuità, nello svolgimento della quale l'organizzazione politica del proletariato deve certo esercitare un ruolo attivo, senza però poter assumere una funzione esclusiva di direzione.

Nell'articolo Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa (apparso sulla "Neue Zeit"), Rosa Luxemburg sottolinea la differenza fondamentale tra le condizioni dell'azione socialdemocratica e quella dei rivoluzionari francesi radicali negli anni successivi al 1789. L'azione socialdemocratica "sorge storicamente dalla lotta di classe elementare. Essa si muove in questa contraddizione dialettica, che da un lato l'esercito proletario si recluta solo nel corso stesso della lotta e dall'altro è ancora soltanto nella lotta che ne chiarisce a se stesso gli scopi. Organizzazione, chiarificazione, lotta non sono qui momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati, come in un movimento blanquista, ma sono soltanto facce diverse di un medesimo processo" (v. Luxemburg, 1903-1904; tr. it., p. 222). Non è dunque la "diffusione della teoria socialdemocratica" nella classe lavoratrice, bensì l'esperienza della lotta politica ciò che, secondo Rosa Luxemburg, consente lo sviluppo tanto dell'organizzazione quanto della coscienza di classe del proletariato. Questa convinzione si rafforza in lei in seguito alla rivoluzione russa del 1905-1906. "L'improvvisa generale sollevazione del proletariato in gennaio sotto la spinta potente degli avvenimenti di Pietroburgo era verso l'esterno un atto politico di dichiarazione di guerra rivoluzionaria all'assolutismo. Ma questa prima generale azione diretta di classe reagì, proprio in quanto tale, tanto più fortemente verso l'interno, svegliando per la prima volta come per mezzo di una scossa elettrica il sentimento e la coscienza di classe in milioni e milioni di lavoratori" (v. Luxemburg, 1906; tr. it., p. 315). La coscienza politica di classe - tale la sua valutazione - si è sviluppata in Russia, grazie all'esperienza del grande sciopero, molto più rapidamente ed efficacemente che non in Germania sulla base di una pur assai intensa educazione teorica: "Un anno di rivoluzione ha dato al proletariato russo quella educazione che trent'anni di lotte parlamentari e sindacali non possono dare artificialmente al proletariato tedesco" (p. 346). Rosa Luxemburg introduce nella discussione i concetti di 'sensibilità di classe' e di 'istinto di classe', e individua in questo istinto il 'fondamento' della coscienza di classe, che nasce nella lotta e dalla lotta.Stalin ha condannato questa concezione di Rosa Luxemburg definendola "teoria spontaneistica". Anche Lenin l'ha respinta, considerandola impraticabile, soprattutto perché da essa consegue una limitazione della funzione direttiva del partito-avanguardia, in quanto le esperienze della classe in lotta appaiono più importanti dell'insegnamento e della guida pratica di quella minoranza, che sola ritiene di aver raggiunto il livello richiesto alla coscienza politica di classe del proletariato. Sebbene Rosa Luxemburg non neghi affatto il ruolo di un partito politico di classe, ella concepisce il rapporto fra partito e classe in modo diverso da Lenin. A suo avviso il partito-avanguardia non può diffondere nella classe dei lavoratori una coscienza di classe (coscienza politica o socialdemocratica) desunta teoricamente, bensì soltanto agevolare alla classe in lotta, mediante aiuti organizzativi e parole d'ordine, la via per la presa di coscienza della sua condizione.

Una formulazione filosofica del concetto leniniano di coscienza di classe è stata presentata da György Lukács nel 1923 in Storia e coscienza di classe. Punto di partenza per la teoria di Lukács è la tesi che l'essenza del marxismo autentico consiste nella nozione dell'indipendenza delle forze realmente motrici della storia dalla coscienza (psicologica) degli uomini. Nel caso della coscienza di classe proletaria non si tratta dunque della coscienza di singoli proletari o della loro maggioranza, bensì di una coscienza che, sulla base di un'interpretazione complessiva della società e della sua dinamica, può essere attribuita alla classe come tale. L'unica prospettiva di classe, però, in base alla quale è possibile una conoscenza comprensiva della totalità sociale, è quella del proletariato. Ciò accade perché il proletariato - tendenzialmente - produce la totalità delle condizioni sociali di vita, ed è dunque 'soggetto' della realtà storico-sociale. Dal punto di vista della borghesia - questa la deduzione di Lukács - tale totalità non è afferrabile. Alla classe borghese appartiene una 'necessaria incoscienza' rispetto alla totalità sociale.

Con ciò è anche confutata, sul piano teorico, la pretesa borghese di dominio sulla totalità. "Di fronte all'indubbia superiorità dei mezzi nel campo del potere, del sapere, dell'educazione, della routine, ecc., che la borghesia continuerà a possedere fin quando rimarrà la classe dominante, l'arma decisiva, l'unica vera superiorità del proletariato, è la sua capacità di cogliere la totalità della società come totalità concreta, storica, di comprendere le forme reificate come processi fra uomini, di portare positivamente alla coscienza e di tradurre nella prassi il senso immanente dello sviluppo, che nelle contraddizioni della forma astratta di esistenza viene alla luce solo negativamente" (v. Lukács, 1923; tr. it., p. 259). Questa capacità corrisponde certamente, come 'possibilità oggettiva', al punto di vista del proletariato, ma non può in alcun modo essere sviluppata spontaneamente dal proletariato stesso. Questo compito spetta piuttosto agli intellettuali (come i leniniani 'tribuni del popolo' o leaders di partito). Il partito comunista è perciò per Lukács "una forma autonoma della coscienza di classe proletaria nell'interesse della rivoluzione. È necessario comprenderlo in modo teoricamente corretto in questo duplice rapporto dialettico: come forma e al tempo stesso come forma di questa coscienza, ovvero a un tempo nella sua autonomia e nella sua coordinazione" (p. 407). In un altro saggio dello stesso libro Lukács si riallaccia strettamente a Rosa Luxemburg e sottolinea che "l'organizzazione è molto più una conseguenza che un presupposto del processo rivoluzionario, così come il proletariato stesso può costituirsi in classe solo nel processo e in virtù del processo" (p. 54). Egli aggiunge però subito che al partito "spetta perciò l'alta funzione di essere portatore della coscienza di classe del proletariato, coscienza della sua missione storica" (ibid.). Anche se Lukács, analogamente a Lenin e collegandosi a lui, afferma la relativa autonomia del partito in quanto 'forma' della coscienza di classe proletaria, il rapporto fra partito e classe è da lui visto piuttosto alla maniera di Rosa Luxemburg. Il partito non appare come precettore e maestro, bensì come ausilio (e ciò anche se è ben fermo, per lui come per Lenin, che il partito possiede una conoscenza più avanzata rispetto al resto della classe). "La coscienza di classe è l'etica' del proletariato, l'unità della sua teoria e della sua prassi, il punto in cui la necessità economica della sua lotta di liberazione si rovescia dialetticamente in libertà. Essendo riconosciuto come forma storica e veicolo attivo della coscienza di classe, il partito diviene al tempo stesso il veicolo dell'etica del proletariato in lotta [...]. Perché la forza del partito è una forza morale: essa è alimentata dalla fiducia delle masse spontaneamente rivoluzionarie, costrette alla rivolta dallo sviluppo economico; è alimentata dal sentimento che il partito è l'oggettivazione del loro più proprio sapere, a loro stessi non ancora del tutto chiaro, la forma visibile e organizzata della loro coscienza di classe. Solo quando il partito ha conquistato questa fiducia può divenire guida della rivoluzione. Perché solo allora l'impulso spontaneo delle masse spingerà con forza e sempre più istintivamente verso il partito, verso la presa di coscienza" (p. 55). In tal modo Lukács cerca di conciliare le teorie luxemburghiana e leniniana del partito.

Il problema comune alla teoria leniniana del partito e della coscienza di classe e alla teoria hegelo-marxista di Lukács è lo svincolamento del partito-avanguardia dai bisogni reali della classe dei lavoratori, che sono considerati seriamente e accettati solo nella misura in cui corrispondono all'idea della corretta coscienza di classe che il partito le attribuisce. Durante la lotta rivoluzionaria in una società basata sulle classi ciò può essere non problematico, ma quando il monopolio interpretativo della coscienza di classe è detenuto da un unico partito al potere, non più limitato da forze e organizzazioni politiche indipendenti, anche i membri della classe dei lavoratori sono soggetti a una grave limitazione della libertà.La "coscienza di classe che nasce e si sviluppa con la conoscenza della situazione e degli interessi comuni non è, presa in astratto, specifica del proletariato" (p. 229). Unica è però la direzione di questa coscienza di classe proletaria, rivolta 'alla totalità' e al rovesciamento della totalità. Come autocoscienza della merce, della cellula germinale dell'intera società, il proletariato supera con la sua autocoscienza, che spinge all'azione, l'intera realtà capitalistica. La sua coscienza "non è coscienza di un oggetto che le si contrappone bensì autocoscienza dell'oggetto stesso"; perciò "l'atto della presa di coscienza rovescia la forma di oggettività del proprio oggetto" (p. 234). L'apparente 'cosalità' di merce, denaro e capitale viene superata e colta come risultato di rapporti sociali. Tale coscienza di classe può però divenire pratica solo come azione della classe in quanto tale, non di singoli individui: "l'individuo non potrà mai divenire misura di tutte le cose, perché egli ha necessariamente di fronte a sé la realtà oggettiva come un complesso di cose rigide, che egli trova pronte e immutabili, e che può soltanto riconoscere o respingere in un giudizio soggettivo. Solo la classe (non il 'genere', che è solo un individuo contemplativamente stilizzato e mitologizzato) può riferirsi in modo pratico, rivoluzionario, alla totalità della realtà. E anche la classe può farlo solo se, nell'oggettività cosale del mondo che trova di fronte a sé, è capace di scorgere un processo, che è al tempo stesso il suo destino" (p. 254).

Con il compimento pratico della coscienza proletaria di classe nell'azione rivoluzionaria verrebbero superate sia la classe che la società fondata sulle classi. La coscienza di classe storicamente determinata del proletariato, dell'unica classe che sia sorta sul terreno della società (capitalistica) basata sulle classi, supera dunque se stessa con il suo compimento. Diverso è il caso dell'autocoscienza degli antichi ceti privilegiati, che era divenuta sempre più debole verso la fine dell'ancien régime, per essere infine soppiantata dalla coscienza di classe borghese. Le strade procedono dunque nei due casi in direzioni opposte.L'espressione 'coscienza di classe', nel suo preciso senso marxista, è legata alla teoria marxista della storia. Negli ultimi decenni essa è divenuta obsoleta per due ragioni: per un verso, a causa del mutamento della struttura sociale dei paesi capitalisti altamente industrializzati, per un altro verso, a causa della perdita di capacità persuasiva della teoria marxista del progresso. Anche se la grande maggioranza della popolazione nelle società capitalistiche è costituita da lavoratori dipendenti, le differenze nell'ambito di essa sono diventate così grandi che non è più pensabile la formazione d'una coscienza unitaria.Nel linguaggio corrente, infatti, il concetto di 'coscienza di classe' viene oggi inteso in un senso del tutto diverso da quello marxista, se si prescinde da alcuni marxisti ortodossi. Così, ad esempio, un giornalista della Germania Federale parlava recentemente della 'coscienza di classe' degli arrampicatori sociali americani, che cercano di distinguersi dai loro concittadini mediante consumi di lusso. Nelle società sottosviluppate, per contro, il concetto di classe può essere applicato sensatamente, in riferimento alla frattura della società fra proprietari privilegiati e contadini ridotti in miseria, lavoratori della terra ed emarginati, ma non può essere conciliato con il concetto marxista della coscienza proletaria di classe. (V. anche Comunismo; Marxismo; Rivoluzione; Socialismo).

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