COSCIENZA E AUTOCOSCIENZA

XXI Secolo (2010)

Coscienza e autocoscienza

Carlo Caltagirone

Il termine coscienza indica uno stato soggettivo di consapevolezza sulle sensazioni psicologiche (pensieri, sentimenti, emozioni) e fisico-sensoriali riferite sia al mondo interno sia al mondo esterno. La parola deriva dal latino conscientia (da cum scientia) e indica una conoscenza condivisa con sé stessi o con altri. L’oggetto di tale conoscenza, nella connotazione latina, poteva essere sia in generale un contenuto qualsiasi sia qualcosa di segreto, di negativo, da non rivelare. Attualmente, la parola coscienza costituisce una ‘parola valigia’ per il gran numero di accezioni cui può riferirsi, anche di natura molto differente. Infatti, a seconda dell’ambito di trattazione, può indicare: a) lo stato di vigilanza, e le relative capacità di percepire, interagire e comunicare con l’ambiente circostante; in questa accezione, la coscienza acquisisce carattere di continuità, su un continuum che va dalla veglia al sonno, fino al coma, passando per tutti gli stati intermedi (la GCS, Glas-gow Coma Scale, è stata costruita appositamente per valutare il livello di coscienza secondo vari indicatori comportamentali); b) la capacità psichica di intendere e definire sé stessi come separati dal mondo esterno; c) la capacità di distinguere il bene dal male; d) la consapevolezza come atto conoscitivo, attraverso cui il soggetto acquisisce conoscenze; e) l’autocoscienza come capacità di riflettere su sé stessi; f) in ambito psicoanalitico, la consapevolezza di contenuti psichici contrapposta alla qualità inconscia del materiale rimos-so. Anche George P. Prigatano e Sterling C. Johnson (2003) propongono un modello di coscienza a tre vettori che interagiscono e, in parte, si sovrappongono: il ciclo sonno-veglia, la consapevolezza di sé e la capacità di ‘entrare’ nella mente di un’altra persona e di provare ciò che questa sta provando (teoria della mente).

La coscienza come funzione psichica

Adam Z. Zeman, tra le dodici categorie di significati da lui riportati cui il termine coscienza può essere riferito, si concentra in particolare sulle diverse sfumature di significato della parola in ambito psicologico (Zeman, Grayling, Cowey 1997). La coscienza come contenuto dell’esperienza varia da momento a momento. In quest’accezione viene evidenziata la dimensione qualitativa e soggettiva dell’esperienza, limitata da un punto di vista parziale e caratterizzata da contenuti instabili nel tempo, benché la coscienza permetta di mettere in collegamento contenuti passati e presenti. La coscienza inoltre è selettiva, in quanto alcuni contenuti possono essere portati in primo piano e altri sullo sfondo. Essa accoglie informazioni e contributi da tutte e cinque le modalità sensoriali e li elabora avvalendosi di tutte le facoltà psicologiche (pensiero, emozioni, memoria, immaginazione, linguaggio ecc.). In quest’accezione, è sempre ‘coscienza di’, nel senso che è sempre in relazione a un oggetto, come nella qualità intenzionale attribuita alla coscienza in ambito filosofico. Ogni volta che diciamo «Mi rendo conto» oppure «Ho preso co-scienza» dobbiamo necessariamente specificare l’oggetto cui ci riferiamo, altrimenti il significato della frase resta sospeso. In tale prospettiva la coscienza è una funzione, un processo, che si applica ai fenomeni della conoscenza, una modalità con cui il mondo (esterno e interno) si rende accessibile all’individuo. Di fatto, noi non percepiamo la coscienza in sé, quanto piuttosto i suoi contenuti. Le sensazioni coscienti costituiscono la modalità con cui ci rappresentiamo gli elementi significativi del mondo esterno al fine di intraprendere una possibile azione di risposta. In altre parole, quando pensiamo a qualcosa, è evidente immediatamente (cioè in modo non mediato) che di questo qualcosa siamo coscienti, che la nostra attenzione è rivolta a esso e che esso è presente alla nostra mente. I processi del pensiero, invece, rimangono di fatto sconosciuti, sono messi in atto inconsapevolmente. Una loro conoscenza è possibile solo a posteriori, attraverso una riflessione razionale (metariflessione), uno degli atti cognitivi tra i più complessi ed elevati della mente umana. La nostra mente opera a diversi livelli di consapevolezza, anche contemporaneamente e a nostra insaputa, a prescindere cioè da un atto volontario e deliberato. Infatti, una distinzione qualitativa che si può operare è tra coscienza attiva e passiva: la prima implica una scelta, una volontà di focalizzare l’attenzione su contenuti o stimoli, escludendo dal campo cosciente altri fattori, mentre la seconda vede il soggetto semplicemente ricettivo al fluire di diversi stimoli esterni o interni. Questo tipo di funzionamento non riguarda solo la percezione e la conoscenza del mondo esterno, bensì anche le sensazioni interne, le emozioni, gli stati d’animo. Ognuno di noi, infatti, può rendersi conto, in un dato momento, di essere annoiato, allegro, triste, di voler bene a qualcuno e così via. Anche in quest’ottica, dunque, è possibile distinguere vari livelli di coscienza: si va dalla consapevolezza delle semplici esperienze sensoriali e percettive, che rappresenta il livello più ‘primitivo’, anche in senso filogenetico (in quanto probabilmente condiviso con altre specie animali), per arrivare alla consapevolezza, squisitamente umana, dei propri stati emotivi e dei propri pensieri (autocoscienza).

Autocoscienza e autoconsapevolezza

Un primo dato immediato della coscienza è la consapevolezza di essere, di esistere. Soltanto in gravi patologie psichiche o nelle primissime fasi di sviluppo del bambino, la presenza di questa consapevolezza può essere messa in dubbio. In effetti, non possiamo escludere che una consapevolezza di sé seppur nucleare sia presente anche nel neonato, ma di certo essa si rende evidente all’osservazione solo tra la fine del primo anno di vita e nel corso del secondo, quando il bambino impara a pronunciare ‘no’, dichiarando una volontà propria e contraria a quella del mondo esterno, a riferirsi a sé non più in terza persona, bensì utilizzando il pronome ‘io’ e a riconoscersi allo specchio. Prima di questa fase, il bambino è consapevole degli oggetti del mondo esterno, dell’esistenza delle persone cui si relaziona, ma probabilmente non ha ancora sviluppato la consapevolezza di sé come entità separata e dotata di volontà. In effetti, la coscienza di sé si colloca a un livello psichico più elevato rispetto alla coscienza del mondo esterno. Le forme più elementari di autocoscienza sono quelle legate alle sensazioni fisiche e alle percezioni, attraverso le quali si arriva a definire un’idea della propria esistenza; mentre il passo evolutivo successivo è quello con cui iniziamo a percepirci come agenti attivi e non solo passivi nei confronti di queste sensazioni, cui cominciamo a fornire risposte (dilazione nel tempo, ricerca di modalità di soddisfazione di un bisogno ecc.).

Formulare una definizione in termini scientifici di autocoscienza è estremamente difficile, in quanto l’esigenza di stabilire criteri empirici e descrittivi, facendo riferimento a fenomeni osservabili, contrasta nettamente con l’essenza squisitamente soggettiva del fenomeno. La coscienza, e a maggior ragione la coscienza di sé, è un fenomeno strettamente privato e legato ai vissuti interni dell’individuo, e quindi difficilmente rilevabile secondo le modalità tradizionali della scienza. Inoltre, solitamente, nello studio scientifico vi sono un osservatore (soggetto) e un fenomeno osservato (oggetto), separati e distinti. Nel caso dell’autocoscienza questa distinzione si perde, in quanto soggetto e oggetto coincidono: è infatti la coscienza che riflette su di sé. Siamo nel campo della metacognizione. L’autoconsapevolezza consiste, infatti, nella capacità di percepire sé stessi in termini relativamente oggettivi, pur mantenendo un senso di soggettività, il che rappresenta un vero e proprio paradosso della coscienza umana. La complessità della questione è testimoniata dalle numerose speculazioni filosofiche, religiose, psicologiche, sociali e scientifiche succedutesi nei secoli.

Riduzionismo e antiriduzionismo

Lo studio della coscienza, data la natura stessa dell’oggetto, in ambito filosofico e neuroscientifico ha dato luogo a un’ampia varietà di teorie e modelli esplicativi. I due principali filoni in cui è possibile comprendere le teorizzazioni proposte sono il riduzionismo, che tenta di ricondurre la coscienza esclusivamente nell’alveo dei fenomeni fisici e neurobiologici del cervello, e l’antiriduzionismo, secondo cui questa impostazione sarebbe invece parziale e inadeguata. David J. Chalmers (1996) è stato tra i primi a evidenziare la differenza tra spiegazioni degli eventi neurali che mediano il comportamento cosciente e il più oscuro processo attraverso cui quegli stessi eventi danno luogo alla consapevolezza. Da una parte, i riduzionisti mirano a definire la coscienza unicamente in termini compatibili con un’impostazione scientifica, dall’altra, gli antiriduzionisti si rifiutano di ricondurre le manifestazioni della coscienza ai meri meccanismi del mondo fisico e si impegnano piuttosto per definirne l’essenza metafisica, squisitamente mentale.

Lo studio scientifico della coscienza di sé

Modelli neuropsicologici dell’autocoscienza e dell’autoconsapevolezza

La scienza per lungo tempo ha ignorato l’autocoscienza, considerandola un fenomeno mentale non oggettivabile e, in quanto tale, al di fuori dei propri interessi. Più recentemente, numerosi autori hanno tentato di affrontare la questione adottando paradigmi scientifici, in particolare inquadrando l’autoconsapevolezza in termini neuropsicologici. In questa prospettiva, le definizioni più recenti di autoconsapevolezza sono: a) la capacità di distinguere, codificare e recuperare informazioni riguardanti la propria persona; b) l’insieme di schemi riguardanti le capacità, i tratti e gli atteggiamenti che guidano comportamenti, scelte e interazioni sociali del soggetto. La differenza sostanziale tra queste due definizioni consiste essenzialmente nell’accento posto sulla funzione adattiva dell’autoconsapevolezza rispetto al mondo-ambiente. Ancora, A.Z. Zeman (2006) distingue varie componenti metacognitive dell’autoconsapevolezza: a) la capacità di percepire stimoli esterni e interni agenti sull’individuo (self-detection); b) la capacità di ricordare le azioni compiute e di predire gli esiti delle proprie azioni (self-monitoring); c) la capacità di percepire il corpo come proprio, di riconoscere la propria immagine allo specchio, di riconoscersi soggetto delle proprie esperienze (self-recognition); d) la capacità di percepirsi protagonista di una rappresentazione mentale coerente estesa nel tempo e contestualizzata nella dimensione spaziotemporale (self-knowledge).

La consapevolezza di sé si basa su un insieme di funzioni psicofisiologiche, quali la memoria, la percezione, l’attenzione, l’elaborazione delle informazioni. Le sensazioni, dopo essere state inizialmente recepite a livello corticale, vengono selezionate ed elaborate. A questa fase segue la percezione, ovvero l’astrazione di informazioni sensoriali selezionate, finalizzata alla formazione di un concetto grossolano di ciò che si sta verificando all’interno e/o all’esterno dell’individuo. Quindi l’attenzione procede a un’ulteriore selezione di informazioni, di cui, quelle trattenute, vengono mantenute temporaneamente nella memoria a breve termine per essere utilizzate nell’immediato per prendere decisioni e agire. I processi motivazionali direzionano tali scelte. La consapevolezza di sé accompagna prevalentemente l’ultima parte di questi processi, rendendo possibile sia la riflessione sui propri stati mentali e sulle proprie strategie decisionali sia il senso di continuità spaziotemporale di sé (identità). A tale proposito, Alexei V. Samsonovich e Lynn Nadel (2005) sintetizzano nel concetto di Io, inteso come unità funzionale, l’integrazione della consapevolezza cosciente, la percezione sensoriale e il controllo volontario nell’individuo. Inoltre, denominano mappa egocentrica la consapevolezza dell’Io nel qui e ora, e mappa allocentrica la consapevolezza dell’Io legata a specifici momenti del passato che costituiscono tracce esperienziali da utilizzare per orientarsi nel presente e nel futuro. Questi due livelli sarebbero parzialmente indipendenti ma interagirebbero continuamente.

Correlati neurobiologici della coscienza

Il notevole recente sviluppo delle neuroscienze ha offerto validi strumenti d’indagine per studiare il substrato neurale dei fenomeni della coscienza. Tuttavia, quest’ultimo è stato individuato solo parzialmente, in quanto funzioni così complesse e di alto livello difficilmente sono riconducibili a singole strutture cerebrali, mentre è molto più verosimile una loro attribuzione a un’estesa rete neurale. Di notevole interesse è anche l’ipotesi di Ahmad Abu-Akel (2003), il quale descrive una correlazione tra funzioni e strutture, distinguendo tre livelli di autoconsapevolezza e autoriflessione attribuendoli rispettivamente ad aree cerebrali distinte: 1) le rappresentazioni dei propri stati mentali e del sense of agency si formerebbero nelle strutture parietali posteriori destre; 2) queste rappresentazioni verrebbero poi valutate in base a criteri di rilevanza personale e al significato emozionale a esse associato, processo che sarebbe a carico delle strutture limbiche e paralimbiche; 3) le funzioni esecutive, di sintesi e mentalizzazione sarebbero applicate su tali rappresentazioni emotivamente connotate dalle aree corticali prefrontali dorsomediali e dorsolaterali. Il ruolo della corteccia prefrontale (PFC) è messo in risalto anche dagli stessi Samsonovich e Nadel ( 2005), i quali ipotizzano che la mappa egocentrica risieda nelle regioni dorsolaterali e/o mediali della PFC, mentre la mappa allocentrica potrebbe essere localizzata nell’ippocampo. Queste due aree non sono in diretta connessione tra loro, ma sono collegate attraverso la corteccia entorinale, che fa parte del lobo temporale mediale. Altri studiosi mettono in evidenza il ruolo rilevante del precuneus, situato nella porzione posteromediale del lobo parietale (aree di Brodmann: BA 7 e 31). Il precuneus sarebbe coinvolto nei processi di mentalizzazione dell’autocoscienza; in particolare, un’interazione tra precuneus e PFC (in particolare le sue porzioni mediali e rostrolaterali) è stata ipotizzata in individui impegnati in riflessioni su di sé. L’impiego della tomografia a emissione di positroni (PET) ha evidenziato una diminuzione dell’attività metabolica nel precuneus sia durante attività non autoriferite, sia nel corso di stati di coscienza alterati (sonno, ipnosi, anestesia farmacologica).

I deficit di consapevolezza di sé

Un impulso notevole allo studio dell’autocoscienza da un punto di vista neurologico è stato fornito dall’osservazione di alcuni fenomeni clinici caratterizzati da deficit nella consapevolezza di sé dovuti ad alterazioni funzionali o strutturali a livello cerebrale. Tali compromissioni prendono il nome di anosognosia e deficit di insight. Il primo termine, coniato nel 1914 dal neurologo Joseph Babinski, si riferisce esplicitamente alla difficoltà per un paziente di rilevare o valutare realisticamente un deficit motorio, cognitivo, comportamentale o affettivo, a seguito di un danno cerebrale. Questo tipo di manifestazione è piuttosto diffusa in soggetti vittime di ictus o trauma cranico, i quali, pur riportando evidenti emiplegie o emiparesi, non riescono a rendersene conto, continuano cioè ad affermare di stare bene, di poter camminare o usare l’arto colpito in maniera normale. Questi pazienti difendono le proprie convinzioni anche di fronte a evidenze che provano il contrario e si mostrano generalmente stupiti delle affermazioni di medici e parenti che testimoniano la loro inabilità (Orfei, Robinson, Prigatano et al. 2007). Analogamente, pazienti affetti da sindrome di Anton non sono consapevoli della loro cecità. Un altro tratto peculiare dell’anosognosia nel danno cerebrale è che i pazienti mantengono una normale consapevolezza rispetto a tutti gli altri aspetti della loro vita, della propria identità e possono allo stesso tempo essere realisticamente coscienti di altri sintomi. L’anosognosia è un fenomeno solitamente reversibile spontaneamente nell’arco di 3-6 mesi, solo raramente si protrae per periodi più lunghi. I correlati neuroanatomici riscontrati più di frequente riguardano il prevalente coinvolgimento dell’emisfero destro, le lesioni delle aree corticali frontoparietali, della corteccia temporale superiore, della corteccia dorsale premotoria (BA 6 e 44), delle aree motorie primarie, del talamo e dell’insula.

Anche soggetti colpiti da forme di demenza, come la malattia di Alzheimer o la demenza frontotemporale, non sono in grado di prendere consapevolezza della propria condizione patologica, rendendo probabili comportamenti rischiosi. Tipicamente, questi pazienti mostrano di non avere consapevolezza di disturbi comportamentali (disinibizione) e/o dei deficit cognitivi, dei cambiamenti di tratti di personalità o di umore; attribuiscono a cause errate i deficit mnestici; sottovalutano le sopraggiunte limitazioni nelle attività quotidiane e la conseguente mancata messa in atto di strategie compensatrici, e infine la non consapevolezza dell’impatto della malattia sull’ambiente circostante. Al contrario di quanto osservato nel danno cerebrale, nelle demenze la perdita di consapevolezza è irreversibile e progressivamente ingravescente. In soggetti colpiti da queste sindromi e con chiari segni di anosognosia, sono stati rilevati un’ipoperfusione del lobo frontale dorsolaterale destro, delle aree corticali frontali destre inferiori e superiori, delle aree temporoccipitali, delle BA 6, 45, 8 e 9 (corteccia frontale laterale destra), del giro frontale inferiore destro, una marcata densità di placche senili nel prosubiculum destro dell’ippocampo, un ipometabolismo dell’area paraippocampale destra, della corteccia orbitofrontale destra, del solco frontale superiore sinistro, dell’insula mediale destra, del giro temporale mediale destro, della corteccia temporoparietale bilaterale, della corteccia inferotemporale bilaterale.

Altre patologie in cui la carente consapevolezza di sé è oggetto di studio sono le psicosi e la schizofrenia, a proposito delle quali si preferisce parlare però di deficit di insight, sia per aderenza a una denominazione più classicamente psichiatrica (K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, 1913; trad. it. 1964) sia perché un’eziologia cerebrale in questi casi è molto più ardua da stabilire (Orfei, Robinson, Bria et al. 2008). Le manifestazioni comportamentali più comuni sono il mancato riconoscimento verbale sia della malattia in generale sia dei sintomi, l’errata attribuzione causale delle esperienze allucinatorie e deliranti, la non consapevolezza dei benefici e della necessità del trattamento terapeutico, dell’impatto sociale della malattia e della possibilità di ricadute. L’andamento dei deficit di insight nelle psicosi può essere molto variabile, ma non necessariamente irreversibile: in alcuni casi, il trattamento farmacologico ed eventualmente psicoterapeutico possono ristabilire un’adeguata percezione della propria condizione patologica. I pochi studi finora realizzati sull’argomento hanno riportato correlazioni tra deficit di insight e riduzione del volume delle aree frontali e prefrontali (DLPFC).

Un atteggiamento strettamente localizzazionista non appare idoneo nello studio della consapevolezza, mentre l’ipotesi di un substrato rappresentato da una rete neurale articolata in diverse aree corticali e subcorticali sembra di gran lunga più verosimile. Secondo i modelli più recenti, i processi della consapevolezza sarebbero cioè generati a partire da varie componenti del sistema nervoso centrale. In ogni momento numerosi circuiti modulari cerebrali sarebbero attivi contemporaneamente ed elaborerebbero le informazioni a livello non cosciente. Nel momento in cui l’attività di una determinata popolazione neuronale viene mobilitata e amplificata da processi attenzionali, l’informazione da essa processata diverrebbe cosciente. La coscienza non coinciderebbe quindi con l’attività cerebrale in toto, dal momento che le informazioni possono accedere alla coscienza oppure rimanere confinate ai processi subcoscienti. L’attenzione invece è un prerequisito indispensabile per la consapevolezza che, a sua volta, è necessaria per svolgere determinati compiti o attività, come, per es., quelli che richiedono la fissazione di alcune informazioni, l’esecuzione di combinazioni nuove di operazioni cognitive o anche la produzione di comportamenti intenzionali. Le connessioni a lungo raggio che caratterizzano queste reti neurali rendono le informazioni disponibili per un’ampia gamma di operazioni (categorizzazione percettiva, memorizzazione a lungo termine, valutazione ecc.). La disponibilità di questo materiale rappresenterebbe il campo di coscienza soggettivo. Tuttavia, questo modello non riesce ancora a spiegare come alcune rappresentazioni o contenuti ideativi possano rimanere temporaneamente o permanentemente inaccessibili alla consapevolezza. A livello strutturale, l’emisfero destro sarebbe prevalentemente, ma non esclusivamente, coinvolto e le aree prefrontali e temporoparietali assumerebbero una salienza funzionale rilevante.

La difficoltà nello studio della coscienza risiede in primo luogo in un’elevata complessità fenomenologica e, in secondo luogo, nel fatto di porsi al crocevia di numerose aree concettuali. Le arti, le religioni, la filosofia e la psicologia hanno tutte contribuito alla definizione e alla comprensione della coscienza e dell’autoconsapevolezza, così come, in tempi più recenti, hanno fatto le scoperte nel campo delle neuroscienze. Questa enorme ricchezza di idee e dati rischia tuttavia di rimanere infruttuosa, generando saperi rigidamente separati o peggio ancora una sterile confusione. In altre parole, un’adeguata integrazione di approcci apparentemente diversi, eppure complementari, può permettere un arricchimento sia concettuale sia metodologico straordinario. Se gli approcci filosofici e psicologici illustrano il versante soggettivo e fenomenologico della consapevolezza di sé, la psicologia sociale può aiutare a specificare quando, come e con quali conseguenze vengono effettuate determinate valutazioni, mentre le neuroscienze possono svelare le aree cerebrali e i circuiti neurali implicati nella coscienza e nell’autoriflessione. Ancora, la neuropsicologia può contribuire a stabilire le relazioni tra autoconsapevolezza e altre funzioni cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione e i processi motivazionali (v. figura). Inoltre, l’osservazione e lo studio di soggetti con danno cerebrale oppure con particolari patologie neurodegenerative come le demenze consentono di analizzare specifiche componenti del più ampio fe-nomeno della coscienza, in quanto in questi casi frequentemente vengono danneggiate o rese deficitarie selettivamente alcune subfunzioni. Infine, una migliore comprensione dei meccanismi dell’autoconsapevolezza può aprire nuove importanti prospettive nel campo della teoria della mente e della social cognition (Adolphs 2001), ovvero di tutti quei processi su cui si basano i comportamenti di un soggetto rispetto ad altri individui della propria specie e che, in particolare nella specie umana, sono caratterizzati da grande flessibilità e diversificazione, consentendo a loro volta un elevato grado di adattamento (Adolphs 1999). Anche in questo caso, l’approccio più idoneo è di stampo biopsicosociale, all’interno del quale, per es., si possono intraprendere interessanti studi per verificare il legame esistente tra autoconsapevolezza e neuroni specchio, ossia le strutture neurali corticali deputate alla comprensione dei pensieri e delle emozioni altrui e per questo motivo alla base dell’empatia (Rizzolatti, Craighero 2004).

Bibliografia

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