COSENZA

Federiciana (2005)

Cosenza

Pietro De Leo

Sita al centro della Calabria, in uno snodo della via consolare che conduceva da Capua a Reggio, sul crinale del colle Pancrazio, alla confluenza dei fiumi Crati e Busento, Cosenza, città demaniale, fu per tutta l'età sveva capitale del giustizierato di Val di Crati e Terra Giordana.

Diroccata dal terremoto del 24 maggio 1184, che di-strusse la cattedrale travolgendo l'arcivescovo Ruffo e sconvolse la Val di Crati procurando vittime e danni ingenti, l'antica città dei Brettii, nota per la sua vivacità culturale, rinacque lentamente, nonostante l'incertezza e le rivolte che si determinarono durante e dopo il regno di Tancredi. Alleata di quest'ultimo, Cosenza si schierò poi nel 1196 dalla parte di Enrico VI e Costanza d'Altavilla, che avevano smantellato il potere del piccolo Guglielmo III. Dopo circa quarant'anni la ricostruzione della città e dei casali contigui, a essa soggetti, poteva dirsi conclusa.

Il 30 gennaio 1222, alla presenza di Federico II, che portò in dono la preziosa stauroteca, il legato pontificio cardinale Nicola di Chiaromonte, vescovo di Tuscolo, consacrò la nuova cattedrale, voluta dall'arcivescovo Luca Campano (1203-1227), già scriba di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina. Anche il castello, che domina la città in posizione di vedetta sulla sottostante via consolare, fu ampliato e riadattato in base alle direttive imperiali del 1220 (castra, munitiones et turres) dalle stesse maestranze che erano state impegnate nella ricostruzione del duomo. E sul Busento fu innalzato un ponte in sostituzione di quello in legno ormai fatiscente. Ne ebbe cura l'amministrazione locale sorretta da una comunità di cittadini, come i nobili Telese, Castiglione, Sambiase, Mangone e De Matera, zelanti nella difesa delle prerogative riconosciute anche da papa Innocenzo III, che nel febbraio 1203 esortava l'arcivescovo Luca a mantenere "le antiche e ragionevoli consuetudini locali". In città con l'assenso regio si erano stanziati molti ebrei, che presso le mura avevano eretto una sinagoga e messo in opera una tintoria, soggette fiscalmente dal 1212 all'arcivescovo di Cosenza. Al medesimo prelato erano anche infeudati il centro urbano di Rende, attiguo a Cosenza, e il porto di S. Lucido sul Tirreno. Ma tale dominio non si mantenne stabile, mentre restava salda la demanialità di Cosenza. In una lettera di papa Onorio III del 1221, Rende insieme con altri casali del circondario risulta sottomessa a Riccardo conte d'Aiello.

Se la familiarità di Luca Campano con Federico II aveva contribuito alla crescita della città e alla conferma nel 1223 dei privilegi concessi dai re normanni alla Chiesa cosentina, i buoni rapporti dell'arcivescovo, soprattutto con i papi Innocenzo III e Onorio III, determinarono a Cosenza un trend positivo che si estese ben oltre il suo episcopato conclusosi nel 1227, lo stesso anno in cui l'imperatore fu scomunicato da papa Gregorio IX. Federico II aveva sostenuto la designazione ad arcivescovo di Opizone Colombi d'Asti, suo consigliere, che prese possesso della cattedra nell'autunno 1230. Alla seconda scomunica di Federico, nel 1239, Opizone si trovò in gravi difficoltà e fu costretto ad allontanarsi dalla città, da cui risulta assente certamente nel 1241. Furono anni duri per Cosenza, che non solo nel 1230 era stata nuovamente colpita dal terremoto e l'anno successivo era stata invasa da locuste che avevano prodotto una grave carestia, ma era anche pesantemente vessata dal regio fisco con numerosi balzelli. L'istituzione di un'importante fiera annuale (v. Fiere e mercati), nel 1234, oltre alla curia generale da tenersi due volte all'anno, valse a ridare un po' di fiato all'economia, ma la situazione restava precaria.

Per l'ostilità di Federico II verso gli Ordini mendicanti, contro i quali nel novembre 1240 aveva decretato l'espulsione dal Regno, rimase inefficace la decisione del papa di affidare ai Domenicani la chiesa urbana di S. Matteo. Eppure, al rappresentante di uno di questi Ordini, il francescano Luca da Bitonto, toccò recitare nella cattedrale di Cosenza l'orazione funebre per Enrico (VII), il figlio ribelle dell'imperatore, che mentre veniva tradotto dal castello di Martirano a quello di Cosenza aveva perso la vita, forse suicidandosi, ed era stato sepolto in un sarcofago d'età tardoantica, che ancora si conserva nella cattedrale. Alla morte di Federico II, nell'attesa dell'arrivo di Corrado IV, Manfredi assunse il vicariato generale del Regno, e Pietro Ruffo ebbe l'incarico di provicario per le province siciliane e calabresi: da ciò nacque un periodo di gravi tensioni. Contrasto che si approfondì durante il brevissimo regno di Corrado IV, morto a Lavello il 21 maggio 1254.

Cosenza come gran parte della regione si era schierata con Manfredi, mentre Ruffo tentava di accreditarsi come sostenitore di Corradino. A conquistare la città dei Brettii e la Val di Crati, Ruffo mandò il nipote Giordano, che riuscì a sottometterla sino a quando Manfredi nel 1255 vi spedì Corrado di Truich, che ripristinò con successo il precedente dominio. A nulla valse un nuovo intervento di Ruffo ‒ sostenuto dall'arcivescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli ‒ che minacciò di distruggere la città se non si fosse assoggettata alla Chiesa. Un groviglio di voci incontrollate sui successi delle truppe papali allarmarono patriziato e cittadini di Cosenza, che paventavano un facile assedio, a causa di un incendio che nel 1254 aveva danneggiato il castello e le mura. Furono inviate due ambascerie: la prima al conterraneo Gervasio di Martina, per sollecitarlo a venire in difesa della città; una seconda a Pietro Ruffo simulando una possibile trattativa. La congiuntura si ingarbugliò allorché Ruffo e l'arcivescovo Pignatelli scoprirono l'inganno e, disarmati i messi cosentini, fecero ritorno da S. Lucido a Cosenza, dove entrarono senza ostacoli, spalleggiati dai 'crociati' raccolti presso Rende e dintorni da Tommaso Forismo, congiunto di Ruffo. Sull'opposto versante Gervasio di Martina, dubbioso sul comportamento dei suoi concittadini, trattenne in ostaggio alcuni messi, mentre ne fece tornare indietro altri, con l'impegno di allontanare dalla città Ruffo. L'operazione riuscì solo con un tranello: venne diffusa la falsa notizia che i manfredini avevano imprigionato nella roccaforte di S. Lucido Guida, moglie di Pietro Ruffo. Appena il marito si precipitò sulla costa per liberarla, per Gervasio fu facile impresa: devastata Montalto e arresasi Rende, riconquistò Cosenza e impedì che l'arcivescovo potesse rientrarvi. Per Pietro Ruffo era il definitivo tramonto, già iniziato alla morte di Innocenzo IV con la surroga nella carica di gran maresciallo del Regno attribuita da Manfredi a Galvano Lancia. Un anno dopo Ruffo fu pugnalato da un sicario a Terracina.

In tale contesto sempre più incerto e avverso si svolse il regno di Manfredi, dall'agosto 1258 alla battaglia di Benevento il 26 febbraio 1266, allorché fu colpito a morte dalle truppe di Carlo I d'Angiò. Quella tragica fine fu narrata da Dante nel III canto del Purgatorio, evocando il gesto dell'arcivescovo cosentino Bartolomeo Pignatelli, che fece dissotterrare a lumi spenti il cadavere dello Svevo, perché fosse disperso lungo il fiume Verde. La circostanza che il suddetto prelato non abbia fatto più ritorno a Cosenza, ma sia stato traslato a Messina, è spia assai evidente del forte legame che la città dei Brettii continuava a sentire con gli eredi di Federico II. Fu così anche durante la breve comparsa di Corradino e ben oltre la sua decapitazione a Napoli, il 29 ottobre 1268. Vero è che stabilitasi, con il risoluto appoggio del papa, la dominazione di Carlo I d'Angiò, nel 1269 la città di Cosenza chiese al sovrano una consistente riduzione delle tasse, a causa della 'desolazione' in cui versava, fiaccata dalle guerriglie, che avevano abbassato anche il tasso demografico. Le cedole angioine, compilate due anni più tardi, segnalano a Cosenza, oltre ai chierici, solo 3.039 abitanti, di cui 138 ebrei.

fonti e bibliografia

Il 'Liber usuum Ecclesiae Cusentinae' di Luca di Casamari arcivescovo di Cosenza, a cura di A.M. Adorisio, Casamari 2000.

E. Pontieri, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli 1965.

N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs 1194-1266, 2, München 1975, pp. 830-862.

S. Tramontana, Il Mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Roma 2000.

L'impronta indelebile. Enrico VII di Svevia e Gioacchino da Fiore alla luce delle indagini paleopatologiche, a cura P. De Leo-G. Fornaciari, Soveria Mannelli 2001.

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