COSMATI

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)

COSMATI

E. Bassan

Denominazione convenzionale con la quale si indicano gli artefici romani impegnati, nei secc. 12° e 13°, in lavori in marmo di prevalente carattere scultoreo-decorativo e architettonico, attivi nel Patrimonium Petri e, più raramente, anche al di fuori di esso.Il termine C. venne acquisito come ormai corrente dalla storiografia tardo ottocentesca (Boito, 1880; Clausse, 1897), che, tuttavia, avvertiva già l'equivoco sorto dalla estensione a un insieme assai vasto di artisti dei nomi Cosma o Cosmatus e del patronimico Cosmati, ricorrenti bensì con notevole frequenza, ma all'interno di due sole e affatto distinte famiglie di essi. Se, d'altronde, la denominazione 'marmorari romani' che in alternativa venne proposta, specie quando si pervenne a un definitivo chiarimento (Giovannoni, 1904c), aveva il merito di una maggiore aderenza alla realtà storica e sociale espressa dagli autori delle opere 'cosmatesche', quest'ultimo appellativo sembrava avere ormai conquistato una certa fortuna critica, grazie anche alla connotazione stilistica che vi si era andata associando: quella rappresentata dalla prevalente geometrizzazione dei motivi decorativi generati dal contrasto fra ampie zone neutre in marmo bianco e più fitti motivi policromi in mosaico o in opus sectile. Tuttavia tale formula interpretativa si rivela oggi, se non errata, quantomeno riduttiva o inadeguata.Anzitutto, nonostante l'attività dei C. sia in linea generale assimilabile a quella di scultori-decoratori, essa non è circoscrivibile al solo allestimento di pavimenti e di arredi liturgici, dove i motivi 'cosmateschi' sono prevalenti, ma interessa presto anche opere di architettura; inoltre, il campo della scultura figurativa, già presente dalle origini, benché limitata in impegno e in ampiezza, andò gradatamente estendendosi coinvolgendo in ultimo, per riflesso di correnti esterne di gusto gotico, anche l'elaborazione nei monumenti sepolcrali della figura umana a tutto tondo; infine, i C. sono responsabili, seppur raramente e talvolta affiancati da maestri specializzati appartenenti ad altre botteghe (Iacobini, 1991, pp. 246-248), di opere musive a carattere figurativo, in settori ridotti e in funzione architettonica all'esterno di edifici (per es. nel distrutto portico, forse protoduecentesco, della basilica lateranense o nella lunetta del portale destro del duomo di Civita Castellana, 1205 ca.), ma comunque in relazione a esperienze formali e tecniche propriamente pittoriche.L'organizzazione delle botteghe assume pertanto un posto importante nella qualificazione di questi artisti: grazie a essa i C. poterono infatti acquisire un ruolo rilevante nel quadro delle corporazioni operanti a Roma nel Medioevo, sviluppando modalità operative ispirate di frequente a criteri di tipo imprenditoriale e riservandosi il monopolio della utilizzazione di marmi antichi. Furono poste in tal modo premesse determinanti per la formazione sia del gusto profondamente retrospettivo sia del carattere aulico connesso alla rarità e alla qualità dei materiali impiegati (Claussen, 1989), fattori che contraddistinguono in maniera specifica le opere cosmatesche dai linguaggi 'volgari' del Romanico europeo, apparentandole piuttosto ad altre espressioni, legate in qualche modo al mondo bizantino. Questo atteggiamento, che vedeva nello spoglio o nella imitazione dell'Antico il mezzo e il fine dell'operato artistico e insieme il segno di una recuperata romanità, appare una costante delle botteghe marmorarie fino almeno a tutti gli anni sessanta del Duecento ed emerge con orgoglio anche nella insistente autocelebrazione presente nelle firme dei maestri sin dalla fase iniziale di attività - Paulus nel duomo di Ferentino si appella vir magnus (1100 ca.) - e poi, con sempre maggiore consapevolezza, nei decenni successivi (tra le firme più note quelle di "Laurentius cum Iacobo filio suo magistri doctissimi romani [...]" nel portale maggiore del duomo di Civita Castellana del 1200 ca. e del "nobilit(er) doct(us) hac / Vassallectus i(n) arte / [...]", autore, insieme al padre, del chiostro lateranense, terminato non molto oltre il 1230). In esse è infatti evidente l'intento di delimitare i confini del campo dei C. da quello di altri artigiani attraverso l'attribuzione di una pretesa patente intellettuale, la cui legittimazione veniva ricercata proprio nello studio dell'Antico, condotto su testimonianze artistiche e perfino letterarie, benché di certo in modo episodico (Claussen, 1981).La stretta organizzazione familiare, con la conseguente trasmissione di padre in figlio di modelli e soluzioni formali, costituisce un altro dei più importanti caratteri dell'arte cosmatesca, il quale, unito al marcato tradizionalismo, finì per limitare in maniera considerevole, per oltre centocinquanta anni, un autentico processo di trasformazione stilistica, che si rivelò, semmai, più che in una gamma variata di espressioni artistiche, nell'adattamento di schemi ormai consueti a particolari esigenze pratiche o nel progressivo ampliarsi di compiti e ambizioni in competizione con le botteghe rivali di costruttori; impegnate infatti nel sec. 12° come protagoniste nei maggiori cantieri romani, queste ultime sembrano aver subìto nel secolo successivo l'ascesa dei C., che da semplici decoratori avrebbero guadagnato le maggiori committenze in campo architettonico con una significativa inversione di ruoli (Pistilli, 1991; Priester, 1993). Ciò nonostante, i problemi architettonici rimasero sempre sullo sfondo della pratica di lavoro dei marmorari romani, il cui contributo alla costruzione di edifici si limitò in genere alla cura proporzionale e compositiva del disegno d'insieme, con solo rare pur se significative eccezioni, come nel caso del chiostro lateranense, sicuramente ideato in toto dai Vassalletto, dove la copertura degli ambulacri con crociere nervate si collega ingegnosamente a un sistema di colonne e di lesene desunto da monumenti tardoantichi (Pistilli, 1991). Di norma la pratica di lavoro dei C. si limitava all'allestimento di colonne e capitelli o degli elementi decorativi realizzati in bottega (Voss, 1990; Pensabene, Pomponi, 1991-1992), che talvolta venivano esportati e sistemati in loco con la collaborazione di altri artefici, come è stato constatato nei casi della facciata di S. Pietro a Tuscania (fine sec. 12°-inizi 13°; Noehles, 1961-1962), del chiostro dell'abbazia di Sassovivo presso Foligno (1229; Faloci Pulignani, 1915) e, sulla base della presenza di segni lapidari per il montaggio, anche nel lato meridionale del chiostro del monastero di S. Scolastica a Subiaco (inizi sec. 13°; Giovannoni, 1904a) e nei lavori promossi da Niccolò III (1277-1280) nella cappella del Sancta Sanctorum al Laterano, dove magister Cosmatus sarebbe escluso dai lavori architettonici di carattere più innovativo, riferibili, al contrario, a maestranze informatesi nei cantieri cistercensi (Romanini, 1982; Righetti Tosti-Croce, 1991a).Il censimento di sessanta nomi di artisti impegnati in opere cosmatesche e la conseguente ricostruzione critica delle famiglie di appartenenza hanno portato a constatare la simultanea attività di cinque o sei botteghe nell'arco di due secoli (Claussen, 1987; 1989). Fra quelle della prima generazione sembra che abbiano esercitato un ruolo fondamentale, per la precocità e la qualità delle realizzazioni, le botteghe di Paolo e Ranuccio. Il primo, testimoniato nei plutei di recinzione presbiteriale del duomo di Ferentino, firmati al tempo di papa Pasquale II (1099-1118) e del vescovo Agostino (m. nel 1110), ebbe continuatori nei figli Giovanni, Pietro, Angelo (v. Angelo di Paolo) e Sasso, attivi verso il 1150 (i cibori romani di S. Lorenzo f.l.m. e, ora smembrati, di Santa Croce in Gerusalemme, Ss. Cosma e Damiano e S. Marco), mentre il probabile figlio di Angelo, Nicola (v.), ricoprì certamente una posizione di grande rilievo nel corso degli ultimi due decenni del secolo, anche se con sicurezza gli si deve riferire, come opera autografa superstite, soltanto il monumentale candelabro pasquale in S. Paolo f.l.m., eseguito in collaborazione con Pietro Vassalletto, forse agli inizi del pontificato di Innocenzo III (1198-1216; Bassan, 1982; attribuzioni viceversa estensive in Claussen, 1987).Nella famiglia di Ranuccio (o Rainerio), marmoraro noto in maniera molto frammentaria - per Matthiae (1958) i due nomi potrebbero indicare due distinti maestri -, i figli Nicola e Pietro dettero inizio, nel 1143, in S. Maria di Castello a Tarquinia a una vasta attività decorativa, che si protrasse nello stesso luogo con i nipoti Giovanni e Guittone e con il figlio di quest'ultimo, Giovanni, fino al primo decennio del Duecento.Connessa all'attività di queste prime due botteghe e al problema delle origini del gusto decorativo cosmatesco risulta la questione attributiva di un gran numero di pavimenti. Essa deve considerarsi però tuttora aperta, nonostante il tentativo di classificazione tipologica e stilistica, grazie al quale sono stati indicati possibili raggruppamenti scanditi in ordine cronologico, che non sfuggono tuttavia al pericolo di generalizzazioni proprio nel momento in cui ambiscono a un riferimento preciso a singoli maestri o gruppi familiari (Glass, 1980). Di certo, l'elemento centrale più rilevante e ricorrente in molti dei pavimenti del 'gruppo di Paolo' e dei suoi figli, attivi nella prima metà del sec. 12° (per es. a Ferentino, duomo; a Roma, Ss. Quattro Coronati, S. Clemente, S. Maria in Cosmedin, S. Prassede, S. Agnese in Agone, S. Benedetto in Piscinula, Santa Croce in Gerusalemme, Ss. Cosma e Damiano; a Nazzano, presso Roma, chiesa abbaziale di S. Antimo; Glass, 1980), è una serie di dischi in porfido e serpentino o anche giallo antico, fra i quali ne spicca uno maggiore, talvolta affiancato da altri quattro più piccoli disposti simmetricamente due per lato in modo da inscriversi idealmente in un quadrato (il c.d. quincunx). Tale elemento richiama, più nella tecnica o nel singolo motivo centrale che nella struttura decorativa in sé, alcune soluzioni adottate nel perduto ma ben documentato pavimento realizzato da maestranze costantinopolitane nell'abbaziale di Montecassino al tempo dell'abate Desiderio (1066-1071), accreditando l'ipotesi di un riflesso a Roma di modi messi per primi in opera nel centro monastico. I termini cronologici e storici della questione la rendono plausibile; tuttavia l'intensa, quasi improvvisa e originale fioritura a Roma di fabbriche religiose, all'interno delle quali emergono le pavimentazioni ispirate al nascente gusto cosmatesco, si giustifica e trae alimento, piuttosto, dalla nuova disponibilità di risorse economiche che il papato volle destinare all'edificazione e al restauro nel clima fervido della riforma gregoriana, entro la quale rientra in parte anche il rapporto Roma-Montecassino. Non è dunque un caso che alcuni degli esempi meglio databili e meglio conservati, come quelli del duomo di Ferentino e, a Roma, dei Ss. Quattro Coronati (del tempo di Pasquale II, 1099-1118), di S. Maria in Cosmedin (del tempo di Callisto II, 1119-1124, per iniziativa del camerario Alfano, m. nel 1123) e di S. Clemente (di controversa datazione, oscillante fra i pontificati di Gelasio II, 1118-1119, e dell'antipapa Anacleto II, 1130-1138), si inscrivono in un ambito di committenza pontificia fortemente determinata al recupero dell'Antico nelle sue valenze politiche e religiose. Tale riferimento potrebbe essere ulteriormente avvalorato se si conoscesse meno frammentariamente l'originario pavimento della basilica vaticana, la cui attribuzione a Paolo, al tempo dello stesso Callisto II, si configurerebbe come fondamentale termine di confronto (Glass, 1980; Claussen, 1987; 1989; de Blaauw, 1987).Si può dunque ritenere che, se un forte impulso venne offerto da Montecassino in direzione di Roma, la definizione di un'arte romana 'cosmatesca' mostri, già sul nascere e in relazione alla stessa concezione dei pavimenti, forti connotati individuali. Tali pavimenti si presentano, infatti, adeguati a una struttura assai più rigorosa di quello cassinese, senza precedenti nei superstiti esempi bizantini, in quanto impostata su uno schema assiale che costituisce un percorso longitudinale privilegiato, talvolta intersecato ortogonalmente da un asse secondario in forma di croce, all'origine del quale è la funzione liturgica di guida alle processioni papali nelle chiese stazionali (de Blaauw, 1987; Voss, Claussen, 1991-1992): uno schema risultante dalla sequenza ordinata di dischi colorati fiancheggiati da partizioni rettangolari di disegno più minuto, che richiamano modelli romani classici, mai del tutto caduti in disuso nell'Alto Medioevo (Guiglia Guidobaldi, 1984). La quasi contemporanea affermazione della bottega di Ranuccio (pavimenti in S. Maria di Castello a Tarquinia e nell'abbaziale di S. Andrea in flumine a Ponzano Romano, entrambi intorno al 1150; Voss, 1985) conferma l'omogeneità di questa espressione artistica, pur imponendo varianti nei confronti dello schema descritto, come l'alternanza di dischi e di rettangoli o quadrati nella fascia mediana.Al vasto recupero ideale dei sectilia classici si collegava l'allestimento di un mobilio liturgico tra i più sontuosi e complessi del Medioevo, ispirato in parte ai perduti arredi di area cassinese - come risulta dalla documentazione iconografica degli Exultet - ma elaborato in continuità con la tradizione romana altomedievale e attraverso una ricerca formale condotta direttamente sui modelli antichi, sia pagani sia paleocristiani. Tale mobilio comprendeva l'altare, sopraelevato su una piattaforma, il ciborio e la cattedra, disposti entro una recinzione presbiteriale spesso concepita in relazione a una fenestella confessionis. La riforma liturgica con la quale Urbano II (1088-1099) introdusse nel 1095 il canto corale obbligatorio per tutto il clero di Roma favorì, inoltre, la costruzione di cori, delimitati da plutei marmorei, poi smantellati quasi ovunque a seguito del decreto con il quale, nel 1575, Gregorio XIII ne ordinò la soppressione (De Benedictis, 1984). Essi, aggiungendosi al presbiterio vero e proprio, ne estendevano lo spazio entro la navata maggiore includendo di norma sedili, un pulpito, un ambone e un candelabro per il cero pasquale. Questo assetto dovette prendere forma definitiva e ben distinta per funzione, dimensioni e struttura rispetto alle recinzioni precedenti già nel primo quarto del sec. 12°, come dimostrano gli esempi superstiti di S. Maria in Cosmedin e di S. Clemente, rivelandosi a lungo funzionale, tanto da essere adottato senza sostanziali varianti anche in pieno Duecento, come nel caso, sufficientemente integro e documentato, di S. Lorenzo f.l.m., i cui lavori vennero verosimilmente conclusi entro il 1254 (Gandolfo, 1980). All'elaborazione di tale arredo furono probabilmente impegnate, almeno in parte, le stesse botteghe attive nell'allestimento dei pavimenti e il loro operato si estese quasi subito anche all'esterno degli edifici, in portali, finestre e lunette, come dimostra l'esempio di S. Maria di Castello a Tarquinia, culminando infine nella costruzione di portici e di chiostri.È nello stretto ambito di questa decorazione funzionale all'architettura o alla liturgia che sorse anche una ricerca plastica dotata di un'autonoma caratterizzazione. Essa tardò tuttavia a esprimersi in maniera originale e le rare testimonianze precedenti la seconda metà del sec. 12° rivelano la presenza di componenti eterogenee, che includono sia il classicismo corposo, di ascendenza ottoniana, della vera da pozzo nella chiesa romana di S. Bartolomeo all'Isola (databile intorno al Mille), sia quello dai modi quasi grafici e intriso di motivi ancora altomedievali del portale di S. Pudenziana o di quello frammentario forse appartenuto alla cappella di S. Apollinare nell'antico S. Pietro in Vaticano, ora nelle Grotte (Bottari, 1988): modi arricchiti talvolta dall'accoglienza di elementi bizantineggianti pure presenti nella cultura romana del tempo, come indirettamente testimonia il portale della badia di Grottaferrata, anch'esso riferibile al primo 12° secolo.Un divario consistente separa queste espressioni da quelle più unitariamente indirizzate a partire dalla seconda metà del sec. 12°, che meritano pertanto in maniera più appropriata di essere chiamate cosmatesche; si tratta quasi esclusivamente di leoni a guardia di ingressi in vari settori di edifici ecclesiastici (quelli, per es., in S. Bartolomeo all'Isola, riferibili a Jacopo di Lorenzo, inizi sec. 13°; Gandolfo, 1980), di aquile al centro di architravi di portali o nel lettorino di amboni (come in quello smembrato, a firma di Lorenzo e Jacopo a Roma, in S. Maria in Aracoeli, fine sec. 12°), di piccole figure umane o animali in porzioni di arredi liturgici risparmiate alla policromia del mosaico (ambone del 1209 in S. Maria di Castello a Tarquinia). Tali motivi sono presenti, probabilmente agli esordi del pontificato di Innocenzo III, in un insieme assai calcolato per struttura e iconografia quale risulta il candelabro pasquale della basilica di S. Paolo f.l.m., firmato da Nicola d'Angelo e da Pietro Vassalletto, la sola opera che in ambito romano abbia svolto un vero impegno rappresentativo di vaste dimensioni, in ideale gara con le colonne trionfali imperiali. Colpisce la disinvoltura con la quale gli scultori seppero adattare ai temi suggeriti loro dai committenti soluzioni compositive, formali e tecniche, attentamente studiate sulle fronti dei sarcofagi paleocristiani in contesti iconografici anche assai diversi, contaminandole con altre adottate riguardando pezzi classici (Bassan, 1982; 1988a). Di fronte a tale quasi improvvisa e isolata manifestazione non è pertanto fuori luogo parlare, per inverso, di una sorta di generale preclusione per la figurazione da parte dei C., suscettibile di essere superata solo in imprese che, per funzione apotropaica o simbolica, fossero state in grado di capovolgere la connotazione pagana che per lunga tradizione si associava alla scultura (Claussen, 1989).A partire da questi stessi anni, corrispondenti al pontificato innocenziano e a quello, subito successivo, di Onorio III (1216-1227), vennero realizzate alcune tra le più significative opere cosmatesche, in uno con l'affermazione di Nicola d'Angelo e delle più qualificate botteghe attive a cavallo fra i secc. 12° e 13°: quella di Jacopo di Lorenzo (v.), di suo figlio Cosma e dei nipoti Luca e Jacopo di Cosma da un lato, e quella dei Vassalletto dall'altro.La personalità di Jacopo, già associata con quella del padre nel 1185 ca. nella esecuzione del portale dell'abbaziale di S. Maria di Falleri, presso Civita Castellana, dove si dette impulso a un rapporto con i Cistercensi ancora vivo un decennio più tardi nel portale maggiore del duomo di Civita Castellana, sempre a firma dei due artisti, emerge in piena maturità di stile in opere autonomamente realizzate, come la cattedra e il portale (1205) della chiesa di S. Saba a Roma, il lato meridionale del chiostro di S. Scolastica a Subiaco (inizi sec. 13°) o il portale destro dello stesso duomo di Civita Castellana. Qui, nel celebre portico (1210), Jacopo e il figlio Cosma seppero dare vita a una delle più riuscite sintesi architettoniche fra aspirazioni medievali e imitazione dei modelli antichi, risultante dall'interpretazione cristiana dell'arco di trionfo posto in facciata, replicato, in una variante più modesta, da parte di una ignota maestranza romana in collaborazione con una della Campania, nel duomo di Terracina, del secondo-terzo decennio del sec. 13° (Di Gioia, 1982), avamposto meridionale del Patrimonium Petri; inoltre, se a Civita Castellana l'inserzione di alcune sculture figurative a opera di un maestro umbro (Noehles, 1961-1962) conferma la pratica dei C. di avvalersi, quando non operanti in città, di collaboratori esterni, essa non esclude tuttavia la capacità dei due marmorari di cimentarsi con piena padronanza di mezzi anche in questo campo, come dimostrano con grande evidenza i due leongrifi, davvero classici, che decorano le fiancate della cattedra di S. Maria in Trastevere a Roma (1215 ca.), che pure è loro assegnabile (Gandolfo, 1980; 1984).Stesso ordine di problemi, ma con diverso accento, venne affrontato dalla bottega dei Vassalletto (v.), in grado di guadagnare in breve, certo in virtù delle qualità mostrate da Pietro Vassalletto nel candelabro ostiense, i favori della committenza onoriana, riuscendo a strappare alla bottega rivale di Cosma la direzione di uno dei più ricchi cantieri condotti in quegli anni, quello della basilica del Verano. Il brusco mutamento di stile che si registra tra il leone di destra e quello di sinistra del portale della basilica del Verano denuncia infatti l'abbandono del risentito espressionismo attribuibile a quest'ultimo maestro, a vantaggio del classicismo d'intonazione più pacata riferibile invece al Vassalletto, subito esteso ai colonnati ionici dell'interno e del nartece e, successivamente (forse sotto la guida di un secondo esponente della famiglia), anche ai plutei pressoché identici a quelli, firmati, in S. Saba (Bassan, 1982; Gandolfo, 1984). Nelle opere citate, nel chiostro lateranense - terminato intorno al 1230 dal figlio di Pietro Vassalletto - e nel lato nord di quello ostiense, integralmente diretto dall'artista più giovane pochi anni dopo, lo studio proporzionale, la ricchezza degli ornati musivi e d'intaglio, l'adozione di un tipo di trabeazione ritmata da protomi animali e anche umane rivelano l'alto grado di comprensione dei modelli antichi, non esclusi perfino prototipi egizi (Montorsi, 1983), raggiunto dagli esponenti di questa bottega: soluzioni che, per quanto si può ricavare dalla documentazione superstite, caratterizzavano in parte anche il distrutto portico di facciata della basilica lateranense, tuttavia di assai controversa datazione (Hoffman, 1978; Bassan, 1982; Gandolfo, 1983; Claussen, 1987; Herklotz, 1989; Pomarici, 1990). Tali acquisizioni, se rappresentavano da un lato il punto di arrivo di una ricerca che percorre tutta l'arte dei C., responsabile di aver mutato il volto dell'edilizia anche civile della città (per es. i portici colonnati ancora superstiti in numero considerevole benché successivamente incorporati in nuovi fabbricati, o la soluzione politico-simbolica della collocazione di un obelisco sul colle capitolino; Noehles, 1966), dall'altro finivano per segnare un momento oltre il quale sarebbe risultato difficile un vero processo di rinnovamento. L'operato delle botteghe marmorarie oltre gli anni trenta del Duecento denota, difatti, un fenomeno di complessiva cristallizzazione culturale, evidente nella riproposizione invariata di vecchie tipologie, benché non manchi un arricchimento dei valori coloristici e decorativi: così nella produzione della bottega di Drudo da Trivio per il duomo di Ferentino intorno al 1240 (Giovannoni, 1904b; Bassan, 1992), o nel ricco arredo presbiteriale in S. Lorenzo f.l.m., terminato nel 1254 da una bottega non vassallettiana dai modi assai prossimi a quelli presenti anche nella cattedra di S. Balbina a Roma (Gandolfo, 1980), o, infine, nelle soluzioni di carattere epigonico della stessa bottega dei Vassalletto attiva, ormai nel 1260 ca., nel duomo di Anagni, nel cui ambito sono stati fatti rientrare anche gli arredi erratici ricomposti in S. Cesareo a Roma (Matthiae, 1955).D'altronde, tale atteggiamento traeva alimento e giustificazione nel tipo di committenza che dalle origini aveva favorito l'affermazione dell'arte dei Cosmati. Sorta nel quadro della lotta per le investiture e pertanto in costante ricerca del recupero di un Antico 'costantiniano' cui si associavano ideali al tempo stesso di regalità e sacralità, essa venne progressivamente rendendo sistematiche alcune prime acquisizioni, estendendo anche alla realizzazione di arredi liturgici il gusto coloristico affermatosi nell'allestimento dei pavimenti e intensificando, già al principio del sec. 12°, la pratica del reimpiego non solo materiale, ma anche formale, di elementi classici o paleocristiani che venivano in tal modo investiti di un carattere di attualità, come nel caso del mobilio presbiteriale in S. Clemente che recupera, appena rilavorati e aggiornati con inserti mosaicati, i plutei del primo sec. 6° provenienti dalla basilica inferiore, o la cattedra in S. Maria in Cosmedin, i cui braccioli leonini utilizzano trapezofori classici in un insieme destinato a far risaltare nella figura del papa sedente, inquadrato dal dossale nimbato, attributi insieme imperiali e divini.La successiva, definitiva affermazione teocratica della Chiesa, se da un lato portò alla creazione di quello che è stato definito un 'Antico medievale' (Claussen, 1989), specie in riferimento alle opere prodotte al tempo dei più volte ricordati pontificati innocenziano e onoriano, dall'altro fu causa principale di quel fenomeno di autocitazione che con insistenza si coglie nei tardi sviluppi della produzione cosmatesca e il cui risultato sul piano formale fu il progressivo allentamento della tensione espressiva, in parallelo con l'affievolirsi della tensione politica, a seguito della deposizione di Federico II da parte del papa nel 1245 (Gandolfo, 1980). Non a caso la pagina conclusiva dell'arte dei C. si svolse sotto il segno di un mutato interesse della committenza - ora prevalentemente curiale piuttosto che papale - per l'oggetto isolato (per es. il ciborio in S. Maria in Cosmedin, del 1295 ca., e quello, smembrato, nel chiostro lateranense, già sull'altare della Maddalena, consacrato nel 1297, entrambi di Deodato di Cosma; D'Achille, 1991) o per l'autocelebrazione individuale nel monumento funebre, che nello stesso ambito romano vantava comunque una lunga tradizione (per es., tra i primi, quello del camerario Alfano, m. nel 1123, nel portico di S. Maria in Cosmedin; Herklotz, 1985; Gardner, 1992). Se, d'altronde, venne continuata la pratica della 'esportazione' di artisti fuori dall'Urbe, della quale il caso dei C. nell'abbazia di Westminster a Londra (negli ultimi anni sessanta il marmoraro Odoricus che firmò il pavimento del coro e il Petrus civis romanus autore del sepolcro di Edoardo il Confessore, e negli anni ottanta l'anonimo artefice della tomba di Enrico III) costituì il momento culminante quanto criticamente dibattuto (Claussen, 1987; 1990; Gardner, 1990; 1992), essa rientrava tuttavia in un diverso clima politico e culturale, favorito dall'elezione di papi francesi (Urbano IV, 1261-1264; Clemente IV, 1265-1268) e contrassegnato da un movimento controcorrente di penetrazione a Roma dei più aggiornati modi gotici. Tale mutamento di gusto si verificò sia per il tramite di Pietro di Oderisio (v.), autore del monumento funerario a Clemente IV del 1270 ca. in S. Francesco a Viterbo (Claussen, 1987; D'Achille, 1990; Gardner, 1992), sia a seguito di Arnolfo di Cambio - ma l'identità del socio Petro che collaborò al ciborio della basilica romana di S. Paolo f.l.m. del 1285 è ancora da chiarire (Romanini, 1983) -, le cui incisive presenze fecero passare in sottordine assai rapidamente i caratteri propri della tradizione romana, mantenendo in vita solo quegli elementi secondari, come gli inserti coloristici, ai quali si sarebbe in seguito legata la generalizzante denominazione 'cosmateschi'.La bottega dei Mellini, l'ultima attiva a Roma prima del trasferimento della corte papale ad Avignone (1306), bottega al cui interno si distinsero Cosma di Pietro Mellini e i figli Giovanni (padre di Lucantonio, l'ultimo esponente della famiglia), Deodato, Pietro e Giacomo, seppe comunque rispondere alle nuove esigenze del gusto sia con l'autorità di chi era depositario di una tradizione che nella qualità dei materiali impiegati riponeva ancora gran parte del proprio prestigio - come nella raffinata combinazione di elementi di rivestimento dell'interno del Sancta Sanctorum, a opera di Cosma negli anni del pontificato di Niccolò III (1277-1280) - sia piegando il proprio talento all'impegnativo compito di costituire un'alternativa, anche per quanto concerne le committenze, al deciso imporsi di Arnolfo nel campo della scultura funeraria. Giovanni di Cosma (v.), nei monumenti funebri romani di Stefano Surdi in S. Balbina (1295 ca.), di Guglielmo Durando in S. Maria sopra Minerva (1296 ca.), di Consalvo Garcia Gudiel in S. Maria Maggiore (1299 ca.) e, con vasto intervento di bottega, di Matteo d'Acquasparta in S. Maria in Aracoeli (1302 ca.; Gardner, 1992), offre non tanto un 'riflesso impallidito', quanto piuttosto una sottile 'variazione linguistica', pur sempre espressa in seno al nuovo ordine formale costruito dall'artista toscano (Romano, 1990).

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