Costantino e il diritto canonico moderno. Da Marsilio in poi

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Costantino e il diritto canonico moderno

Da Marsilio in poi

Diego Quaglioni

A Dante, Marsilio, Ockham e più in generale alla trattatistica De potestate papae che si sviluppa nei primi decenni del Trecento e fino al rinnovarsi della coniunctio duorum capitum con l’elezione e l’incoronazione dell’imperatore Carlo IV (1355), si è soliti riferirsi come a uno spartiacque anche per quel che riguarda la polemica intorno alla donazione di Costantino. L’opinione, in passato pressoché corrente, secondo la quale, nella letteratura giuridica posteriore alle vicende ultime della lotta tra i due ordinamenti universali e agli scritti che si riflettono in una pubblicistica di livello altissimo, la problematica tipica del Constitutum Constantini vada spegnendosi, e che la polemica intorno a essa abbia perduto ormai ogni pratica importanza, è smentita dalle diffuse trattazioni della prima modernità, vive ancora in ambito ecclesiologico e canonistico, o negli scritti che di quegli ambiti partecipano. La questione intorno a Costantino e alla donazione è insomma, com’è stato anche di recente riconosciuto, «un problema moderno»1.

Il lascito delle polemiche del primo Trecento

Alla Monarchia di Dante, in particolare, risale la sistemazione compiuta, in sede di dottrina giuridico-politica, dello schema teorico che fonda l’invalidità della donazione nella duplice incapacità, dell’Impero ad alienare parte dei suoi diritti patrimoniali e poteri giurisdizionali, e della Chiesa di Roma a riceverli: «quia Constantinus alienare non poterat Imperii dignitatem, nec Ecclesia recipere» (Monarchia, III x 4). Sono le due cause che de iure viziano e rendono radicalmente nulla la donazione così come le probationes che, in forza della donazione, vorrebbero farne discendere la dipendenza de iure dell’Impero dalla Chiesa: né Costantino avrebbe potuto de iure minuire l’Impero nella forma della donazione senza contraddire al suo stesso fondamento giuridico di ius humanum, né la Chiesa avrebbe potuto de iure ricevere un tale potere nella forma della donazione senza contraddire al suo stesso fondamento giuridico di ius divinum. Lamentando non la misura delle donazioni imperiali, ma l’abuso fattone dalla Chiesa, nella sua tacita invettiva contro Costantino infirmator Imperii (Monarchia, II xi 8) Dante ripropone l’idea accursiana della contraddizione della donazione con lo stesso titolo di Augustus: «Perché ogni imperatore deve avere questo proposito, di accrescere sempre l’Impero, sebbene ciò non avvenga sempre»2. Ogni lacerazione dell’indivisibile unità dell’Impero, simboleggiata dalla tunica inconsutile del Cristo, contraddice alla natura dell’Impero e allo stesso ufficio imperiale, che è quello del suo potenziale accrescimento. L’etimologia è ripetuta dallo stesso Accursio nella glossa «conferens generi» all’autentica Quomodo oporteat episcopos (Auth. c. I 6pr.), la novella giustinianea che afferma solennemente che sacerdotium e imperium procedono entrambi «ex uno eodemque principio», «da un solo e medesimo principio». La glossa, che costituisce la fonte principale della confutazione dantesca, premesso il principio generale della separazione tra le due giurisdizioni, spirituale e temporale, formula subito dopo la quaestio e la risolve negativamente: «Benché la soluzione del problema in termini di fatto non spetti a noi, in termini di diritto la soluzione è che giuridicamente tale donazione non ha alcun valore [...] e non importa [...] che Costantino abbia voluto accrescere il prestigio della Chiesa, trattandosi della giurisdizione: perché in tal modo potrebbe perire l’Impero nella sua totalità»3.

È qui enucleata la ratio della dichiarazione di nullità della donazione in Monarchia, III x 5, «non è lecito all’imperatore dividere l’Impero», e III x 9, «dividere l’Impero equivarrebbe a distruggerlo»: ciò sarebbe non solo atto contrario al diritto umano, ma contraddittorio con l’officio basilare della reductio ad unum del genere umano, dunque atto tirannico per eccellenza, come la più tarda dottrina giuspubblicistica asserisce nel ricordo di questo luogo4. Di qui l’alternativa formulata in Monarchia III x 11, ancora una volta nei termini di una quaestio iuris: o Costantino era de iure imperatore, quando si dice che abbia conferito alla Chiesa le dignitates Imperii, o non lo era; se non lo era, è chiaro (planum) che non aveva de iure il potere di conferire alcunché appartenente all’Impero; e se lo era, parimenti non aveva de iure il potere di farlo, perché quel conferimento sarebbe stato una diminuzione della giurisdizione, cosa impossibile per l’imperatore in quanto imperatore, ‘funzione’ della giurisdizione stessa. In tal senso Costantino non aveva il potere di alienare neppure aliquam particulam, «una particella», poiché potrebbe conseguirne che l’Impero posset annichilari, «potrebbe essere annientato» (espressione corrispondente al «perché in tal modo potrebbe perire l’Impero nella sua totalità» della glossa accursiana conferens generi). Ciò sarebbe irrationabile, «fuor di ragione» e «fuor di diritto», perché distruggerebbe il principio di ogni giurisdizione. Se l’imperatore non poteva de iure alienare la minima parte della giurisdizione imperiale, la Chiesa non aveva de iure la facoltà di riceverla, perché la liceità di una donazione è soggetta al duplice requisito della dispositio conferentis (la facoltà di donare da parte del donante) e della dispositio eius cui confertur (l’idoneità a ricevere da parte del donatario), e la Chiesa mancava di quella facoltà in forza dell’espresso divieto evangelico (Monarchia, III x 14)5. L’esclusione della Chiesa dall’idoneità all’acquisto del possesso configura perciò la detenzione delle dignitates imperiali come una vitiosa possessio6.

Se Marsilio da Padova (e con lui Guglielmo d’Ockham) abbia mai avuto notizia della Monarchia di Dante è cosa di cui si dubita, sebbene non manchino indizi ed ipotesi in tal senso7. Più strette si rivelano invece le assonanze con il Petrarca del Bucolicum carmen, VI, 158-159, con l’inequivocabile condanna di Costantino («Eternum gemat ille miser, pastoribus aule / qui primus mala dona dedit»8), del terribile sonetto Fontana di dolore, albergo d’ira, tutto dominato da schietti accenti danteschi9, e soprattutto dell’apostrofe contenuta nella Sine nomine 17, nell’ottobre del 1357 o poco dopo:

O tu principe prodigo e stolto! non sapevi con quanta fatica si costruì quell’impero che hai voluto smembrare con tanta leggerezza? Sono i fatui giovinetti che sogliono essere prodighi delle ricchezze messe insieme dai padri, certo ignari della fatica e del modo con cui furono acquisite, se il ricordo della povertà e del lavoro non pone un forte freno alla sfrenata prodigalità. Ma tu, già maturo, che facevi, dov’eri mai? se desideravi comparire munifico, avresti dovuto elargire il tuo, dare il tuo e lasciare intatta ai tuoi successori quell’eredità dell’Impero che avevi ricevuto in qualità di amministratore. Io non so se ne fossi consapevole, ma hai fatto in modo che l’amministrazione di uno stato fondato da ben altre mani pervenisse, ahimè, a queste mani, umili allora oggi arroganti10.

Il coerente atteggiamento polemico del Petrarca non testimonia di certo, come invece è parso facciano nei medesimi anni gli scritti dei maggiori giuristi, «la stanchezza della problematica tipica del “Constitutum Constantini”»11. Una tale stanchezza di accenti è stata ripetutamente indicata nell’atteggiamento del principale rappresentante di tutta una stagione del diritto comune, cioè di Bartolo da Sassoferrato. Il suo atteggiamento è stato giudicato a tratti «opportunistico», a tratti incline intimamente alla nullità della donazione, a tratti «genericamente indifferente», e comunque sia di ambigua formulazione12. L’ambiguità del pensiero di Bartolo intorno al Constitutum Constantini starebbe nella singolare maniera con la quale egli affronta la lettura della glossa accursiana semper augustus e degli argomenti a essa contrari, addotti dai maestri della seconda metà del XIII secolo. Espressioni come: «Vedete, noi viviamo in una città amica della Chiesa, e perciò si deve ritenere che la donazione sia valida», ovvero: «ma volendo offrire una soluzione favorevole alla Chiesa, dico che quella donazione è valida», hanno fatto ritenere le sue conclusioni condizionate «dal desiderio di dettare una soluzione gradita alla Chiesa». È quel che scrive Domenico Maffei:

Il giurista di Sassoferrato, in sostanza, non assume un atteggiamento deciso. Qualunque sia la soluzione da dare in linea di diritto, la situazione particolare in cui mi trovo, il risiedere in terra amica della Chiesa – egli dice –, non può non farmi adottare una soluzione a questa favorevole. La donazione, pertanto, è valida. Se altri vorranno sostenere il contrario, non mancheranno certo di argomenti. L’imperatore, per vero, può donare «ob meritum in rebus particularibus». Ma qui si trattò di alienazione della stessa iurisdictio, perché e quella temporale e quella spirituale fossero concentrate nelle stesse mani, nelle mani del papa. È ammissibile? Il desiderio di non dispiacere alla Chiesa, sia pure con un atteggiamento soltanto indifferente, spinge Bartolo a contraddire a questo punto Iacopo Bottrigari, suo non citato interlocutore. Alla teorica di questo, per cui l’imperatore non potrebbe spogliarsi della iurisdictio se non rassegnandola nelle mani del popolo che gliela aveva conferita, egli, «volens favere Ecclesiae», oppone che l’abdicazione ebbe luogo a tutto favore di un «superior»: ché infatti, traendo origine l’impero e la Chiesa da Dio «tanquam a causa efficiente», ed essendo il papa vicario di Dio, l’imperatore donando, sembrò donare allo stesso Dio. La sostanza dell’argomentazione, forse, era tolta da Riccardo Malombra, il quale [...] aveva affermato l’irrevocabilità dell’abdicazione nelle mani del «superior». Le esitazioni, i ritorni, le dichiarazioni continue di voler dettare soluzioni favorevoli al papato, non costituiscono al certo testimonianza di una adesione convinta da parte del giureconsulto di Sassoferrato13.

Convinta o no, l’adesione di Bartolo, più che in termini di opportunità politica, dovrebbe essere intesa come necessitata dai luoghi (le terrae Ecclesiae) e dagli stessi tempi, poiché lo scritto appartiene al commento alla prima parte del Digestum Vetus, databile al 1343, quando il giurista aveva da poco lasciato la cattedra pisana per trasferirsi allo Studio di Perugia, dove in quell’anno sappiamo che leggeva appunto il Vetus14. Nelle terrae Ecclesiae e nel perdurare del conflitto che opponeva il Bavaro alla Santa Sede, agli inizi del pontificato di Clemente VI e quando ancora nulla lasciava presagire l’avvento del iustus dominus, l’imperatore fedele alla Chiesa, come nel 1346 sarebbe apparso Carlo IV, nessun’altra posizione sulla donazione costantiniana poteva giustificarsi agevolmente. Bisognerebbe per di più ricordare che quanto Bartolo andava interpretando intorno alla costituzione Omnem, a una generazione di distanza dall’insegnamento dei suoi maestri, Cino da Pistoia e Jacopo Bottrigari, se non ne denunciava come ormai non più praticabile la linea teorica, ne segnalava però almeno indirettamente gli aspetti d’incertezza e di ambiguità. Nella sua opera maggiore, la Lectura Codicis bolognese degli anni 1312-1314, trattando della donazione, Cino non va oltre la tesi del dualismo tradizionale e si mantiene fedele alla dottrina dell’imprescrittibilità dei signa subiectionis della potestà imperiale, «tratta quasi alla lettera dalla Lectura Codicis di Pierre de Belleperche»15, scrivendo perciò «contra illos, qui dicunt Romanam ecclesiam praescripsisse sibi donationem factam ab Imperatore Constantino, quod saltim subiectionis signa non potuerit praescribere, et sic nec iurisdictionem Romani imperii, cuius subiectus est totus orbis»16. Ben altrimenti egli si pronunzia sulla donazione nella più tarda Lectura super Digesto Veteri, ascrivibile agli ultimi anni di vita del maestro pistoiese, fra il 1330 circa e il 133617. Quest’opera «attesta un mutamento radicale della sua concezione dei rapporti tra le due supreme potestà e per conseguenza del suo pensiero in tema di “Constitutum Constantini”», giacché «il problema ora affrontato direttamente è quello della validità della donazione, ed è risolto in senso favorevole alla Chiesa» dopo l’esposizione di molte delle teoriche elaborate dalla giurisprudenza civilistica nel corso di più di un secolo (vi trovano largo posto la Glossa accursiana, Jacques de Revigny e contemporanei quali Riccardo Malombra e Guillaume de Cunh)18. La donazione di Costantino è ritenuta valida «con una fermezza che rende superfluo ogni commento»:

Non contraddice alla validità di una siffatta dotazione e donazione alla Chiesa il fatto che l’imperatore sia detto augustus e non debba diminuire l’Impero, poiché non vi è stata alcuna alienazione. Inoltre perché l’imperatore, più che amministratore, è signore dell’Impero, e posto che fosse solo amministratore, anche in quel caso avrebbe potuto alienare parte dell’Impero senza diminuire il suo prestigio, anzi lo accrebbe accrescendo il prestigio della Chiesa di Dio. In definitiva poi non si trattò né di una donazione né di una alienazione, ma solo di una riassegnazione alla Chiesa di quel che l’imperatore aveva ricevuto da essa. E alle altre argomentazioni della Glossa non ribatto, poiché, come potete vedere, possono essere facilmente contestate19.

È evidentemente a confronto con questo passo, e non certo con quello della più risalente e diversamente orientata Lectura Codicis, che va posto il commento bartoliano al Digestum Vetus. La vicinanza temporale fra le due lecturae non può non indurre a porre, tra i freni che impacciano la soluzione di Bartolo, anche il rispetto per il suo antico maestro, quando non gli si voglia far carico anche della quantità di dubbi che la scienza giuridica trecentesca, sia civilistica sia canonistica, porta con sé, dal canonista Oldrado da Ponte ai civilisti Iacopo Belvisi e Raniero Arsendì, fino agli epigoni della prima stagione del commento nei due campi, Giovanni d’Andrea e Alberico da Rosciate. Quest’ultimo, il più ‘dantesco’ dei giuristi del Trecento italiano, fu autore di alcuni commentari al Corpus Iuris giustinianeo non legati ad alcuna attività didattica, di un importante dizionario giuridico, di una raccolta di questioni di diritto statutario e di una ancora inedita traduzione latina del commento alla Commedia di Jacopo della Lana. Egli giunge a riprodurre il testo del Constitutum Constantini nel suo commento al Vetus, sotto la lex Omnia omnino del titolo De officio praefecti urbi (D. 1, 12, 1), rinviando a un luogo del Liber Sextus di Bonifacio VIII (VI 17,1,6) e alla palea Constantinus (il testo del Constitutum così come escerpito nella D. 96 c. 14 nel Decretum Gratiani), notando semplicemente: «Tuttavia, poiché il documento originale della donazione non si trova comunemente, perché la verità sia chiara ho deliberato di riprodurre il testo della norma che lo contiene, che è il seguente»20. Il dantismo giuridico, con la precisa allusione all’invettiva dell’Alighieri nel canto infernale dei simoniaci, emerge invece nel commento alla costituzione Omnem, dove, dopo aver ampiamente ricordato le distinte posizioni di Guglielmo Durante e dell’Arcidiacono (Guido da Baisio), di Jacques de Revigny e di Guillaume de Cunh, di Giovanni da Parigi, Jacopo Bottrigari e Raniero Arsendi, Alberico conclude affermando di non credere alla validità «de iure» della donazione, giacché Costantino poteva solo donare il suo ma non i beni dell’Impero; ma posto che non potesse, la consapevole e duratura rinunzia degli imperatori ai loro diritti ne autorizza la prescrizione a favore della Chiesa. Aggiunge tuttavia:

Ho sentito dire però da persone degne di fede che in documenti autentici sta scritto che al tempo della suddetta donazione fu udita provenire questa voce dal cielo: «Oggi nella Chiesa di Dio è stato seminato il veleno», che è quello a cui Dante allude nella sua Commedia, nel capitolo XVIII della prima parte chiamata Inferno, che comincia così: «O Simon mago [Inferno, XIX, 1]»21.

L’argomento della prescrizione, che sembra in questo luogo tacitamente accolto, è in realtà discusso altrove e rigettato sostanzialmente. Così è per esempio nella Lectura Codicis, nel commento alla lex Bene a Zenone nel titolo De quadriennii praescriptione (C. 7, 37, 3), dove Alberico, richiamando la Monarchia di Dante, conclude per la nullità della donazione22. Essa quindi, originariamente, fu dichiarata nulla: Alberico resta, in anni assai vicini a quelli in cui Bartolo commenta il Vetus23, «come una delle ultime testimonianze di un atteggiamento decisamente contrario alle pretese che la Chiesa fondava sul “Constitutum”»24, mostrando insieme tutta l’ampiezza delle oscillazioni del pensiero civilistico alle soglie dell’età umanistica e insieme un’eco profonda degli atteggiamenti della canonistica. Diverso è infatti, nella medesima temperie, il panorama della canonistica, nel quale spiccano la personalità e l’opera di Giovanni d’Andrea, «rappresentante estremo della canonistica classica»25. Questi non è parso aver affermato nulla che meriti particolare rilievo intorno al Constitutum Constantini, sia nella Glossa ordinaria al Liber Sextus, che risale agli anni immediatamente successivi alla morte di Bonifacio VIII, sia nei più tardi Novella commentaria, redatti anch’essi negli anni cruciali che vanno dal 1338 al 1342. È parimenti apparso «poco indicativo» quanto si legge nella sua Glossa ordinaria alle Costituzioni di papa Clemente V (le Clementinae), che stando allo Schulte risalirebbe al 132626. Ma, sia pure senza volere ricavare dall’asciutta esposizione del grande canonista argomenti ex silentio di ampio significato nella polemica intorno alla donazione negli anni del pontificato di Giovanni XXII, non si potrà fare a meno di notare che anche la semplice contrapposizione delle opinioni di Accursio e di Giovanni Teutonico, «con in più un richiamo finale all’Ostiense», non è cosa che possa passare inosservata. Tanto più se il luogo glossato è quello della clementina Romani principes nel titolo De iureiurando (c. un., Clem. ii 9), vale a dire la costituzione che riassume i termini della contesa tra il papa Clemente V e l’imperatore Enrico VII, riaffermando la natura feudale della forma iuramenti prestata dall’imperatore a conferma di tutti i privilegi concessi alla Chiesa dai suoi predecessori, come ricorda proprio il casus ivi apposto da Giovanni d’Andrea27. La costituzione è pertanto un’esasperata rassegna di tutti i principali motivi teologico-giuridici di ascendenza innocenziana e in particolare della decretale Venerabilem28. È appunto in tale contesto che la semplice contrapposizione delle opinioni dei maggiori esponenti della tradizione civilistica (Accursio) e di quella canonistica (Giovanni Teutonico) mostra il probabile significato di una sottrazione alla polemica di tipo ‘ideologico’, nella quale ‘altri’ si involvono. Sembra da leggersi in tal senso l’espressione iniziale ‘alcuni disputano’ della glossa «Constantinus»:

Alcuni disputano se sia valida la donazione fatta da Costantino alla Chiesa di Roma nella persona del beato Silvestro, contenuta nella Distinzione XCVI, nel canone Constantinus [D. 96 c. 14] (è una palea), e se i suoi successori possano revocarla. Accursio ritiene che la donazione non sia valida nelle glosse all’authentica Quomodo oportet episcopos [Auth. coll. I 6pr. = Novell. Iust. VI pr.]. Ma Giovanni afferma il contrario, notando che fu valida nelle glosse alla Distinzione LXIII, nel canone Ego Ludovicus [D. 63 c. 30]; e che essa sia irrevocabile lo prova il testo di questa norma insieme a quello della decretale Fundamenta, nel titolo De electione, § Ne autem, nel Liber Sextus [VI 17,1,6]; e a ciò si aggiunge quel che nota l’Ostiense nella sua Summa, al titolo De immunitate ecclesiarum29.

La glossa è tanto più importante, in quanto essa costituisce poi il punto di partenza di una delle additiones (c. 1346) allo Speculum di Guglielmo Durante, nella quale, pur caratterizzata dalla «totale assenza di spunti originali», sarebbe errato inferire «l’indifferenza del grande canonista per la problematica della donazione»: se le soluzioni sembrano scontate, sarà forse proprio perché, risolta ormai a vantaggio del papato la contesa con il Bavaro, il punto di vista della Chiesa sarà apparso «troppo sicuro per richiedere il sostegno di nuovi argomenti»30. Ciò sembra riflettersi nel panorama della canonistica della prima metà del Trecento, nel quale pure non mancano figure di spicco quali Guillaume de Montlauzun, Jesselin de Cassagnes, Pierre Bertrand e Paolo de Liazari. In quest’ultimo, che fu allievo di Giovanni d’Andrea e contemporaneo di Bartolo, in verità è stata riconosciuta da Maffei la presenza di «qualche tratto originale». Nella sua Lectura super Clementinis il canonista, dopo avere respinto le obiezioni di Accursio e Cino, afferma la piena validità della donazione negando ogni sua revocabilità, che mancherebbe di ogni valida causa. Egli sostiene inoltre che, posto che la donazione restringa l’ambito della giurisdizione imperiale, «essa però non diminuisce l’impero, in quanto questo è presso la stessa Chiesa; e pertanto è irrilevante che la iurisdictio imperiale sia esercitata dall’imperatore o dal papa»31.

La canonistica e il primo Umanesimo giuridico

Il pensiero di Paolo de Liazari, con cui si chiude la prima metà del secolo XIV, prelude agli sviluppi della canonistica nell’orizzonte proto-umanistico, col suo discepolo Giovanni da Legnano e con gli allievi di quest’ultimo, Francesco Zabarella e Giovanni da Imola. Accanto e sopra di essi, in una temperie nella quale ormai la scienza giuridica medievale assume sempre più la dimensione dell’utrumque ius anche nell’assunzione da parte dei maestri universitari del doppio ruolo del civilista e del canonista, spiccano la personalità e l’opera di Baldo degli Ubaldi. Allievo di Bartolo, Baldo è insieme civilista e canonista, e da canonista vive il venir meno dei presupposti stessi di una piena utilizzazione in sede politica del Constitutum, poiché il grande conflitto tra papato e Impero può considerarsi sostanzialmente chiuso. In tal senso è stato scritto che «la letteratura giuridica posteriore a Bartolo è assai avara di elementi veramente nuovi»:

La Donazione continua tuttavia ad esser fatta oggetto di discussioni. Non più sorretta ed alimentata dalle passioni, dalle esigenze e dai contrasti che erano stati propri dei secoli precedenti, la questione si perpetua per forza di tradizione e i giuristi le dedicano ancora diffuse trattazioni. Queste hanno sì, il più delle volte, sapore di accademia, ma in qualche caso si levano anche in alto. Il pensiero di Baldo degli Ubaldi, ad esempio, riveste notevolissimo interesse. In tutta la storia della Donazione, l’atteggiamento del giurista perugino si pone anzi come uno dei più complessi32.

Traendo gli argomenti contrari alla validità della donazione dalla letteratura precedente, ma «rivestendoli di un linguaggio filosofico che costituisce una delle principali novità della sua esposizione»33, Baldo civilista, nel proemio del commento al Digestum Vetus, liquida la questione con un secco richiamo alla separazione tra spirituale e temporale come principio di ius divinum: «Item quos Deus separat, homo non coniungit, ut aquilam et leonem, et sic Imperium et Sacerdotium»34. Vero è che nell’elencare i punti favorevoli, riassunti anch’essi dalla tradizione commentariale, il giurista perugino non trascura argomenti propri della canonistica, ma la sua conclusione è, sembrerebbe obtorto collo, favorevole alla validità della donazione, se limitata alla iurisdictio utilis e finché il donatario non ne faccia uso in modo tirannico: «Non si può negare che la donazione sia valida, almeno per quel che riguarda la giurisdizione [...]. Dunque i soggetti devono obbedienza al donatario, a meno che non faccia uso della giurisdizione in modo crudele e tirannico»35. Una tale conclusione, per così dire condizionata, ritorna nel commento al Codex, dove Baldo tiene indubitabile la natura feudale della concessione, con la conseguenza della conservazione all’Impero del ius superioritatis (la sovranità). Baldo giunge ad affermare che il principio dell’indivisibilità dell’Impero non è derogabile senza che ne derivi una mostruosità: «esset quasi monstrum, si mundus haberet duo capita in temporali iurisdictione»36. Da ciò dipende la sua propensione a sottrarre il fondamento del potere temporale della Chiesa alla discussione intorno alla validità del Constitutum Constantini, per riporne invece, con un perentorio «istam partem teneo», ‘scelgo questo partito’, la legittimità della pretesa all’esercizio della sovranità nel diritto delle genti e nella ratio naturalis, che secondo Seneca «arbiter est bonorum atque malorum»37.

Ciò non toglie che, come osservato ripetutamente da Maffei, nel pensiero di Baldo resti «latente il conflitto tra le convinzioni del giurista e quelle dell’uomo di fede»38, fino al punto che queste ultime sembrano prevalere, superando le obiezioni opposte da Baldo stesso alla validità della donazione. Così essa è detta «miraculosa» nel consilium III, 159, e riportata perciò alle questioni cui può darsi soluzione solo sul piano della fede: questione «potius [...] divinitatis quam humanitatis» («problema di diritto divino più che di diritto umano»), e dunque problema teologico più che giuridico, come si avverte nella tarda Lectura feudorum, dove si conferma la riduzione della giurisdizione ecclesiastica al dominium utile e si bolla come «species fatuitatis», ‘una specie di sciocchezza’, l’idea che l’Impero possa, sulla base del suo stesso diritto, mutilare se stesso di una qualsiasi particola, e meno che mai del suo stesso capo (Roma): «E perciò se la donazione di Costantino non avesse come fondamento la fede cattolica, come in effetto ha, ma il puro e semplice diritto dell’Impero, il capo dell’Impero, cioè Roma, non avrebbe potuto essere troncato dal restante corpo dell’Impero, perché decapitare non è mutilare, ma far perire l’intero corpo»39. L’idea che la donazione sia fondata (processit) nella religione cattolica rende «affatto superflua tutta la argomentazione giuridica»40. Accenti umanistici e accenti teologico-filosofici caratterizzano poi ancor più l’opera di Baldo canonista. In realtà la riaffermazione del carattere ‘miracoloso’ della donazione di Costantino, di cui si parla espressamente come di un «miracolo per la difesa della fede cattolica», consente a Baldo, nella radicale distinzione della questione di fatto e di quella di diritto, e della questione teologica da quella giuridica, di conservare intatto, nel commento al Liber Extra, il complesso delle obiezioni depositato nella tradizione del diritto comune. In tal senso il maestro perugino ricorda che la questione sollevata dalla donazione non fu mai risolta senza che i partigiani dell’Impero non la revocassero in dubbio con l’argomento che l’Impero non può mai essere diminuito, giacché «un pezzo alla volta esso potrebbe estinguersi totalmente»41:

Per vero – egli aggiunge – l’argomento addotto da Accursio nella glossa conferens generi è «nervus valde difficilis ad dissolvendum» (uno scoglio assai arduo da superare), né d’altro canto fu mai affermato da alcuno che il grande glossatore «ex hoc fuerit haereticus». E allora? La conclusione è assai spicciativa: non solo – dice Baldo – nel fatto l’Impero è oggi «valde diminutum», ma «somnia sunt quicquid dicitur contra statum universalis Ecclesiae, a quo dependet imperium et totus universalis orbis» (tutto quel che si dice contro lo Stato della Chiesa universale, dalla quale dipendono l’Impero e l’universo mondo, è pura fantasia). La soluzione favorevole ai diritti vantati dalla Chiesa scaturisce così da un lato dalla stessa fede cattolica, dall’altro da una visione realistica della situazione dell’Impero, ormai «valde diminutum». Il sistema dei rapporti tra le due supreme potestà è mutato: in fatto di potere, la bilancia pende sempre più nettamente dalla parte della Chiesa.

A Baldo canonista, nel panorama del primo Umanesimo giuridico trecentesco, possono essere affiancate personalità di giuristi che nelle loro trattazioni del problema della validità del Constitutum Constantini, talvolta ampie e dettagliate, non si può dire che nascondano semplicemente «una notevole indifferenza per il problema, o addirittura la consapevolezza del suo definitivo tramonto»42. È questo senz’altro il caso di Giovanni da Legnano, il celebre professore bolognese di diritto canonico, che Chaucer affiancò a Petrarca chiamandolo lume «of philosophie, / or lawe, or oother art particulier»43, e la cui influenza sulla canonistica di fine Trecento e primo Quattrocento fu larga e duratura. Il suo pensiero sulla validità della donazione è espresso in estrema sintesi nell’ancora inedita Lectura Clementinarum, in margine al capitulum Romani principes (c. un., Clem. ii 9) e in prima persona, dopo l’esposizione degli argomenti pro e contro dei massimi esponenti della tradizione canonistica e civilistica, Giovanni Teutonico e Accursio:

Io ritengo che la donazione fatta da Costantino alla Chiesa non sia stata valida per il fatto che la Chiesa di Dio ha avuto e ha la piena potestà universale nel temporale e nello spirituale. E così Costantino donando nel temporale non trasferì alcun dominio alla Chiesa, perché la Chiesa aveva già il dominio di ogni cosa. Costantino invece restituì alla Chiesa quel che l’Impero aveva usurpato. Vedi quel che di ciò ho scritto diffusamente nel trattato che ho composto e che si intitola Somnium44.

Rinviando al suo testo più famoso, il Somnium (una lunga disputa sulla superiorità del diritto canonico sul civile), e alla sua sezione dottrinale più importante, il De principatu, il canonista bolognese nega sì la validità della donazione, ma per giungere a conclusioni opposte a quelle dei sostenitori della nullità in favore dell’Impero, e dunque al solo fine di rendere ancor più inattaccabile la posizione della Chiesa: «La Donazione è nulla – egli dice – perché la Chiesa ebbe e ha la plena potestas nello spirituale e nel temporale in tutto il mondo. Costantino non donò, in quanto non poteva donare ciò che non era suo: restituì semplicemente alla Chiesa ciò che le era stato usurpato dall’Impero». Il De principatu consiste in una lunga elencazione delle prove o rationes su di una linea prevalentemente filosofica, finalizzate tutte a fare della superiorità della legge canonica sulla civile la base della difesa della monarchia pontificia. Sul loro carattere ‘conformistico’ e sulla loro assenza di originalità si è troppo insistito, fino a giudicare «strano» che il principio della superiorità del papato sull’Impero anche nel governo temporale sia ancora ripetuto nella seconda metà del Trecento45:

Che in un momento di grave crisi per l’Impero e di particolare debolezza del Papato, mentre si affacciavano seri dubbi sull’effettiva autorità universale dell’imperatore e del pontefice nel governo civile delle monarchie e signorie europee, un giurista della fama e del sapere del Da Legnano si accinga a sostenere con tanta convinzione la tesi del principato universale spirituale e temporale della Chiesa e, sia pure a questo subordinato, del principato universale dell’Impero, è fatto che va posto in rilievo e del quale il trattato dà notizia. Ma forse proprio la decadenza imperiale, quale realtà che non poteva sfuggire agli occhi del canonista bolognese, non è estranea alla soluzione ch’egli dà al quesito se sia superiore l’Impero o il Papato, quasi espressione di un desiderio sentito e di un intento ch’egli si prefigge col suo scritto, quello di vedere nella riaffermazione di un effettivo governo universale del pontefice sugli uomini un ricostituito ordine di pacifica convivenza. È questo trattato De principatu l’ultima parola sull’argomento di un grande giureconsulto del medio evo, prima che il turbine dello scisma d’Occidente venga ad alterare decisamente i rapporti tra governi civili e pontificato46.

Giovanni da Legnano fu un grande collettore e sistematore di opinioni, come riconobbe il Diplovatazio a proposito della Lectura Clementinarum47. Deve essere sottolineato il carattere proto-umanistico delle sue compilazioni, nelle quali si può già scorgere quella tendenza, propria appunto della prima stagione dell’Umanesimo giuridico, a raccogliere e ordinare la dottrina prevalente, con la stessa vorace curiosità e con la stessa venerazione che si attribuiva alle reliquie dell’antichità: desiderio di sintesi e di armonia, ma soprattutto desiderio di riunificazione del sapere giuridico-politico, che ai nostri occhi può anche apparire come la fine di una stagione fortemente creativa e l’inizio di un’età in cui il pensiero giuridico si fa schematico, prima ancora che ‘sistematico’ in senso moderno48. Composta a ridosso dello scisma, negli anni 1376-1378, la Lectura riassume e ‘sistema’ quanto Giovanni da Legnano aveva sostenuto nel De principatu, riprendendo tesi tradizionali e accentuandone il carattere ierocratico. Ancora una volta è Accursio con la sua glossa «conferens generi» il punto di partenza della discussione, che, se non con originalità, si svolge distinguendosi «per fermezza e convinzione»49, fino alla paradossale negazione della validità della donazione costantiniana in funzione di un’ulteriore accentuazione del carattere originario del supremo potere universale della Chiesa:

In questa vulgata contesa noi concludiamo che la donazione della giurisdizione e di altri diritti temporali, fatta da Costantino e dagli altri imperatori alla Chiesa, non è valida in forza di donazione ma di restituzione e di riconoscimento della buona fede, cosa che si è già dimostrata. Se infatti il principato della Chiesa ha la potestà universale nel temporale e nello spirituale, e l’Impero è al servizio di ogni comando revocabile da parte della Chiesa, ne discende che ogni suo atto di governo riposava sopra l’autorità della Chiesa stessa; dunque l’imperatore non poteva donare alla Chiesa ciò che era già della Chiesa, che non ha mai abdicato al suo dominio. Perciò l’imperatore non poteva trasferire un dominio di cui non era in possesso [...]. Dunque la donazione non aveva alcuna validità, trattandosi di una restituzione del possesso di diritti e di beni usurpati dai principi secolari [...], cosa a cui Costantino e gli altri imperatori erano tenuti, cioè alla restituzione delle usurpazioni alla Chiesa e al suo principato. Tale usurpazione infatti non fu usurpazione contro gli uomini, ma spoliazione contro Dio, giacché riguardava le cose di Dio e del suo vicario [...]. E ispirato da Dio, Costantino agì in modo tale da rimettere ogni cosa nel suo stato originario50.

L’eco di queste tesi fu vasta e può essere ampiamente documentata nel panorama delle dottrine civilistiche e canonistiche dello scorcio del secolo. Il Somnium di Giovanni da Legnano è infatti la fonte e il modello del più vasto (e più celebre) Somnium Viridarii, quella sorta di Digesto dell’ecclesiologia e della politica che appartiene agli ultimi anni del regno di Carlo V di Francia e che dall’opera del canonista bolognese eredita la fictio del sogno, insieme con la sua funzione didattica ed ermeneutica di progressiva rivelazione di un senso nascosto nella disputa intorno alla relazione tra potere secolare e autorità ecclesiastica51. Di certa suggestione è anche il ricordo delle lezioni di Giovanni da Legnano, così come riportato poco prima della morte del canonista bolognese da un civilista della generazione a lui successiva, Bartolomeo da Saliceto, la cui posizione è ancora ispirata al più rigoroso dualismo, poiché egli ammette la validità e l’irrevocabilità della donazione per quanto riguarda l’esercizio della giurisdizione temporale nelle terrae Ecclesiae, mentre rifiuta l’idea di una diminuzione della iurisdictio totalis et universalis dell’imperatore. Quanto egli ci dice dell’opinione di Giovanni da Legnano, ascoltata mentre il canonista illustrava dalla cattedra la questione della donazione costantiniana nei termini filosofici di una reductio ad unum d’impronta schiettamente aristotelico-tomista, mostra in risalto il punto d’arrivo di un’intera tradizione:

Ho anche udito confermare ciò da Giovanni da Legnano, quando trattava questa questione dalla cattedra, con l’argomento di Aristotele, che come fu necessario che la macchina celeste avesse un solo principe che regolasse ogni cosa e secondo la cui volontà tutto si disponesse, allo stesso modo in questa macchina terrena è necessario che sia un solo principe, ma non è bene che questo principe sia l’imperatore, dal momento che non può presiedere alle cose divine. Dunque è necessario che sia il sommo pontefice, soprattutto per il fatto che tiene il luogo del principe celeste che regge ogni cosa52.

Altro eccezionale conoscitore della letteratura tardo-medievale sulla controversia intorno alla donazione, e perciò fonte di prim’ordine per la conoscenza del dibattito di fine secolo, è il canonista Gilles Bellemère, che ne tratta ampiamente nella Lectura Clementinarum e nell’Opus remissorium al Decretum Gratiani, scritti appartenenti a un torno d’anni che va rispettivamente dal 1390 circa al 1403 e dal 1401-1402 al 140453. Nessun’altra opera è più della sua rivelatrice di quella tendenza, di cui si è detto, propria appunto della prima stagione dell’Umanesimo giuridico, a raccogliere e ordinare le dottrine della tradizione con desiderio di sintesi e di armonizzazione del sapere giuridico-politico. La Lectura Clementinarum è, da questo punto di vista, una fedele rassegna delle opinioni dei dottori nei due distinti campi, articolata, nella sedes materiae costituita dal capitulum Romani principes del titolo De iureiurando (c. un., Clem. ii 9), in una breve serie di quesiti che riguardano tutti l’ammissibilità della superioritas pontificia nel temporale, la validità della donazione e la possibilità della sua prescrizione. Se in tale opera Gilles Bellemère non apporta che un assai scarso contributo di pensiero alla problematica della donazione, limitandosi alla sistemazione della tradizione dottrinale scolastica, che con lui si può dire conchiusa, l’Opus remissorium apre ormai uno squarcio sulla veduta del nuovo secolo e di un nuovo complesso di problemi. Il canonista francese non si limita a riaffermare la validità e l’irrevocabilità del Constitutum, ma in margine alla palea Constantinus (D.96 c.14) dà per primo notizia delle critiche che nell’ambiente dei giuristi-umanisti iniziavano a sorgere non intorno alla validità della donazione, ma alla sua attendibilità come documento storico della fondatezza delle pretese della Chiesa, poiché si trattava pur sempre di una palea, di un frammento aggiunto all’originaria tessitura del Decretum grazianeo: «Palea est et non glosatur»54. Non c’è altro modo d’intendere l’accorato richiamo a una nuova esigenza di certezza della documentazione storica sulla donazione: «E magari avessimo molte altre buone testimonianze redatte nel volume del Decretum, poiché molti impugnano la testimonianza di questa palea, affermando che si tratta di una testimonianza parziale e compiacente, giacché è tratta dalle gesta della Chiesa di Roma ed è favorevole a essa»55. In tal modo Gilles Bellemère testimonia in ambito canonistico le prime avvisaglie intorno alla nuova e scottante questione dell’autenticità della donazione:

Nei primissimi anni del Quattrocento, quando il Bellamera scriveva, e prima ancora della denuncia umanistica del falso, si dubitava dunque da più parti della forza probante del «Constitutum». Le pretese che la Chiesa fondava sulla Donazione non trovavano più un puntello sufficiente nel c. Constantinus. Questo era definito da taluni «testimonium domesticum et familiare», una testimonianza – vale a dire – che doveva considerarsi proveniente dalla stessa parte interessata, e alla quale – per conseguenza – poteva accordarsi un credito assai limitato56.

La donazione di Costantino nel dibattito giuridico del Quattrocento

Tra i canonisti di scuola della prima metà del secolo dell’Umanesimo, non pochi e dalla non scarsa produzione dottrinale (Pietro d’Ancarano, Antonio da Budrio, Francesco Zabarella, Giovanni da Imola, Domenico da San Gimignano, Raffaele Fulgosio, per citare solo i massimi), sembra che solo due degli allievi di Giovanni da Legnano, Francesco Zabarella e Giovanni da Imola, insieme al Fulgosio abbiano mostrato di avvertire il profondo mutamento che si annunciava nel modo stesso di affrontare la questione della donazione. Lo Zabarella in particolare costituisce un’eccezione in un panorama scolastico che tende ormai a sfuggire ai termini tradizionali del problema senza proporlo in forme nuove. Anche il maestro padovano tratta del Constitutum Constantini nei suoi commenti alle Clementinae, in margine al solito capitulum Romani principes del titolo De iureiurando (c. un., Clem. ii, 9). La tesi favorevole alla validità della donazione è sostenuta con un selettivo richiamo alla dottrina dei maggiori scolastici nell’uno e nell’altro campo, ovviamente con un particolare richiamo alle posizioni espresse nel Somnium da Giovanni da Legnano, e con una preferenza per l’argomento della disparità dei due ordinamenti; essa impedisce che le due potestà dell’imperatore e del papa siano «aeque principales», richiedendo così la subordinazione del primo al secondo. Le obiezioni della vecchia civilistica, ancorate al principio dell’inammissibilità della deminutio dell’Impero, sono rigettate implicitamente nel momento stesso in cui si rimuove, ritenendola solo ipotetica, l’affermazione della pari divina derivazione dell’imperium e del sacerdotium, con una curiosa e fideistica presunzione ex silentio (il silenzio di Dio): «praesumendum est quod si non valuisset, Deus fidelibus inspirasset ut eam revocarent»57. «La motivazione extragiuridica finiva così per prevalere sulle argomentazioni strettamente giuridiche»58.

Mentre l’edificio della donazione sta per crollare, non mancano ulteriori trattazioni di ampio respiro. Tale è quella di Giovanni da Imola, che fu canonista e civilista insigne e autore di commenti alle Clementinae (1410-1415), al Digestum Novum (1417) e quindi al Liber Extra (1421-1436). Se nel commento alle Clementinae si notano esitazioni ad accogliere pienamente la communis opinio della canonistica e aperture alla posizione dualista, il commento al Novum risente di ancor più forti perplessità, trasformandosi in un riesame minuzioso del problema della validità della donazione di Costantino. Lontano dalle tesi estreme di stampo ierocratico, Giovanni da Imola propende per una soluzione favorevole alla validità della donazione, sottolineando tuttavia con molta forza la sua ambiguità e adoperando accenti ed espressioni che, giuntegli per il tramite di Oldrado da Ponte, si ritrovano precedentemente anche nella lettura sul Vetus di Alberico da Rosciate:

Questa questione si presenta assai ambigua. Tuttavia si può affermare sufficientemente che la donazione di Roma e delle altre città che fu fatta da Costantino al papa Silvestro, come si legge nella palea Constantinus nella Distinzione XCVI (D.96 c.14), fosse valida, poiché appare che fu fatta per ispirazione dello Spirito Santo, e poiché fu fatta al papa Silvestro, che fu santo e come tale canonizzato, e che miracolosamente ottenne che Costantino fosse guarito dalla lebbra: onde non è verosimile che un così grande e santo uomo abbia accettato tale donazione, se questa non poteva essere [...]. Riferisce tuttavia Oldrado, secondo una postilla contenuta in un mio libro [...], che a detta di alcuni, nelle cronache antiche si trova che la notte seguente, quando fu fatta la donazione, si udì una voce provenire dal cielo che diceva: «Oggi è stato sparso veleno nella Chiesa di Dio»59.

Aderendo alle soluzioni che avevano riconosciuto nella volontà divina, e dunque nella natura miracolosa della donazione, la base ultima della sua validità, anche Giovanni da Imola trasferisce il discorso dal piano del diritto a quello della fede. «E i dubbi, che un esame prettamente giuridico della questione poteva pur ingenerare, sul piano della fede non avevano ragione di sussistere»60. Il suo pensiero continua a presentarsi venato di incertezze anche nel vasto commentario al Liber Extra, dove a commento del capitulum Si diligenti del titolo De praescriptionibus (c.17, X ii 26) egli osserva che il Constitutum si riferisce a Roma, all’Italia e a tutto l’Occidente, mentre altri canoni del Decretum mostrano l’Italia sottratta alla giurisdizione della Chiesa. «Giovanni non osa dubitare dell’autenticità del “Constitutum”, ma non può d’altro canto non restar perplesso di fronte a testi e situazioni che cozzano tra loro»61, suggerendo che la Chiesa non abbia accettato tutti i beni conferitile dall’imperatore o che ne abbia restituiti alcuni, e ammettendo infine: «Altrimenti non vedo in quale modo queste norme potrebbero bene accordarsi»62.

Si deve però a un allievo di Bartolomeo da Saliceto, il canonista padovano Raffaele Fulgosio, la più interessante delle trattazioni intorno alla validità della donazione di Costantino nell’intiero panorama quattrocentesco che precede la contestazione del Valla, tanto che la sua posizione è stata giudicata di importanza eccezionale, anche per l’influenza che le sue argomentazioni sulla realtà storica della donazione ebbero sul giovane Cusano, che «iniziava i suoi studi giuridici a Padova nel 1417, quando il Fulgosio era appunto professore dello Studio»63. La sua dottrina intorno al Constitutum Constantini è tanto più autorevole e degna di nota in quanto il Fulgosio prese parte come consulente al concilio di Costanza, dove la questione fu discussa. È proprio nel ricordo delle espressioni dello Zabarella, uno dei protagonisti di quel concilio, che il Fulgosio mostra di unire per la prima volta alla domanda intorno alla validità della donazione quella sulla sua storicità, insistendo «sulla possibilità che la Donazione, come tradizionalmente intesa, non avesse mai avuto luogo»:

Per la cognizione sommaria di questa questione occorre formulare tre quesiti, intorno ai quali io vidi discutere al concilio di Costanza. Il primo è se donazione ci sia stata. Il secondo è se, posto che donazione ci sia stata, tale donazione fosse valida. Il terzo riguarda la possibilità della sua revocazione. Intorno al primo punto, che donazione non ci sia stata, io argomento così con forza e persuasivamente. Infatti in nessuna parte del diritto civile si trova fatta menzione di un tale trasferimento a Silvestro della città di Roma e del potere su di essa, né delle altre province occidentali: perché infatti non si fa menzione di questa donazione in alcuna parte del diritto civile, così come invece si fa menzione del trasferimento dell’Impero da parte del popolo romano nell’imperatore? [...] Ed è difficile che se tale donazione fu fatta, dopo Costantino non ne sia stata fatta menzione da parte degli altri imperatori. A meno che forse, si potrebbe rispondere, non si dica che la concessione fatta dal popolo all’imperatore era favorevole all’imperatore stesso, e perciò se ne fece menzione nella compilazione del diritto fatta o fatta fare dall’imperatore, mentre la concessione di Costantino a Silvestro, derogando al potere imperiale, è passata sotto silenzio nella stessa compilazione. E infatti per lo più i giureconsulti qui vengono meno, per non dire o scrivere nulla in contraddizione con se stessi64.

Poco importa se la paternità di questi argomenti non si desuma chiaramente dalla esposizione del Fulgosio, e che non si comprenda bene se egli registri semplicemente i termini del dibattito conciliare o aderisca, come parrebbe, agli argomenti con i quali si negava la storicità della donazione di Costantino. «Sono due argomenti semplici, ma estremamente convincenti. La loro immediatezza non teme obiezioni»65, soprattutto relativamente al fatto che il patrimonio giuridico del mondo antico non serba tracce del Constitutum. L’autenticità della donazione non era ancora negata, ma l’assenza di prove oltre la palea Constantinus e il contrasto con altre norme del Decretum e della compilazione giustinianea ne minavano alla base l’intera costruzione. «Ancora non si afferma, quindi, la falsità del “Constitutum” nei termini che saranno propri del Valla, ma si nega recisamente che una donazione di Roma e delle provincie occidentali avesse avuto luogo»66, o, per meglio dire, non si oppone nulla di concreto «alla straordinaria evidenza degli argomenti con i quali si negava che la Donazione avesse effettivamente avuto luogo»67. I dubbi sulla realtà storica della donazione sono ancor più espliciti nel commento del Fulgosio alla lex Omnia omnino, nel titolo De officio praefecti urbi (D. 1, 12, 1):

Vi dico solo una cosa, che in nessuna legge io ricordo che sia stato disposto che l’imperatore Costantino donasse il dominio temporale della città di Roma; ché anzi trovo disposto che Giustiniano, il quale visse più di cento anni dopo Costantino, costituì nella città più antica, e cioè in Roma, dei magistrati temporali, vale a dire il prefetto del pretorio e il prefetto dell’urbe [...]. E la stessa cosa si vede fatta da Zenone, che fu imperatore molto più tardi [...]. E certo ci si deve meravigliare che Giustiniano, che era figlio della Chiesa e cristianissimo [...] e che conosceva ogni diritto, abbia potuto mettere la falce nella messe altrui se la giurisdizione sulla città di Roma non gli fosse spettata. Tuttavia noi troviamo la donazione espressamente menzionata nella Distinzione XCVI, nel canone Constantinus [D.96 c.14] e nel capitolo Fundamenta, titolo De electione, nel Liber Sextus [VI 17.1.6], e così si osserva al tempo d’oggi e così vanno i tempi d’oggi. Ma non spetta a me determinare questa faccenda: rifatevi ai pareri dei giuristi68.

Meno interessanti sono, di conseguenza, le posizioni espresse dal Fulgosio intorno al problema della validità del Constitutum, problema che egli risolve fondandola nella translatio Imperii, pur non disconoscendo, con un’audacia che è «segno netto di nuovi tempi»69, la possibilità di una totale estinzione dell’Impero. Certamente lontano dalle argomentazioni tradizionali, il Fulgosio si rivolge alla donazione per porne il problema nei termini di un contratto giuridicamente e storicamente irrevocabile, affermando che i secoli non sono passati invano e che la questione deve essere osservata in una prospettiva storica, poiché «col mutare dei tempi, mutata la potenza e dell’imperatore e del papa, anche la faccenda è mutata»70.

Inutile dire che la civilistica quattrocentesca, lungi dal seguire l’evoluzione delle dottrine canonistiche, anche con i suoi maggiori esponenti come Paolo di Castro (allievo di Baldo), Angelo Gambiglioni e Alessandro Tartagni, che pure la giurisprudenza culta del XVI secolo considerò il più grande giureconsulto del suo tempo, dimostra comunemente un atteggiamento rivolto a fare della donazione un caso a sé, non soggetto all’ordinaria disciplina delle concessioni imperiali. Al contrario, la canonistica del pieno Quattrocento rivela ancora aspetti di notevole vivacità, riflessi, più che altro, della polemica umanistica sul falso costantiniano. È questo il caso dell’Abbas Panormitanus, Niccolò de’ Tedeschi, che nel suo vasto e diffusissimo commento al Liber Extra sostiene con pochi e generici argomenti la validità della donazione come communiter riconosciuta dalla dottrina giuridica. Reagisce, senza mutare atteggiamento, davanti alla denuncia umanistica del falso con la pura e semplice allegazione delle autorità normative della Chiesa «contro coloro che dicono che su quella donazione non si trovano scritture autentiche», riaffermando la natura miracolosa del Constitutum e ribadendo che occorre «stare alla determinazione della Chiesa, quantunque i civilisti continuino a disputare intorno alla validità della Donazione» («Standum est ergo istis textibus, et determinationi ecclesiae, licet legistae disputent de validitate illius donationis»71).

È stato notato che i canonisti contemporanei del Panormitano reagiscono in vario modo all’accusa del Valla, o mostrando di ignorare quanto si va dicendo intorno alla falsità del Constitutum Constantini (come nel caso di Piero da Monte, autore del primo grande repertorio teologico-giuridico dell’età umanistica e di vari trattati in difesa del primato del pontefice e contro le pretese del concilio di Basilea, o nel caso del vicentino Alessandro Nievo)72, ovvero mostrando indifferenza, come si può vedere nel maggiore dei maestri della canonistica patavina del tempo, quell’Antonio Roselli che fu autore di un prolisso e scolasticamente attrezzatissimo trattato sul potere del papa e dell’imperatore, intitolato significativamente Monarchia73. Di lui ha scritto Maffei: «Egli non intende il problema che nei suoi termini nettamente medioevali [...]. La stessa denuncia umanistica del falso non lo porta a modificare minimamente il suo modo di vedere: egli vi accenna [...] senza la più debole reazione»74. Né è diverso l’atteggiamento di un altro esponente di primissimo piano della canonistica quattrocentesca, cioè il cardinale spagnolo Juan de Torquemada, che nella prima parte del suo commento al Decretum Gratiani, terminata nel 1457, non solo continua a essere sostenitore della piena validità della donazione «con i mezzi logici del più ortodosso metodo scolastico», ma è tra gli ultimi, al suo tempo, a mostrare di non conoscere o di non volere reagire alla denuncia umanistica del falso75.

Un’eco assai vivace delle polemiche aperte dal De falso credita et ementita Constantini donatione del Valla si può invece cogliere nell’opera di un allievo siciliano di Giovanni da Imola, il commentatore civilista e canonista Andrea Barbazza. La sua dichiarata adesione agli insegnamenti della Chiesa non gli impedisce infatti di riconoscere la fondatezza delle critiche e delle denunce del Valla, riconoscimento che nel Barbazza si unisce ai motivi più risalenti della disputa trecentesca, come sono quelli della povertà del Cristo e della sua Chiesa e della difficoltà di governare insieme lo spirituale e il temporale. Il «tuttavia sto dalla parte che tiene la Madre Chiesa», che si legge nei suoi Commentaria in titulum De verborum obligationibus, non fa da ostacolo a una evidente, piena simpatia per la contestazione della autenticità del Constitutum a opera del Valla: «Ho visto che un dottissimo letterato ha affermato che lo stile del suddetto canone Constantinus [D.96 c.14] è diverso dallo stile del tempo in cui fu fatta la donazione, ragion per cui si direbbe che bisognerebbe dubitare che quella costituzione di Costantino non fosse vera»76. I dubbi del Barbazza trovano espressione in altre sue opere, dalle additiones ai commenti di Baldo sopra il Codice Giustiniano, fino al commento al Liber Extra. Nelle additiones al quesito tradizionale circa la validità di una donazione imperiale lesiva dell’integrità dell’Impero si unisce, si potrebbe dire al modo di Dante, quello intorno alla capacità giuridica della Chiesa dell’accettazione della donazione stessa, con un’esplicita ripulsa delle ragioni addotte in contrario dalla civilistica trecentesca («e tuttavia a parer mio le ragioni addotte non sono stringenti») e con un’altrettanto esplicita formulazione del dubbio nei termini proposti dalla filologia umanistica, quantunque seguita dalla formale accettazione della dottrina della Chiesa:

Bisogna ancora vedere in qual modo si prova la donazione. Lo si dice infatti nel canone Constantinus nella Distinzione XCVI [D.96 c.14], che è una palea, e alcuni dissero che il testo di quel canone è completamente alieno dallo stile vigente a quei tempi in cui si dice che fu fatta quella donazione. Molto altro si potrebbe dire, nondimeno io sto a quello che tiene la sacrosanta Chiesa romana77.

Ancora più eloquenti in tal senso, com’è stato riconosciuto, sono le espressioni che si leggono nel commento al Liber Extra, espressioni che appartengono all’ultimo periodo della vita di Andrea Barbazza e che «offrono una vivida immagine delle reazioni che lo scritto del Valla andava suscitando»:

Ma la difficoltà sta nel sapere se la donazione delle terre della Chiesa fatta dall’imperatore al papa Silvestro sia stata valida. E anni addietro fu un letterato, che alcuni attaccano come eretico ed affetto da eretica pravità, che in una sua opera affermò che la donazione fatta da Costantino al papa Silvestro era un falso; e si sforzò di dimostrare che il testo posto nel canone Constantinus [D.96 c.14] non è conforme allo stile vigente a quel tempo e per conseguenza è alieno dallo stile comunemente usato, e dunque sospetto di falso; e certamente si tratta di una sottile illazione. Io però allego un argomento analogo, che ho udito altrove: un mercante aveva falsificato una pagina dei libri contabili a Venezia, e benché colui a danno del quale il falso era stato confezionato non potesse provarlo, un sottile investigatore esaminò la carta dove la falsa contabilità era posta e vide che la filigrana che usano i fabbricanti della carta non era in vigore a quel tempo, e per conseguenza il falso fu scoperto. Così si dovrebbe dire che si potrebbe provare il falso sulla base dello stile del canone Constantinus, che non era in vigore a quei tempi. Quando l’anno scorso io ebbi la condotta per l’insegnamento del diritto civile e cominciai il corso leggendo la rubrica dei Digesti De verborum obligationibus, dove quasi tutti quelli che scrivono toccano la questione della validità della donazione di Costantino, ho dimostrato con vive ragioni, urgenti e risolutive che tale donazione non era valida. E ho sentito dire da un eminente uomo di Chiesa, col quale ebbi a disputare sulla verità di quella donazione, una risposta così fatta: «Voi laici siete stati ingannati, nondimeno per il fatto che Dio tollera tale donazione, con molto maggiore ragione la dobbiamo tollerare noi [...]». E a mio giudizio oggi questo dubbio e una disputa del genere non hanno più ragione d’essere, dal momento che lo stesso imperatore, prima di ricevere il titolo imperiale, giura di osservare tale donazione fatta da Costantino alla Chiesa78.

Come si può vedere, la dichiarazione del Barbazza, rinviando al precedente commento al titolo De verborum obligationibus e ai dubbi ivi espressi, rivendica a sé una chiara soluzione negativa del quesito circa la validità della donazione. In tale maniera egli rende nel contempo ancora più esplicita l’allusione al De falso credita et ementita Constantini donatione di Lorenzo Valla e fornisce, con esempi tratti dalla giurisprudenza e da una personale aneddotica non priva di un sapore ironico, il primo esempio della penetrazione nella scienza giuridica del maturo diritto comune del criterio storico-filologico come mezzo di risoluzione del dubbio sul piano dottrinale79.

La donazione nella canonistica dell’età della Riforma

L’orizzonte cinquecentesco apporta ancora qualche elemento al dibattito sulla donazione costantiniana in ambito canonistico, pur in un clima culturale, politico e religioso fortemente mutato dalla rivoluzione protestante. Che si tratti di dibattiti «che non traggono più alimento da esigenze reali», e che la donazione nel sistema dei rapporti tra potere ecclesiastico e potere secolare sia «soltanto una formula alla quale alcuni non sanno rinunziare» dal momento che «al rigore della dimostrazione degli umanisti non si sa e non si può opporre nulla di veramente fondato», è perciò opinione francamente non più sostenibile80. Certo l’aria è profondamente cambiata, ed è manifesto che alla disputa dottrinale e accademica su di un punto controverso di diritto si sostituisce ormai una violenta controversia di carattere politico-religioso, lontana nelle sue linee e nei suoi modi anche dalla più risalente polemica ecclesiologica dell’età di Giovanni XXII e di Ludovico il Bavaro. E tuttavia al centro della discussione è pur sempre il tema più generale rappresentato dallo stesso nodo problematico, origine e simbolo di tutta la tradizione del diritto comune: il dualismo tra giurisdizione spirituale e giurisdizione temporale, e l’irrisolta tensione nei loro rapporti.

Gli scritti del cardinale Giovanni Antonio Sangiorgi, in opposizione all’opuscolo del Valla e a difesa dell’autenticità del Constitutum Constantini, sono testimoni di tale mutamento di clima. Che si rivelino deboli gli argomenti con i quali si risponde ai «calunniatori della Chiesa romana», ai falsa dogmata e ai «verba blasphemiae» di Lorenzo Valla81, non solo non stupisce, ma importa in fin dei conti assai meno rispetto al nuovo senso della tanto accorata quanto vana difesa di una costruzione plurisecolare, che era la costruzione stessa della tradizione dell’utrumque ius. Il suo fallimento doveva necessariamente accompagnarsi a quello del ‘dualismo asimmetrico’ postulato dalla dottrina ierocratica e fatto largamente proprio dalla canonistica. Non sorprende affatto che i canonisti del primo Cinquecento, che immediatamente risentono della contestazione del falso, si guardino bene «dall’entrare nel vivo della dimostrazione filologica dell’apocrifo», e non certo perché «il significato della denuncia umanistica non è inteso»82. Se alla dimostrazione del falso, data in sede filologica, «la scienza giuridica tradizionale non sa rispondere che con fiacche argomentazioni, o con inconsistenti espressioni polemiche, o addirittura con motti di spirito», non è perché si finga di ignorare «che l’attacco umanistico aveva tolto ogni fondamento alla Donazione» mantenendo nel contempo la discussione «sul piano di una problematica ormai priva di senso»83. In realtà, dopo la prima pubblicazione a stampa del libello del Valla (1506), è la sua ristampa nel 1518, all’indomani della ribellione di Lutero, a mutare la natura del dibattito84: il giurista, che ormai respira, com’è il caso di Pietro Andrea Gambaro, il pieno clima della Riforma luterana (il Gambaro muore all’indomani del sacco di Roma, nel 1528), è interessato solo a difendere la posizione della Chiesa, e a difenderla esclusivamente dal punto di vista giuridico:

L’esigenza di difendere la posizione della Chiesa porta il Gambaro ad ammettere, sia pure in linea subordinata, la possibilità della falsificazione. Da un punto di vista giuridico – egli rileva – l’autenticità della Donazione di Costantino potrebbe essere sostenuta. Ma che importa poi che abbia o no avuto luogo quando si sa che altri imperatori donarono alla Chiesa quanto essa ha e ancora di più? «Rei non nominis est quaestio»: che differenza fa che i possedimenti temporali del papato provengano da Costantino o dai suoi successori? Dimostrata apocrifa la prima concessione, non restano meno vere e legittime quelle successive85.

L’avversario del mondo giuridico tradizionale non è il pensiero umanistico, ma l’idea del sacerdozio universale propugnata dalla Riforma, che implicava la distruzione della giurisdizione ecclesiastica e, con essa, della Chiesa-ordinamento e delle sue costruzioni giuridiche. Più che con il mondo medievale, il mito della donazione si dissolve con il fallimento della rivoluzione papale e della sovraordinazione dello spirituale al temporale. Ne prende atto la nuova letteratura giuridica della seconda metà del Cinquecento. Esemplare è il caso di Jean Bodin, che nella sua République, scritta in francese nel 1576 e rielaborata in latino dieci anni dopo, contestando le pretese alla sovranità universale di Impero e Chiesa insieme, e facendo delle pretese stesse della Chiesa la causa della fine dell’Impero, conclude che, a smentire la validità della fabula longi temporis della donazione, più delle dimostrazioni filologiche del Valla valgono i documenti conservati negli stessi archivi della Chiesa, come la lettera di Ottone III a Silvestro II86. Dopo Bodin, Alberico Gentili, nel De iure belli del 1598, riassumendo ancora una volta i termini di una questione che egli pone in ogni caso «al di sopra del giureconsulto», ricorda semplicemente gli opposti pareri di Filippo Decio e di Restauro Castaldi, per concludere:

Su quella donazione esistono intieri volumi di questioni storiche e giuridiche. Avrete sentito il parere di Decio. Sono in molti a pensarla come lui; la maggior parte dei civilisti la ritiene invalida e Bartolo, che ebbe ad affermare il contrario, ammise poi scherzando di aver dovuto fare quell’affermazione perché viveva in una terra legata alla chiesa87.

Infine, in anni imprecisati ma che non vanno oltre la fine del secolo, in quel libello terribile intitolato De papatu Romano Antichristo, mai pubblicato a stampa e conservato fra le sue carte alla Bodleyan Library di Oxford, allegando a più riprese il Valla e pronunziando una dura invettiva contro il papato, Gentili chiude definitivamente il conto con il mito della donazione: «Et crimine ab uno discite insidias omnes Papatus, notate impudentiam: manifestissime falsa hic iubet esse verissima, quę tamen et institutum suum coarguant, nec illum pudeat allegare»88 («E da un solo delitto imparate tutti gli inganni del papato, notate la sua impudenza: comanda che sia verissimo ciò che è falso nel modo più manifesto, purché giovi al suo stato, e non si vergogna di sostenerlo»). Ma l’orizzonte è ormai non più quello della Chiesa-Stato alle prese con l’Impero, ma quello dell’Europa confessionale e degli Stati-Chiesa.

1 G.M. Vian, La Donazione di Costantino, Bologna 2004, p. 169. Alla monografia di Vian si può ricorrere per una aggiornata bibliografia sia sulla genesi del mito della donazione, sia sulle diverse fasi della polemica, fino alla piena modernità. In questa sede ci si limiterà a ricordare le fonti principali e la letteratura essenziale, a cominciare dall’edizione critica dello stesso Constitutum Constantini: Das Constitutum Constantini (Konstantinische Schenkung), hrsg. von H. Fuhrmann, Hannover 1968 (MGH.L VIII; MGH.F X); per la storia del Constitutum e della disputa intorno alla sua validità e autenticità sono sempre indispensabili le sintesi di G. Laehr, Die Konstantinische Schenkung in der abendländischen Literatur des Mittelalters bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, Berlin 1926 e Id., Die Konstantinische Schenkung in der abendländischen Literatur des ausgehenden Mittelalters, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 23 (1931-1932), pp. 120-181; per la letteratura giuridica tardomedievale e protomoderna è ancora insostituibile D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964 (rist. inalt. Milano 1969); si veda inoltre H. Fuhrmann, Konstantinische Schenkung und abendländisches Kaisertum. Ein Beitrag zur Überlieferungsgeschichte des Constitutum Constantini, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 22 (1966), pp. 63-178; sullo scritto di Valla si veda W. Setz, Lorenzo Vallas Schrift gegen die Konstantinische Schenkung De falso credita et ementita Constantini donatione. Zur Interpretation und Wirkungsgeschichte, Tübingen 1975; G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino, Roma 1985; R. Fubini, Contestazioni quattrocentesche della Donazione di Costantino, in Medioevo e Rinascimento, n.s. 2, 5 (1991), pp. 19-61; per le polemiche cinquecentesche si veda E. Petrucci, I rapporti tra le redazioni latine e greche del Costituto di Costantino, in Id., Ecclesiologia e politica. Momenti di storia del papato medievale, introduzione di O. Capitani, Roma 2001, pp. 1-110.

2 Glos. semper augustus, in Glossa ad Institutiones Iustiniani imperatoris, ad fidem codicum manuscriptorum curavit P. Torelli, Bononiae s.d. [1939] (rist. Parma 2010), c. 2.

3 Glos. conferens generi, in Volumen hoc complectitur (sic enim peculiari vocabulo vocant) Novellas Constitutiones Iustiniani Principis post repetitam Codicis prælectionem æditas (Authentica vulgo appellant); Tres item posteriores libros Codicis; Feudorum seu Beneficiorum duos; Constitutiones Friderichi secundi Imperatoris; Extravagantes duas Henrici septimi Imperatoris et tractatum De pace Constantiæ, Lugduni 1558, c. 41. Sulla glossa conferens generi e sulla sua «rigorosa coerenza alla concezione dualistica» si veda D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 66-68.

4 Bartolo nella Quaestio VII del De tyranno, ed. in D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). Con l’edizione critica dei trattati «De Guelphis et Gebellinis», «De regimine civitatis» e «De tyranno», Firenze 1983, p. 189: «Scindit [...] tyrannus se et separat se a communione universalis imperii».

5 P.G. Ricci, Donazione di Costantino, in Enciclopedia Dantesca, II, Roma 1970, pp. 569-570. Per il rapporto di Dante con la disputa pauperistica si veda quanto scrive R. Manselli nella voce Povertà – Il concetto di povertà in Dante, in Enciclopedia Dantesca, IV, Roma 1973, p. 633, a proposito della visione dantesca della Chiesa «incapace giuridicamente, moralmente e spiritualmente a essere proprietaria di ricchezze».

6 Cfr. Inf., XIX, 115-117 e Par., XX, 55-60, luogo che rimanda a questo passaggio: «L’altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto». Cfr. la voce Costantino di E. Petrucci, in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, II, Roma 1970, pp. 236-239.

7 Per i punti di contatto letterali fra Dante e Marsilio, già rilevati da A. Gewirth, Marsilius of Padua and Medieval Political Philosophy, New York 1951, e ora da G. Garnett, Marsilius of Padua and the ‘Truth of History’, Oxford 2006; cfr. C. Dolcini, Nuove ipotesi e scoperte su Dante, Marsilio e Michele da Cesena. Il nodo degli anni 1324 e 1330, in Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento, Spoleto 1999, pp. 284-293.

8 «Ch’ei pianger possa eterni / nella fiumana dell’eterno pianto / ei che primo a’ pastori in dote iniqua / die’» in Poesie minori del Petrarca sul testo latino ora corretto volgarizzate da poeti viventi o da poco defunti, I, Milano 1829, p. 111.

9 Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano 20104, pp. 679- 682; cfr. Id., Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di R. Bettarini, Torino 2005, I, pp. 672-675.

10 Francesco Petrarca, Sine nomine. Lettere polemiche e politiche, a cura di U. Dotti, Bari 1974, p. 179 (testo latino a p. 178).

11 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 193.

12 Cfr. Ivi, pp. 185-186 e nota 1 per un’ampia e articolata rassegna delle opinioni della storiografia otto-novecentesca.

13 Ivi, p. 188.

14 Bartoli a Saxoferrato, In Primam ff. veteris Partem, in rubr. const. Omnem, nn. 13-14, Venetiis 1570, f. 3v. Cfr. F. Calasso, s.v. Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1964, pp. 640-669.

15 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 136 e p. 140.

16 Cyni Pistoriensis, In Codicem, et aliquot titulos primi Pandectorum Tomi, id est, Digesti veteris, doctissima Commentaria, Francofurti 1578, in l. Comperit, C. De praescriptione XXX vel XL annorum (C. 7, 39, 6), nn. 1-2, f. 448r.: «Contro coloro che dicono che la Chiesa di Roma prescrisse a sé la donazione fatta dall’imperatore Costantino, poiché non si possono prescrivere i segni della soggezione e così neanche la giurisdizione dell’Impero romano, a cui è soggetto tutto il mondo».

17 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 141 e nota 9; e cfr. Id., La “Lectura super Digesto Veteri” di Cino da Pistoia. Studio sui MSS. Savigny 22 e Urb. lat. 172, Milano 1963, pp. 31-33.

18 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 141-142.

19 Ivi, p. 145; cfr. Id., La “Lectura super Digesto Veteri” di Cino da Pistoia, cit., p. 51.

20 Lectura Alberici de Rosate super prima parte Digesti Veteris, Lugduni 1518, in l. Omnia omnino, ff. De officio praefecti urbi (D. 1, 12, 1), n. 2, f. 70r (e f. 70r-v per il testo del Constitutum).

21 Ivi, in rubr. const. Omnem, n. 4, f. 3v.

22 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 183; il luogo, al quale Maffei offre un largo commento, è nella Lectura Alberici de Rosate super secunda parte Codicis, Lugduni 1518, in l. Bene a Zenone, C. De quadriennii praescriptione (C. 7, 37, 3), n. 4, f. 111v.

23 Ampie notizie sugli scritti di Alberico e sulla sua biblioteca, così come emergono dai suoi testamenti, si leggono in G. Cremaschi, Contributo alla biografia di Alberico da Rosciate, in Bergomum, 30 (1956), pp. 1-102, e in G. Billanovich, Epitafio, libri e amici di Alberico da Rosciate, in Italia medioevale e umanistica, 3 (1960), pp. 251-261; cfr. inoltre L. Prosdocimi, s.v. Alberico da Rosate, in Dizionario biografico, cit., I, Roma 1960, pp. 656-657, e D. Quaglioni, “Tiranno” e “Tirannide” nel commento a C. 1, 2, 16 di Alberico da Rosciate (c. 1290-1360), in Id., «Civilis sapientia». Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna, Rimini 1989, pp. 15-34.

24 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 185.

25 Ivi, p. 171.

26 J.F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts, II, Von Papst Gregor IX. bis zum Concil von Trient, Stuttgart 1877 (rist. Graz 1956), p. 217.

27 Glos. «Romani», in cap. Romani principes, Clem., De iureiurando (cap. un., Clem. ii 9), in Clementis Papae V. Constitutiones, Lugduni 1584, c. 106.

28 Cfr. cap. 19, Comp. III, i 6 = 1.6.34.

29 Glos. «Constantinus», Ivi, cc. 113-114.

30 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 173.

31 Ivi, p. 178.

32 Ivi, pp. 193-194.

33 Ivi, p. 194.

34 «Parimenti ciò che Dio separa, l’uomo non unisce, come l’aquila e il leone, così anche l’impero e il sacerdozio». Baldi Ubaldi Perusini, In primam Digesti Veteris partem commentaria, Prooem., n. 43, Venetiis 1616, f. 3r.

35 Ivi, n. 57, f. 3r.

36 «Se il mondo nella giurisdizione temporale avesse due teste, sarebbe un mostro». Baldi Ubaldi Perusini, In I, II et III Codicis libros commentaria, Prooem., n. 28, Venetiis 1615, f. 2v.

37 «È arbitro sia dei buoni che dei cattivi». Ivi, nn. 30-31, f. 2v.

38 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 202-203.

39 Baldi Perusini, In Usus Feudorum commentaria, Praeludia, n. 32, Augustae Taurinorum 1578, f. 3v.

40 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 205.

41 Ivi, pp. 205-206. Il riferimento è a Baldi Ubaldi Perusini, In Decretalium volumen commentaria, Venetiis 1615, in c. Intellecto, X, De iureiurando (X 2.24.33), n. 4, f. 261v.

42 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 216.

43 Cfr. D. Quaglioni, Giovanni da Legnano († 1383) e il «Somnium Viridarii». Il “sogno” del giurista tra scisma e concilio, in Id., «Civilis sapientia», cit., pp. 145-167, in partic. 152 e nota 20.

44 La citazione è in D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 222, ed è tratta dal Vaticano Chigiano E VIII 241, c. 66vA, confrontato con il Ms. 2 (c. 69vA) della Biblioteca Universitaria di Cagliari e con il Ms. I. H. 17 della Biblioteca Nazionale di Napoli (c. 86v).

45 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 229, insiste ripetutamente sulla mancanza di originalità e di realismo nell’opera di Giovanni da Legnano, con sostanziale incomprensione del contributo dottrinale del Somnium. La migliore sistemazione scientifica resta quella della compianta Glynis Donovan, per la quale si veda G.M. Donovan, M.H. Keen, The “Somnium” of John of Legnano, in Traditio, 37 (1981), pp. 325-345.

46 G. Ermini, Un ignoto trattato “De principatu” di Giovanni da Legnano, in Studi di storia e diritto in onore di Carlo Calisse, III, Milano 1940, pp. 421-446, in partic. 431.

47 Thomae Diplovatatii, Liber de claris iuris consultis, pars posterior curantibus F. Schulz, H. Kantorowicz, G. Rabotti, Bononiae 1967, p. 292.

48 Cfr. D. Quaglioni, Giovanni da Legnano († 1383) e il «Somnium Viridarii», cit., pp. 154-156.

49 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 230.

50 Ivi, pp. 227-228; il testo è tratto dal Ms. Vaticano latino 2639, c. 261vA.

51 Cfr. D. Quaglioni, Giovanni da Legnano († 1383) e il «Somnium Viridarii», cit., pp. 156-157. Sul Somnium Viridarii e sul suo volgarizzamento francese, il Songe du Vergier, ad verbum ampiamente M. Schnerb-Lièvre, Introduction, in Somnium Viridarii, éd. par M. Schnerb-Lièvre, I, Paris 1993, pp. XI-LVIII.

52 Bartholomaei a Salyceto In primum et secundum Codicis libros commentaria, Venetiis 1586, in const. De novo Codice faciendo, ad verbum «Nunc descendo», n. 7, f. 3v; cfr. D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 233-234.

53 Cfr. D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 241.

54 «È una palea e non si glossa».

55 Aegidii Bellemerae, Remissorius, qui secundus est tomus commentariorum in Gratiani Decreta, Lugduni 1550, Prima pars, in c. Constantinus, Dist. XCVI (D.96 c.14), f. 97r.

56 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 245-246. Cfr. G.M. Vian, La Donazione di Costantino, cit., pp. 96 e 111.

57 «Si deve presumere che se la donazione non fosse stata valida, Dio stesso ne avrebbe ispirato la revocazione ai suoi fedeli». Francisci Zabarellae Card. Florentini, In Clementinarum volumen commentaria, Venetiis 1579, in c. Romani principes, De iureiurando (c. un., Clem. ii 9), ad verbum «Porro», n. 8, f. 84v.

58 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 258.

59 Ioannis de Imola, In secundam Digesti Novi partem commentaria, Bononiae 1580, in rubr. De verborum obligationibus (D. 45, 1), nn. 37-38, p. 8.

60 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 285.

61 Ivi, p. 287.

62 Ioannis de Imola, In secundum Decretalium commentaria, Venetiis 1575, in c. Si diligenti, X, De praescriptionibus (X 2.26.17), n. 8, f. 230v.

63 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 262. Cfr. G.M. Vian, La Donazione di Costantino, cit., pp. 96 e 111.

64 Ivi, p. 263, che a pp. 264-265 cita dal proemio del commento al Vetus: Raphaëlis Fulgosii, In primam Digesti Veteris partem commentaria, Prooemium, Lugduni 1544, n. 15, f. 2v.

65 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 265.

66 Ivi, p. 267.

67 Ivi, p. 268.

68 Raphaëlis Fulgosii, In primam Digesti Veteris partem commentaria, Lugduni 1544, in l. Omnia omnino, ff. De officio praefecti urbi (D. 1, 12, 1), n. 3, f. 24v.

69 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 274.

70 Raphaëlis Fulgosii, In primam Digesti Veteris partem commentaria, Prooemium, Lugduni 1544, n. 15, f. 3r.

71 Abbatis Panormitani, Commentaria in quartum et quintum Decretalium librum, Venetiis 1578, in c. Per venerabilem, X, Qui filii sint legitimi (X 4.17.13), n. 7, f. 52v.

72 Cfr. D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 302-304. Ulteriori notizie in D. Quaglioni, Pietro del Monte a Roma. Il «Repertorium utriusque iuris» (c. 1453). Genesi e diffusione della letteratura giuridico-politica in età umanistica, Roma 1984.

73 Antonii de Rosellis, Monarchia sive Tractatus de potestate imperatoris et papae, in Melchior Goldast, Monarchia S. Romani Imperii, I, Hanoviae 1611 (rist. Graz 1960).

74 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 310.

75 Ivi, pp. 311-312.

76 Andreae Barbatiae, Commentaria in titulum De verborum obligationibus, Rubr., Bononiae 1497, f. 3vA.

77 Additio Andreae Barbatiae, in Baldi Ubaldi Perusini; In I, II, et III Codicis libros commentaria, Prooemium, Venetiis 1615, f. 2v.

78 Secunda secunde partis Andree Barbatie Sicculi super secundo decretalium, Venetiis 1509, in c. Licet causam, X, De probationibus (X 2.19.9), n. 22, f. 177r.

79 Cfr. G.M. Vian, La Donazione di Costantino, cit., pp. 97 e 137-138.

80 Così, con un giudizio che necessita di revisione alla luce delle più recenti acquisizioni della storia politico-religiosa e della storiografia giuridica, D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 321. Un radicale rinnovamento della prospettiva interpretativa è in H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, II, L’impatto delle riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale, edizione italiana a cura di D. Quaglioni, Bologna 2010, su cui si veda I. Birocchi, D. Quaglioni, A. Mazzacane, La tradizione giuridica occidentale nella prospettiva della sua crisi presente, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 40 (2011), pp. 1031-1059.

81 Io. Antonii a S. Georgio Praepositi Mediolanensis, Episcopi Sabinensis ac Card. Alexandrini, In primam Decretorum partem commentaria, Venetiis 1579, in c. Constantinus (D.96 c.14), n. 1, f. 242v.

82 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., pp. 322 e 324.

83 Ivi, pp. 324-325.

84 Cfr. G.M. Vian, La Donazione di Costantino, cit., pp. 138-139.

85 D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, cit., p. 326; cfr. Petri Andreae Gammari, In constitutionem Iulii Secundi super electione simoniaca Romani Pontificis interpretatio, in Repetitiones in universas fere Iuris Canonici partes, VI/2, Repetitiones in Iure Canonico in nonnullas constitutiones extravagantes, Venetiis 1587, nn. 84-85, f. 32r.

86 Jean Bodin, I sei libri dello Stato, I, a cura di M. Isnardi Parente, Torino 19882, pp. 448-467, con riferimento al Conseil sur le fait du Concile di Charles Dumoulin (1564) e al Contra Laurentium Vallam de falsa Constantini donatione di Agostino Steuco (1547).

87 Alberico Gentili, Il diritto di guerra (De iure belli libri III, 1598), introduzione di D. Quaglioni, traduzione di P. Nencini, apparato critico a cura di G. Marchetto, C. Zendri, Milano 2008, p. 543.

88 De Papatu Romano Antichristo assertiones [ex verbo Dei et SS. Patribus] Alberico Gentili Italo auctore, Oxford, Bodleian Library, Ms. d’Orville 607, c. 7v. Cfr. D. Quaglioni, Il «De Papatu Romano Antichristo» del Gentili, in «Ius gentius Ius communicationis Ius belli». Alberico Gentili e gli orizzonti della modernità, a cura di L. Lacchè, Milano 2009, pp. 89-98 (poi, con il titolo Alberico Gentili: il papato romano e il “potere totale”, in D. Quaglioni, Machiavelli e la lingua della giurisprudenza. Una letteratura della crisi, Bologna 2011, pp. 199-210). Più in generale si veda G. Minnucci, Alberico Gentili iuris interpres della prima età moderna, Bologna 2011.