Costituzionalismo

Enciclopedia delle scienze sociali (1992)

Costituzionalismo

Nicola Matteucci

Definizione

Con il termine 'costituzionalismo' generalmente si indica la riflessione intorno ad alcuni principî giuridici che consentono a una costituzione di assicurare nelle diverse situazioni storiche il miglior ordine politico. Questo termine ha acquistato il suo spessore concettuale negli Stati Uniti d'America fra le due guerre, quando, in opposizione alla democrazia totalitaria europea, si cominciò a riflettere sui peculiari caratteri della democrazia costituzionale americana: ricordiamo lo storico Charles Howard McIlwain (1871-1968), il costituzionalista Edward S. Corwin (1878-1963), il teorico della politica Carl J. Friedrich (1901-1984).In realtà fra le due guerre mondiali questo termine non aveva ancora uno status semantico ben definito: basti guardare le opposte definizioni contenute nell'Enciclopedia Italiana (1929) e nell'Encyclopaedia of the Social Sciences (1930). Nella prima Gino Solazzi è ancora fermo alla monarchia costituzionale prevista dallo Statuto albertino (v. cap. 2): non si parla di diritti degli individui, ma - secondo la scuola tedesca - di una autolimitazione dello Stato a favore delle libertà individuali. Walton H. Hamilton, nella seconda, risente fortemente del clima progressista della "New history": il moderno costituzionalismo nasce certamente in America, ma nel 1776 e non nel 1787, non cioè alla Convenzione di Filadelfia, che rappresentò, invece, un momento di involuzione conservatrice. La carta scritta e la dichiarazione dei diritti sono elementi caratterizzanti il moderno costituzionalismo, ma non la judicial review, che instaurerebbe, invece, il governo dei giudici (v. cap. 7). Per Hamilton il moderno costituzionalismo, che ha il suo battesimo in America, raggiunge la sua maturità solo in Francia durante la Rivoluzione.In prima approssimazione possiamo dire che il costituzionalismo (antico e moderno) non guarda tanto a 'chi' deve governare, ma a 'come' si deve governare, perché mira soprattutto a una limitazione dei poteri del governo attraverso il diritto: si può dire che esso sia la tecnica giuridica delle libertà. Essendo un fenomeno storico, il costituzionalismo si sviluppa nel Medioevo sul ceppo delle antiche istituzioni rappresentative, delle assemblee di stati o di ceti; nell'età moderna è strettamente connesso al liberalismo, mentre con la democrazia ha un rapporto ambivalente, dato che, pur nascendo nell'età della rivoluzione democratica, può rappresentare un freno e un limite all'onnipotenza della sovranità popolare.In questo articolo ci occuperemo esclusivamente del costituzionalismo moderno; esso rappresenta una rottura con il costituzionalismo degli antichi, anche se alcuni principî del passato vengono in esso metabolizzati e portati a compimento: la rottura si verifica nell'età della rivoluzione democratica, cioè della Rivoluzione americana e di quella francese. Il costituzionalismo moderno, del quale ora si vuole fornire il modello o, meglio, l'essere e insieme il dover essere, si articola attorno a cinque nuclei forti: la costituzione scritta (v. cap. 3), il potere costituente (v. cap. 4), la dichiarazione dei diritti (v. cap. 5), la separazione dei poteri (v. cap. 6), il controllo di costituzionalità delle leggi (v. cap. 7). Esamineremo separatamente questi cinque nuclei forti in chiave storica: tutti i concetti - e, quindi, anche quelli giuridici - nascono infatti nella storia e dalla storia, e pertanto devono essere interpretati storicamente, senza lasciarsi fuorviare dalle teorie generali (l'allgemeine Staatslehre tedesca), che universalizzano concetti storici. Ma prima sono indispensabili alcune precisazioni terminologiche sul termine 'costituzione'.

Alcune precisazioni terminologiche e concettuali

Il termine costituzione ha nelle scienze naturali e nelle scienze giuridiche un significato diverso, anche se allude sempre a qualcosa di fondamentale. Nelle prime è descrittivo della struttura dell'esistente; nelle seconde - secondo il costituzionalismo - è normativo, cioè prescrive un determinato comportamento per dare un ordine politico alla società. In termini diversi si potrebbe dire che nelle prime la costituzione è anche materiale, perché è tutt'uno con le sue parti, mentre nelle seconde è meramente formale, per un duplice motivo: sia perché non tutta la società, nelle sue interne dinamiche, è rappresentata dalla costituzione, sia perché ai comandi costituzionali non sempre segue un'effettività di comportamenti.

Questa contrapposizione appare però evidente solo nei periodi di tensione rivoluzionaria, quando alla realtà esistente viene contrapposto il progetto politico di un novus ordo. In altri periodi i due significati tendono a coincidere, partendo dal presupposto che ogni comunità politica ha sempre immanente una naturale e necessaria costituzione: si pensi ad Aristotele (Politica, 1279 a-b), dove però c'è una distinzione fra costituzioni rette e costituzioni degenerate; si pensi a John Fortescue (1409-1476), che in De laudibus legum Angliae parte dall'analogia fra il corpo politico e il corpo umano, ma poi cerca una distinzione fra il regnum meramente regale e il regnum politicum et regale. In queste distinzioni troviamo quegli elementi prescrittivi che sono propri del costituzionalismo.

Nell'età moderna questa tensione fra norma e fatto, propria dell'età della rivoluzione democratica, non si ritrova nelle teorie giuspubblicistiche tedesche, nelle quali il concetto di costituzione non ha rilevanza strategica. Sul versante della Korporationslehre, da Johannes Althusius (1557-1638) a Otto von Gierke (1841-1921), la società politica, che ingloba le inferiori organiche società intermedie, è tutta giuridicamente strutturata, per cui non c'è una scissione fra costituzione e società. Sull'altro versante, quello della Staatslehre, che va da Karl Gerber (1823-1891) a Paul Laband (1838-1918) e a Georg Jellinek (1851-1911), la riflessione teorica è tutta diretta a superare l'antico dualismo fra rex e populus, fra principe e ceti nella superiore unità dello Stato, di cui il re e il popolo sono organi. Tutto il diritto pubblico viene fondato sul dogma della personalità giuridica dello Stato, per cui la costituzione è semplicemente una norma dello Stato ed esiste perché esiste lo Stato: tutt'al più abbiamo una konstitutionnelle Verfassung. Anche qui la tensione fra costituzione e società, fra il progetto ordinante e una realtà già ordinata viene meno: non c'è spazio per il costituzionalismo che limita il potere in nome dei diritti di libertà. Questa centralità dello Stato, somma persona giuridica, la ritroviamo anche in Francia, con Raimond Carré de Malberg (1861-1935), e in Italia con Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952).

La parola costituzione assume il suo significato moderno, quello dell'insieme delle norme in base alle quali un corpo politico deve essere governato, solo in tempi abbastanza recenti: la troviamo usata di sfuggita da John Locke (1632-1704) nel secondo dei suoi Two treatises of government (§ 223), poi - come vedremo nel cap. 3 - concettualmente approfondita in George Savile, primo marchese di Halifax (1633-1695), e in Henry Saint-John, primo visconte di Bolingbroke (1678-1751). Nel diritto romano e poi nel diritto medievale (civile e canonico), constitutio indicava una promulgazione, un decreto, un'ordinanza fatta dalla suprema autorità (l'imperatore, il papa, il re). Se si vuole, dal Medioevo al Moderno assistiamo al capovolgimento o al rovesciamento di significato di due termini chiave del costituzionalismo, quello di politica e quello di costituzione. Per noi la costituzione deve limitare e imbrigliare la politica; nel Medioevo la constitutio rientra nella prerogativa del re, mentre il politicum - come afferma John Fortescue in De laudibus legum Angliae - è dato dalle leggi - le ossa e i nervi del corpo politico - che limitano l'arbitrio del caput, della testa, cioè del re. Nel Medioevo, però, si ignorava la parola, ma non il concetto: la definizione più usata è quella di leggi fondamentali (fundamental laws, lois fondamentales, Grundgesetze), in base al principio che dettava: lex supra regem, quia lex facit regem. Principio che l'assolutismo capovolgerà in quello che afferma: rex facit legem. Un'ultima precisazione terminologica: costituzione, costituzionale, costituzionalismo sono termini che nascono assieme ed esprimono lo stesso significato, ma poi col tempo hanno preso strade differenti. In questa diversificazione si esprime il progressivo allontanamento del costituzionalismo, come teoria politica normativa, dalla scienza giuridica positivista.

Sotto l'influsso del positivismo giuridico (soprattutto tedesco) si ritiene possibile una forma di conoscenza certa e, se non universale, almeno intersoggettiva, solo se nell'indagine si prescinde da ogni giudizio valutativo, solo se si abbandona ogni premessa giusnaturalistica o di valore, che sarebbe estranea alla scienza. Pertanto il termine costituzione ha una portata meramente descrittiva: si prendano le due opposte scuole, che hanno entrambe superato il dogma della personalità giuridica dello Stato, le quali fanno capo a Hans Kelsen (1881-1973) e a Carl Schmitt (1888-1985). Per il sostenitore della teoria 'pura' il diritto è un ordinamento gerarchico di norme, che ha la sua unità nella norma fondamentale, e la costituzione rappresenta il grado più alto dell'ordinamento giuridico; per il sostenitore della teoria 'materiale', la costituzione indica l'unità dello Stato concretamente esistente o meglio "il concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente". Per entrambi ogni ordinamento giuridico o ogni unità politica ha sempre una costituzione. Questo significato scientifico è del tutto indipendente e autonomo da ogni riferimento al concreto contenuto della costituzione, che, invece, sarebbe politico e assiologico. La costituzione, infatti, è la struttura stessa di una comunità politica organizzata, quell'ordine necessario che le deriva dalla designazione di un potere sovrano e degli organi che lo esercitano. Così, dato che una costituzione è immanente a una qualsiasi società, è necessario distinguere il giudizio scientifico sui caratteri che sono propri di ogni costituzione, nel suo aspetto formale come in quello materiale, dal giudizio ideologico su quale regime sia 'costituzionale' e quale non lo sia.

Per il giurista, tutti gli Stati - e quindi anche quelli assoluti del XVII come quelli totalitari del XX secolo - hanno una loro costituzione, nella misura in cui c'è sempre, tacita o espressa, una norma base che attribuisce la potestà sovrana di imperio. Che vi siano poi dei limiti a questa sovranità o che il suo esercizio venga ripartito fra più organi, tutto questo è irrilevante: ubi societas ibi ius. Sarebbe, così, compito del costituzionalismo descrivere i particolari principî ideologici che sono alla base di ogni costituzione e della sua interna organizzazione. Tuttavia, dato che la scienza non può limitarsi ad affermare delle tautologie, per ordinare il suo materiale empirico è pur necessario procedere a delle classificazioni e a delle tipologie; si ripropone, così, il problema della distinzione fra le diverse costituzioni, e, con esso, la reintroduzione di giudizi di valore, che i criteri di distinzione presuppongono.

La scienza giuridica, per le sue tipologie, usa così l'aggettivo 'costituzionale', contrapponendolo ad 'assoluto' e 'parlamentare', per distinguere tre diverse forme di monarchia: esso indica un sistema di governo nel quale i ministri, pur governando in base a uno statuto o a una carta, sono responsabili solo verso la corona, mentre verso il parlamento hanno soltanto una responsabilità penale - non politica - per tradimento o violazione della costituzione. In altri termini 'costituzionale' indica quella forma di Stato, basata sulla separazione dei poteri, nella quale il potere è quasi a mezzadria (per alcuni essa è ancora una monarchia 'dualista', per altri un superamento di questa) fra il re, titolare dell'esecutivo, e il parlamento, titolare del legislativo: una forma di Stato che storicamente succede o, meglio, sostituisce la monarchia assoluta, nella quale tutto il potere è concentrato nelle mani del re, e precede o, meglio, si evolve nella monarchia (o nella repubblica) parlamentare, nella quale il potere è nelle mani del popolo, che elegge l'assemblea (o le assemblee) rappresentativa, la quale a sua volta nomina il governo. La monarchia costituzionale è, così, quella forma di Stato che è stata instaurata in Inghilterra dopo la 'Gloriosa rivoluzione' del 1688-1689, in Francia nell'età della Restaurazione, in Belgio con la Rivoluzione del 1830, in Italia con lo Statuto del 1848, in Germania nell'età bismarckiana, in Russia dopo la Rivoluzione del 1905. Questa nuova definizione, benché presenti indubbi vantaggi sul piano della tipologia, rischia di essere scolastica ed estrinseca, nella misura in cui, dando una definizione assai ristretta al termine costituzionale, diversamente da quella assai larga di costituzione, finisce per cogliere soltanto l'accidentale del costituzionalismo e per perderne, così, l'essenza.

Se guardiamo al significato concreto che ebbero nel secolo scorso le parole 'costituzione' e 'costituzionale', ci accorgiamo che la scienza giuridica ha proceduto a un'opera di lenta, ma inflessibile, epurazione dei valori in esse originariamente impliciti, svuotandone, così, la portata politica per assicurarne un uso neutro per l'indagine scientifica. Tuttavia, l'odierna definizione di costituzione è troppo larga, quella di costituzionale è troppo ristretta, per poter partire da esse al fine di definire il significato che ha oggi il costituzionalismo nella teoria politica, o in quella parte della scienza politica che si preoccupa di problemi di ingegneria costituzionale. Il costituzionalismo non è, oggi, un termine neutro per un uso meramente descrittivo, dato che nel suo significato ingloba il valore che era un tempo implicito nelle parole 'costituzione' e 'costituzionale' (un complesso di concezioni politiche e di valori morali), e cerca di sceverare quelle che furono le soluzioni contingenti (ad esempio: la monarchia costituzionale) da quelli che sono i suoi caratteri permanenti.

Si è detto, con formula assai ampia, che il costituzionalismo è la tecnica delle libertà: è, cioè, quella tecnica giuridica attraverso la quale ai cittadini viene assicurato l'esercizio dei loro diritti individuali e, nel contempo, lo Stato è posto nella condizione di non poterli violare. Se le tecniche variano secondo i tempi e le tradizioni di ciascun paese, l'ideale delle libertà del cittadino resta il fine ultimo in vista del quale queste tecniche vengono preordinate o organizzate. Fra queste tecniche ne potremmo puntualizzare due. Da un lato, si è detto, il costituzionalismo consiste nella divisione dell'esercizio del potere, in modo da impedire ogni arbitrio; e, se l'avversione all'arbitrio resta la radice ultima del costituzionalismo, tuttavia i modi di 'dividere l'esercizio del potere' non solo appaiono storicamente diversi, ma sembrano anche seguire logiche assai lontane. Dall'altro lato, invece, si è affermato che il costituzionalismo rappresenta il governo delle leggi e non degli uomini, della razionalità del diritto e non del mero potere; ma, anche qui, le soluzioni storiche per 'limitare il potere' sono diverse. Onde, per definire questo termine, è necessario, innanzitutto, accettare il valore che è in esso implicito; un valore che, con formula abbreviata, potremmo indicare nella difesa dei diritti della persona, dell'individuo e del cittadino. In secondo luogo, bisogna cogliere tipologicamente, in sede storica, le diverse soluzioni che, sul piano dei mezzi, sono state date per attuare questo fine e che sono state formalizzate attraverso concetti diversi da quello di costituzionalismo, come quelli di separazione dei poteri, di garantismo, di Stato di diritto o Rechtsstaat, di rule of law. Si tratta poi di vedere se il costituzionalismo, oggi, pur non negando queste esperienze passate, abbia un suo significato particolare e specifico, che non le nega, ma le ingloba.

La costituzione scritta

Uno dei principali aspetti di rottura con il passato è stata la costituzione scritta. La prima fu quella della Virginia nel 1776, alla quale seguirono - nello stesso anno - quelle del New Jersey, del Delaware, della Pennsylvania, del Maryland, del North Carolina; nel 1777 abbiamo le Costituzioni della Georgia e del New York, nel 1778 quella del Massachusetts, mentre il Connecticut e il Rhode Island preferirono mantenere con pochi cambiamenti le vecchie carte coloniali. Nel 1788 venne portato a compimento questo processo costituente con la ratifica, da parte della maggioranza degli Stati, della Costituzione degli Stati Uniti d'America stesa alla Convenzione di Filadelfia, Costituzione tuttora in vigore. Se in America abbiamo una fortissima stabilità costituzionale, in Francia si verifica il fenomeno opposto, quello dell'instabilità. Limitandoci al Settecento abbiamo le Costituzioni del 1791, del 1793 (a. I), del 1795 (a. III), del 1799 (a. VIII), la quale assegna il potere esecutivo a Bonaparte, Primo console. Delle ragioni di questa instabilità si dovrà parlare, quando esamineremo il problema della separazione dei poteri (v. cap. 6).

L'esigenza di una costituzione scritta fu, per la prima volta, avvertita in Inghilterra durante il periodo delle guerre civili: John Lilburne (1614-1657), guida del movimento dei levellers, stese nel 1647-1649 tre redazioni, ampiamente discusse, di un Agreement of the people, dove è necessario sottolineare il termine agreement, perché mostra il sottile intreccio fra costituzionalismo e contrattualismo. D'altro canto il 'repubblicano' James Harrington (1611-1677) chiudeva The commonwealth of Oceana (1656) con un progetto - assai articolato e barocco - di costituzione. Per quanto sia astratta e irrealistica l'articolazione istituzionale proposta, il principio che la ispira sin dalle primissime battute ebbe una notevolissima influenza sul costituzionalismo americano: citando Aristotele (Politica, 1278b, 1282b) Harrington condensa il suo pensiero antihobbesiano nel famoso detto "l'impero (empire) delle leggi e non degli uomini". Alla fine delle guerre civili ci fu anche una costituzione scritta, ma l'Instrument of government (1653) fu soltanto una carta concessa da chi deteneva il potere, Oliver Cromwell, anche se egli aveva la consapevolezza - come affermò in Parlamento - che "ci deve essere qualcosa di fondamentale, qualcosa che assomigli a una grande carta e debba essere durevole e inalterabile".

L'Inghilterra però restò fedele alla sua costituzione consuetudinaria: George Savile, marchese di Halifax, nei Political thoughts and reflections (pubblicati solo nel 1750) fa questa affermazione: "Una costituzione non può farsi da sé; qualcuno l'ha fatta, non in un solo momento, ma in parecchie volte. È modificabile e mediante ciò si avvicina ancor più alla perfezione e, senza adattarsi ai diversi tempi e alle diverse circostanze, non potrebbe sopravvivere. La sua vita viene prolungata cambiando tempestivamente le sue diverse parti nelle diverse epoche". Così, nel definire la costituzione, anche Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke, in A dissertation upon parties (1735): "Per costituzione intendiamo, quando parliamo con proprietà ed esattezza, quell'insieme di leggi, istituzioni e consuetudini, derivate da certi immutabili principî di ragione e dirette a certi immutabili fini di pubblico bene, che costituiscono il complesso del sistema secondo il quale la comunità ha convenuto e accettato di essere governata". Così pure Edmund Burke (1729-1797), il quale nelle Reflections on the revolution in France (1790) parla della costituzione come di un "patrimonio ereditario", di "un grande capitale collettivo della nazione e dei secoli", che deriva la sua legittimità "communi sponsione Reipublicae": ebbene, proprio per conservare questa costituzione, si deve continuamente riadattarla, rigenerandone le parti difettose. L'Inghilterra stava passando dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare, e il Burke fu un difensore di questo mutamento nei Thoughts on the cause of the present discontents (1770).

Dietro questi autori c'è la common law che, come insegnò il grande legista Edward Coke (1552-1634) nei suoi Institutes (I, 138, fol. 97b), è il frutto di una "perfezione della ragione" che, "per lungo succedersi di epoche, è stato finito e rifinito da un numero sterminato di individui dotti e gravi". Insomma nella costituzione consuetudinaria è immanente la ragione, non quella naturale e astratta dei razionalisti, ma una ragione storica, per cui in Inghilterra non abbiamo quella rigida contrapposizione - come in Francia - fra diritto naturale e storia. Anche quando appare il giusnaturalismo, come in John Locke, esso serve soprattutto a razionalizzare la tradizione e a darle un significato universale. Quello degli Halifax e dei Burke non è mero tradizionalismo o mero conservatorismo; è piuttosto la difesa di una costituzione flessibile, che può essere innovata facilmente quando la necessità lo richieda, contro la rigidità delle costituzioni scritte, che esigono procedure assai complesse.Il modello inglese oggi resta unico, ma non si può dire che l'Inghilterra, senza costituzione scritta e nella quale si è affermato nel secondo Settecento il principio dell'onnipotenza del parlamento legibus solutus, teorizzato - quasi sulla scia di Hobbes - prima da William Blackstone (1723-1780) nei suoi Commentaries on the laws of England (1765-1769) e poi da John Austin (1790-1859) nel suo Province of jurisprudence determined (1832), non sia un paese costituzionale: la common law, le leggi fondamentali, l'indipendenza dei giudici, le consuetudini, il costume rappresentano ancora una barriera contro il dispotismo. Secondo Albert Venn Dicey (1835-1922), nella sua Introduction to the study of the law of the Constitution (1885), la costituzione inglese si basa su tre grandi principî, che sono la sovranità del parlamento, il rule of law e le convenzioni costituzionali di grande efficacia anche se non strettamente giuridiche. Ma il principio cardine è il rule of law, che ha permeato nei secoli la mentalità inglese, ormai abituata a essere governata solo dal diritto, un diritto che tutela i diritti dei cittadini inglesi.

Americani e Francesi, invece, avvertirono l'esigenza di una rottura più o meno totale con il passato, che si espresse, appunto, in una costituzione scritta. Ma i due casi sono diversi: gli Americani, fallito il tentativo di realizzare un commonwealth di libere nazioni, unito soltanto nella persona del re, sanzionarono con le loro costituzioni una rottura politica con l'Inghilterra, non con il proprio passato. Infatti le nuove costituzioni non sono altro che una razionalizzazione delle antiche carte regie e dei numerosi covenants, bodies of liberty, frames of government, che si diedero nella storia coloniale. I Francesi, invece, vollero rompere con il loro passato, con l'antico regime e con quelle lois fondamentales da due secoli così poco osservate, anche se la Rivoluzione iniziò dal rifiuto del Parlamento di Parigi di registrare un editto fiscale del re e dalla convocazione straordinaria degli Stati Generali, mai più riuniti dopo il 1614.

Queste costituzioni scritte non si spiegano se non teniamo presente il nuovo clima razionalistico, che domina nella seconda metà del Seicento e nel Settecento, nei suoi due aspetti politici, quello del contrattualismo e quello del giusnaturalismo. È proprio in questo clima razionalistico che, in Francia, matura il problema della codificazione del diritto privato con Jean Domat (1625-1696) e con Robert-Joseph Pothier (1699-1772), non certo in Inghilterra che rimane fedele alla common law. Il giusnaturalismo opera più nel settore dei diritti dell'uomo, il contrattualismo più in quello della costituzione, per cui abbiamo un trasformarsi del lessico politico, e la parola 'patto' viene sostituita dal termine odierno di costituzione: le norme costituzionali diventano dunque positive, diversamente da quelle del diritto naturale, ma conservano di queste un valore superiore alle leggi ordinarie.

Nella tradizione politica anglo-americana questa presenza del contrattualismo per fondare una costituzione è più evidente: il patto sottoscritto l'11 novembre del 1620 sul Mayflower dai Padri Pellegrini, giunti sulle desolate spiagge di Cape Cod, servì a fondare una comunità politica, quella di Plymouth, e, nel New England, numerose comunità nacquero da covenants e da agreements. Veniamo all'Inghilterra: il Bill of rights, che concluse la 'Gloriosa rivoluzione' del 1688-1689, se guardiamo al suo contenuto, più che una carta dei diritti dei cittadini inglesi fu un contratto bilaterale fra il populus e il rex, meglio fra il Parlamento, che rappresentava la nazione, e Guglielmo e Maria, un patto apparentemente di soggezione, perché diretto a ristabilire l'antica costituzione del regno.

Dai fatti passiamo alla teoria: uno dei campioni del contrattualismo inglese, John Locke, nel secondo dei suoi Treatises of government (scritti prima della Rivoluzione), postula un duplice contratto che, se violato, dà un diritto alla rivoluzione (l'antico diritto medievale alla resistenza) sia al parlamento contro il re, sia al popolo contro il parlamento, per ristabilire la legge fondamentale, dato che "la prima e fondamentale legge positiva" coincide con "la prima e fondamentale legge naturale" (§ 134). In Immanuel Kant (1724-1804) chiarissimo è il passaggio dal contrattualismo al costituzionalismo, soprattutto nelle opere Die Metaphysik der Sitten (1797) e Über den Gemeinspruch (1793). Per Kant è un dovere morale e giuridico uscire dallo stato di natura (mera ipotesi della ragione) per passare allo stato civile tramite il diritto pubblico: solo sul "contratto originario" può "essere fondata una costituzione civile e quindi universalmente giuridica fra gli uomini, e può essere istituito un ente comune". La legge naturale dal canto suo fonda un solo diritto fondamentale che è alla base della costituzione: "la libertà è l'unico diritto originario spettante a ogni uomo in forza della sua umanità".

Le moderne costituzioni scritte esprimono non più un patto di soggezione, pur contrattato, fra il rex e il populus, come si diede nell'Inghilterra del 16881689, ma un patto d'unione (un covenant o un agreement), in cui c'è solo il popolo come protagonista. Ma il termine 'popolo' assume - come vedremo - un significato diverso negli Stati Uniti e sul continente europeo. Resta comune però la consapevolezza (assente nella tradizione tedesca) che solo la costituzione consente l'unità politica del popolo, la sua rappresentatività.

Il potere costituente

Prima della rivoluzione democratica esistevano - non codificate - le leggi fondamentali: erano quasi sempre norme consuetudinarie, che avevano la loro legittimità proprio perché affondavano in un passato immemoriale ed erano state approbatae consensu utentium. Le nuove costituzioni scritte, dato che volevano segnare una cesura col passato, dovevano trovare una nuova fonte di legittimità. Come nasce una costituzione? Gli Inglesi, come Arthur Young (17411820), potevano ironizzare su una costituzione preparata a tavolino "come una torta secondo una ricetta", ma a loro sfuggiva completamente l'apparizione di un nuovo, vero potere sovrano, ignoto al passato: il potere costituente. Solo esso può esprimere una volontà più alta e più duratura di quella delle normali assemblee legislative. E questa è un'altra rottura con il passato, anche se nel potere costituente rivive un antico principio del diritto romano secondo il quale la lex est communis rei publicae sponsio (Dig., 1, 3, 1) o - per dirla in termini moderni - il populus è l'ultima e definitiva fonte dell'autorità. Ma, con il potere costituente, si aggiunge un altro elemento: la vera costituzione è solo quella fatta consapevolmente e, quindi, con l'esplicito mandato di fare una costituzione: essa, così, è il frutto di una decisione sovrana del popolo.

Gli Americani realizzarono la pratica del potere costituente, ma non ne ebbero la teoria, mentre i Francesi elaborarono la teoria, ma non la realizzarono in pratica. I diversi Stati americani, nello stendere le loro costituzioni, conobbero un progressivo affinamento giuridico, che culminò con la Costituzione del Massachusetts, che ebbe, per la stesura, una Convenzione ad hoc (cioè distinta dalla normale Assemblea legislativa) e poi un referendum popolare per la sua definitiva approvazione. La stessa Costituzione degli Stati Uniti d'America, stesa a Filadelfia, venne ratificata da convenzioni statali appositamente elette. Nel Federalist (nn. 49, 85) è chiarissima la consapevolezza di Alexander Hamilton (1757-1804) e di James Madison (1751-1836) che la "carta costituzionale, da cui i vari settori dello Stato derivano i propri poteri", trae la sua legittimità solo dal popolo e ogni emendamento richiede un'apposita convenzione, che esprime appunto il potere costituente. Chi ha meglio sintetizzato e definito questa esperienza è un radicale inglese, che partecipò prima alla Rivoluzione americana, poi a quella francese, Thomas Paine (1737-1809). Nei Rights of man (1791) il Paine chiarì il grande principio del costituzionalismo: "Una costituzione non è l'atto di un governo, ma l'atto di un popolo che crea un governo: un governo senza costituzione è un potere senza diritto"; "una costituzione è antecedente a un governo: e il governo è solo la creatura della costituzione". È chiara la distinzione fra potere costituente e poteri costituiti, subordinati alla costituzione.In Francia le cose procedettero diversamente, quasi per l'accavallarsi degli avvenimenti rivoluzionari. Gli Stati Generali, che esprimevano la società per ceti dell'antico regime, si trasformarono il 15 giugno del 1789 in Assemblea nazionale e il 9 luglio in Assemblea costituente: ma era un'assemblea che esprimeva sempre la vecchia società per ceti dell'antico regime e che non aveva certo avuto l'investitura - e quindi non poteva avere la legittimità - per essere una vera e propria costituente. La Convenzione del 21 settembre 1792, incaricata di stendere una nuova costituzione, esercitò insieme la funzione costituente e la funzione legislativa, in contrasto con i principî posti dalla Rivoluzione americana. Tuttavia la Costituzione giacobina del 1793 non entrò mai in vigore, dato che il 10 ottobre 1793 si instaurò con decreto un governo rivoluzionario (quindi una dittatura) sino alla pace.

Nelle Costituzioni americane e in quelle francesi del 1791 e del 1793 c'era, però, la consapevolezza che la costituzione fosse qualcosa di fondamentale: la costituzione aveva pertanto un valore più alto delle leggi ordinarie. Infatti la Costituzione degli Stati Uniti prevede una maggioranza qualificata dei due terzi di entrambe le Camere per procedere a emendamenti; ma il principio era già stato posto nelle Costituzioni dei singoli Stati: la Pennsylvania prevede un'apposita convenzione, il New York i due terzi delle Camere, il Massachusetts i due terzi degli elettori. Anche le Costituzioni francesi prevedono procedure di revisione assai complesse, forse troppo, per un eccessivo garantismo. La caratteristica delle Costituzioni francesi non è tanto un'assemblea di revisione, ma la lentezza della procedura: la richiesta di ben tre legislature. Così la Costituzione del 1791, mentre la Costituzione del 1793 si limita a una convenzione nazionale, promossa dalle Assemblee dei dipartimenti, e quella del 1795 a un'assemblea di revisione solo dopo 9 anni che i due rami del legislativo avessero concordemente ribadito la loro richiesta. Si deve notare questo, proprio perché in queste procedure di revisione risiede il carattere essenziale delle moderne costituzioni, quello di essere 'rigide' e non 'flessibili'.

La Francia, però, diede un contributo all'elaborazione teorica del concetto di potere costituente con l'abate Sieyès e con il marchese di Condorcet. Nel gennaio del 1789 Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836) pubblicò anonimo il famoso Qu'est-ce que le Tiers État?, dove - nella parte finale - era contenuta la distinzione fra 'potere costituente' e 'poteri costituiti', poi ripresa in tanti altri suoi scritti come la scoperta della scienza giuridica francese. Per Sieyès "la nazione è preesistente a tutto, è l'origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, è la legge stessa". Tramite la costituzione, che "non è opera del potere costituito, ma del potere costituente", si affida al potere legislativo "l'esercizio della volontà comune", "affinché il potere pubblico delegato non possa mai recare danno ai suoi committenti". La conclusione è simile a quella di Thomas Paine: "Il governo esercita un potere reale solo in quanto è costituzionale; esso è legittimo solo se rimane fedele alle leggi che gli sono state imposte. Alla volontà nazionale basta, invece, soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità".

Sulla stessa linea, cioè sulla distinzione fra sovranità del popolo e poteri costituiti, ma con un accento radicalmente democratico, si muove Marie-Jean marchese di Condorcet (1743-1794), in innumerevoli scritti e discorsi, lettere e inediti, con impagabile coerenza. Infatti egli afferma nell'Exposition des principes et des motifs du plan de la Constitution (1792) che "il popolo non delega tutti i suoi poteri, ma si riserva o ritiene tre diritti: 1) un diritto di veto o anche d'iniziativa per tutte le leggi; 2) il diritto di chiedere la revisione della costituzione; 3) il diritto assoluto d'accettare o rifiutare la costituzione" tramite un referendum costituzionale. Partendo dal potere costituente del popolo, separato dal potere legislativo, Condorcet individua altri due punti. In primo luogo la necessità di rivedere frequentemente - almeno ogni vent'anni - la costituzione attraverso un'apposita convenzione, dato che una costituzione eterna sarebbe soltanto una chimera: Thomas Jefferson (1743-1826) aveva avanzato lo stesso principio. In secondo luogo la necessità che ogni costituzione venga ratificata da un referendum popolare. Questo principio caratterizzerà nel futuro il costituzionalismo francese: infatti le Costituzioni del 1793 (a. I), del 1804, del 1852, del 1946 (anche il progetto poi bocciato), del 1958 previdero la finale approvazione del popolo. Questo referendum, però, ebbe talvolta - in misura diversa - una funzione plebiscitaria, di surrogazione dell'Assemblea costituente, come nel 1804, nel 1852 e nel 1958. È opportuno osservare che in tutti questi tre casi si trattava di rafforzare il potere esecutivo con un plebiscito, ma solo nel 1958 con de Gaulle la trasformazione del regime si diede in un quadro democratico.La Costituente divenne il grande mito dei democratici in periodi di tensione rivoluzionaria, come nel 1848 in Europa o nel 1918 in Russia, ma in Germania e in Austria, dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, divenne la strategia delle forze moderate contro il 'pericolo rosso'. Le due Assemblee costituenti diedero nuove Costituzioni repubblicane alla Germania nell'agosto del 1919 (detta di Weimar, città ove venne redatta) e all'Austria nell'ottobre del 1920. In questo dopoguerra, invece, pacifico e concorde fu il ricorso a un'Assemblea costituente per fondare un rinnovato assetto politico e sociale.

Le dichiarazioni dei diritti

Le costituzioni del Settecento erano brevi e asettiche: salvo un richiamo alla sovranità del popolo (o della nazione) contenevano norme che si riferivano all'organizzazione dei poteri (costituiti) dello Stato. La parte forte era rappresentata dalla 'Dichiarazione dei diritti' - secondo il testo della Virginia - mentre i Francesi aggiunsero 'dell'uomo e del cittadino'. Il titolo della dichiarazione americana è più inglese, ma il richiamo al Bill of rights del 1689 è solo indiretto, dato che questo ribadiva i diritti tradizionali del cittadino inglese, mentre quello virginiano affermava che "tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti, e possiedono certi diritti innati dei quali, all'atto di costituirsi in società, non possono per contratto privare se stessi né la propria posterità".Il 12 giugno 1776 una Convenzione proclamò in Virginia il Bill of rights: questo avvenne prima della Dichiarazione d'indipendenza, che si ebbe solo il 4 luglio, e della promulgazione della Costituzione che si diede il 29 giugno. Gli altri Stati (salvo la Pennsylvania) imitarono il testo della Virginia. In Francia gli Stati Generali, trasformatisi in Assemblea costituente, votarono, dopo un lungo e intenso lavoro preparatorio, la ben più famosa Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino il 26 agosto 1789, ma essa non ebbe, però, vita lunga: nel 1793 la discussione venne riaperta e il 29 maggio la Convenzione adottò la Dichiarazione girondina e il 23 giugno quella della Montagna.

A un primo rapido confronto fra il testo della Virginia e quello francese del 1789 notiamo subito così profonde somiglianze da poter sostenere che il fondamento filosofico delle dichiarazioni dei diritti è indubbiamente lo stesso: il giusnaturalismo, con il suo passaggio dal diritto (oggettivo) naturale ai diritti (soggettivi) naturali. Il massimo teorico dei diritti fu John Locke: per il filosofo inglese l'uomo nello stato di natura possiede tre diritti, alla vita, alla proprietà e alla libertà, ai quali, con il passaggio allo stato civile, non può rinunciare, e anzi il governo, istituito con il contratto, ha come principale funzione quella di garantirli. Se scaviamo a fondo nel testo di Locke ci accorgiamo però che, con la sua teoria dei diritti, egli non fa che razionalizzare e, quindi, dare una portata universalistica ai rights o alle libertates della common law.

La matrice teorica è comune e, dopo un primo rapido confronto fra la Dichiarazione della Virginia e quella francese del 1789, potremo notare profonde somiglianze, tanto da poter sostenere con Georg Jellinek, in Die Erklärung der Menschen- und Bürgerrechte (1895), la derivazione americana di quella francese, anche se c'è un diverso tessuto etico-politico, dato che le dichiarazioni americane maturarono in un clima religioso, e quelle francesi, invece, in un clima laico e deistico: nelle prime si parla del "nostro Creatore", di "Dio onnipotente", il quale ha dotato gli uomini di "diritti inalienabili", nelle seconde solo dell'"Essere supremo". Ma a un attento esame appariranno subito le differenze. Infatti le ex colonie americane, pur riprendendo il testo della Virginia, attenuarono subito il giusnaturalismo del suo Bill, specificando che si tratta dei diritti dei cittadini della colonia. Ci muoviamo ancora nell'orbita della common law, anche se razionalizzata attraverso John Locke, per difendere vecchi diritti e vecchie libertà calpestate dal Parlamento inglese.

Nella Dichiarazione francese, invece, in nome dei diritti "naturali, inalienabili e sacri", evidenti alla ragione, si conduce un processo a tutto il passato, nel quale aveva dominato "la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell'uomo". La nota giusnaturalistica, e quindi universalistica, è assai più forte, per cui non c'è soltanto il programma della distruzione dell'antico regime, ma anche il pericolo che, radicalizzando i principî della Dichiarazione, si potessero poi minacciare i governi, che dovevano concretizzare, limitandoli, questi diritti attraverso la legge (artt. 4, 10, 11). Tutti gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo possono "in ogni istante" essere giudicati in base alla Dichiarazione. Inoltre nelle Dichiarazioni del 1793 (in quella girondina del 29 maggio e ancor più in quella giacobina del 23 giugno) vengono introdotti in embrione nuovi diritti: si prevedono un diritto al lavoro, un diritto all'assistenza per chi non è in grado di lavorare (art. 21) e il diritto all'istruzione (art. 22), che apriranno la strada ai posteriori 'diritti sociali' a completamento dei 'diritti individuali'. Nelle costituzioni attuali tale trasformazione è assai chiara ed evidente: la costituzione non si limita più a offrire un libero spazio di competizione agli individui e alle associazioni, limitando i poteri del governo, ma diventa un progetto politico comune, assegnando una direttiva, un indirizzo al governo.

Inoltre, la Dichiarazione della Virginia afferma che tutti i "poteri" (non usa il termine 'sovranità') appartengono al "popolo" e da questo derivano; quella francese parla di "sovranità" e di "nazione" (art. 3). Qui è evidente l'influenza di Rousseau, perché si afferma che "la legge è l'espressione della volontà generale"; una volontà generale, però, alla cui formazione si può concorrere individualmente o attraverso rappresentanti (art. 6). Proprio per questa eredità rousseauiana, proprio per questa nostalgia della democrazia diretta nella formazione della volontà generale, i Francesi, da un lato, non s'accorgono come il concetto europeo o, meglio, continentale di sovranità contenga una carica assolutistica in grado di entrare in collisione proprio con i diritti del cittadino, e, dall'altro lato, sottovalutano la dimensione istituzionale della rappresentanza, mentre gli Americani, con John Adams (1735-1826) e con la sua Defence of the constitutions of government of the United States (1787), avevano esaltato il governo rappresentativo come la grande invenzione dei tempi moderni. Nel clima sempre più rivoluzionario si guardò al popolo depositario del potere sovrano, per scambiarlo poi facilmente con le minoranze intense e dinamiche che a Parigi parlavano e agivano in nome della Rivoluzione.Benjamin Constant (1767-1830), il grande teorico del costituzionalismo dell'età della Restaurazione, metterà a nudo questo intricato problema: nei Principes de politique (1815, I), poi ripubblicati nel Cours de politique constitutionnelle, egli afferma che "è falso che la Società intera possieda sui suoi membri una sovranità senza limiti". Infatti "l'universalità dei cittadini è il sovrano [solo] nel senso che nessun individuo, nessuna fazione, nessuna associazione particolare può arrogarsi la sovranità, se non è stata delegata. Ma non ne deriva che l'universalità dei cittadini, o coloro che da questa sono stati investiti della sovranità, possano disporre in maniera sovrana dell'esistenza degli individui".

Un altro punto chiave: l'uso dell'equivoco termine 'nazione', introdotto dal Sieyès, col quale si indicava sostanzialmente la borghesia; la Costituzione del 1791 introdurrà, infatti, un regime censitario. Nelle Dichiarazioni del 1793 si parlerà di "popolo" e la Costituzione del 1793 (a. I) introdurrà il suffragio universale, poi abbandonato con la Costituzione del 1795 (a. III). Ma la "nazione" del 1789 - o il "popolo" del 1793 (e poi il Volk tedesco) - essendo una e indivisibile, esprime sempre un'unità sostanziale e compatta (talvolta organica), non l'empirica volontà della maggioranza, ma l'assoluta volontà generale, per cui si condannarono i partiti e le fazioni. La Costituzione americana (in questo paese c'era un suffragio quasi universale) inizia invece non con la parola "popolo", ma con "Noi, il popolo", con "We, the People of the United States". Qui c'è una forte connotazione individualistica e pluralistica, e nel Federalist (nn. 10, 51), steso per far ratificare la Costituzione, James Madison rilevò che il pluralismo delle "fazioni" alla fine era funzionale alla libertà.La differenza più rilevante tra Francia e Stati Uniti consiste, però, nel rapporto fra la dichiarazione dei diritti e la costituzione: solo la Virginia ha una Dichiarazione separata dalla Costituzione, che verrà approvata pochi giorni dopo (il 29 giugno), mentre gli altri Stati presentarono un testo unitario. In America il peso della dichiarazione dei diritti diventa sempre minore rispetto alla costituzione, tanto che nella Costituzione degli Stati Uniti non c'è una dichiarazione dei diritti, che venne approvata solo in seguito con i primi dieci emendamenti. I diritti naturali fanno parte della costituzione e non possono essere a essa contrapposti: da principî ideali diventano diritti positivi, che la costituzione con la sua organizzazione del potere deve tutelare, perché sono norme più alte, che affondano le loro radici nel diritto naturale. Assai diverso è il percorso costituzionale della Francia. Alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 solo il 3 settembre 1791 seguì la Costituzione, con un pauroso vuoto costituzionale. Questa Costituzione poi fu un semplice compromesso fra la monarchia e l'Assemblea, che resse instabilmente sino al 10 agosto 1792 e alla conseguente proclamazione della Repubblica. La Costituzione giacobina del 24 giugno 1793, preceduta dalla Dichiarazione dei diritti girondina (29 maggio) e poi da quella giacobina (23 giugno), venne subito sospesa in base a un decreto, il quale stabiliva che il governo sarebbe stato rivoluzionario - e cioè extra-costituzionale - sino alla pace. Da ciò si può evincere che agli Americani interessava di più la costituzione, per limitare i poteri del governo rappresentativo; ai Francesi, invece, la dichiarazione dei diritti, che finiva per essere quasi uno strumento eversivo dei poteri costituiti, in mano al popolo deliberante.

Lo stesso Condorcet, che pur è uno dei maggiori teorici della Rivoluzione, non riesce a vedere nella costituzione la garanzia dei diritti e anzi li contrappone: nelle note a una traduzione del saggio di un americano (William Livingston) afferma che la costituzione "si trova in contraddizione con l'altro patto primordiale, fondamentale, più originario ancora, il quale, più o meno conosciuto, ma sempre conoscibile attraverso la ragione, dice che la libertà dell'uomo è inalienabile", per cui "non è necessario un patto per il popolo; non ne ha bisogno. I suoi diritti sono nella sua stessa esistenza". Questa svalutazione del costituzionalismo deriva dalla mentalità razionalistica e giusnaturalistica che porta a una sfiducia verso le leggi fondamentali, nella misura in cui esse possono essere in contrasto con 'i diritti naturali' dell'uomo, anteriori alle istituzioni politiche e sociali.

Questa contrapposizione fra diritti e costituzione non si darà più nel futuro: anzi, con la Costituzione dell'anno VIII (1799) scomparirà la famosa Déclaration, per apparire - solo come preambolo - in quelle del 1946 e del 1958, come si era già verificato con quella del 1848. La Déclaration è, così, integralmente costituzionalizzata, cioè incorporata nella Costituzione, perdendo quel carattere eversivo che ebbe nel 1789. In Francia i grandi diritti avevano ormai permeato la legislazione e il costume; in questo secolo l'Italia e la Germania, uscite dall'esperienza totalitaria, presentarono, in rottura con il passato, i diritti nei primi articoli delle loro Costituzioni, che per quella tedesca non possono essere oggetto di revisione costituzionale e sono, quindi, immodificabili (art. 79).

La separazione dei poteri

Il principio della separazione dei poteri è, forse, il più noto, dato che la Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 afferma - come principio rivoluzionario - che una società nella quale non è determinata la separazione dei poteri non ha affatto una costituzione (art. 16). In verità anche le società del passato (lontano e recente) e alcune società contemporanee avevano conosciuto o conoscevano diverse forme di separazione dei poteri. La più antica era quella teorizzata da Henry de Bracton (1216-1268) che distingueva fra la sfera del gubernaculum e quella della iurisdictio: nella prima il re agiva per il bene del paese in base soltanto al suo potere discrezionale di prerogativa e non era sottoposto a nessuno, se non a Dio; nella seconda, nel 'dire' la giustizia fra i suoi sudditi, era sottomesso alla legge. Ma qui, in realtà, la iurisdictio, più che rappresentare una divisione del potere, costituiva un limite al potere, subordinando il re al diritto. Da questo principio si svilupperà nei tempi moderni l'indipendenza e l'autonomia dei giudici, sottomessi soltanto al diritto, "leoni sotto il trono della legge". I giudici erano inizialmente solo la voce del re, al quale soltanto spettava il diritto di dire la giustizia, perché il sovrano era essenzialmente il sommo giudice, ma poi col tempo i magistrati ottennero l'inamovibilità, quando la formula del loro incarico si trasformò dal quamdiu nobis placuerit al quamdiu se bene gesserit con l'Act of settlement del 1701.

Successivamente in tutta Europa si erano sviluppate le assemblee di stati, che rappresentavano i grandi ceti del regno, le quali avevano il compito di votare e ripartire le imposte in base a due antichi principî: l'aforisma di Seneca nel De beneficiis, secondo il quale ad reges enim potestas omnium pertinet; ad singulos proprietas, e l'antico principio medievale, secondo il quale quod omnes tangit ab omnibus comprobari debet. Ancora: i Parlamenti francesi, che erano corti di giustizia, avevano il diritto di registrare gli editti del re per verificare se non fossero in contrasto con le leggi fondamentali del regno. Queste istituzioni in Francia erano state più o meno ibernate dall'assolutismo, ma erano ancor forti negli Stati tedeschi, dove lo Stato svolgeva compiti amministrativi, mentre in Inghilterra con le guerre civili il Parlamento aveva trasformato le sue funzioni, invadendo sempre più la sfera del gubernaculum.

I Francesi nel 1789 dettero una lettura oltremodo semplificata del capitolo VI dell'XI libro dell'Esprit des lois di Montesquieu (1689-1755): infatti si limitarono alle prime battute del capitolo, nelle quali veniva mostrato quanto fosse necessaria una separazione di "questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o giudicare le controversie dei privati". Montesquieu, fedele all'antica iurisdictio, teneva soprattutto all'indipendenza della funzione giudiziaria dal politico, come dimostrano le pagine che seguono questa affermazione, e tutto l'Esprit des lois. Ma quando poi passa all'esame della costituzione inglese, dove ricalca il pensiero del Bolingbroke, introduce un altro tema, strettamente funzionale alla separazione dei poteri: il tema del governo misto, visto in funzione dei checks and balances, dei pesi e dei contrappesi per realizzare un equilibrio costituzionale. "Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in un certo senso nullo. Ne restano dunque soltanto due, e, poiché hanno bisogno di un potere moderatore che li freni, sarà la parte del potere legislativo composta di nobili ad assolvere adeguatamente tale funzione". Inoltre il potere esecutivo partecipa al legislativo con la "facoltà di impedire": "Essendo il corpo legislativo diviso in due parti, l'una terrà a freno l'altra con la reciproca facoltà di impedire. Entrambe saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo".Il potere politico sembra imbrigliato, perché il suo esercizio è diviso; ma dallo spazio politico è eliminato - come in John Locke - il potere giudiziario, perché il suo solo compito sarebbe quello di applicare le leggi. Ma gli esiti sono assai diversi: in Francia, in omaggio alla separazione dei poteri, la legge del 16-24 agosto 1790 sull'organizzazione giudiziaria proibiva in modo assoluto ai giudici di interferire in qualsiasi modo sia con l'attività amministrativa che con quella legislativa, nei confronti delle quali il cittadino restava impotente. Non così in Inghilterra, dove i tribunali giudicavano gli atti amministrativi del governo, o in America (v. cap. 7), dove il potere giudiziario poteva sindacare la stessa costituzionalità delle leggi.

Da questa duplice lettura del testo di Montesquieu nascono nel Settecento due opposte tradizioni nel modo di pensare alla costituzione: una europea (o meglio continentale) e una americana.Il governo misto, più della separazione dei poteri, è la chiave per intendere gli sviluppi del costituzionalismo. L'ideale del governo misto, nato in Grecia e rilanciato in Italia dalla cultura politica rinascimentale, è il filo conduttore della storia costituzionale inglese dalla fine del Cinquecento a metà del Settecento. A formare la volontà del Parlamento c'era l'uno (il re), i pochi (la Camera dei lord temporali e spirituali) e i molti (la Camera dei comuni). Su questa linea si muove anche John Locke nel secondo Treatise of government (§§ 213 e 233), il quale assegna al re - che partecipa al supremo potere, quello legislativo - il potere esecutivo, cioè quello di eseguire sul piano amministrativo le leggi, il potere federativo, che riguarda la pace e la guerra, e una sfera ristretta di prerogativa (l'antico gubernaculum). È chiaramente affermato il principio della separazione dei poteri (ma non assoluta, perché il re partecipa al potere legislativo), ma non si parla ancora di un equilibrio costituzionale. Tuttavia la forza e il limite del governo consistevano nel fatto che esso dava rappresentanza alle classi del regno (la nobiltà, il clero e la borghesia) e presupponeva e consolidava un equilibrio sociale fra i suoi ceti, ciascuno dei quali aveva la sua rappresentanza. Al di sopra c'era il re, del quale però, dopo le guerre civili e la Gloriosa rivoluzione, si tese sempre più a restringere i poteri di prerogativa.

Quando Montesquieu lanciò o rilanciò per tutta Europa il mito del governo misto inglese si stava però realizzando in Inghilterra un'invisibile rivoluzione costituzionale, che intaccava proprio il principio della separazione dei poteri. Il premier o primo ministro era sempre stato un 'favorito' del re, in quanto titolare del potere esecutivo, ma pian piano, sia per il disinteresse della dinastia di Hannover, sia per la necessità di meglio armonizzare il potere legislativo e il potere esecutivo, per diventare premier era necessaria la fiducia della maggioranza della Camera dei comuni, che lentamente cominciò a divorare i poteri e le prerogative della Corona, che saranno sempre più esercitati dal premier. Si trattò soltanto di una prassi: nessun atto del Parlamento consacrò questa rivoluzione, che portò l'Inghilterra dalla monarchia dualista, in cui esisteva il principio della separazione dei poteri, al regime parlamentare, nel quale questa distinzione è molto attenuata per la continuità che esiste fra la maggioranza parlamentare e l'esecutivo che essa esprime: l'esecutivo è forte perché divenuto col tempo titolare di fatto dei diritti della Corona. Il premier è il nuovo king in parliament.

Anche gli Americani si ispirarono al governo misto d'Inghilterra. Si prenda The defence of the constitutions of government of the United States di John Adams, una delle maggiori opere teoriche che ci abbia dato la Rivoluzione, e si vedrà come le Costituzioni degli Stati americani siano perfette solo in quanto si avvicinano al modello inglese, dato che il governo misto corrisponde a una 'legge naturale' per i corpi politici che vogliano essere liberi. Ma nella sua costruzione costituzionale John Adams introduce un elemento rivoluzionario, che rompe la vecchia concezione del governo misto basato sulla struttura sociale cetuale: è la sovranità del popolo, per cui in America le cariche del primo magistrato (il presidente o il governatore) e dei senatori (la Camera alta) non sono ereditarie, ma sono tutte elettive. L'Adams fonde questa difesa del governo misto democratico con il principio della separazione dei poteri, principio a lui caro assieme a un terzo, quello della rappresentanza del popolo. L'idea madre del suo pensiero, che pur afferma la sovranità del popolo, non è la democrazia diretta, ritenuta forse possibile solo in un piccolo Stato, ma la repubblica. Il popolo resta la fonte di tutti i poteri costituiti, ma non li esercita direttamente se non in quello stato di eccezione in cui elegge un'assemblea costituente.

Se ripensiamo alla tesi dell'Adams, rileggendo la Costituzione degli Stati Uniti, si potrà cogliere lo spostamento di ottica del principio del governo misto e conseguentemente di quello della separazione dei poteri. In Inghilterra il governo misto inconsapevolmente servì a dividere la sovranità fra l'uno, i pochi e i molti; in America, invece, servì a dividere solo l'esercizio della sovranità fra diversi organi, per garantire il popolo dagli abusi della classe dirigente. Coniugando insieme il governo misto e la separazione dei poteri (intesa in modo non assoluto e dogmatico), abbiamo una distribuzione (alle volte intrecciata) delle diverse funzioni dello Stato fra i suoi diversi organi: la Presidenza, il Congresso (il Senato e la Camera dei deputati con funzioni distinte e con base elettorale diversa) e la Corte Suprema, un organo giudiziario che non si limita ad applicare la legge - come in Montesquieu - ma controlla la legalità costituzionale degli atti del potere legislativo. Così il mixed government diventa un balanced government, dato che in un sistema di checks and balances, di pesi e contrappesi, esso garantisce l'ordine politico, evitando i pericoli del dispotismo e dell'anarchia.In verità un osservatore attento come Alexis de Tocqueville (1805-1859) ritiene nella Démocratie en Amérique (I, II, 7) il governo misto essere una semplice "chimera", dato che c'è sempre un principio che domina sugli altri e in America il potere sociale superiore a tutti gli altri è quello del popolo, avvertendo però che l'onnipotenza è in sé cosa cattiva e pericolosa. Più recentemente nel nostro secolo Charles H. McIlwain, in Constitutionalism: ancient and modern (1940), muove una critica - diversa nella sostanza, ma eguale nel fine - al mixed government: a lui non piace il sistema dei checks and balances, perché serve solo a paralizzare l'esecutivo nell'espletamento delle sue legittime funzioni, mentre la democrazia ha bisogno di un governo forte e visibilmente responsabile (con governo forte non intende un ampliamento - come si è dato - dei suoi poteri). Il vero problema, per lui, sarebbe, invece, quello di porre dei limiti giuridici a questo potere, rafforzando i diritti dei cittadini e non gli organi muniti del potere di veto. Nella storia degli Stati Uniti non sempre però venne mantenuto il principio della separazione dei poteri con un esecutivo monocratico, dato che la bilancia del potere spesso oscillò dalla Presidenza al Congresso, per cui, in certe fasi storiche, si ebbe il 'congressional government', passando da un regime presidenziale a uno quasi parlamentare.

Torniamo sul continente europeo, che ha modi suoi peculiari di sviluppo politico, assai ritardato perché l'esigenza di democratizzazione e il bisogno di sostegno politico si fecero sentire con più lentezza. Sul lungo periodo possiamo rintracciare il lento passaggio dalla monarchia costituzionale o dualista, nella quale vigeva il rigido principio della separazione dei poteri per conservare al re la titolarità dell'esecutivo, al regime parlamentare, nel quale il re regna ma non governa. Il nodo di questo lento passaggio è ben individuato sul piano teorico da Benjamin Constant nei suoi Principes de politique, quando distingue fra potere reale e potere ministeriale: il primo è irresponsabile e neutro, il secondo è responsabile e attivo.Questa lenta evoluzione venne interrotta solo dalla rivoluzione europea del 1848, durante la quale si chiese un'assemblea costituente: solo la Francia ottenne una costituente, eletta a suffragio universale, e una nuova Costituzione, nella quale si stabiliva - per merito di Alexis de Tocqueville - un regime semipresidenziale, ponendo come ponte fra l'esecutivo e il legislativo un Consiglio dei ministri - scelto dal presidente - i quali dovevano controfirmare tutti i suoi atti ed erano responsabili di fronte all'Assemblea. Invece il mito della costituente negli Stati tedeschi, nell'Impero austro-ungarico e in Italia restò esigenza di ambienti democratici assai ristretti. I paesi tedeschi conservarono le antiche rappresentanze, il Landtag o Dieta, l'Impero austro-ungarico conobbe un periodo di assolutismo illuminato, mentre in Italia Carlo Alberto concesse uno Statuto il 4 marzo 1848, esteso poi nel 1861 a tutto il regno (e divenuto inoperante durante il regime fascista).

Nei paesi tedeschi il massimo teorico della separazione dei poteri (e della monarchia costituzionale) è stato Immanuel Kant, che la riprendeva dalla Costituzione francese del 1791, nella quale non c'era ombra di governo misto. Al Kant non interessava l'empirico, complesso e macchinoso equilibrio degli organi dello Stato. Nella sua Metaphysik der Sitten (1797) egli volle piuttosto cogliere nella loro particolare natura o 'dignità' le diverse funzioni dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario sono "condizioni essenziali della formazione dello Stato (della costituzione), derivanti necessariamente dall'idea di esso, sono dignità politiche". Per Kant questi tre poteri devono essere autonomi e indipendenti nella propria sfera - e quindi devono essere esercitati da persone distinte - e insieme coordinati in una reciproca subordinazione "così che uno non può usurpare le funzioni dell'altro". Per quanto astratto fosse il pensiero di Kant, esso, da un lato, risolveva sul piano teorico l'antico dualismo fra rex e populus nell'unità sintetica dello Stato. Dall'altro lato, con la sua triade o trinità giuridica data dalle leggi, dai decreti e dalle sentenze, in base ai quali operavano i tre poteri dello Stato, fondava lo Stato di diritto o Rechtsstaat. Secondo questa teoria, che domina la cultura tedesca nell'Ottocento, lo Stato persegue i suoi fini solo nelle forme del diritto e deve garantire ai cittadini la certezza delle loro libertà giuridiche; ma queste sono libertà sempre concesse dallo Stato, che così si autolimita. I diritti degli individui, teorizzati da Georg Jellinek nel suo System der subjektiven öffentlichen Rechte (1892), sono solo il frutto di una autolimitazione da parte dello Stato, non sono diritti naturali o costituzionali che si possano opporre al potere legislativo, come nello Stato costituzionale dei diritti, dove invece si limita il potere legislativo: il principio di legalità non coincide così con quello di costituzionalità.

Nel Rechtsstaat rimaneva aperto ancora un altro problema, risolto diversamente dai paesi in cui vigeva il rule of law. Lo Stato di diritto garantiva ai cittadini un magistrato imparziale, che giudicava in base alla legge nelle questioni di diritto privato e di diritto penale. Ma rispetto agli atti amministrativi dello Stato il cittadino rischiava di essere indifeso, non potendo esso ricorrere, come nei paesi di common law, al giudice ordinario. A risolvere il problema fu Rudolf von Gneist (1816-1895) in Der Rechtsstaat (1872): per controllare l'attività della pubblica amministrazione e la sua sottomissione alla legge, affermò l'esigenza di tribunali amministrativi sì, ma indipendenti, capaci di unire la competenza nell'affrontare i delicati e complessi problemi dell'amministrazione a una reale libertà di giudizio. La sua opera contribuì fortemente all'evoluzione della giurisprudenza amministrativa continentale. In questo dopoguerra la giustizia amministrativa ha avuto in Francia uno sviluppo assai importante: in una decisione del 1959 il Consiglio di Stato affermò che rientrava nei suoi poteri anche quello di controllare la costituzionalità dei regolamenti emanati dal potere esecutivo.

Più complessa, tortuosa e contraddittoria è la storia costituzionale francese in ordine al principio della separazione dei poteri, proclamato dalla Dichiarazione dei diritti del 1789 e sul quale si sono basate le Costituzioni del 1791, del 1795 (a. III) e del 1848: questo principio portò alla rivoluzione, come il 10 agosto 1792, o al colpo di Stato, come il 9 novembre (18 brumaio) 1799 e il 2 dicembre 1851. Dalla separazione assoluta dei poteri, quando esecutivo e legislativo sono fra loro nemici, deriva necessariamente - nei momenti di crisi - un cambiamento di regime; ma si può anche facilmente rilevare che nei periodi normali (e pensiamo anche agli Stati Uniti) porta talvolta a una situazione di paralisi e di stallo. D'altro canto sia il progetto girondino, sia la Costituzione giacobina (mai attuata) del 1793 (a. I), che non prevedono la separazione dei poteri, perché vogliono un esecutivo totalmente subordinato all'Assemblea e internamente diviso in quanto - seguendo Rousseau - esso dovrebbe soltanto eseguire, non ressero alla prova della guerra, cioè della 'politica' nel momento più acuto: il 10 ottobre 1793 si proclamò con un semplice decreto che il governo sarebbe stato rivoluzionario sino alla pace.

Su una durata più lunga possiamo riscontrare in Francia una diversa, ma simile oscillazione nel rapporto fra esecutivo e legislativo, fra un regime inizialmente semiparlamentare e poi parlamentare, previsto dalle Costituzioni del 1814-1815, del 1830, del 1875 e del 1946, e un regime presidenziale, come nella Costituzione del 1848 dove il presidente è capo del potere esecutivo, o - un secolo dopo - semipresidenziale, come nella Costituzione del 1958 (riveduta nel 1962) dove il presidente, pur non esercitando direttamente il potere esecutivo (il primo ministro, da lui nominato, deve ottenere la fiducia dell'Assemblea), sostanzialmente conserva la direzione dell'indirizzo politico.Torniamo al regime parlamentare, che sembrò la vera costante del costituzionalismo francese, soprattutto perché esso ebbe un grande teorico in Benjamin Constant, il cui concetto di 'garantismo' spesso venne e viene inteso come sinonimo di costituzionalismo. Si ricordi che il regime parlamentare nel 1814-1815 nacque sulla base del governo misto, come era nelle speranze dei monarchiens del 1789, poi si sviluppò con la Costituzione del 1830, e si affermò definitivamente con le Costituzioni repubblicane del 1875 e del 1946.

Garantista è, per Benjamin Constant, quella forma di governo che tutela al massimo i diritti fondamentali politici e civili dell'individuo sul piano costituzionale, cioè nell'organizzazione dei poteri dello Stato, i quali esistono solo in virtù della costituzione. Decisamente ostile all'interpretazione giacobina della volontà generale, tutto teso a tutelare una sfera di autonomia, non solo privata, per l'individuo, che lo Stato non può legalmente violare neanche in nome della sovranità, il Constant cerca di realizzare questa sovranità limitata ancora sul piano giuridico con la vecchia separazione dei poteri, anche se avverte che, quando questi poteri formano una coalizione, allora il dispotismo è ineluttabile. Ma la sua separazione dei poteri si presenta assai più complessa rispetto al passato, dato che il Constant è un teorico del governo parlamentare, dove il re regna, ma non governa: sempre nei Principes de politique (II) abbiamo, oltre ai consueti tre poteri, un 'potere neutro' (ma non del tutto passivo), che ha la sola funzione di sovrintendere affinché gli altri operino di concerto e in armonia, ciascuno nel proprio particolare ambito, eliminando e risolvendo i possibili scontri e conflitti, ma senza partecipare alle loro specifiche funzioni. Un potere che Constant affidava al re, ma di cui può benissimo essere investito il presidente della Repubblica, che non è un notaio, ma - secondo una moderna terminologia tecnica - è il 'custode della costituzione'.Il principio della separazione dei poteri incontrò, nella sua applicazione pratica, molte difficoltà: il vero pericolo era la tendenza del regime parlamentare a decadere in regime assembleare, vanificando ogni autonomia dell'esecutivo e distruggendo i residui contrappesi dati dal sistema dei checks and balances. Il regime assembleare è una realizzazione - in versione moderata e oligarchica - dei progetti francesi di Costituzione democratica del 1793: si sostiene in entrambi la centralità dell'Assemblea, perché diretta espressione del popolo. Ma quando la politica incombe, o l'esecutivo è costretto a riaffermare i diritti a una propria esistenza, a essere il centro di direzione politica, come in Francia nel 1958, o finisce per soccombere, come nell'Italia prefascista e nella Repubblica di Weimar, travolgendo le stesse istituzioni rappresentative. Le democrazie sono sempre crollate non per eccesso, ma per difetto di autorità. Per questo - fra le due guerre mondiali - per dare stabilità ed efficienza al potere esecutivo, il pensiero costituzionalistico si orientò verso il 'parlamentarismo razionalizzato'. Esso venne realizzato nella Repubblica Federale Tedesca (poi nell'attuale Repubblica spagnola): il cancelliere viene eletto, su proposta del presidente, dalla Dieta federale senza dibattiti e poi nominato dal presidente; i ministri, nominati dal cancelliere, sono responsabili solo nei suoi confronti e licenziabili ad nutum; la Dieta può votare nei confronti del cancelliere solo una sfiducia costruttiva, cioè indicando un successore che abbia la maggioranza nella Dieta stessa, sulla quale incombe sempre la minaccia di scioglimento.

Riassumendo e concludendo: vari e diversi sono i modi con cui si è realizzato il principio della separazione dei poteri, ma, se guardiamo oggi all'Inghilterra, agli Stati Uniti, alla Francia, alla Germania, alla Spagna, troveremo la grande lezione di un esecutivo monocratico e non collegiale, il solo che riesce a unire un reale potere con una visibile responsabilità.In questo capitolo, dedicato alla separazione dei poteri, è necessario accennare a un'altra separazione, non più orizzontale, ma verticale: alludiamo allo Stato federale. Esso non rappresenta certo una caratteristica essenziale del costituzionalismo, ma nasce - proprio negli Stati Uniti d'America - da una logica costituzionalistica. Qui la separazione dei poteri è assai più radicale: infatti nella concezione tradizionale si poteva parlare di una semplice ripartizione delle diverse funzioni dello Stato sovrano; nello Stato o, meglio, nel governo federale abbiamo una distribuzione dei poteri inclusi nella sovranità fra il centro e la periferia, per cui nessuno può dirsi vero sovrano, ma ciascuno può esercitare soltanto i poteri che la Costituzione gli affida, con la Corte Suprema garante dei rispettivi ambiti di competenza. Segnaliamo il federalismo soprattutto perché esso, come il costituzionalismo, resta inspiegabile partendo dal concetto (inteso in senso forte) di sovranità, secondo il quale "è impossibile che, in uno stesso Stato, possano esservi due Assemblee legislative indipendenti", come affermò in America nel 1773 il governatore inglese Hutchinson, per essere poco dopo smentito dai fatti.

La limitazione del potere

Il principio della separazione dei poteri è un principio meramente procedurale sul modo in cui il potere deve essere esercitato e, in quanto tale, non può impedire la formazione di un governo arbitrario: qualora ci sia concordia fra i diversi organi dello Stato, la volontà della maggioranza diventa onnipotente. Per questo la teoria costituzionalistica si è ispirata anche e soprattutto al principio medievale del governo limitato, piuttosto che a quello 'moderno' del governo misto, alla sovranità delle leggi (ora della costituzione) invece che alla separazione dei poteri. Il governo limitato dal diritto, l'antitesi fra il potere e la razionalità della legge, è, insieme, il più antico carattere del costituzionalismo e il più attuale per difenderci dalla mera forza. Mentre il principio della separazione dei poteri, alla fine, è tutto giocato sulla separazione (assai problematica) fra esecutivo e legislativo, il governo limitato valorizza al massimo, come contraltare del potere, la funzione giudiziaria, esclusiva interprete dei limiti giuridici della costituzione, di cui è la custode.

Il principio è medievale, basato sulla distinzione fra gubernaculum e iurisdictio, fra la sfera in cui il re può operare a sua insindacabile volontà, e quella in cui è sottomesso al diritto, è sub lege. Bisogna ora ricordare che nel Medioevo la legge era, in primo luogo, la legge di natura, che secondo John Fortescue "è la madre di tutte le leggi umane", in secondo luogo le consuetudini, che, come ricorda tutto il pensiero medievale, sono i mores a populo conservati o sono approbatae consensu utentium. In queste antiche consuetudini avevano le loro radici le leggi fondamentali, considerate come la costituzione del regno. La distinzione fra gubernaculum e iurisdictio era stata concettualizzata da Henry de Bracton, ma nel Medioevo non c'era un organo giudiziario che potesse rendere effettivo - e cioè giustiziabile - questo principio. C'era solo la resistenza al re che si ritenesse supra legem. Le cose si complicarono con l'affermazione dello Stato moderno e col nuovo principio di sovranità: il potere di fare e abrogare le leggi mise in crisi l'antico equilibrio fra gubernaculum e iurisdictio.

La scoperta e la concreta realizzazione dei mezzi per rendere efficace il principio del governo limitato è propria del costituzionalismo moderno: ha una lenta incubazione nell'Inghilterra del primo Seicento e la sua concreta attuazione in America nell'età della Rivoluzione. In Inghilterra il massimo esponente è un magistrato, sir Edward Coke: egli fu un deciso avversario del nuovo concetto di sovranità, un difensore della common law, nella quale vedeva "la perfezione della ragione" o la "summa ratio", la sola barriera contro il dispotismo; egli lottò così contro l'esercizio arbitrario della prerogativa da parte del re, come contro acts o leggi del Parlamento contrari alle leggi fondamentali, cioè alla common law. Nota è la sua massima nel Bonham's case, al quale si richiamarono poi gli Americani: "E risulta dai nostri libri che in molti casi la common law regola e controlla gli acts del Parlamento, e talvolta li giudica nulli e privi di efficacia: giacché quando un act del Parlamento è contrario al diritto e alla ragione comune, o ripugnante, o di impossibile attuazione, la common law lo controllerà, e lo giudicherà nullo e privo di efficacia". Questo principio non si radicherà in Inghilterra: anche John Locke, che pur non ritiene che "il potere supremo o legislativo di una società politica possa far ciò che vuole", che pur vede nel contratto (o nella costituzione) ciò che fonda l'autorità e limita così il governo, non riesce a trovare un'efficace tutela giuridica quando il potere politico viola il diritto; e tutto è rimandato - come nel Medioevo - all'appello al cielo, al giudizio di Dio, cioè alla rivoluzione, che, per quanto sia un diritto del popolo, non è certo un rimedio giuridico, perché basato sulla forza.

Il Bonham's case è diventato famoso soltanto perché venne recepito in America alla vigilia della Rivoluzione, quando si cominciò a lottare contro l'onnipotenza del Parlamento inglese. Nel 1761 James Otis (1725-1783) sostenne, in una causa contro i writs of assistance che avevano autorizzato perquisizioni domiciliari per rendere più efficaci le misure doganali, questa tesi: "Una legge contraria alla costituzione è nulla; una legge contraria all'equità naturale è nulla; se, in tal senso, dovesse essere fatta una legge del parlamento, essa sarebbe nulla. Il potere giudiziario dovrebbe far cadere in disuso tali leggi. La funzione della common law è di controllare una legge del parlamento". Questo principio divenne patrimonio comune della cultura giuridica prerivoluzionaria, e fu ripreso in innumerevoli pamphlets: citiamo - per tutti - la famosa Circular letter of Massachusetts del 1768, nella quale si afferma che "in tutti gli Stati liberi la costituzione è fissa, e l'organo legislativo supremo, poiché deriva il proprio potere e la propria autorità dalla costituzione, non può oltrepassarne i limiti senza distruggere le proprie fondamenta".

La Costituzione degli Stati Uniti non prevede espressamente la judicial review, il controllo di costituzionalità delle leggi, anche se l'art. 3 sezione II e l'art. 6 sezione II ne costituiscono il necessario presupposto. Tuttavia nel Federalist (n. 78), il classico che servì a fare approvare la Costituzione, Alexander Hamilton affermò con chiarezza il principio che è alla base del moderno costituzionalismo: "Una costituzione rigida richiede in modo particolarissimo che le corti di giustizia siano indipendenti in maniera assoluta. Per costituzione rigida intendo riferirmi a quel tipo di costituzione che prevede delle specifiche limitazioni al potere legislativo [...]. Le limitazioni di tal genere non possono in pratica ottenersi che facendo uso delle corti di giustizia, il cui compito sarà quello di dichiarare nulli gli atti contrari all'evidente intendimento della costituzione [...]. Le corti sono state designate a essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo legislativo, al fine di mantenere quest'ultimo nei limiti imposti al suo potere [...], in altre parole alla legge ordinaria si dovrà preferire la costituzione, ai voleri dei delegati del popolo quelli del popolo stesso".

È stata la giurisprudenza della Corte Suprema a dare corpo e realtà al principio della sindacabilità delle leggi attraverso il giudizio. Il merito va ascritto al suo presidente, John Marshall (1755-1835), che per ben 34 anni, dal 1801 al 1835, con mano ferma ne diresse i lavori. Nella causa Marbury vs. Madison del 1803 il Marshall affermò il dovere della Corte Suprema di sindacare le leggi del Congresso: negli Stati Uniti "i poteri del legislativo sono definiti e limitati; e, affinché questi limiti non possano essere male interpretati o dimenticati, la Costituzione è scritta [...]. È espresso compito e dovere del potere giudiziario dire qual è la legge. Coloro che applicano la regola ai casi particolari devono necessariamente esporre e interpretare questa regola. Se due leggi sono in contrasto fra loro, la corte deve determinare il campo di applicazione di ciascuna. Così, se una legge è in contrasto con la Costituzione [...], la corte deve determinare quale di queste regole in contrasto governa il caso. Questa è la vera essenza della funzione giudiziaria [...]. Se il potere legislativo cambiasse una norma costituzionale, il principio costituzionale deve cedere all'atto legislativo? Così la particolare fraseologia della Costituzione degli Stati Uniti conferma e rafforza il principio, che si suppone sia essenziale a tutte le costituzioni scritte, che una legge contraria alla Costituzione è nulla, e che le corti, come gli altri rami del governo, sono vincolati da questo strumento".

Hamilton e Marshall, con una logica trasparente, delineano i principî su cui si fonda il sindacato di costituzionalità delle leggi, un istituto capace di realizzare sul piano giuridico un'esigenza che, per primi, formularono i Greci, quella di un governo di leggi e non di uomini o del νόμοϚ βασιλεύϚ. Nel governo limitato dal diritto, più che nel governo diviso, si ravvisò la vera garanzia contro un governo autoritario o arbitrario; e ogni rafforzamento del potere esecutivo non faceva paura se, insieme, si rafforzavano i diritti dei cittadini in vista dei quali si era creata la judicial review.Si saldano qui tutti i caratteri del moderno costituzionalismo: una costituzione scritta e rigida, approvata dal popolo attraverso un'assemblea costituente e spesso ratificata da un referendum, in funzione dei diritti del cittadino. Si realizza un nuovo equilibrio - meno incerto e problematico - fra iurisdictio e gubernaculum, perché reso efficace sul piano giuridico dal potere giudiziario.

L'eclisse del costituzionalismo

Il costituzionalismo americano, nella complessità dei suoi elementi, non venne recepito nell'Europa ottocentesca. Le ragioni sono molteplici e diverse. In prima battuta si possono sottolineare due fatti: gli Stati Uniti erano lontani e il centro politico e culturale era ancora l'Europa, per cui ci si univa e divideva pensando all'Inghilterra e alla Francia. In secondo luogo i paesi europei erano tutti in una fase di transizione da un regime aristocratico-censitario a uno democratico, da un regime monarchico a uno repubblicano, mentre gli Americani pensarono la loro Costituzione per una repubblica democratica.

Vi sono anche ragioni più strettamente filosofiche: per gli Europei il concetto fondante era quello di sovranità, della sovranità del popolo o della sovranità dello Stato, per cui una naturale preminenza veniva data al potere legislativo. Una corte costituzionale, se funzionante, avrebbe solo realizzato un "governo di giudici", come affermò nel 1921 Eduard Lambert; tesi che poi ripeterà Carl Schmitt nel 1928 nella sua Verfassungslehre, quando disse che "la creazione di un simile custode della costituzione sarebbe in diretto contrasto con le massime politiche che si debbono trarre dal principio democratico", sarebbe "una rivolta contro il parlamento". Inoltre vi sono ragioni di carattere culturale. Nell'Ottocento con lo storicismo scompaiono quel giusnaturalismo e quel contrattualismo che erano stati l'humus in cui era radicato il moderno costituzionalismo. Particolarmente feroci contro la teoria dei diritti dell'uomo furono l'utilitarismo e il positivismo giuridico. Entrambe le teorie nacquero in Inghilterra, anche se in questo paese non ebbero una grande incidenza pratica per la resistenza della tradizione, del costume, della common law, ed esercitarono, invece, un forte influsso sul continente, determinando un clima sfavorevole ai diritti naturali e favorevole, invece, all'onnipotenza dello Stato o del popolo sovrano.

Jeremy Bentham ritiene che i diritti naturali siano delle pure astrazioni metafisiche o - per usare le sue parole - una "pomposa sciocchezza", perché i soli diritti vigenti sarebbero quelli posti dalle leggi dello Stato. Un'analoga critica è rivolta all'idea di giustizia, che sarebbe un semplice mascheramento ideologico dell'autentico principio che spinge gli uomini ad agire e domina le loro relazioni: il principio di utilità. Pertanto, vera regola della legislazione deve essere il principio della più grande felicità per il più grande numero di persone. Principio pericolosissimo, proprio perché in nome di questa felicità della maggioranza, può essere asservita la minoranza e possono essere calpestati i diritti dell'individuo (10 schiavi possono rendere felici 90 persone).

Più coerente e radicale è il suo discepolo, John Austin, il quale si riallaccia alla teoria settecentesca dell'onnipotenza del parlamento, secondo la quale il parlamento può fare tutto, salvo trasformare l'uomo in donna. Per Austin esiste un solo diritto, quello posto dallo Stato, cioè la legge. È solo il 'comando' di un ente sovrano attraverso la legge a creare il mondo del diritto, un diritto che la scienza giuridica deve solo descrivere, come esso effettivamente è, buono o cattivo, giusto o ingiusto che sia. Solo il diritto positivo posto dallo Stato è il vero diritto, che si deve accettare come legale e legittimo, e al quale si deve un'indiscussa obbedienza, perché - come si affermò poi in Germania - la legge è la legge. La teoria del positivismo giuridico di Austin eserciterà un'enorme influenza sulla scienza giuridica continentale.

Così statuti e costituzioni rappresentarono una scarsa difesa giuridica contro il pericolo di uno Stato autoritario o totalitario. Lo Stato di diritto garantiva il cittadino dagli abusi di potere da parte dell'esecutivo, cioè sul piano dell'amministrazione, ma non lo garantiva certo dal potere legislativo. Così la cieca accettazione delle leggi fatte dal ramo più democratico dello Stato, cioè dal potere legislativo, si concluse in un legalismo positivistico che aprì la strada alla dittatura e causò la fine della stessa legislatura rappresentativa. La via al totalitarismo passò attraverso il parlamento e non contro di esso. Mussolini, nominato primo ministro, ottenne la fiducia del Parlamento nel 1922, ma nel 1925 promosse quella legislazione fascista che sovvertì il sistema costituzionale previsto dallo Statuto. In Germania il periodo fu più breve, chiuso fra il gennaio del 1933, quando Hitler venne incaricato dal presidente Hindenburg di fare un governo nel quadro della Costituzione e basato su una maggioranza nel Reichstag, e il marzo del 1933, quando il Reichstag gli concesse i pieni poteri, anche in contrasto con la Costituzione. Infine, in Francia, Petain successe legalmente il 16 giugno del 1940 al primo ministro Reynaud e legalmente ottenne il 10 luglio dall'Assemblea, con 569 voti contro 80, i pieni poteri, compreso lo stesso potere costituente. La morale è sempre la stessa: i poteri concessi dal parlamento servirono poi a distruggerlo, perché non c'era una legge più alta, una costituzione rigida appunto, la cui violazione avrebbe simboleggiato la piena rottura dell'ordine costituzionale.

La riscoperta del costituzionalismo

La fine della seconda guerra mondiale segnò l'egemonia politica e culturale degli Stati Uniti e il tramonto della centralità europea. Ne è espressione la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, promulgata dall'ONU il 10 dicembre 1948, che aveva la sua lontana ispirazione nelle analoghe Carte del 1776 e del 1789. Per molti aspetti giuridici questo era un documento rivoluzionario: era infatti diretto a garantire i diritti degli individui anche contro i loro Stati, pur membri dell'ONU. La difficoltà s'incontrò nel rendere questi diritti giustiziabili, cioè nel dare a essi una vera tutela giuridica, per la resistenza opposta da moltissime nazioni gelose della propria sovranità, soprattutto da quelle che avevano regimi non democratici. Ma è un processo tuttora in corso che ha avuto una prima tappa fondamentale nell'Atto finale della Conferenza di Helsinki il 1° agosto 1975.

L'influsso del costituzionalismo americano fu, invece, fortissimo sulle nazioni uscite da regimi autoritari e totalitari. Per costituzionalismo - come si è visto - si intende l'esistenza di una costituzione scritta e rigida, contenente una dichiarazione dei diritti dell'uomo e soprattutto con una corte costituzionale che renda effettivi questi diritti. Su questa strada si sono incamminate l'Austria (1945), l'Italia (1948, ma la Corte è entrata in funzione solo nel 1955), la Repubblica Federale Tedesca (1949) e anche il Giappone (1947). Poi questo principio si è esteso alla Grecia (1975), al Portogallo (1976), alla Spagna (1978), ed è ormai diffuso nei cinque continenti. Ora si è espanso anche in alcuni paesi dell'Europa orientale, come la Polonia e l'Ungheria. Una posizione a parte occupa la Francia proprio per l'enorme peso della sua tradizione democratica, per cui c'è un controllo della costituzionalità delle leggi molto debole e molto politico: nella Costituzione del 1958 c'è un Conseil constitutionnel, ma il diritto di agire spetta solo al presidente della Repubblica, al primo ministro, ai presidenti delle due Camere, e in via preventiva, cioè prima della promulgazione della legge. Con l'emendamento costituzionale del 1974 il procedimento può essere iniziato anche da sessanta membri dell'una o dell'altra Camera, ma il diritto di iniziativa resta pur sempre in mano al potere politico, non al potere giudiziario. In fondo, si riprese in parte un'idea di Sieyès, legata alla distinzione fra potere costituente e poteri costituiti, idea attuata nella Costituzione del 1795 (a. III) con la Jurie constitutionnaire e in quella del 1799 (a. VIII) con il Sénat conservateur.Ma si è andati oltre: se le corti costituzionali operano all'interno e nell'ambito dei singoli Stati, in Europa è operante anche una giurisdizione sovranazionale delle libertà fondamentali, con la Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo, e con la Corte di giustizia delle Comunità Europee, con sede nel Lussemburgo. La prima, promossa dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, dà efficacia alla Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo del 4 novembre 1950; la seconda, promossa dalle tre Comunità Europee, sta realizzando uno ius commune, il diritto comunitario, superiore al diritto nazionale, controllando e, se necessario, abrogando le leggi nazionali. Questa giustizia transnazionale o sovranazionale è una nuova chiara espressione della crisi della sovranità, cioè del monopolio statuale della produzione del diritto e della giurisdizione.

I problemi, però, non sono scomparsi nella difficile ricerca di un equilibrio fra l'antico gubernaculum e l'antica iurisdictio, ora espressione di una legge razionale più alta e più duratura. Da un lato abbiamo le sempre più rapide e radicali trasformazioni economiche e sociali, ignote nel passato, che creano sacche di povertà, emarginazione di gruppi, alienazione degli individui rispetto alla società industriale e - non da ultimo - il plagio sistematico dovuto ai mass media, per cui bisognerebbe porre accanto al diritto dell'habeas corpus quello dell'habeas mentem. D'altro lato, le costituzioni settecentesche erano corte, le odierne lunghe, le prime erano asettiche, le odierne programmatiche, le antiche erano fredde, le moderne ideologiche. Questo deriva da una naturale trasformazione dello Stato da mero Stato giuridico a Stato sociale. Si può cogliere benissimo tale fenomeno nell'allargamento del catalogo dei diritti dell'individuo, che nel passato indicava solo i diritti civili e politici e quindi presupponeva un'astensione da parte dello Stato; ora, invece, si richiede dallo Stato un intervento attivo, perché si indicano i diritti sociali di libertà, per rendere effettiva l'eguaglianza. Così lo Stato assume nuovi compiti, che non sempre può mantenere, per realizzare il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale e alla protezione della salute, all'accesso all'educazione, alla cultura e all'assistenza giuridica nei processi. Nelle Costituzioni europee di questo dopoguerra, sulla scia di quella di Weimar, sono esplicitamente inseriti questi diritti, detti della 'seconda generazione', presi in attenta considerazione dalla giustizia costituzionale in nome del principio dell'eguaglianza. Questa è la vera novità del costituzionalismo di questo dopoguerra.

Non si deve però dimenticare che il mondo contemporaneo è dominato da sempre nuove affermazioni di diritti, i cosiddetti diritti della 'terza generazione', che spesso sono semplici rivendicazioni, perché ormai lo scontro politico si fa in nome dei diritti umani per meglio fondare aspirazioni e desideri. I diritti della terza generazione costituiscono una categoria assai eterogenea e contraddittoria: alcuni possono essere tutelati nell'ambito delle vigenti Costituzioni, perché il diritto alla salute può tutelare l'ambiente e il consumatore, mentre il diritto alla privacy e il diritto alla difesa del patrimonio genetico di ogni singolo individuo possono essere anch'essi tutelati in una interpretazione liberale delle norme della costituzione. Ma alcuni diritti sono generici e astratti, come i diritti di solidarietà o allo sviluppo e alla pace internazionale, ed esprimono mere esigenze, mentre altri negano radicalmente quel presupposto individualistico su cui si basano i diritti, perché vengono attribuiti al popolo, alla nazione, all'etnia (soprattutto quelle emigrate in Occidente, che vogliono mantenere intatte le loro tradizioni religiose e giuridiche). Infine, proprio sul terreno dei diritti umani, ci può essere uno scontro netto e radicale dovuto a opposte concezioni etiche: il diritto alla vita può servire a proibire l'aborto e l'eutanasia, come a consentirli in una concezione secolarizzata, che punti solo alla qualità (eudemonistica) della vita.

Torniamo al problema centrale, quello dell'attuazione giudiziaria dei diritti sociali, che comporta gravi difficoltà, che non s'incontrano nell'attuazione dei tradizionali diritti civili e politici della prima generazione. Il problema era già stato colto da Charles H. McIlwain, il pensatore da cui abbiamo preso le mosse, nel 1937, quando massima era la tensione fra il presidente Franklin Delano Roosevelt e la Corte Suprema: egli temeva che venisse meno "l'antica alleanza fra il riformatore sociale e il liberalcostituzionalista". Appariva, per lui, una nuova realtà: "Nel passato riformare gli abusi di solito voleva dire difendere i diritti individuali contro un potere dispotico. Strano a dirsi, ma riformare gli abusi ha oggi chiaramente acquistato, per la maggior parte dei riformatori, il significato di un aumento dei poteri del governo". Questa nuova realtà è il problema che oggi si trova di fronte la giustizia costituzionale.

Da parte di esponenti della cultura giuridica e politica di sinistra si è cominciato - in Italia - a sostenere il carattere non rigido della nostra Costituzione, che - come lo Statuto - potrebbe essere interpretata evolutivamente da parte dei partiti politici in modo più avanzato e progressivo: si dimentica però che la costituzione scritta e rigida è stata voluta proprio per limitare e tenere a freno non il popolo, ma la classe politica, le élites che agiscono in suo nome, pronte, in uno scambio politico, a concedere qualsiasi favore pur di ottenere il voto. Parimenti si è sostenuto il carattere non democratico degli organi di giustizia costituzionale rispetto all'Assemblea rappresentativa, ma la suprema corte interpreta soltanto un documento approvato da un'assemblea più alta di quella rappresentativa, l'Assemblea costituente, appunto. Nel variare della legislazione la Costituzione rappresenta un necessario punto fermo di riferimento, un ancoraggio alla stabilità.

Da parte opposta si è mostrata la possibile contraddizione insita nello Stato sociale di diritto, dovuta alla difficile coesistenza dei due termini che lo definiscono: lo Stato di diritto pone dei limiti e delle ben precise procedure a difesa della libertà e dei diritti per i singoli, mentre lo Stato sociale implica prestazioni dello Stato a favore di astratte forze sociali, per cui quei limiti e quelle procedure possono costituire un impaccio. La 'socialità' può anche andare a detrimento dell''individualità'. Ernst Forsthoff, un giurista che si è particolarmente soffermato sul Rechtsstaat im Wandel (1964), ha lucidamente mostrato come il concetto di Stato sociale, come fine politico, sia "una formula in bianco priva di contenuto", che consente al legislatore come al giudice la più ampia discrezionalità, senza rispetto degli antichi diritti individuali. Infatti, elevando lo Stato sociale a criterio d'interpretazione di tutta la costituzione e, in particolare, dei diritti fondamentali del cittadino, si finisce per interpretare quei diritti, posti come limite del potere, in base alla ragion di Stato del potere stesso, che decide sovranamente. Dagli Stati Uniti è venuta una forte rivendicazione dei diritti e oggi tutto il dibattito è incentrato su questo tema. Antesignano della svolta è Ronald Dworkin con il suo Taking rights seriously (1977): contro la policy, che sostiene la decisione della maggioranza o una procedura amministrativa o una decisione giudiziale in vista del bene della comunità, cioè che ragiona e decide nei termini della nuova ragion di Stato, quella del Welfare State, egli riafferma i 'principî' non contingenti, che riguardano i diritti dei cittadini, che per il legislatore, l'amministratore e il giudice debbono essere superiori agli obiettivi del Welfare State, perché non sono il frutto di una decisione meramente politica, ma sono in sé razionali. "Se lo Stato non prende i diritti sul serio - conclude Dworkin - allora non può neanche prendere il diritto sul serio".

Un'antitesi fra gubernaculum e iurisdictio che appare insanabile. Ma, forse, nelle sagge parole di John Marshall, il padre della judicial review, si può trovare una via di soluzione: "Una costituzione è progettata per i secoli a venire ed è destinata ad avvicinarsi all'immortalità, per quanto lo possono le umane istituzioni", essa è "destinata a durare per diverse generazioni" e, proprio per questo, "deve essere adattata alle crisi delle umane vicende". Su questa linea interpretativa nel 1905 un giudice della Corte Suprema, Oliver Wendell Holmes (1841-1935), in dissenso con l'opinione troppo legalistica della maggioranza della Corte, affermò: "Una legge è sempre costituzionale a meno che non si possa dire che un uomo equo e ragionevole ammetterebbe necessariamente che la legge proposta viola dei principî fondamentali, quali sono intesi dalle tradizioni del nostro popolo e della nostra legge". Alla tesi di Marshall e di Holmes si riallaccerà la posteriore dottrina con Louis D. Brandeis (1856-1941) e Felix Frankfurter (1882-1965). Il problema vero consiste nel modo in cui essi intendevano la funzione della Corte, cioè nel modo in cui adeguare i principî ai tempi. La funzione della Corte resta eminentemente giurisdizionale, dato che è la giurisdizione costituzionale della libertà: essa non è un organo politico, non 'crea' il diritto, non è un potere discrezionale, non impone arbitrarie decisioni, perché parte sempre da un dato normativo. Ma non lo deve interpretare in modo legalistico e formalistico per poi applicarlo meccanicamente. La Corte deve interpretare la norma costituzionale tenendo presente la qualità dei tempi, conciliare il principio di legalità con quello di equità e argomentare razionalmente la propria sentenza. Proprio come il giudice di common law, che cerca il precedente più adeguato al caso. Insomma il suo procedere è (o dovrebbe essere) del tutto simile a un law finding e non a un law making. Il costituzionalismo è oggi affidato - soprattutto - alla giurisprudenza delle Corti costituzionali, che attuano appunto la giustizia costituzionale. (V. anche Contrattualismo; Costituzionalità delle leggi, controllo di; Democrazia; Diritti dell'uomo; Giusnaturalismo e giuspositivismo; Liberalismo).

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