CREDO

Enciclopedia Italiana (1931)

CREDO

Umberto Fracassini

- Dalla parola con la quale principia, comunemente si dice Credo la formula di professione della fede cristiana, stabilita dalla Chiesa. Più propriamente però si dice simbolo: termine derivato dal linguaggio delle antiche religioni misteriche, dove si chiamava symbolum (dal gr. συμβολον), cioè signum, la formula che serviva come motto di riconoscimento tra gl'iniziati (cfr. Firmico Materno, De errore prof. rel., 18,1; Clemente Aless., Protrept., 2,15). Nel cristianesimo invece il simbolo è un compendio delle verità fondamentali della fede che il candidato deve recitare, in segno appunto della sua fede, prima di ricevere l'iniziazione o il battesimo; e, divenuto cristiano, lo deve ritenere come norma universale e assoluta (regula fidei o veritatis), alla quale conformare la propria fede individuale.

Presso la chiesa latina la formula di credo più breve e più in uso, cominciando dal rito del battesimo, è il simbolo che si dice apostolico, perché fin dal sec. V (cfr. Rufino, In symbolum apost., Grirolamo, Ad Pammachium) è stato creduto composto dai 12 apostoli, in 12 articoli. Ma poiché con l'andare del tempo crebbero le eresie, e quindi anche per reazione le definizioni dogmatiche, la professione di fede per far posto a queste dovette allargarsi: così ne è venuta la formula che si recita nella messa, ed è detta simbolo niceno-costantinopolitano, perché creduto derivare dai due concilî ecumenici di Nicea e di Costantinopoli. Ancora più esteso è il simbolo atanasiano (o Quicumque), il quale oggi è in uso soltanto nella recita del divino ufficio. Nei tempi moderni larghe aggiunte sono state fatte al credo, nella formula approvata da Pio IV per la professione di fede, nei casi in cui è richiesta dal diritto canonico.

Il simbolo apostolico. - La critica storica del credo comincia nel sec. XV con Lorenzo Valla, il quale per primo riconobbe infondata e leggendaria l'opinione che l'attribuiva agli apostoli. E difatti per provarlo basterebbe la grande varietà che, nonostante il fondo comune, presentavano nell'antichità cristiana le formule del simbolo la quale varietà non sarebbe stata possibile se si fosse conosciuta la formula fissata dagli apostoli; e quanto al nostro simbolo detto apostolico, nella sua forma precisa, è apparso per la prima volta nel sec. V, probabilmente nel mezzogiorno delle Gallie, e di lì si è diffuso, soprattutto per opera di Carlo Magno, in tutto l'occidente. In mezzo dunque a questa varietà di forme, di cui possediamo il testo nella grande collezione di A. Hahn e nella piccola di H. Lietzmann, la critica moderna ha dovuto distinguere e tracciare le correnti principali nel corso dei tempi, e per mezzo loro risalire il più vicino possibile alle origini: opera difficile, che, sebbene assai progredita, non ha ancora raggiunto il suo termine.

Secondo questo metodo, si è innanzi tutto distinto una forma orientale e una forma occidentale. Questa, anche in luoghi diversi e distanti, presentava una notevole uniformità, e si può facilmente ridurre, come a fonte comune, al simbolo in uso sulla fine del sec. II nella chiesa di Roma, in latino e in greco. La forma latina, traduzione della greca, suonava così: "Credo in Deum patrem omnipotentem. Et in Christum Iesum filium eius unicum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu Sancto et Maria Virgine, qui sub Pontio Pilato crucifixus est et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit in coelos, sedet ad dexteram patris, unde venturus est iudicare vivos et mortuos. Et in Spiritum Sanctum, sanctam ecclesiam, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem". Invece la formula orientale si distingueva per una grande varietà e maggiore complessità, provenienti principalmente dal riguardo avuto alle diverse eresie sorte nel sec. IV. Nessuna delle formule conosciute si può dire fonte delle altre; ma togliendo le parti proprie di ciascuna si può facilmente ristabilire, come ha fatto il Lietzmann, la forma fondamentale comune a tutte, della quale qui diamo la traduzione: Credo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore di tutte le cose visibili ed invisibili, e in un solo signore Gesù Cristo, figlio di Dio unigenito; il quale è stato generato dal Padre prima di tutti i secoli, per il cui mezzo tutte le cose sono state fatte, il quale per la nostra salute si è fatto uomo, ha patito ed è risorto il terzo giorno, ed è asceso ai cieli e di nuovo ritornerà a giudicare i vivi ed i morti. E nel Santo Spirito".

Dal confronto dei due simboli è facile vedere in che l'uno differisce dall'altro, e che cosa l'uno ha più dell'altro. L'orientale ha di più del romano il risalto dato all'unità tanto di Dio quanto del signore Gesù Cristo; la menzione della creazione, fatta da Dio per mezzo di Gesù Cristo, della generazione eterna di Gesù Cristo da Dio e della sua incarnazione (in complesso cioè l'identificazione di Gesù Cristo col Verbo divino incarnato). Il romano ha di più sull'orientale la generazione virginea di Gesù Cristo per opera dello Spirito Santo; la menzione espressa della crocifissione di Gesù Cristo sotto Ponzio Pilato, della sua sepoltura (presupposta dalla resurrezione) e della sua residenza alla destra del Padre; l'aggiunta all'articolo dello Spirito Santo delle sue opere principali, cioè la Chiesa, la remissione dei peccati (per il battesimo) e la resurrezione universale. Tanto quelle quanto queste sono, come si vede, cose della più alta importanza; onde è da credere che né il romano deliberatamente abbia tralasciato il di più dell'orientale, né l'orientale il di più del romano, ma che siano due composizioni indipendenti fra loro. Le affermazioni proprie del romano, tralasciate dall'orientale, sono credenze più semplici e popolari; mentre quelle proprie dell'orientale, mancanti nel romano, sono d'indole piuttosto teologica e oggetto di speculazione relativamente tarda, per il che si fa probabile che l'origine del romano sia anteriore a quella dell'orientale. Ma che l'orientale sia molto antico, e che sia stato anticamente conosciuto anche in Occidente e nella stessa Roma, è stato dimostrato dal Lietzmann con le testimonianze di Tertulliano, d'Ireneo e di Giustino.

Ora, se si astrae dalle differenze, rimane una larga base comune, la quale ci autorizza a concludere che i due simboli abbiano avuto origine, quando e dove non è più possibile dire, da una fonte antichissima comune; della quale tuttavia è possibile determinare i tratti caratteristici. Essa cioè si divideva, non in 12, ma semplicemente in 3 articoli, secondo la formula trinitaria del battesimo: Padre, Figlio e Spirito Santo (cfr. Matteo, XXVIII, 19). Inoltre, come meglio appare dal romano, ciascun articolo conteneva 3 titoli (in complesso 9); e cioè per la prima persona Deum patrem omnipotentem, per la seconda filium eius unicum dominum nostrum, e per la terza Spiritum Sanctum sanctam ecclesiam carnis resurrectionem. Il simbolo dunque originario era una professione di fede trinitaria, alla quale, come dimostra la forma più ampia del 2° articolo, è stata aggiunta una professione, originariamente distinta, di fede cristologica. Questa, in altri simboli antichissimi (cfr. Iren., Adv. haer., I, 10), si faceva semplicemente seguire alla prima; nel romano invece e nell'orientale è stata intercalata nel 2° articolo, per mezzo di qui... qui (in greco τόν... τόν), come spiegazione dei due titoli dati a Cristo di filium eius e dominum nostrum. Ora, donde proviene questa professione di fede cristologica? Secondo J. Haussleiter, essa pure sarebbe stata un simbolo battesimale, proprio dell'antica chiesa giudaico-cristiana dove il battesimo, secondo la testimonianza degli Atti e di S. Paolo, era amministrato nel nome di Cristo. Invece secondo H. Lietzmann proverrebbe dal rito dell'Eucaristia, cioè dalla preghiera eucaristica in cui originariamente, come appare soprattutto dalla Didaché, si ringraziava Dio per la salute apportata da Gesù Cristo.

In ultimo è da osservare che il simbolo orientale, col risalto che dà all'unità di Dio e del signore Gesù Cristo, ricorda chiaramente la professione di fede in S. Paolo (I Corinzî, VIII, 6), espressa col binomio: un solo Dio, il Padre... e un solo signore, Gesù Cristo; il che rende probabile che alla formula tripartita della professione di fede possa essere preceduta una formula bipartita, la quale infatti ricorre anche in altri documenti (I Timoteo, VI, 13; II Tim., IV,1; Iren., III,1,2;4, .1-2;16,6). Ma la formula bipartita dovette a sua volta essere preceduta da una formula ancor più semplice, consistente in un'unica proposizione: Gesù è il figlio di Dio (I Giovanni, IV, 15; Atti, VIII, 37, testo occidentale), la quale con l'aggiunta del titolo salvatore è stata poi simbolizzata e compendiata nel monogramma greco ΙΧΘΥΣ (= 'Ιησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Υἱὸς Σωτήρ). E finalmente questa semplice proposizione si può considerare come il primo sviluppo della semplicissima e primitiva acclamazione cristiana: κύριος 'Ιησοῦς (I Corinzî, XII, 3; Romani, X, 9).

Per concludere, il nostro credo non può essere identificato con un simbolo dettato dagli apostoli; ma nemmeno con la forma occidentale più antica che si conosca, il simbolo romano, al quale, oltre differenze di minor conto, aggiunge, per completare il numero di dodici, tre articoli: descendit ad inferos; sanctorum communionem; vitam aetemam.

Il simbolo niceno-costantinopolitano. - Nemmeno è del tutto giusta l'opinione che attribuisce la composizione del credo della messa ai concilî di Nicea e di Costantinopoli. Innanzi tutto perché non v'è un unico simbolo, fatto a Nicea nel 325 e completato a Costantinopoli nel 381; ma, come apparisce dal testo conservato negli atti del concilio di Calcedonia, si tratta di due simboli completamente distinti. E poi perché il credo della messa, se combina nella sostanza, differisce nei particolari tanto dall'uno quanto dall'altro.

Il concilio di Nicea ha modificato, con piccole dichiarazioni ed aggiunte, il simbolo orientale, per introdurvi il dogma da esso definito contro Ario, dell'identità di sostanza del Figlio col Padre. Nel secondo articolo dunque ha aggiunto: generato dal Padre... cioè dalla sostanza del Padre... Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consustanziale (ὁμοούσις) col Padre.

Il simbolo di Costantinopoli è il medesimo che S. Epifanio riferisce alla fine del suo Anchoratus (118, 9-13), usato, come egli dice, in tutta la Chiesa, perché venga recitato, insieme con un altro simbolo che fa seguire al primo, dai catecumeni. Ora, poiché detta opera fu scritta, come lo scrittore stesso c'informa, nel 374, ben 7 anni avanti la celebrazione del concilio, il Hort (in Two Dissertations, 18), il Harnack (in Realencyklop. f. prot. Theol., XI, 12-28) e molti altri sostengono che il simbolo non è stato composto dal concilio; ma, di già esistente e usato nella chiesa di Salamina in Cipro, verso la fine del sec. IV, sarebbe stato ricevuto nella liturgia della chiesa di Costantinopoli, dalla quale poi, specialmente per opera del concilio di Calcedonia nel 451, si sarebbe diffuso un po' alla volta in tutto l'Oriente; quindi, dopo la restaurazione del dominio bizantino in Italia per opera di Giustiniano, si sarebbe anche introdotto, cacciando l'antico simbolo romano, negli usi della chiesa di Roma. Sennonché, le basi di questa ricostruzione storica sono state scosse da Ed. Schwartz, il quale con alla mano gli atti del concilio di Calcedonia, ha dimostrato la solida fondatezza della contraria opinione tradizionale, che cioè il concilio di Costantinopoli del 381 ha realmente compilato un proprio simbolo, non però da sostituire a quello di Nicea, ma perché l'uno e l'altro godessero della medesima autorità nella Chiesa e nell'Impero.

Il simbolo atanasiano. - Sorta la disputa tra greci e latini sulla processione dello Spirito Santo dal Figlio, per opera del concilio di Toledo nel 589, nel simbolo costantinopolitano a ex Patre fu aggiunto Filioque. La medesima aggiunta si trova nel simbolo, detto dalla parola onde comincia, Quicumque, che è un'esposizione della fede cattolica sulla Trinità e sulla cristologia, in 40 proposizioni ritmiche. Si dice anche simbolo atanasiano, perché fu ritenuto fino dall'antichità (sinodo di Autun del 670) come opera di S. Atanasio, sebbene la sua composizione originaria in latino dimostri evidentemente il contrario. La sua vera origine è incerta; tra i critici moderni, chi l'attribuisce a S. Ambrogio (Brewer), chi a un monaco della Gallia meridionale (Kattenbusch, Burn), chi a un teologo spagnolo nella controversia contro Priscilliano (Künstle), chi a Cesario di Arles (Morin) e chi a Fulgenzio di Ruspe (Stiglmayr). Nella Chiesa non ha mai avuto largo uso e grande importanza, sebbene dagli scolastici sia stato equiparato al simbolo apostolico e al simbolo niceno-costantinopolitano.

Bibl.: A. Hahn, Bibliothek der Symbole und Glaubensregeln der alten Kirche, 1842, 3ª ed. di L. Hahn, Breslavia 1897; H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, ecc., 15ª ed. per C. Bannwart, Friburgo in B. 1922; H. Lietzmann, Symbole der alten Kirche, Bonn 1914; F. Kattenbusch, Das apostolische Symbol, voll. 2, Lipsia 1894-1900; F. Loofs, Symbolik der christliche Konfessionskunde, Tubinga 1902; A.C. Burn, Introd. to the creeds, Londra 1899; P. Batiffol, e A. Vacant, in Dict. de théol. cath., I, ii, s. v. Apôtres, Le Symbole des; K. Holl, A. v. Harnack, H. Lietzmann, in Sitzungsberichte d. Akademie d. Wiss. zu Berlin, 1919, pp. 2 segg., 112 segg., 269 segg.; H. Lietzmann, Die Anfänge des Glaubensbekenntnisses, in Festgabe f. Harnack, Tubinga 1921; J. Haussleiter, Trinitarischer Glaube und Christubekenntnis in der alten Kirche, Gütersloh 1920; P. Feine, Die Gestalt des apost. Glaubensbekenntnisses in der Zeit des N. T., Lipsia 1925; H. Lietzmann, Symbolstudien, in Zeitschrift f. neutest. Wissenschaft, 1922, 1923, 1925; H. Lietzmann, Sumbolstudien, in Zeitschrift f. neutest. Wissenschaft, 1922, 1923, 1925; F. I. A. Hort, Two Dissertations, Cambridge 1876; A. v. Harnack, Konstantinopolitanisches Symbol, in Realencyklop. für prot. Theol., 1902, XI, pp. 12-28; E. Schwartz, Das Nicaenum und das Constant. auf der Synode von Chalkedon, in Zeitschr. f. d. neutest. Wiss., 1926; F. Loofs, Athanasianum, in Realencykl. f. prot. Theol., II, p. 177 segg.; H. Brewer, Das sog. athanasianische Glaubensbekenntnis, Paderborn 1909; G. Morin, in Revue bénédictine, 1911, p. 417 segg.; K. Künstle, Antipriscilliana, Friburgo in B. 1905.

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