Critica e pubblico

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Catalani

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il critico teatrale nasce nel Settecento ma compie la propria parabola nel Novecento. Di volta in volta rappresentante del pubblico, giudice severo, voce militante che dialoga con gli artisti e con le loro concezioni, questa figura entra in crisi nella seconda metà del XX secolo con l’esplosione del Nuovo teatro e con la trasformazione dei mezzi di informazione. Deve inventare sempre nuovi spazi per esercitare la propria opera di analisi e di testimonianza, in equilibrio instabile tra le mutazioni dello spettacolo, le richieste di uno spettatore maggiormente consapevole, le ristrutturazioni dei mass media, il diverso ruolo degli artisti.

La crisi novecentesca

Oscar Wilde

L’inutilità della critica d’arte

Il critico come artista

ERNEST Sei proprio incorreggibile. Ma parlando sul serio, a che serve la critica d’arte? Perché non si può lasciare in pace l’artista, a creare un mondo nuovo se ne ha voglia, o nel caso contrario, ad adombrare il mondo che conosciamo già, e del quale immagino ci stancheremmo tutti se l’Arte con il suo bello spirito di scelta e delicato istinto selettivo non ce lo purificasse, per così dire, conferendogli una momentanea perfezione? A me sembra che la fantasia si diffonda, o almeno dovrebbe diffondersi, intorno una solitudine, e che operi meglio nel silenzio e nell’isolamento. Perché l’artista dovrebb’essere disturbato dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che non possono creare dovrebbero arrogarsi la valutazione dell’opera creativa? Che possono saperne? Se l’opera di un uomo è facile da capire, la spiegazione è superflua...

GILBERT E se è incomprensibile, spiegarla è una cattiveria.

Oscar Wilde, Il critico come artista, in Opere, a cura di M. D’Amico, Milano, Mondadori, 1979

Il critico teatrale nasce in Inghilterra agli inizi del Settecento, sulle colonne di "The Tatler" di Richard Steele e di "The Spectator" di Joseph Addison. Si afferma nell’Ottocento soprattutto in Inghilterra e in Francia, con lo sviluppo della stampa periodica. Illuminano la sua crescita turbinosa il Lucien de Rubempré di Illusioni perdute, di Honoré de Balzac, e le considerazioni di Oscar Wilde ne Il critico come artista (1890). In Italia muove i primi passi più consapevoli nella seconda metà del XIX secolo, sempre legato perlopiù alla cronaca impressionista, al colore locale o localistico. Ma è nel Novecento che propriamente si compie la sua parabola: il critico si presenta di volta in volta come giudice severo, come propugnatore di un nuovo teatro, come censore della scena commerciale o come difensore a oltranza della norma della tradizione e del "buon gusto" borghese, come raffinato letterato prestato all’analisi di un’attività effimera o come voce militante che dialoga con gli artisti e con le loro concezioni, come rappresentante avvertito del pubblico o come garante culturale di una determinata tendenza artistica.

Nel Novecento si consuma anche la sua crisi, parola che gli è quanto mai congeniale, contenuta nella radice del suo stesso appellativo. Il crinale che deve tracciare, le scelte che deve compiere, come impone il verbo greco krínein, diventano limiti e problemi in un secolo che moltiplica i punti di vista e sfuma i confini delle certezze epistemologiche e interpretative. Il teatro nel Novecento perde progressivamente il suo ruolo di forma di spettacolo principale, scalzato da altre modalità di rappresentazione e di intrattenimento. Smarrisce, inoltre, la peculiarità di rituale con regole univoche e ben definite, esplodendo in una molteplicità di "teatri", diversi per modi di operare, per poetiche, per pubblico, per scopi e risultati. Il giornale, la rivista e perfino il libro vengono accostati e poi sostituiti da altri strumenti di comunicazione sempre più veloci e, almeno apparentemente, più interattivi.

Il critico dichiara esplicitamente la sua crisi già negli anni Sessanta, incalzato dalle trasformazioni dei supporti sui quali si è espletata fino ad allora la sua attività e da quelle dell’oggetto da guardare. Si sente – come disse Roberto de Monticelli – rinchiuso in un ghetto asfittico, altrettanto distante da chi fa teatro, dai giornalisti e dai letterati puri, lontano dal ruolo di avvertito mediatore culturale tra il pubblico, l’opera e l’interprete cui vorrebbe assolvere, operatore di un’informazione sempre più orientata verso lo sguardo veloce e accattivante, sensazionalista più che approfondito. Ma a ben guardarla, la crisi non è un salto nel nulla: è una trasformazione che verrà attraversata con dubbi, resistenze, coraggio, dolore, secondo i casi personali, generando rinunce ma anche propiziando invenzioni.

Giovani critici cercano modi e strumenti originali per descrivere un mondo artistico in sommovimento. Gli anni del Living Theatre, di Grotowski, di Barba, di Kantor, di Carmelo Bene, di Ronconi, del nuovo teatro americano, del teatro di strada, dell’animazione, del teatro fuori dei teatri verso i manicomi, le carceri, i quartieri, sono anche i tempi di riviste agguerrite e anticipatrici, come "Sipario" nel periodo in cui è caporedattore Franco Quadri (negli anni che vanno dal 1962 al 1969), come "Teatro" (1967-1971) e poi "La scrittura scenica" (1971-1983) diretti da Giuseppe Bartolucci, come "Scena" (1976-1982) sotto la guida prima di Antonio Attisani e in seguito di Goffredo Fofi. Importante diventa il ruolo di registrazione e stimolo di un annuario come "Il Patalogo", pubblicato dalla Ubulibri di Quadri dal 1979, raccolta di materiali sugli spettacoli della stagione e di saggi che segnalano fenomeni, problemi e tendenze.

Gli anni Ottanta segnano una parentesi di riflusso e di stagnazione. Bisognerà aspettare la metà del decennio successivo per assistere a una rinascita, con giovani gruppi che incrociano i linguaggi mettendo a confronto il corpo con immagini e sonorità, esplorando concezioni filosofiche e sociali più o meno apocalittiche, connettendo la danza, il video, il teatro. Parallelamente cambiano orientamento riviste come "Hystrio" e ne vengono inventate altre, su carta o su internet ("Art’o", "www.tuttoteatro.com", "www.ateatro.it"); si aprono spazi autoprodotti di informazione e di approfondimento dove esplorare diversi modi di guardare la scena e una scrittura multimediale.

La recensione va ulteriormente in crisi, minata da qual "re" e da quel "censore" che contiene, che evocano lo sguardo severo del giudice, del sovrano, di colui che possiede un’unica verità e un unico modo per indirizzare, per governare. Si tratta piuttosto di fare, di agitare "cultura teatrale", di fiancheggiare, incalzare, capire gli artisti e il movimento reale del teatro. Lo sguardo sullo spettacolo si incrocia con quello sui processi e sulle strutture di produzione, inserisce la creazione scenica nel sistema delle arti e della società, cerca la dichiarazione diretta dell’artista, la discute, la mette a confronto. Diventa molto di più della breve presentazione o dell’intervista promozionale alle quali sembrano condannati i quotidiani, che riducono via via lo spazio di indirizzo e di segnalazione a rubriche settimanali, specie di ghetti dove vengono sintetizzati in poche righe gli sguardi sui più importanti spettacoli della settimana, con eventuale corredo di faccine tristi o sorridenti o di pallini per la valutazione.

Il nuovo critico, figura definita "impura" o "mutante", diventa compagno di strada, studioso, testimone, ma si trasforma anche in organizzatore di rassegne, promotore di tendenze, aprendo nuovi problemi circa l’oggettività o la soggettività del suo sguardo, circa lo "sporcarsi le mani" con quello che dovrebbe essere il suo oggetto d’indagine. Ma, lo sappiamo dalle scienze naturali e antropologiche, l’osservazione muta insieme l’osservatore e l’oggetto osservato, e l’oggettività è spesso una maschera per occultare una scelta di campo propugnata come l’unica possibile.

Il critico, nel tardo Novecento, deve difendere uno spazio, progettarne di nuovi, inventare la sua stessa attività.

Critica e regia

Ma forse è stato sempre così. Mentre il cronista diventa sempre più analista, applicando il suo sguardo oltre che al testo e ai dati di costume anche all’attore, alle messe in scena e, qualche volta, ai problemi di organizzazione ed economia dello spettacolo, già agli albori del secolo osserviamo alcuni critici che lottano contro il teatro accademico o di evasione. Tra di loro compaiono i nomi di registi sperimentatori: Jacques Copeau, prima di fondare il Vieux Colombier, è critico per "La Nouvelle Revue Française"; Edward Gordon Craig affianca per una ventina d’anni alle sue battaglie sulla scena la pubblicazione di "The Mask". Così lo Studio di Mejerchol’d a Pietroburgo, oltre a lavorare per formare nuovi attori, prova a far nascere diversi sguardi con la rivista "L’amore delle tre melarance". La regia legittima la propria opera di reinterpretazione dei testi drammatici ripercorrendo la storia del teatro del passato, descrivendo il teatro presente o polemizzando con esso, in proprio o con l’ausilio di critici solidali.

Anche in Italia alcuni osservatori passano a proporre progetti di riforma della scena. Altri ancora sviluppano attraverso le critiche teatrali una battaglia culturale più ampia, per un rinnovamento della cultura e della società. Tra i primi ricordiamo Edoardo Boutet e Silvio d’Amico, diversamente impegnati contro la cultura approssimativa delle compagnie capocomicali. Boutet affianca all’attività di critico quella di organizzatore, fondando la prima compagnia stabile italiana, quella del Teatro Argentina di Roma (1905-1908); Silvio d’Amico lotta per un teatro basato su messe in scena rigorose di testi d’autore, contro le improvvisazioni e le guitterie di attori senza preparazione. Accanto a una costante attività di critico e di cronista militante, sviluppa una riflessione storica che produsse vari importanti volumi (tra tutti va ricordata la Storia del teatro drammatico, pubblicata nel 1939-1940, ma anche la straordinaria impresa collettiva degli 11 volumi dell’Enciclopedia dello spettacolo, 1954-1968, da lui promossa) ed è nel 1935 il fondatore dell’Accademia d’Arte Drammatica, prima scuola per formare un interprete più responsabile.

Fra i critici che dall’osservatorio del teatro propugnano e sviluppano una riflessione culturale, sociale e politica, ricordiamo Antonio Gramsci e Piero Gobetti. Negli stessi anni, tra la prima guerra mondiale e l’ascesa del fascismo, Adriano Tilgher afferma che il critico deve valutare le opere teatrali in relazione alla loro capacità di affrontare "il problema centrale" di un’epoca e di una società. In questa direzione si schiera decisamente per il teatro pirandelliano che, come nessun altro, secondo lui, comprende e interpreta lo scontro tra la vita e la forma proprio di un’età di trasformazione e di crisi del soggetto.

Le recensioni sui quotidiani e sulle riviste

La critica italiana della prima metà del Novecento si batte per un teatro rigorosamente basato sul testo drammatico. Le recensioni hanno una struttura comunemente fissa: analisi accurata del dramma, contestualizzato nel tempo, nell’opera dell’autore, nelle tendenze artistiche coeve, con brillante e dettagliato riassunto della trama e qualche magra notazione conclusiva sullo spettacolo, riguardante soprattutto la prestazione degli attori. Questo schema è determinato anche dai tempi della stampa quotidiana. L’articolo deve uscire il giorno dopo la prima rappresentazione: viene in genere abbozzato già prima dello spettacolo (si basa principalmente sul testo) e completato in redazione velocemente di notte (i giornali andavano in stampa molto più tardi di quanto non avvenga oggi), con l’assillo della fretta che mettono redattori e tipografi. Solo per le edizioni del pomeriggio si può ampliare lievemente il discorso sullo spettacolo vero e proprio.

Questo sistema viene messo in discussione quando anche da noi, nel secondo dopoguerra, in ritardo rispetto al resto d’Europa, si afferma la regia. Lo spettacolo diventa opera altrettanto importante del testo e il regista un autore più o meno alla pari di quello della parte letteraria. Si coglie nelle cronache dell’epoca il rammarico per non avere il tempo di descrivere appropriatamente la messa in scena.

Naturalmente altri modelli di critica, e altri sguardi, sono presenti e possibili. Sui quotidiani, le terze pagine accolgono servizi più articolati e meditati. Settimanali come "Il mondo", "L’Espresso", "Panorama", "L’Europeo" negli anni Sessanta e Settanta ospitano ampie recensioni, con tempi di riflessione ed elaborazione più ampi di quelli concessi dai quotidiani. Al critico di professione, spesso proveniente dal giornalismo, si affiancano vari "avventizi", perlopiù scrittori, come Ennio Flaiano, folgorante nelle sue cronache apparentemente divaganti, e molti altri, con esiti differenti: ricordiamo, lungo tutto il Novecento, Alberto Savinio, Corrado Alvaro, Alberto Arbasino, Vincenzo Cardarelli, Carlo Emilio Gadda, Cesare Garboli, Salvatore Quasimodo, Angelo Maria Ripellino, fino a Franco Cordelli, Luca Doninelli, Giovanni Raboni. Ma anche registi o organizzatori praticheranno, magari per brevi periodi, la critica, come a Milano nell’immediato dopoguerra Giorgio Strehler e Paolo Grassi, quasi preparando la strada per il loro teatro. Alcuni intellettuali passeranno più volte da un campo all’altro, come Gerardo Guerrieri, regista, studioso, organizzatore culturale, sceneggiatore, sodale, negli anni della ricostruzione, di Ruggero Jacobbi e Vito Pandolfi, altre personalità aperte a molteplici esperienze teatrali e culturali.

Le riviste specializzate consentono sguardi più approfonditi, anticipano testi e tendenze, corredano i servizi di immagini, scandagliano pratiche e poetiche con inchieste e interviste. Nella Francia del dopoguerra una pattuglia di critici d’eccezione affila le armi su un periodico come "Théâtre Populaire" (1953-1964), affiancando il progetto di Jean Vilar per un nuovo teatro e per un nuovo pubblico, battagliando sul repertorio ma anche sull’accesso delle classi popolari al teatro, seguendo e discutendo l’idea di una scena strettamente legata alla comunità del suo pubblico. Alcuni di loro, come Roland Barthes, abbandoneranno l’analisi del teatro per dedicarsi a differenti campi di esercizio dello sguardo; altri, come Bernard Dort, si trasformeranno in studiosi attenti a interpretare le trasformazioni sociali ed estetiche dell’arte scenica, inventando, dopo la chiusura della rivista, diversi strumenti di indagine.

Risvegliare il pigro borghese

La regia e la necessità di rendere conto di prodotti artistici più compositi, insieme alla ristrutturazione dei tempi di lavoro della stampa quotidiana, impongono di ritardare di un giorno l’uscita delle recensioni. Ormai lo spettacolo del regista è un altro "testo" rispetto a quello dell’autore. Le cose si complicano ulteriormente con l’esplosione del Nuovo teatro negli anni Sessanta. Il testo drammatico è distrutto o negato a favore del corpo, dell’improvvisazione, dell’uso di oggetti e di immagini. Per il critico è più difficile "leggere" opere che rifiutano i canoni tradizionali. Il pubblico, d’altra parte, non si accontenta di consumare uno spettacolo per divertirsi, rilassarsi, istruirsi o emozionarsi, e neppure chiede più al recensore un giudizio per capire se valga la pena spendere il prezzo del biglietto: vuole piuttosto essere coinvolto in un processo.

Ripartiamo, allora, dal pubblico. La fine dell’Ottocento lo ha sprofondato in una sala buia, trasportandolo in una specie di sogno individuale e collettivo. Certi autori lo hanno sottratto, già all’inizio del Novecento, alla passività, all’incantesimo, alterando i modi della recitazione e della pronuncia, staccandosi dal naturalismo. Altri hanno provato, utopicamente, a trasformare una massa anonima di consumatori di intrattenimento in una comunità, che si costituisce nelle feste negli spazi aperti delle città, nelle liturgie che celebrano la rivoluzione russa o in certi spettacoli dei più importanti festival; in una collettività d’elezione che si riconosce nei piccoli teatri indipendenti e radicali o nei lavori dei gruppi dell’agit-prop (teatro di agitazione) politico, ugualmente in cerca di un pubblico non indifferenziato, solidale.

Le avanguardie storiche cercano di risvegliare il pigro borghese, magari mettendogli mortaretti sotto la sedia, come fanno i futuristi; altri intervenendo piuttosto sul montaggio dei materiali dello spettacolo. Bertolt Brecht vorrebbe rendere il suo spettatore simile a quello della boxe, tecnico, esperto, e gli chiede di seguire il dramma fumando un sigaro, vicino e distante, senza abdicare alla ragione, anzi sempre pronto a criticare e a rendere la materia teatrale nutrimento per la trasformazione sociale. Antonin Artaud progetta, nel suo utopico e radicale "teatro della crudeltà", un altro tipo di spettatore: contagiato da un virus divorante simile a quello della peste, capace di vibrare insieme allo spettacolo, che lo deve trascinare non attraverso gli inganni di cartapesta della rappresentazione, ma per forza alchemica e per empatia di coinvolgimento profondo. È una rottura del muro della "quarta parete" e un’ulteriore tappa verso quella che sarà la trasformazione, nel dopoguerra, del pubblico generico in spettatore consapevole, in spettatori singoli, sguardi personali che inverano in sé, nella propria visione, il lavoro degli artisti.

Questo nuovo occhio, insieme esigente e partecipe, portato ai confini del canone teatrale dall’ happening, dalla performance, dal teatro a partecipazione, dalla nuova scena, vuole capire, trovare le strade per entrare in sintonia con un dato che non è più solo estetico, ma di mutazione sociale e personale. Il teatro si trasforma in percorso "dentro di sé e dentro il mondo", come ha ben sintetizzato Giuliano Scabia. E perciò la vecchia critica risulta poco utile. Il nuovo sguardo richiede tracciati, strade di incontro e non più giudizi o cronache di costume. Cerca fili per orientarsi in labirinti da percorrere personalmente: per ritrovare magari, alla fine del tragitto, un differente impegno collettivo.

La critica militante

Giuseppe Bartolucci e Franco Quadri, che possiamo considerare tra i padri della nuova critica militante emersa negli anni Sessanta in Italia, sottolineano in diverse sedi la necessità di mettere in discussione le tecniche di osservazione tradizionale per seguire i cambiamenti del teatro. Bisogna affinare i modi per rendere conto delle nuove "scritture sceniche", basate su immagini e partiture corporee, su luci e suoni, su un insieme di elementi compositi e sfuggenti da registrare, descrivere, analizzare, ricomporre in una trama capace anche di penetrare motivazioni, intenzioni, progetti. Il nuovo teatro e il nuovo spettatore impongono altri metodi di resoconto e mettono in dubbio la necessità di una critica valutativa, come sottolineano anche le voci più innovatrici del versante degli studi universitari, tra gli altri Fabrizio Cruciani e Ferdinando Taviani.

Se in scena fiorisce una scrittura autonoma, che a volte evade perfino dalle pretese centralizzatrici del regista, la critica diventa ricerca di fili di senso per ricreare un’esperienza molteplice e farla ripercorrere autonomamente dal lettore. Il critico diventa sempre di più un saggista e uno storico del presente: qualcuno che sta dentro gli avvenimenti ma è anche capace di spostarsi in una prospettiva esterna, un osservatore mobile che cerca di confrontare la propria visione con quelle dell’artista e degli spettatori senza voce. Si trasforma in testimone partecipe e privilegiato, capace di entrare e di uscire dalla performance per cercare di svelarne i segreti, in una tensione continua tra l’abbandono all’avvenimento scenico e la distanza interpretativa. Una posizione simile la avanzava già Silvio d’Amico in una fondamentale conferenza intitolata Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico, tenuta presso i GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Roma e di Firenze nel 1942. Descriveva l’atto della visione come una immedesimazione totale nel mondo del palcoscenico e la scrittura come un tentativo successivo di dare ordine alle impressioni, oggettivandole con passione, in modo tale da far rivivere al lettore lo spettacolo come un’esperienza coinvolgente.

Il nuovo critico molte volte combatte per un’idea di teatro, come voleva all’inizio del Ventesimo secolo George Bernard Shaw; si rivela artista capace di ricreare l’opera con la sua scrittura, incarnando con modalità differenti le idee avanzate da Oscar Wilde; milita in bilico tra i due campi, critico e artista, come gli statunitensi Richard Schechner e Michael Kirby, performer, registi e direttori, in successione, di "The Drama Review"; o attraversa gli ambiti e le tendenze, come fece, per rimanere in area anglosassone, Kenneth Tynan, dal 1953 al 1963 brillante e severo recensore di "The Observer", subito schierato con Aspettando Godot di Beckett e con Ricorda con rabbia di Osborne, critico ufficiale capace di riconoscere la dirompente novità di Marat-Sade di Peter Brook, poi dal 1963 consulente letterario del Royal National Theatre diretto da Laurence Olivier, in seguito drammaturgo e sceneggiatore. Un critico come Roberto de Monticelli, formatosi negli anni dell’affermazione della regia, si sente in crisi a causa delle trasformazioni apportate dal nuovo teatro, che sembrano svuotare il concetto stesso di rappresentazione e di personaggio, sostituendoli con la soggettività dell’attore. Altri si dichiarano pronti a entrare nei processi degli artisti dal di dentro, come propugnava Herbert Ihering già negli anni Venti, in polemica con lo sguardo esterno di Alfred Kerr. Altri ancora, come Ennio Flaiano, tessono a effetto l’elogio dello "spettatore addormentato", quello che percepisce gli spettacoli come in un sogno, con l’altro occhio dell’inconscio; oppure, come Bernard Dort, dichiarano la visione teatrale sospesa in uno stato simile al sonnambulismo kleistiano.

Il critico deve stare dentro e fuori, di fianco, di sotto lo spettacolo, espropriato delle sue funzioni di coro che tutto razionalizza, spiega e media, suggerisce il fondatore e regista della Socìetas Raffaello Sanzio, Romeo Castellucci, riflettendo sullo scandalo dell’interpretazione che si frappone tra l’evidenza dell’opera e l’urgenza dello spettatore. Oppure deve provare a fare le sue "cantine romane", ritraendosi dal sistema dell’informazione spettacolarizzata per attingere precisione e verità, secondo la suggestione di un altro grande uomo di teatro, Leo de Berardinis.

I nuovi percorsi della critica

Quattro sono gli elementi in tensione per definire la mutevole focale del critico: lo spettacolo, lo spettatore, i mezzi di comunicazione di massa, gli artisti. Cambiando la posizione di uno o di più d’uno di questi elementi, si va a ridefinire il quadro generale e l’angolo di osservazione particolare. Il guardare ha dovuto forgiare nuovi strumenti di interpretazione o di scrittura in conseguenza delle mutazioni dello spettacolo, ma anche dello svuotamento della funzione di giudice dell’osservatore professionista e delle ristrutturazioni del sistema dei mass media; il presunto rappresentante oggettivo del pubblico è stato incalzato dai nuovi ruoli assunti dagli artisti e dagli spettatori.

Il critico, oggi, deve probabilmente investire qualcosa di personale in più e la scrittura deve diventare una responsabilità nuova, opera che rifiuta la chiosa, la definizione del senso, l’anatomo-patologia pura e semplice, e si sposta dalla "clinica", dalla "legge" e dal "giudizio", evocati da Gilles Deleuze, a quel piacere della scrittura come atto di interpretazione proiettato all’infinito di cui parla Roland Barthes. Il filtro culturale sovrapposto alla vita materiale dello spettacolo e il discorso specialistico devono aprirsi ad approcci multidisciplinari, come già suggeriva Marco de Marinis agli inizi degli anni Ottanta, o indisciplinari, come vorrebbe Jean-Marc Adolphe, apripista di una pattuglia di critici europei che analizzano il teatro che si mescola con l’immagine, con la creazione digitale, con un tipo di danza che introduce sui suoi parquet le arti visive e la parola. Riviste come la francese "Mouvement", come "Janus", prodotta da Troubleyn, la compagnia del regista, pittore, drammaturgo e coreografo fiammingo Jan Fabre, superano i rigidi steccati che incasellano le arti in ambiti tradizionali.

Altri sguardi cercano territori inesplorati e pubblici affezionati o inconsueti sul web; nei percorsi di formazione universitaria vengono introdotti laboratori di critica; rifiorisce l’editoria teatrale. Si moltiplicano le riviste prodotte all’interno dell’università: accanto a "Teatro e storia", al "Castello di Elsinore", a una rinnovata "Biblioteca teatrale", si affacciano testate come "Prove di drammaturgia" e "Culture teatrali", che tracciano interessanti intersezioni tra storia e contemporaneità.

Intanto si ripresentano problemi antichi o ne emergono di imprevisti: sui giornali quotidiani la critica viene sempre più marginalizzata, mentre nelle pubblicazioni specializzate di rado viene remunerata. Il lavoro del critico risulta sempre più precario, avventizio o addirittura volontario, un passaggio in attesa di una sistemazione migliore, una specie di passione disinteressata, un impegno militante o un ponte per un impiego in altri campi. Questa figura dai contorni sfumati spesso si ritrova a trasformarsi in organizzatore o consulente, a riversarsi nell’insegnamento o a dover inventare altre zone di azione.

Chi sceglie di perseverare, diventa comunque un soggetto in metamorfosi, che deve districarsi affrontando difficoltà inedite e fronteggiando continuamente problemi etici, economici, di ruolo culturale e sociale. Confrontandosi, in una dialettica continua, con l’organizzatore, con l’artista, con lo spettatore, fiancheggiandoli e ritraendosi per fare i conti, in modi mutati rispetto al passato, con la necessità del rigore del giudizio, in una società che rende tutto equivalente, omologato.

Perfino il lettore, in certi momenti, sembra abbandonarlo per trasformarsi direttamente in attore partecipe di un’esperienza, senza mediazioni. Agli inizi del nuovo secolo assistiamo a un grande interesse per il teatro fatto in prima persona, rilevabile anche nell’esplosione di laboratori, seminari, corsi universitari di teatro e danza; parallelamente, pare ridursi il pubblico delle riviste e dei lettori di giornali, anche on line. Forse perché, nelle crisi di realtà che attraversiamo, il teatro è considerato principalmente un mezzo per fare esperienze, ancora di sé e del mondo. Il critico dovrà, se vuole sopravvivere, inventare un altro spazio in questo bisogno, che non è solo teatrale ma principalmente sociale.

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