CRITICA

Enciclopedia Italiana (1931)

CRITICA (gr. κριτικὴ [τέχνη], da κρίνω "giudico")

Giuseppe Antonio BORGESE
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Manara VALGIMIGLI
Lionello VENTURI

Con questo nome si indica, in generale, ogni atteggiamento e funzione dell'umano conoscere che miri a distinguere nel proprio oggetto ciò che in esso ha, comunque, valore da ciò che valore non ha. ll nome di critica è usato quindi, in maggiore o minor misura, nell'ambito di ogni scienza (v. perciò, per la dottrina propriamente filosofica della critica, criticismo; per la critica storica, storiografia; per la critica biblica, bibbia; per la critica dei testi, edizione; per la critica musicale, musica, ecc.); ma nella sua accezione più corrente designa la critica estetica, delle due più importanti forme della quale (la critica letteraria e la critica delle arti figurative) trattiamo dunque in questo articolo.

La critica letteraria.

Presso i Greci e i Romani. - Si sa che l'arte non fu generalmente concepita dagli antichi come il prodotto di un'attività speciale e autonoma dello spirito; e così anche la critica letteraria dové muovere da criterî estrinseci all'attività estetica propriamente detta. Questi criterî possiamo ridurre a tre: verità, come oggetto del poetare; piacere, come mezzo; moralità, come fine. I quali, o isolati, o, più spesso, variamente combinati con prevalenza dell'uno sull'altro, costituiscono le linee fondamentali non solo della critica letteraria greca e latina, ma insomma di tutta la critica classica fino al romanticismo, non senza parziali ripetizioni e adattamenti nella stessa critica romantica. E la critica, come l'estetica, fu di volta in volta: 1. edonistica pura, in quanto considera il poetare indipendente da ogni verità e da ogni insegnamento di verità (p. es. Eratostene, Filodemo); 2. edonistico-razionale, in quanto la poesia p0ssa o non possa, mediante imitazione (mimesi), raggiungere la verità (razionale, cioè dimostrabile e insegnabile); 3. mistica, in quanto il poeta, mediante ispirazione divina o entusiasmo, raggiunga la verità suprema, soprasensibile, eterna, Dio (neoplatonismo, Plotino, e, parzialmente, anche Platone). Di queste tre correnti la più comune e diffusa fu la seconda; e questa giova distinguere in correnti minori, onde la critica si presenta: a) come edonistico-negatrice, in quanto, negando che il poetare possa mai raggiungere verità, nega e condanna codesto poetare e bandisce poesia e poeti dallo stato perfetto (Platone); b) come edonistico-pedagogica, in quanto, o presume che la poesia possa direttamente, e perciò debba, istruire e educare (Aristofane), o ritiene, pur ammettendo che i poeti dicano più spesso menzogne che verità, che tali menzogne contengano esse medesime verità, la quale, sapientemente scoperta nei suoi sensi riposti (ὑκόνοια; v. allegoria) e benignamente interpretata, per lo stesso piacevole velo che la ricopre è molto più facile insegnare e apprendere (Orazio, Plutarco, ecc.); c) come mimetica pura, o mimetico-idealistica, in quanto il vero della poesia, tuttavia razionale e intellettuale, concepisce in qualche misura diverso dal vero della storia, e rivela criterî di distinzione e di valutazione che sembrano toccare più da vicino esigenze nostre e moderne, e in ogni modo superano le posizioni consuete della critica ed estetica antiche (Aristotele). Inutile dire che queste correnti non si presentano affatto in uno sviluppo cronologico successivo, e si trovano invece, come i tre criterî accennati in principio, o isolate o sovrapposte o congiunte in una medesima età e perfino, talvolta, non senza contraddizioni almeno apparenti, in uno stesso scrittore. Non solo: ché non essendo mai la critica letteraria classica, come si è già detto, un'attività autonoma, la ritroviamo necessariamente fusa e confusa con particolari indirizzi di ricerche e di studî più o meno prevalenti in questa età e in quella.

Da questo punto di vista può essere tentata, anche se all'ingrosso e con molta cautela, una classificazione cronologica: in tre periodi. Nel primo periodo la critica letteraria segue il grande movimento filosofico che, dalle prime speculazioni dei filosofi ionici, e poi attraverso i sofisti, e Socrate e Platone, arriva fino ad Aristotele: e dunque con prevalenza di indagini filosofico-teoretiche. Pitagora, Senofane, Eraclito condannarono i poeti, massimamente Omero, per le menzogne che dissero contro gli dei. La condanna è ripresa da Platone, sistematicamente e rigorosamente, nella Repubblica e nelle Leggi. D'altra parte è pur comune il sentimento, più volte espresso anche in Omero a proposito degli aedi, che il poeta non per cognizioni acquistate è poeta, ma solo per dono delle Muse e per ispirazione divina. Così disse, dello stesso Omero, Democrito; e così ripete Platone nell'Ione, nell'Apologia, nel Fedro, riaffermando quella irrazionalità del poetare che appunto condanna nella Repubblica: e in questa irrazionalità si discioglie la contraddizione fra le due concezioni platoniche, di esaltazione e di condanna della poesia, che paiono antitetiche e repugnanti. Anche, incominciano in questo periodo, p. es. nelle conversazioni socratiche con pittori e scultori riferiteci da Senofonte (Memorabili), o col sofista Ippia riferitaci da Platone (Ippia maggiore), alcune speciali indagini sul bello: senza però che queste indagini effettivamente si connettano col problema della poesia e dell'arte; e già Aristotele distinse che altro è cosa bella altro è imitazione bella, cioè vera, di cosa anche brutta. E la connessione effettiva, che ebbe poi così grande fortuna nell'estetica posteriore, avvenne solo più tardi con l'estetica mistica di Plotino. Di critica letteraria vera e propria si usano citare in questo periodo i giudizî delle gare drammatiche; dei quali ci rimangono notizie e residui nelle ipotesi e negli scolî ai drammi superstiti: ma quanto in questi giudizî dominassero preoccupazioni morali, politiche, e insomma extraestetiche, è facile congetturare. E preoccupazioni morali e politiche rivela Aristofane nella sua critica contro Euripide (Rane, Acarnesi); sottilmente e sofisticamente logiche Euripide nella sua critica contro Eschilo (Elettra, Fenicie).

Aristotele chiude il primo periodo e apre il secondo. Egli è il teorico della mimesi e insieme il ricercatore erudito di storia della poesia. Con lui, e massime dopo di lui con la scuola peripatetica, s'inizia un periodo d'indagini erudite e minute che culmina nelle due scuole maggiori dei grammatici di Alessandria e di Pergamo. Si scrivono biografie di scrittori, le quali anche contengono spesso e non senza finezza giudizî critici; si fissano generi letterarî e canoni degli scrittori più significativi in ogni genere; di singoli scrittori si esaminano, si valutano, si classificano le opere distinguendo le ritenute autentiche dalle altre; si determinano, in sistemi logico-pratici, precedenti speculazioni grammaticali; si studiano metrica e dialetti; si fanno edizioni; intorno a queste si raccolgono commentarî: si fonda, insomma, la storia della letteratura; e la critica letteraria è soprattutto storia e filologia. Naturalmente, anche su questi studî influiscono e contribuiscono le varie correnti critiche sopra ricordate: così, p. es., massime a proposito di Omero, moralismo e allegorismo predominano, per influenza stoica, sui grammatici di Pergamo; edonismo e razionalismo, per influenza peripatetica (anche Aristotele aveva scritto sei libri di Questioni omeriche), sui grammatici di Alessandria.

Il terzo periodo si può far cominciare dal sec. I a. C.; tutta la cultura si è spostata verso un nuovo grande centro, Roma. Predomina l'eloquenza. Si diffondono scuole diverse (asiana, attica, rodiese) e dottrine diverse (apollodorei e teodorei) di eloquenza, cioè di retorica. E la critica letteraria è prevalentemente precettistica e retorica. Più che teorie si dànno precetti. Si accentua e si isola quel carattere precettistico normativo che già era implicito nella stessa Poetica e Retorica di Aristotele: la Poetica di Orazio non è che un manuale di buone regole; una precettistica retorica a uso dei poeti. Particolarmente, al servizio dell'eloquenza, si studiano scrittori di prosa; ma non si trascurano i poeti se possano giovare al medesimo fine. Si formano così le arti (τέχνοι) retoriche; si dànno norme per l'oratore perfetto (Cicerone); si distinguono i diversi generi di stile (severo, fiorito, sublime, umile, medio, ecc.): e in queste distinzioni la critica letteraria, anche poetica, viene assumendo un suo speciale linguaggio. Scrittori diversi, secondo scuole e dottrine diverse, sono proposti come modelli d'imitazione (Cecilio, Dionigi d'Alicarnasso, l'autore anonimo del Sublime): ché questo significa ora il vocabolo mimesi nei trattati κερὶ μιμήσεως di questo periodo. E quando, più tardi, fra I e II secolo d. C., l'eloquenza diviene un esercizio di scuola, tanto più crescono e si complicano i trattati di arte retorica e d'eloquenza (Quintiliano). Ma con la rinascita dell'ellenismo e dell'atticismo, tra le stesse esercitazioni retoriche e conferenze pubbliche della seconda sofistica, si presenta, per la prima volta, il vero e proprio saggio critico (Dione Crisostomo, Massimo Tirio, Elio Aristide, i Filostrati, lo stesso Luciano). Una menzione singolare merita Plutarco, che riassume molti elementi di questo e dei due periodi precedenti, ed è il rappresentante più ricco e più significativo della critica moralistico-pedagogica. E meritano menzione alcune compilazioni erudite dove si possono leggere, diretti o indiretti, rilievi e giudizî critici di qualche interesse, come i Deipnosofisti di Ateneo, le Notti Attiche di Gellio e i Saturnali di Macrobio.

Bibl.: E. Müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, voll. 2, Breslavia 1834-37; É. Egger, Essai sur l'hist. de la crit. chez les Grecs, 3ª ed., Parigi 1887; G. Saintsbury, A history of criticism and literary taste in Europe, I, Classical and mediaeval criticism, 3ª ed., Edimburgo e Londra 1908; B. Croce, Estetica, 6ª ed., Bari 1928, p. 169 segg.

Dal Medioevo ai nostri giorni. - L'unità dello spirito, così energicamente affermata nel Medioevo sotto il controllo delle finalità religiose e morali, non era condizione propizia a una critica letteraria intesa come attività per sé stante; altre circostanze intellettuali e sociali le si opponevano. La figura del critico letterario, in cui quell'attività specializzata s'incarna, nel Medioevo non si potrebbe nemmeno concepire. Ciò non vuol dire che per circa un millennio la critica letteraria sia stata assente; essa non può sparire se non dove e quando sia sparita interamente l'arte. Fa critica il poeta scegliendo i suoi modelli, leggendo e chiosando i suoi maestri, giudicando i suoi contemporanei e compagni; fa critica anche in quanto controlla e corregge la sua opera; e ugualmente fa critica l'ascoltatore, il lettore, che interpreta per sé o per altri un poema, un canto, che lo loda o respinge, che lo compara a un altro o ne lo deduce, che semplicemente lo recita accentuandone le intenzioni. Se l'Egger dice che nell'alta antichità i primi critici furono i giudici dei concorsi rapsodici, di critici in questo senso non difettò nemmeno il Medioevo.

In senso meno generico, una critica letteraria medievale si può riconoscere e descrivere, anche se la sua potenza è strettamente limitata dai caratteri ideali e dalla mediocre fecondità poetica del tempo. Il nuovo gusto sorge oscuramente, sottraendosi alla contemplazione dei conoscitori; il nuovo materiale mitico s'infoltisce lungi dall'attenzione dei mitografi. D'altronde noi, sedato alquanto l'entusiasmo del romanticismo per un Medioevo in buona parte suppositizio, sappiamo ormai quanto di quel nuovo gusto fosse prosecuzione o stortura del gusto antico; allo stesso modo in cui molto di quel materiale mitico fu travestimento, o rinnovazione, di leggende classiche. Per parecchi secoli la letteratura non fu che ricordanza della letteratura classica, in un debole sogno di resurrezione, o inconsapevole germinazione di un nuovo mondo sentimentale e poetico, stilisticamente ancora informe, a cui soltanto la poesia e la musica dei secoli successivi sapranno dare l'accento della sua novità.

La critica letteraria non può essere che l'intelligenza di questa penombra: penombra essa stessa. Si appoggia conservativamente sulla tradizione classica, interpretandola come può, cioè semplificandola quanto le conviene. Donde l'eccellenza dei concetti di eloquenza e di virtù su ogni altra dote poetica, la distinzione fra poeta e orator tendenzialmente annullata, il poeta vir bonus dicendi peritus o, in sfera superiore, "famoso saggio", "mar di tutto il senno", sempre con quella perizia del dire che doveva consistere, al fine di una sublime persuasione, negli ornamenti, nell'ingegnosità (perfino acrostica e scioglilingua), nelle cadenze mnemoniche, nell'enfasi o amplificatio sollevata dalla Poetria nova di Galfrido di Vinsauf a supremo canone estetico. In complesso il pensiero critico medievale si riduce alla combinazione di due tendenze dell'antichità: quella che è stata chiamata mistica con quella che è stata chiamata edonistico-razionale.

I valori individuali intorno a cui questo pensiero tenacemente, monotonamente, si esercita, sono anch'essi ereditati dall'antichità; con l'avvertenza che tale eredità, oltre le distruzioni della barbarie e del tempo, ha dovuto subire anche un inventario di rigide intenzioni cristiane, e le limitazioni dell'ignoranza filologica. Ciò che è greco non si legge; o rimane remoto e arduo a decifrarsi. Si possono dunque elencare come segue le caratteristiche più importanti del pensiero critico medievale: 1. esso non crea valori nuovi o recenti (le fortune dei poeti medievali, fino a Dante, non superano di regola il secolo in cui sorgono); 2. esso lascia nello sfondo la letteratura greca, occupando tutto il primo piano con la letteratura latina; 3. al posto di Omero, protagonista della critica classica da Platone e prima di Platone allo pseudo-Longino e dopo, colloca sempre più risolutamente il poeta latino che più opportunamente può sostituirlo: Virgilio (v. virgilio: fortuna di).

Il canone virgiliano, la creazione di un modello epico-profetico, di un tipo di poeta come sacerdote, è il risultato più cospicuo della critica medievale nel campo dei valori. Delle sue tendenze metodiche la più nota e costante è quella dell'interpretazione rivelatrice, della dottrina nascosta "sotto il velame delli versi strani", fissatasi via via nel sistema dei quattro significati: letterale, allegorico, morale e anagogico (v. allegoria). Sono celebri le stravaganze a cui questo metodo diede luogo. Con minore attenzione, invece, s'è guardato al germe di verità contenuto in tali errori. Gli uomini del Medioevo deducevano pedantescamente la teoria dei significati multipli dal platonismo e dal neoplatonismo, oltre che dall'esempio delle parabole evangeliche; la loro allegoria non precorreva che rozzamente alla valutazione simbobolica dell'arte quale poi si avrà nella filosofia moderna in Kant e oltre; ma in qualche modo si attenevano ad alte direttive di pensiero, sentivano, anche se confusamente, la complessità e la dignità del fatto artistico, e se cadevano in gravi pregiudizî di genere intellettualistico o pedagogico, ne evitavano altri, a noi ben noti sotto i nomi di verismo o estetismo o impressionismo o altri somiglianti.

Col sorgere di una grande poesia alla fine del Medioevo, s'innalza anche la critica, e Dante, eccelso in quella, è eccellente in questa; teorico e sistematore di antiche norme, giudice appassionato e vibrante di singoli documenti artistici, precursore di novità più o meno chiaramente intravedibili. Se il Saintsbury s'illuse considerandolo, specialmente per il trattato De vulgari eloquentia, come addirittura scopritore dell'indipendenza dell'arte e assertore in essa dell'espressione, non del contenuto, quale valore supremo; errò meno, o non errò affatto, stimandolo il maggior critico letterario nel lungo lasso di tempo fra lo pseudo-Longino e il sec. XVII. La sua dottrina della lingua volgare illustre, aulica, cortigiana, curiale, di una lingua che doveva essere in pari tempo universale e aristocratica, poetica e filosofica, certamente è un mito; ma l'afferrabilità di esso nella concretezza della storia non è minore di quella dell'altro mito che gli fu contrapposto, della lingua popolare e parlata, o, come meglio si potrebbe dire, della lingua momentanea e locale; né è da trascurare il fatto che gli sviluppi successivi della lingua e letteratura italiana, nonché delle altre moderne, diedero al mito dantesco conferme parziali ma di non piccolo conto. Le sue regole tecniche, culminanti nella quadripartizione della gravitas sententiae, superbia carminum, constructionis elatio e excellentia verborum, sono certamente grammatiche e retoriche, ma miranti a un fine intimo della poesia, che è di commuovere l'animo sublimandolo, non a fini estrinseci o pratici o finti. E se è vero che egli, non diversamente da tutto il Medioevo, ignora radicalmente la letteratura greca, e quanto alla letteratura latina in complesso non sa che ripetere le graduatorie fissate, e rimaste quasi interamente canoniche fino ai nostri giorni, aggiungendovi di suo soltanto l'enfasi di un personale idolatrante amore per Virgilio; i giudizî, invece, che nel De vulgari, nella Commedia e passim ha dato di provenzali, di siciliani, di toscani, ecc., restano anche per noi di regola inconcussi; alcuni accenni a miti carolingici e bretoni rivelano la sua sensibilità anche per canti e racconti popolari; certe vibrazioni musicali e pittoriche del Purgatorio hanno una tenerezza e, si direbbe, una versatilità nervosa del tutto nuova, del tutto emersa dalla rigidità medievale. Il senso della poesia è per lui allegorico, intellettuale, dogmatico, né vale industria d'interpretazione a sovvertire questo fondamento della critica dantesca; i celebri versi: "Io mi son un, che quando - Amor mi spira, noto, ed a quel modo - Ch'ei ditta dentro, vo significando" possono riportarsi per una parte a suggestioni classiche ("Est deus in nobis..." - "Tu nihil invita dices faciesve Minerva"), né c'è d'altra parte da equivocare sul significato filosofico-teologico del termine Amore; ma ciò non toglie che l'intonazione polemica dia un particolare rilievo, un orgoglioso fulgore alla confessione del poeta: il quale in quel punto vede il nascere dello stil nuovo, cioè d'uno stile ispirato e veridico, come il nascere d'un'epoca nuova, contrappone il canto suo e di quelli a lui somiglianti alle freddezze e freddure di cortigiani e di frati, e fa risurgere la morta poesia, non già come tollerata e mendica di giustificazioni alla soglia della sapienza, ma come di pari grado alla sapienza, benché, e perché, non opposta ad essa.

Più erudito e conoscitore che critico, il Petrarca, nonostante la vastità della sua informazione, non portò contributi fortemente precisabili al movimento delle idee e al mutamento dei valori: tranne col fatto, molto ragguardevole, che per opera sua, delle sue attente letture, dei suoi appassionati commenti, molta parte della letteratura latina dal fastigio di fredda venerazione su cui stava venne condotta a una familiarità di gusto artistico e dilettoso: dunque a un'aria pienamente umanistica. Dove avrebbe potuto giovare all'intelligenza e alla valutazione di poeti nuovi o ignoti, quasi di regola mancò, ed è celebre per la lapidaria parsimonia il giudizio, gravemente riduttivo, che diede di Dante.

Ammiratore di Dante fu invece il Boccaccio, meno egocentrico, più disciplinabile; e, benché fra il suo personale buona senso di lettore e il tradizionale metodo allegorico si formasse piuttosto una emulsione che un composto, il suo comento giovò all'interpretazione e alla popolarità della Divina Commedia: allo stesso modo che gli sfoghi eloquenti e persuasi del Genealogia Deorum servirono a diffondere l'amore, anzi il culto della poesia.

Per questo culto di poesia, o vigore di coscienza estetica, i nostri grandi scrittori del tardo Medioevo precorrono più che virtualmente l'epoca successiva, la quale anzi in essi s'inizia. Sul finire del secolo scorso lo Spingarn mise in rilievo, o propriamente scoprì, l'importanza capitale della critica letteraria italiana nel Rinascimento, il suo carattere costitutivo, creativo dei nuovi gusti e delle tendenze moderne. Più tardi il Toffanin ha invece accentuato le linee lungo le quali l'Umanesimo può o deve interpretarsi come una prosecuzione del Medioevo. Le due tesi, nonostante l'iniziale contrasto di enunciazione, hanno punti di contatto e zone di coincidenza: fermo resta l'acquisto che l'origine dei problemi moderni di critica letteraria deve cercarsi nell'Italia dell'Umanesimo, del Rinascimento, della Controriforma.

Indubbiamente l'Umanesimo prosegue, e ulteriormente sistema, il pensiero del Medioevo, in quanto esige una latinità universale e una pedagogia ortodossa, ugualmente universale: da ciò la sua lontananza dai movimenti linguisticamente nazionalistici in cui s'era scomposta l'unità medievale, la sua nessuna intelligenza e simpatia pel movimento predantesco, molto più intriso di antiromanità e di anticattolicesimo che per lungo tempo non si sia pensato, la sua stessa freddezza per Dante, il quale, romano e cattolico quanto si voglia, non aveva saputo decidersi a scrivere il poema nella lingua dell'Impero e della Chiesa. Il suo interesse precipuo resta sempre per la letteratura latina, la cui santificazione, anzi deificazione, prosegue attraverso il Poliziano fino allo Scaligero e oltre.

D'altra parte, sono tratti nuovi dell'epoca nuova: un più differenziato e gustoso amore della poesia; un desiderio di giustificarla e interpretarla a un grado estremamente elevato della vita spirituale; nel medesimo campo della letteratura latina una maggiore concretezza di lettura e di affetto, un ben altro rilievo dato a figure, come Plauto e Terenzio, fino allora rimaste piatte in sfondo, e l'imponenza conferita a Cicerone, Virgilio della prosa, modello dell'eleganza eloquente, persuaditrice di bene; infine, l'avanzata relativamente rapida della letteratura greca, e la progressiva scoperta diretta di Omero (che lo stesso Petrarca, capostipite degli umanisti, aveva letto a 63 anni, in una cattiva traduzione latina), anche se inteso come un immaturo Virgilio.

Il Poliziano nelle Sylvae, specie di lezioni universitarie in versi, abbozza il primo schema di storia letteraria; la terza parte contiene la glorificazione di Virgilio, la quarta è dedicata a Omero, considerato anch'egli maestro di sapienza. Chiusa come tra parentesi l'eccezionale idea dantesca secondo la quale il primato tra le forme letterarie spetta alla canzone, si ritorna così all'eccellenza, millenariamente asserita, del poema epico: esso corona ogni attività letteraria nella Poetica del Vida, esso signoreggia la vita sbagliata del Trissino e la vita tragica del Tasso, esso ancora primeggia nel pensiero di Rapin (1674), benché ormai il teatro francese abbia raggiunto il suo apice.

Alcune grandi dispute o polemiche critiche sogliono contraddistinguere i grandi periodi creativi, o altre volte segnarne la fine. Nel Rinascimento italiano le dispute più clamorose furono quella intorno ai poemi romanzeschi o cavallereschi e quella intorno alla Gerusalemme Liberata: sostanzialmente interdipendenti l'una dall'altra. Stabilito che l'ideale della perfezione è nelle letterature classiche e che la loro forma suprema è il poema epico, stabilito - contro l'informità e invertebratezza che si avvertiva nelle letterature medievali - che il carattere fondamentale della forma è l'unità, tanto che il Trissino disapprovava come forma narrativa l'ottava addebitandole la discontinuità, lo stacco fra stanza e stanza, che l'unità del poema epico non tollera; stabiliti questi principî, quale è il posto che si può o non si può riconoscere ai poemi cavallereschi? stabilito che il Tasso ha voluto raggiungere la perfezione e eccellenza dell'epica antica, quale successo gli si deve o non gli si deve riconoscere?

Fra i polemisti in difesa o in attacco dei romanzi emergono Giraldi Cintio e il Minturno. La lotta è molto interessante, perché nel corso di essa si chiariscono due idee di metodo destinate a rimanere fondamentali. Da una parte si formula, più risolutamente che mai prima non fosse avvenuto, la legge dell'unità dell'opera d'arte; dall'altra parte si scopre, finalmente, che esistono nella storia dell'arte forme e generi che l'antichità non conosceva e alle quali è necessario adattare diversamente le antiche leggi dell'arte se non se ne vogliono formulare di nuove. Così, attraverso la breccia dei romanzi, si faceva strada il concetto di letteratura moderna, e cominciava a cessare, quasi come all'aprirsi di una cateratta, la cecità con cui per molti secoli la coscienza critica aveva assistito al sorgere, al fiorire, allo spegnersi di nuovi stili e di nuove strutture nelle arti dello spazio e nelle arti del tempo senza accorgersi bene che fosse nato qualche cosa di diverso dagli stili e dalle strutture dell'antichità.

In questo albeggiante contrasto - il quale non impedì che la commedia dell'arte e altre forme spontanee passassero senza lasciar traccia sulla critica letteraria - si cominciano a disegnare vicende di quelle che saranno chiamate più tardi le "fortune" dei poeti, valutazioni veementi in pro e in contro, quotazioni appassionate, mutazioni e rovesciamenti di valori. Allargandosi il gusto verso il romanzesco o quello che noi chiameremmo gotico, cresce la possibilità d'intendere e di apprezzare Dante; il Varchi lo pone al di sopra di Omero (1570), e Iacopo Mazzoni ne scrive la Difesa (1587). Nella disputa intorno alla Gerusalemme si preferisce il Tasso a Omero, all'Ariosto, a Virgilio, o si stronca spietatamente; e - paradossale risultato di uno sforzo che aveva mirato a restaurare integralmente il poema classico, il poeta classico - nei dolori, negli errori, nella follia del Tasso s'istituisce leggendariamente il prototipo del poeta romantico.

Tuttavia l'episodio più importante della critica letteraria nel Rinascimento è la scoperta della Poetica di Aristotele. Questo piccolo trattato, poco diffuso nell'antichità, giunto mutilo ai tempi nuovi attraverso il silenzio di tre lunghe epoche, riaffiora nel 1536 con l'edizione del Trincavelli e la versione latina del Pazzi, proprio nel tempo in cui l'autorita filosofica di Aristotele declinava, proprio nell'anno in cui l'umanista Ramus presentava all'università di Parigi una vittoriosa tesi di dottorato sostenendo che tutte le opinioni di Aristotele erano errate. Il primo commento, del Robertelli, appare nel 1548; segue la traduzione del Segni; e a questa la decisiva interpretazione di Vincenzo Maggi, bresciano (1550), detto pius Madius, il quale, forzando il celebre passo aristotelico sulla catarsi a significare che la tragedia libera l'anima umana non solo e non tanto dal terrore e dalla pietà, ma anche e soprattutto dalle passioni violente e peccaminose, imprime alla critica una direzione religiosamente intransigente quale può essere richiesta dalla Controriforma e contribuisce alla restaurazione di uno spirito che può chiamarsi medievaleggiante, e in cui possono vedersi precursioni all'idea che della poesia avranno il romanticismo latino-cattolico e Alessandro Manzoni. Un gran lavorio di esegesi e di volgarizzazione si accumula sul piccolo testo aristotelico: dal quale sgorgano, in direzioni diverse e opposte, quasi tutte le principali correnti del pensiero letterario moderno. La dottrina dell'imitazione o mimesi e quella dell'unità dell'opera d'arte, più o men bene intese, rafforzano i precetti della fedeltà al vero e dell'organicità (simplex dumtaxat et unum) in cui consisteva per tanta parte il classicismo tradizionale devoto all'arte poetica oraziana. La preferenza alla tragedia, dovuta in parte alla casuale mutilazione che mette in accresciuto rilievo le pagine dedicate a questo genere letterario, scuote il primato dell'epica e dà un primo abbrivo all'esaltazione teatrale che dominerà tutto il Romanticismo. Il pensiero sulla catarsi, cioè sulla purificazione dei sentimenti attraverso la catastrofe tragica, sollecita le interpretazioni moralistiche, pedagogiche, redentrici dell'arte. Infine, il pensiero aristotelico che distingue la poesia dalla storia assegnando come campo a quella l'universale e a questa il particolare, e soprattutto l'altro pensiero che in cima a tutti gli elementi costitutivi della tragedia pone la favola o mito, producono effetti diversi e perfino opposti a quelli del pensiero sulla catarsi, disimpegnando la poesia dalla morale e dalla verità, ispirando al Riccobono di Padova (1584) la dottrina estetica che la poesia è sogno e deve straniarsi dalla vita, confermando il trionfo del Pastor fido e del genere pastorale, decidendo in favore degli antidantisti la disputa per la valutazione di Dante, aprendo le vie al secentismo con le opinioni che l'arte e la morale sono due mondi distinti, di cui bisogna evitare l'incontro, che la poesia non può essere che vano giuoco, che l'arte, in conclusione, è "superba tappezzeria".

In senso morale e razionale, cioè secondo l'ortodossia classicistica, era interpretato Aristotele, "imperator noster, omnium bonarum artium dictator perpetuus", dal "divino" Giulio Cesare Scaligero, erudito italiano trapiantato in Francia ove esercitò influenza decisiva sul costituirsi e fissarsi del classicismo francese. La Défense et illustration de la langue française di Du Bellay, pubblicata nel 1549, l'Art Poétique françois di Vauquelin de la Fresnaye, le idee di Ronsard e della Pleiade sull'origine e la missione divina del poeta, l'Art de Tragédie di Jean de la Taille (1572), in cui, subito dopo il Castelvetro, vengono legiferate le tre unità drammatiche, la reazione di Malherbe che, contro gli entusiasmi lirici e in qualche modo neoplatonizzanti della Pleiade, riconduce la poesia alla stretta osservanza delle regole, al consapevole governo della tecnica ("et réduisit la Muse aux règles du devoir"), infine la controversia intorno al Cid di Corneille (1636-1640), sono le altre date ed episodî più salienti nel formarsi del gusto francese. La polemica sul Cid disperde il tentativo, sviluppatosi nella prima parte del secolo, di avvalorare un gusto libero, o se si vuole preromantico, desunto in parte dal teatro spagnolo; più tardi Boileau, il cui Art Poétique appare nel 1674, sistema magistralmente il gusto vittorioso, facendo coincidere l'imitazione della natura con l'imitazione dei classici e addomesticando la norma razionale dell'arte - fosse di origine aristotelica o cartesiana - in un socievole ossequio al "bon sens"; e Fénelon nella Léttre sur les occupations de l'Académie (1713) riepiloga da arbitro il lavoro critico del "gran secolo" risolvendo in favore della tradizione e degli antichi la lunga querelle des anciens et des modernes, durante la quale alcune impazienze avevano osato manifestarsi e l'idea del progresso, applicabile anche all'arte, era, in forme immature ma virtualmente ricche, quasi d'improvviso apparsa. Il Cours de litterature di Laharpe (1799) applicherà abbondantemente il metodo prevalso, al momento del suo tramonto, e diverrà proverbiale all'insofferenza degl'insorti romantici.

"Si può dire senza esagerazione che non c'è idea o precetto essenziale nelle opere di Corneille e di D'Aubignac sulla poesia drammatica, o di Le Bossu e Mambrun sulla poesia epica, che non si possa trovare nel Rinascimento italiano". Così lo Spingarn.

In complesso tutto il sistema critico francese ha origine dal movimento italiano; da cui si distingue per un più severo e restrittivo spirito di regolarità, per un più spiccato accento sulle tendenze di ragione ragionante, di buon senso sociale, di tecnica perfezionatrice e adornante, e per la preminenza che via via vi acquista - piuttosto in forza delle circostanze creatrici che di volontà dottrinaria - la forma teatrale su tutte le altre.

In Spagna, in Inghilterra, in Olanda, negli altri paesi germanici, analoghe teorie con analoghe applicazioni conquistano il comando all'incirca nello stesso periodo di tempo. Checché si sia detto in senso diverso, il Don Chisciotte resta, quale appare a prima vista, una satira del romanzesco, un'apologia della poesia dotta (fuori della quale non può esservi salvezza se non nell'austerità prosaica della storia), una polemica contro "il pittore di Ubeda, che, interrogato di quello che dipingesse, rispose: quel che verrà fuori". Tuttavia alcune voci si levarono in Spagna a difendere la libertà, sfrontatamente anticlassica, del teatro nazionale: soprattutto Juan de la Cueva nel 1606, e tre anni dopo lo stesso Lope de Vega nella Arte nueva de hacer comedia, mentre lo sviluppo del teatro elisabettiano rimase per lungo tempo quasi negletto dalla critica inglese.

Il compito di questa, da Ascham a Milton e oltre, parve consistere in un'adozione ortodossa delle dottrine conservatrici italiane e in un atteggiamento più che diffidente verso quelle tendenze romanzesche e spregiudicate della fantasia creatrice italiana che invece agivano a fondo sulla poesia inglese. Harington, che, per difendere l'Orlando Furioso, s'industria a dimostrarne la derivazione fedele dall'Eneide; sir Philip Sidney, che nella Apologie for Poetrie pone in cima al teatro inglese Ferrex and Porrex di Sackville e Norton, modellato su Seneca; umanisti e rigoristi, filosofi e puritani, Ben Jonson secondo cui il poeta prima d'ogni cosa dev'essere vir bonus, Milton che ribadisce questo concetto superando con l'esempio della sua poesia virtuosa e credente le condanne puritane dell'arte fra cui la più famosa era quella di Gosson, Bacone che, formulato il grandioso principio secondo cui l'arte sorge dall'insoddisfazione del mondo reale, non sa dedurne le conseguenze filosofiche che oggi se ne aspetterebbero e rimane a una interpretazione moralistica e didascalica delle sue proprie parole, tutti quanti si ricollegano all'ideale moralmente unitario e stilisticamente compatto del classicismo, tenendosi lontani quanto era possibile dal pluralismo della nuova drammaturgia e dall'ironia dissolvente dell'Amleto. Infine il giovane Pope dell'Essay on Criticism (1708) raccomanda perentoriamente l'imitazione dei Francesi, e si prepara a tradurre Omero in versi a rime baciate.

Un fenomeno grande e multiforme come quello che infine s'è chiamato romanticismo sorge da un complesso ugualmente cospicuo di cause religiose, filosofiche, sociali, politiche e più propriamente artistiche, talune delle quali, poste a confronto, stanno in contrasto, mentre poi cooperano allo stesso fine. Fra le cause e concomitanze religiose la più evidente è la Riforma protestante che col culto della Grazia e della Fede elevate polemicamente sopra le buone opere e la razionalità del dogma eccita a un simile atteggiamento verso la gratuità del genio e contro la disciplina delle regole e della tecnica; ma d'altra parte la Controriforma cattolica porta ; n varî modi il suo contributo, sia relegando l'arte, per timore di contaminarsene, in un campo riservato ai giuochi tollerabili, alle sottigliezze, alle acutezze, agl; ornamenti, alle tappezzerie, e perciò disimpegnandola, liberandola, alla fine sfrenandola; sia, invece, col volerla interprete esclusiva di cose religiose e sante,-ministra divina, avvalorandone così l'ambizione e l'enfasi; sia, infine, col diffondere universalmente, per il tramite dello sfarzo gesuitico. certe tendenze stilistiche d'un gusto lontano dalla classicità. L'avversione protestante per l'Italia e la Francia, e l'insofferenza spagnola, inglese, prussiana, dell'egemonia francese porta, su altre direttive di marcia, altri assalti alle medesime cittadelle del classicismo; e il crescere, l'ampliarsi di un pubblico borghese e popolano, anzi il primo vero e proprio formarsi di ciò che in senso moderno si chiamerà pubblico, sopraffà gli scrupoli del gusto aristocratico e cortigiano. A ciò si aggiunga, decisivamente, il venir su di filosofie più ricche e profonde del razionalismo cartesiano, il diffondersi del panteismo, del pietismo, dei varî misticismi e irrazionalismi settecenteschi, fino al riordinamento della conoscenza operato da Kant e dall'idealismo; il salire in fortuna e in autorità di nazioni presso le quali sul gusto gotico, medievale, primitivo, non era riuscito interamente l'innesto classico; l'approfondirsi di esplorazioni filologiche e, in tempo ulteriore, archeologiche che andavano rivelando una grecità diversa da quella epitomata da alessandrini e romani; l'influenza stilistica e ritmica, smisuratamente accresciuta, della Bibbia; l'imponenza, ormai, dei documenti artistici medievali e moderni, di gusto nuovo e diverso, che sfidavano l'equivoco virgiliano su cui s'erano fondate parecchie difese di Dante e dell'Ariosto, e chiedevano, ormai, giustificazioni meno cavillose.

Nato da tante confluenze spirituali, tuttavia il romanticismo ha un'unità di carattere; la quale non va ricercata nei giudizî e nei principî espressi da preromantici e romantici in una congerie enorme che soltanto l'artificio potrebbe illudersi di ridurre a sistema, sibbene nell'intenzione con cui esso affronta la poesia e il problema poetico, e che è per circa due secoli sostanzialmente costante. Se il classicismo voleva assegnare all'arte un posto nella compagine della vita, ma poi cadeva abitudinariamente nell'errore di darle un posto subordinato o pleonastico, di farne un'ancella o una prestanome di altre facoltà spirituali, contro questo errore insorgeva il romanticismo, rivendicando l'autonomia dell'arte, facendone in qualche modo la scoperta, ma cadendo a sua volta solitamente nell'errore di disarticolarla dalla compagine della vita. Se la passività più convenzionale e presupposta della critica classica fu il moralismo, la passività più congenita alla critica romantica fu ed è l'estetismo. Esso estetismo si presenta in due forme: o come riduzione dell'arte al minimo, a giuoco, a sfogo, a capriccio, a rimanenza di natura, di primitività, di barbarie, e in questo aspetto non può sboccare che alla condanna finale e al superamento dell'arte; ovvero come elevazione di essa al massimo, a facoltà spirituale suprema: donde quell'altro aspetto di decadenza noto più specificamente sotto il nome di estetismo, che giunse al massimo di estenuazione nel tardo Ottocento francese (Verlaine, Art poétique; Mallarmé, Prose) e nel dandismo inglese (Wilde, Intentions).

L'interpretazione quietistica e dilettantesca della differenza aristotelica fra poesia e storia, secondo cui la poesia, attenendosi agli universali fantastici, non deve ingerirsi nelle cose che spettano alla storia, allo Stato, alla Chiesa; una tendenza della Controriforma che accantonava l'arte facendone una specie di diletto non proibito purché non nocivo, e la conseguente predilezione secentesca e barocca per la poesia fiabesca e meravigliosa, contribuiscono radicalmente all'idea che la poesia sia fanciullezza o originaria natura e barbarie: idea sovversiva dell'ideale classico che aveva condotto la coscienza poetica dall'ambiguità di Femio e dalla riprovazione platonica alla catarsi aristotelica, all'apologia dello pseudo-Longino, alla giustificazione di Plotino, al canone virgiliano. Questa idea rivoluzionaria è enunciata lapidariamente dal Vico: "La maraviglia è figliuola dell'ignoranza... La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio... Gli uomini del mondo fanciullo per natura furono sublimi poeti". Essa poi, parzialmente riducibile nel modo che s'è visto a genealogia cattolica e barocca, prese forza espansiva dagl'impulsi protestanti e gotici che le si combinarono, dalla voga della natura, dell'istinto, della spontaneità, della popolarità, dalla difesa che il zurighese Bodmer nel trattato Del Meraviglioso (1740) fece dei diritti dell'immaginazione contro l'aridità volteriana; e combatté la sua battaglia capitale nella disputa del Laocoonte.

Winckelmann, l'archeologo ellenofilo, aveva stabilito quali caratteri distintivi dell'arte antica la nobile semplicità e la calma grandezza (edle Einfalt und stille Grösse), interpretando su questi criterî anche il gruppo statuario di Laocoonte e il Filottete di Sofocle. Lessing (che aveva già scritto le Lettere sulla letteratura contemporanea) nel piccolo libro Laocoonte (1766), proponendosi in apparenza di tracciare un limite netto fra la poesia e le arti del disegno, raggiungeva in realtà l'effetto di scatenare la passione, di svincolare l'espressione appassionata nell'arte. Egli ammetteva che le arti plastiche fossero governate da uno spirito di pacata maestà e avessero per oggetto il bello; non si opponeva all'interpretazione convenzionale del Laocoonte; ignorava, come tutti al suo tempo, lo stile violento di uno Skopas; ma per la poesia esigeva altre misure, dimostrando per es. che epici e tragici greci non repressero anzi esaltarono ogni genere di emozione, e sottoponendo il classicismo a un nuovo metodo d'indagine che doveva dislocarne i valori. Esagerando la scoperta di Lessing, si poteva giungere a una visione orgiastica e gotica o terribilmente grottesca dell'antichità; essa fu illustrata, con paradossale umore, dal Goethe nella Notte classica di santa Valpurga, e raggiunse l'apogeo, un secolo dopo Lessing, nella Nascita della Tragedia di Federico Nietzsche.

Il Lessing, quasi come Lutero nel suo secondo tempo, fece forza ai freni perché la sua rivolta non diventasse un'eversione; diede esempî di arte ben composta e di vita eloquente e veemente ma altamente virtuosa; tenne fede all'antico Aristotele nuovamente interpretato; nella Drammaturgia d'Amburgo s'industriò di conciliare gli opposti cercando nelle passioni eccitate dalla poesia una medicina catartica e stoica delle stesse passioni; respinse e condannò gli eccessi dei giovani, e di Goethe giovane fra essi. Ciò non impedì che Werther morisse con un dramma di Lessing sul leggio, né che lo Sturm und Drang, la bufera letteraria non ancora chiamata romanticismo, sradicasse, ormai consapevolmente, la tradizione. All'ideale, alla bellezza, ai modelli, furono sostituiti la natura, l'espressione, l'originalità del genio. La nuova intelligenza critica, così guidata, scoperse il vero Omero o quanto meno il suo Omero, come voce di natura e di popolo; anzi, in breve tempo lo risommerse e disciolse dentro l'anonimità del popolo e delle origini; mise in supremo rilievo la poesia greca, così restaurata e policroma; respinse in secondo piano la latina; giustificò gli elementi pluralistici, grotteschi, romanzeschi, fiabeschi dell'arte medievale; represse il neoclassicismo; svalutò la poesia francese tacciandola di prosaicità, di leziosa urbanità, di sofistico raziocinio; intraprese, con curiosità egualitaria, esplorazioni e ricerche in letterature antiche e moderne, raffinate e barbariche, europee e orientali; delineò l'Antivirgilio, il poeta d'impulso e di slancio, il fanciullo, l'epilettico, il sacro folle, quegli che doveva essere Byron, Euforione, Rimbaud; istituì valori passeggeri e di moda, come Ossian; e altri ne fondò durevoli, a capo di tutti Shakespeare.

Dallo Sturm und Drang al romanticismo propriamente detto, dall'insurrezione individualista all'inquadramento della critica letteraria nel divenire storico, si passa per rapide sfumature, senza distinzione tagliente. Avendo posto il contenuto della poesia nella passione e la sua forma nell'espressività, Lessing aveva creato definitivamente il metodo della critica romantica e il tipo del critico moderno. Questi è, inizialmente, un genio artistico, ed è, per destinazione, uno storico del genere umano quale esso è rivelato dall'umana fantasia. Stabilita prima di tutto, su criterî mobili e liberamente desunti dalla genialità del gusto, l'espressivita di un'opera letteraria, il critico l'adotta come documento umano, e la considera come microcosmo specchio di un macrocosmo, immagine del poeta, testimone dei tempi. Poiché tema della poesia è la passione, e con essa l'integralità dell'uomo, e suo fine è nient'altro che dirla, nessuna indagine è preclusa al critico letterario; e tutta la scala spirituale è sua, dalla poesia alla metafisica. Ai termini nuovi venuti in voga nel secolo precedente, ed estensivi del campo critico, quali fantasia, spirito, umore, gusto, altri e più suggestivi se ne aggiungono, principalmente intuizione, impressione, interesse, ironia, carattere, personaggio. Il critico diviene soprattutto, o aspira a divenire, un poeta di secondo grado, come chi dicesse un poeta ulteriore, vagliato, selettivo, coscienza e lampada della creazione poetica. Ciò che il poeta fa con la natura e la storia, fa il critico con la poesia: la rivive, la conferma ed eterna; ai suoi personaggi conferisce un più sintetico e concluso rilievo; e in nessun altro compito quanto nella rielaborazione dei personaggi poetici, a cominciare dal poeta-protagonista, eccelle questo metodo. Paradigma venerabile ne rimase la ricostruzione di Amleto nel Wilhelm Meister di Goethe.

Perciò da questo punto in poi riesce più che mai difficile sceverare la critica letteraria dalle attività spirituali finitime, dalla poesia, dalla storia, dalla filosofia. È critico Herder il raccoglitore, né più né meno che Goethe e Schiller, interprete estetico di Kant, e gli altri minori poeti; sono critici Tieck e gli Schlegel, i banditori, i polemisti, gli storici, come critici alle loro occasioni saranno più tardi storici politici quali Mommsen o Treitschke; e critici sono Wackenroder e Novalis, disgregatore del significato poetico nella fluidità musicale, i neofiti mistici; critico è Schopenhauer, che si stabilisce emulo della poesia e della musica; o, spesso acuto e sensibile quanto il letterato più esperto, Hegel, che di tutte le arti s'istituisce erede. La seconda metà del secolo decimonono in Germania prosegue, in quanto è fertile ancora, il metodo della prima; e sui critici del tempo, sia che discorra frammentariamente di antichi o di moderni, s'innalza il Nietzsche; nei paesi più immediatamente vicini e soggetti alle influenze tedesche le spinte della critica letteraria tedesca si riflettono, più o meno adattate; il danese Georg Brandes, per addurre un caso, nel suo vasto reportage culturale sembra riecheggiare, su mutati sfondi filosofici, il grandioso eclettismo di un Herder; il russo Dostoevskij, sia che celebri Puškin sia che assegni una missione alla letteratura del suo paese, applica allo slavismo l'idea nazionale di Lessing o dello Sturm und Drang, l'ideale umano di Herder o Schiller.

Tutte le maggiori nazioni partecipano in pieno al movimento; taluna, com'è naturale, con particolare insistenza su problemi e attitudini che le sono più congeniali. Si esemplificherà brevissimamente per l'Inghilterra e la Francia. In Inghilterra fiorisce ininterrottamente il genere preferito, l'essay, dalla larga ed elastica struttura che conviene egregiamente alla multipla mentalità romantica; e numerosi, fino a Matthew Arnold e oltre, ne sono i maestri; inoltre si studia con speciale fervore la teoria della lirica. L'idea del sublime di Burke, il rivissuto platonismo di Shelley, l'immaginazione trascendentale di Coleridge s'incrociano con altre tendenze: fra cui la più notevole è quella di Wordsworth, preludio a molto "intimismo" in inglese e continentale. Edgardo Poe, in America, respinge l'autorità di Wordsworth, e ricollegandosi piuttosto a Coleridge, formula potentemente (The poetic principle, Philosophy of composition, The Rationale of Verse) le dottrine chc porteranno alla poésie pure, alla tesi del frammento o del componimento brevissimo come sola salvazione poetica, e insieme ad esse le dottrine dell'incantesimo verbale e della suggestione metrica, attraverso le quali la tecnica e le regole del classicismo tenteranno, specialmente in Francia, una risurrezione. Verso il declinare del secolo la cultura letteraria inglese dall'eroismo ritrattista e dal profetismo di Carlyle, rivissuto in America da Emerson, scende alle contemplazioni degli esteti, spesso più attenti alla pittura e alla musica che alla poesia: fra i quali Walter Pater, prima di Oscar Wilde, ha una posizione eminente. Le loro intenzioni hanno valore durevole soprattutto in quanto preludono a ricerche rigorose sui mezzi espressivi, sulla tecnica degli artisti.

La Francia aveva già una sua mentalità preromantica preparata dal sentimentalismo e dal naturalismo settecenteschi, da Rousseau, da Diderot, quando l'inserzione tedesca, operata precipuamente da Madame de Staël, ne precipitò lo sviluppo. Per la critica francese l'essenziale era prendere posizione davanti ai problemi nazionali del teatro drammatico e dello stile esatto. Introdotto dagli avanguardisti, fra cui Stendhal, il gusto shakespeariano, Victor Hugo nella prefazione al Cromwell (1827) sistema tutta la letteratura, anzi tutta la storia moderna, in un dualismo drammatico cristiano (che è in buona parte Corneille amplificato) e in un sentimento tragicomico del grottesco; coltiva in sé la sagoma del poeta byroniano o del bardo; col suo sperimentalismo, benché per conto suo sappia rimanere abbastanza ragionevole, apre la via a ogni estremo e alle cosiddette alchimie liriche. A tutti i critici del tempo sovrasta Sainte-Beuve, integralmente storico, capace - quando meschine passioni egotistiche non lo offuschino - di considerare l'opera d'arte da molti aspetti; sostanzialmente poco interessato alla svalutazione o rivalutazione della letteratura francese; francese più d'intelligenza e di preparazione che di preconcetti; poco incline a tendenze; o, se una ne preferì, all'intimismo inglese, di cui fu l'importatore in Francia. L'anglofilo e protestante Taine, dopo di lui, sarà un Sainte-Beuve con minor gioia estetica. Baudelaire, impressionato da Poe, spinge la poesia francese alle ultime Thuli romantiche, in pari tempo accelerando, con la magia dei metri chiusi e la cabala verbale, una reinterpretazione del classicismo. Questa antinomia si riproduce fra i simbolisti; mentre, non lontano da loro, Flaubert, agitatissimo critico, cozza contro il mistero della frase. Per il contenuto sentimentale essi riescono finalmente a portare nella chiara raison francese la dissoluzione e il turbamento di un vero e proprio romanticismo, non più estrinseco e accattato come quello del '30; ma d'altra parte con le acutezze e precisioni metaforiche, verbali, sillabiche, preparano - al di là del tempo scientifico e catalogatore dominato da critici del tipo di Ferdinando Brunetière - il ritorno a Racine e al gusto, nuovamente atteggiato, del gran secolo. Paul Valéry, il grammatico e intellettualista, sopraggiunge sul simbolismo esausto come un nuovo e maggiore Malherbe.

In Italia la critica romantica assunse fin da principio caratteristiche sue proprie, ricongiungendosi - attraverso la reazione antibarocca iniziata dall'Arcadia e perfezionata dal didascalismo pariniano - ai problemi aristotelici della Controriforma, e riducendosi in ultima analisi a una conservazione, anzi restaurazione, del gusto tradizionale classico, col contenuto adeguato ai tempi nuovi, cristiani e democratici, e la forma sviluppata e disciolta in cristiana e democratica popolarità. Berchet ne fu il banditore con la Lettera semiseria di Grisostomo (1816), Manzoni la massima autorità. Egli conciliò in sé l'amore di Virgilio con quello di Shakespeare, in nome del verosimile e del bene; per le stesse ragioni riprese la lotta contro la tragedia francese e le unità drammatiche; e agli stessi criterî sottopose la questione della lingua; dell'arte in generale pensando, per il tramite rosminiano, in un modo intermedio fra platonismo e neoplatonismo, preannunziando in varî atteggiamenti il rigorismo pedagogico di cui si farà apostolo alla fine del secolo Tolstoj. Mentre il Leopardi nella sua solitudine preservava i metodi della critica neoclassica, pur restando tutt'altro che insensibile a romanticissime correnti quali quelle di Werther e di Byron, il Tommaseo portava un manzonismo inasprito nella polemica e nella critica militante. Ma l'indole di quel primo romanticismo italiano - nazionale, popolare, universale - mirava alla costruzione storica più che al singolo saggio e giudizio, e nelle ideazioni storiche, su un terreno già dissodato dall'insoddisfatto fervore di Ugo Foscolo, si provarono variamente il Mazzini, il Gioberti, l'Emiliani-Giudici, il Settembrini, finché giunse, a conchiusione di tutto un travaglio, Francesco De Sanctis (1817-1883).

Questi, eccellente fra i critici nostri dell'Ottocento e fra i critici e storici letterarî di ogni luogo e ogni tempo, alla sua singolare fortuna fu aiutato da peculiarità del suo destino che, considerate isolatamente, potrebbero sembrare sfavorevoli. L'essere nato meridionale (a Morra Irpina nell'avellinese) e l'aver vissuto a Napoli, a Torino, a Zurigo, lungi dai centri dell'accademismo letterario, gli mantenne la freschezza e spregiudicatezza dell'intendimento estetico; l'aver riconosciuto di buon'ora la sua insufficienza alla poesia diretta (derivante forse da una certa imprecisione e fuggevolezza del suo senso ritmico) gli concentrò tutte le forze in quella specie di poesia proiettiva o indiretta che fu, nelle ore più grandi, la sua critica espositiva; l'aver cominciato tardi a scrivere, dopo la gioventù e parte della maturità consumate nell'insegnamento orale, nella lotta politica, nel carcere, nell'esilio, assommatasi tanta esperienza ormai tutta mnemonica e cordiale, diede alle sue esposizioni e ai suoi racconti letterarî il tono affettuoso e profondo di chi narra la propria vita. L'uomo di famiglia, di parte, di patria, il cospiratore e martire, il professore, il ministro, tutte le virtù private e pubbliche, aggiunsero al suo senso del bello gravi risonanze morali; le letture, scelte e insistenti, gli divennero midolla; i poeti stranieri, alcuni dei quali conosciuti intimamente, gli fornirono punti di riferimento; Hegel, più ancora che direttive dottrinali, gli comunicò l'amore per le grandiose architetture storiche. Nelle lezioni, nei saggi, specialmente quando il tema era più vicino alle sue facoltà che prediligevano il personaggio drammatico e la confessione biografica, mentre potevano restare aliene da lirismi più rarefatti e musicali ed erano volentieri sospettose delle ideazioni concettuali e metafisiche, raggiunse effetti d'insuperata potenza; le sue celebri riplasmazioni di personaggi dell'Inferno dantesco, degne di Dante stesso, sono oggi splendide come il primo giorno. Nella Storia della letteratura italiana, tutta intelligenza e ardore, trovò un equilibrio senza pari fra l'individualità dell'artista, la sua libertà di tradurre in espressione la libera impressione, e una gravitazione storica che riconduce alla disciplina universale ogni vero poema, ogni vero poeta, inserendolo - consapevole o no - nella linea di un divenire patriottico, religioso, filantropico, illuminato.

Idee meno ampie governarono la critica negli anni successivi, sotto la costellazione del verismo e del neopaganesimo in arte, dell'erudizione in storia. Primeggiarono in questo periodo, accanto al dotto entusiasmo poetico di Giosue Carducci, uomini di filologica sagacia e dottrina quali Pio Rajna e Alessandro D'Ancona. Ma l'idea desanctisiana dell'arte, pur se combattuta e negata, perdurò, soprattutto nel Mezzogiorno, dove ne fu adepto ingegnoso, fra gli altri, Luigi Capuana. A questa sopravvivenza si aggiunse, nell'ultimo decennio del secolo, un nuovo moto, complesso e qualche vvlta confuso, di diverse origini, sentito molto vivacemente fra i gruppi poetici e artistici, benché poco avvertito nel pubblico e nelle scuole. Vi ebbe gran parte direttamente il simbolismo francese; indirettamente Henri Bergson, legislatore del simbolismo, precursore di tutte le scuole successive; più vistosa fu l'influenza dei musicisti tedeschi e degli scrittori e artisti inglesi, neoplatonici come Shelley, preraffaelliti (cioè supposti primitivi), edonisti ed esteti; Schopenhauer, Wagner, Nietzsche, Walter Paier, Oscar Wilde, furono avidamente letti e assimilati; fra i mediatori emersero Vittorio Pica, specialmente versato nell'impressionismo e decadentismo francese, Adolfo De Bosis, anglista, Angelo Conti, la cui polemica contro Adolfo Venturi a proposito di Giorgione batté in breccia tutto il metodo storico degli eruditi, e la cui Beata Riva (1900) costituì il precedente più immediato della nuova filosofia. Dalle combinazioni di questi estetismi con l'estetica desanctisiana nacque il secondo romanticismo italiano. La Sirenetta di Gabriele D'Annunzio ne diede la parola d'ordine nel '98: "per cantare solamente"; ma già l'anno innanzi Giovanni Pascoli aveva svolto la dottrina del Fanciullino, cioè del poeta lirico, primordiale, frammentario, puro.

Il gusto e i bisogni creativi del nuovo tempo trovarono dignità razionale e teoretica nell'opera del filosofo e critico Benedetto Croce, alunno ideale del De Sanctis, ma svoltosi per strade sue: il quale ancora nel 1908 definiva l'arte "un bel bambino". La sua Estetica, che apparve nel 1902 e subito conquistò favore grande presso pubblico e scrittori, partiva da una formula felice che identificava intuizione e espressione, e la svolgeva con una dialettica seducente liberando la poesia da ogni soggezione purché rimanesse al primo e più basso grado della vita spirituale. Nella sua rivista la Critica e in un'opera estremamente ponderosa e multiforme il Croce si provò anche ad applicare a gran numero di prosatori e poeti il suo credo individualista e intuizionista dell'arte; ma i suoi saggi critici, più assai che per forza di persuasione teorica ed esemplare, valgono per la chiarezza dell'erudizione, per l'asciutta eleganza del dettato, per la nativa sanità di gusto con cui il Croce sa avvicinarsi a certe forme d'arte, come la lirica del Di Giacomo o la prosa novellistica del Verga. Più tardi indagò scrittori d'altri tempi e d'altri livelli, Goethe, Dante, Shakespeare, raggiungendo risultati di maggiore o minor pregio. Il massimo di coerenza fu da lui toccato nel saggio sull'Ariosto: la cui indeterminazione concettuale, il cui disinteresse fantastico egli poté sentire con amore e con gioia, chiamandolo armonia.

Il Croce e il neoidealismo restituirono al pensiero letterario italiano il prestigio internazionale che esso aveva perduto dal Seicento e che né il Vico né il Manzoni né il De Sanctis erano valsi a riconquistargli. In Italia le azioni e reazioni furono numerose e diverse. Il giornalismo, il futurismo, il frammentismo si giovarono più prontamente della teoria intuizionista-espressionista condotta ai loro fini; fra i critici dell'impressione e della sensibilità pura emerse Renato Serra; altri invece, come V. Gerace, tentava la restaurazione del neoclassicismo; altri ancora esperimentavano un contenutismo che, tranne la differenza dei presupposti ideologici, ricordava certi atteggiamenti del primo romanticismo italiano. Nelle università una tendenza, di cui si potrebbe eleggere rappresentante Vittorio Rossi, conservava il metodo storico senza ignorare le novità; un'altra, col Cesareo, continuava per vie sue la tradizione desanctisiana; Arturo Farinelli esplorava con herderiano fervore letterature di molte epoche e nazioni; Cesare De Lollis tornava, con l'Estetica alla mano, all'analisi classicista della parola e del verso; altri, e fra essi Attilio Momigliano, da una cultura non troppo dottrinaria traevano libertà sufficiente per una forma italiana di essay e per un ritorno alla possibilità di narrare integralmente la storia dei poeti e della poesia. Il Croce intanto per conto suo, pur respingendo polemicamente le obiezioni dei suoi critici, non tralasciava di ascoltarle, né di ascoltare fra sé la sua propria inquietudine per alcune carenze e clausure della sua dottrina, segnatamente per quella che isolava monadisticamente l'opera d'arte, anzi la quintessenza poetica che ogni opera d'arte nasconde fra i miscugli, inibendole il passaggio nell'universale e nella storia. Da ciò le pagine aggiuntive e correttive: quelle in cui il sentimento è riintrodotto nella poesia sotto nome di liricità (1908), quelle sulla totalità (1917), quelle infine dell'Aesthetica in nuce (articolo Aesthetics nella 14ª edizione della Encyclopaedia Britannica, 1929), di tutte le più comprensive e accoglienti, ma anche di tutte le più generiche. Contemporaneamente la crisi e gli sviluppi del neoidealismo si manifestavano per altri segni, principalmente per l'avvicinamento operato da G. Gentile del concetto di arte al concetto di religione, e per le ulteriori elaborazioni delle sue idee estetiche. Il Borgese intanto in tutta la sua opera insisteva sulle idee di costruzione, di architettura, di stile, di trasfigurazione creatrice; sulla sterilità del frammento; sull'illusione dell'atomismo lirico e del singolo capolavoro; sulla possibilità e necessità d'intendere la storia della poesia con coerenza narrativa, come un'unica Bibbia, anzi un unico capolavoro in perpetuo fieri; sull'indipendenza e specialità o autonomia dei mezzi artistici, dell'espressione, della parola, dentro la coordinazione paritaria della poesia nell'universalità dello spirito; sulla coesistenza di sensibilità e conoscenza nel critico; sull'organicità di poeta e poesia.

Molti critici e studiosi fuori d'Italia sono stati e rimangono in relazioni di dipendenza o di libera intimità con la nuova critica italiana: tra essi ricordabile prima di tutti il tedesco Karl Vossler. In Germania e in ogni dove, peraltro, le tendenze della critica contemporanea sono così ramificate e capillari, spesso così perplesse sulla direzione del corso, che una loro descrizione schematica sarebbe ancora eccessivamente prematura. Solo può dirsi per la Germania, dove la biografia e l'essayisme avevano raggiunto la finitezza e complessità di un Dilthey, di un Gundolf, che dalle crudezze e dai bagliori espressionistici riemergono necessità ricostruttive, sia nella direzione di uno storicismo psicologico, non chiuso alle influenze freudiane, di cui può essere campione e divulgatore Stefan Zweig, sia in un'analisi scientifica e introspettiva della fenomenologia artistica (Strich): campo di studî di grande avvenire. Né serve elencare nomi di critici spagnoli, tra i quali primeggiò il caldo, appassionato sapere di Menéndez y Pelayo; o di critici inglesi, da Middleton Murry a Lytton Strachey, a Edmond Gosse: giovando solamente accennare al carattere integralista ed essayista che ancora e sempre prevale in Inghilterra, dove Orlo Williams definiva la critica "a fully conscious intellectual and human activity"; o di critici di lingua inglese, da Ernest Boyd a Irving Babbitt, da J. E. Spingarn a H. L. Mencken, viventi e scriventi in America, dove un'analoga direttiva con inclinazioni che potrebbero chiamarsi neoumanistiche predomina, e dove T. S. Eliot, stabilitosi dal 1913 in Inghilterra, disegnò l'ideale del perfetto critico (The perfect critic) indicandone il più felice adempimento nell'unione di critico e poeta nella stessa persona.

In Francia la discussione della poeśie pure, la rivalutazione di Racine, la polemica sul bergsonismo, sono stati gli episodî più cospicui negli anni del dopoguerra. Particolare alla Francia contemporanea, dove i critici significativi, da Valéry a Claudel, da Gide a Alain, da Brémond a Benda, da Jaloux a Gillet, da Du Bos a Lalou, a Crémieux, a Thibaudet, a Fernandez, sono numerosi in ogni tendenza, oltre la penetrazione psicologica e affettiva di buona scuola stendhaliana e sanboviana, è l'ostinata volontà di restaurare la forma chiusa, la perfezione del logos, la santità del verbum, su moduli critici che, compiuto il ciclo romantico e simbolista, ricadono talvolta su sé stessi, ripetendo posizioni geometriche che alludono, da non troppo lontano, a un classicismo razionalista e calligrafico del tipo di Boileau.

Se gli sviluppi del romanticismo e dell'ultraromanticismo sono virtualmente esauriti, una reintegrazione del classicismo sic et simpliciter non sarebbe che un'involuzione; ed è idealmente impossibile. Il compito della nuova critica consiste nell'assommare le due esperienze evitando i due pericoli: tanto quello che cristallizza la poesia quanto quello che la disgrega e la converte in caos. I mezzi di espressione, la lingua, il suono, il ritmo, l'immagine, la frase, saranno studiati nella loro concretezza fisica e storica, non rinserrati un'altra volta in astrattezze falsamente logiche; e questa è una scienza nuova, quasi tutta da fare. L'epoca vuol essere di ricostruzione, di organicità; essa non chiede che la poesia abdichi all'autonomia conquistata, ritornando pseudonimo e ornamento del bene e del vero; ma chiede ch'essa sia nel quadro, nell'armonia delle facoltà, cooperatrice nei proprî modi al moto universale; non più soltanto espressiva dell'intuita realtà, ma foggiatrice di modelli, creatrice e generante future ipotetiche essenze. L'idea kantiana dell'arte come rivelatrice della destinazione dell'uomo chiede nuovi discepoli e interpreti. Incamminata su questa via, la nuova critica letteraria intravede già ricostruirsi la figura ideale del poeta: al quale non occorre ridivenire mago e profeta come Virgilio medievale, ma a cui non conviene nemmeno idoleggiarsi degradato a idiota e maudit come avvenne nei momenti più oscuri della decadenza.

Bibl.: G. Saintsbury, A history of Criticism and literary Taste in Europe, voll. 3, 4ª ed., Edimburgo e Londra 1922-23; O. Bacci, La critica letteraria (Dall'antichità classica al Rinascimento), Milano 1910; C. Trabalza, La critica letteraria (Secoli XV-XVI-XVII), Milano 1915; J. E. Spingarn, A history of literary Criticism in the Renaissance, 5ª ed., New York 1925 (traduzione italiana di A. Fusco con pref. di B. Croce, Bari 1905); G. Toffanin, La fine dell'Umanesimo, Torino 1920; id., Che cosa fu l'Umanesimo, Firenze 1929; B. Croce, Estetica, 6ª ed., Bari 1928; id., Problemi di estetica, 2ª ed., Bari 1923; id., Nuovi saggi di estetica, 2ª ed., Bari 1926; G. Gentile, Dante e Manzoni. Con un saggio su Arte e Religione, Firenze 1923; id., Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano 1921; id., La filosofia dell'arte, Milano 1931; G. A. Borghese, Storia della critica romantica in Italia, 2ª ed., Milano 1920; id., Critica del concetto di originalità nell'arte, in Bericht. ü. d. III. intern. Kongress für Philos., Heidelberg 1909; id., Il metodo nella storia dell'arte, in Conciliatore, 1914; id., Figurazione e trasfigurazione, in Fiera letteraria, 1926; L. Tonelli, La critica, Roma 1920; F. Bruno, Il problema estetico contemporaneo, Lanciano 1928; P. Kluckhohn e E. Rothacker, Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, Halle 1923 segg.; M. Rouzaud, Où va la critique?, Parigi 1929; O. Williams, Contemporary Criticism of Literature, Londra 1924; I. Babbitt e altri, Criticism in America, New York 1924.

La critica d'arte.

Il problema dell'origine, così per l'arte come per la critica d'arte, è metafisico e non storico: ogni volta che affiora, la critica d'arte trova nella sua umanità la sua origine. Si può indulgere al mito secondo cui il primo artista, dopo aver fatto la prima opera, l'abbia guardata e giudicata e in quel giudizio abbia concretato la più antica critica d'arte; ma se la critica d'arte è l'opera del philosophus additus artifici, poiché l'estetica è scienza tutta moderna, una vera critica d'arte, che riconosca il campo proprio dell'arte, distinta dalle altre attività dello spirito, appartiene soltanto all'epoca moderna. In assenza di un concetto chiaro dell'arte, gli antichi scrittori di critica, e gran parte anche dei moderni, sono caduti nei pregiudizî dell'intellettualismo e del moralismo, e hanno cercato di liberarsene: la serie appunto dei tentativi di liberazione, per forza intuitiva, costituisce la linea dello sviluppo storico della critica d'arte.

L'identità di storia e di critica d'arte è fenomeno tutto recente. Negli antichi scrittori la critica d'arte appare un contributo frammentario a un organismo di carattere non critico. L'antichità classica ci fornisce due esempî tipici di tali organismi: il trattato De architectura di Vitruvio e le "vite" degli artisti nella Naturalis Historia di Plinio. Un trattato può contenere critica d'arte quando la "regola", che esso fornisce con intento universalizzante, individua un tipo d'arte distinguendolo dagli altri tipi; allora la regola non è più tale; non è più la definizione estetica di un aspetto dell'arte, ma la definizione critica di un'arte storicamente determinata. Le vite degli artisti poi, contengono critica d'arte quando riescono ad assurgere dalla pura informazione al giudizio dell'arte. Nel caso di Plinio si può riconoscere che egli fornisce critica d'arte quando trae da Senocrate di Sicione le idee sulle conquiste successive degli scultori e dei pittori, assai meno quando ripete gli aneddoti di Duride di Samo. Parimente Vitruvio parla dello scibile in rapporto con l'architettura, e quindi dei materiali, delle condizioni e convenienze sociali, dell'igiene, dell'astronomia e della meccanica; e sfiora la critica d'arte solo quando indica e commenta i suoi schemi estetici, assai confusi, ma pur tutti riferentisi all'architettura greco-romana del suo tempo: ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor, distributio. Anche nella letteratura dell'εκϕρασις, descrizione di opere d'arte di carattere giornalistico, e dell'epigramma è possibile trovare qualche spunto critico; assai meno nella letteratura topografica, come quella di Pausania.

Come per la forma dell'esposizione, così per il modo del giudizio, la letteratura artistica dell'antichità servì di modello ai tempi posteriori. È noto come tuttora perduri il criterio di giudizio basato sull'imitazione della natura fisica e psicologica, che nasconde il pregiudizio della necessità per l'artista della conoscenza scientifica della natura. I Greci naturalmente intesero che imitare non bastava, ma che bisognava idealizzare. Poiché concepivano la fantasia come immaginazione meccanica, per idealizzare escogitarono una scelta di particolari contenuti, assunti come artistici, anziché dell'aspetto artistico di ogni realtà, e confusero l'idealizzazione con l'astrazione del tipo e con le proporzioni aritmetiche. Senza poter mettersi d'accordo, scelsero un tipo d'arte come diapason di ogni arte, e quello considerarono la perfezione, alla quale si perviene col progresso e dalla quale ci si allontana con la decadenza. La forma plastica fu considerata un aspetto dell'arte più intellettuale del colorito, e quindi questo fu svalutato, come elemento sensuale.

Sin dal sec. VI d. C. gli scrittori s'accorsero che l'arte nuova si fondava sulle malie del colore, sul brillare delle luci; e non s'occuparono più della forma. Le regole scomparvero, e furono sostituite dalle ricette. Ai trattati furono sostituiti i ricettarî; il pregiudizio intellettualistico dell'imitazione e dell'idealizzazione della natura scomparve, e fu sostituito dal pregiudizio "morale". Teofilo (sec. XII) non insegna come un artista possa essere formato, ma come si decori la casa di Dio; e in tal modo sostituisce alla superbia dello scienziato pagano, l'umiltà dell'artista cristiano che lavora secondo l'ispirazione, intesa come emanazione divina. Un altro autore di ricettarî, Cennino Cennini (sec. XIV), mantiene al suo pensiero le qualità morali di Teofilo, e nello stesso tempo riprende in considerazione la personalità dell'artista; giustapponendo ingenuamente due opposte civiltà, parla dei diritti della fantasia come dello studio della natura.

L'interesse per le vite degli artisti è ripreso con una compilazione pliniana dal Petrarca, e con la celebrazione di artisti fiorentini da Filippo Villani (1382) e di artisti dell'Italia centrale da Lorenzo Ghiberti (1455 c.). Un uomo di genio, Leon Battista Alberti, scrisse un trattato di pittura (1436) e uno di architettura (1452). Per questo il modello di Vitruvio prevalse; per quello, in reazione a Plinio, l'Alberti trasse dall'esperienza diretta della nuova pittura fiorentina una teoria, che assomiglia molto alla definizione storica del gusto di lui. L'arte è tornata ad essere conoscenza del vero, ed è stretta entro le linee precise della prospettiva scientifica; ma l'artista deve avere il senso mistico della bellezza, deve contemplare la vita anziché parteciparvi, per seguire un'ideale di dignità. I risultati saranno obiettivi e scientifici, ma i modi sono soggettivi e artistici. Si mantiene all'artista il suo carattere, ma si vuole che la sua opera sia scientifica. Anche Leonardo da Vinci ha piena coscienza della superiorità dell'artista sullo scienziato ma non dubita di assegnargli compito scientifico.

La teoria fiorentina della pittura, dall'Alberti a Leonardo, rinnova le preferenze per la forma di fronte al colore, e per l'ideale di fronte al reale. Tuttavia Leonardo tende a comprendere nella forma la necessità del colore, e ammette l'ideale soltanto dopo aver conosciuto a perfezione il reale. Alcuni scrittori viventi a Venezia rispecchiarono le necessità del colore proclamate dai pittori veneziani: essi furono specialmente Pietro Aretino, Ludovico Dolce e Paolo Pino. Per insufficienza teorica, difesero le ragioni del colore in nome del naturalismo soltanto, senza sospettare che ci poteva essere un ideale del colore come della forma. E il Pino, per incertezza, affacciò l'ideale del contemperamento tra la forma fiorentina-romana e il colorito veneziano. Malgrado i suoi limiti, fu una grande scoperta critica, suggerita da un accenno classico, quella che permise d'intendere che la perfezione di Michelangelo era diversa da quella di Raffaello e questa da quella di Tiziano, ma erano tutte e tre perfezioni. Era cioè un modo d'avvicinarsi a intendere l'identificazione tra la perfezione di ogni artista e la sua personali à. A identificare pienamente mancava la capacità di assegnare concretezza storica alla perfezione vantata; perciò in Michelangelo si vide la peAezione del nudo, in Raffaello quella della grazia, in Tiziano quella del colore. Astrazioni tutte, anziché concrete realtà. E però i trattati, invece di avviarsi alla storia, formularono precetti di eclettismo, con danno dell'arte, come i Carracci dimostrano. I trattati più ricchi di critica della seconda metà del Cinquecento, sono quelli del Lomazzo e dell'Armenini. Nel suo trattato sull'architettura, l'Alberti si limitava ad aggiungere alle idee di Vitruvio la propria coscienza del carattere contemplativo e mistico dell'arte. I trattatisti posteriori d'architettura diventarono sempre più tecnici, sempre più ingegneri, e meno interessanti per la storia della critica. Tuttavia, per opera soprattutto del Serlio e del Palladio, prepararono quella libertà pittoresca su base classica, che ha costituito l'architettura barocca.

Nel frattempo Giorgio Vasari scriveva le Vite, dando uno sviluppo tutto nuovo a questa forma di critica, sì da impersonarla fino ai tempi nostri. Egli assimila i pregiudizî del progresso e della decadenza, della perfezione di Michelangelo come diapason per gli altri artisti, dell'imitazione della natura e dell'idealizzazione tipologica, della preferenza della forma, e così via; pure questi e altri pregiudizî sono attenuati, più che nei trattatisti, perché egli è l'artista che parla dell'artista, che l'accompagna con simpatia, che ne inventa le leggende, e quanto più si avvicina all'uomo, tanto più toglie astrazione alla definizione della sua arte e le assegna carattere di "storia". Si può dire che le idee estetiche a cui il Vasari obbedisce sono un ostacolo alla sua critica, e invece le sue intuizioni, contraddicentisi e ingenue, frammentarie e romanzesche, salvano la sua critica. Perciò egli può dire di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, e di altri contemporanei, qualche parola che vive tuttora.

Il concilio di Trento suscitò esigenze moralistiche nella pittura, prive tuttavia della necessaria libertà di sentimento, e però senza efficacia sull'ulteriore sviluppo della critica: gli scritti del Gilio, dell'Ammanati, del cardinale Paleotti ne sono tipici esempî.

La voce del Vasari ebbe una grande eco anche fuori d'Italia. Mentre per opera del Baglioni, del Passeri, del Pascoli, e soprattutto del Baldinucci, si tentava di universalizzare la redazione delle vite, ogni regione ebbe il suo cronista d'arte, magari in polemica col Vasari. Così il Ridolfi, il Boschini e lo Zanetti per Venezia, il Malvasia per Bologna, il Pascoli per Perugia, il Soprani per Genova, il De Dominici per Napoli. Fuori d'Italia, dopo Karel van Mander (1548-1606) che è ad un tempo trattatista e biografo, scrivono vite il Houbraken per l'Olanda, il Sandrart per la Germania, il Félibien e il Roger de Piles per la Francia, il Palomino per la Spagna, il Walpole per l'Inghilterra. Ma lo sviluppo delle idee si compie in Italia e in Francia.

A Roma una posizione tipica è assunta da Gian Pietro Bellori, che attua nella critica il suo ideale classico fondato sulle statue antiche e su Raffaello. Il suo ideale è condiviso da Nicola Poussin, e quindi passa in Francia, e diventa la base dell'Accademia francese, bene interpretata dal Félibien. Tale ideale proveniva dal Rinascimento italiano, depurato di tutti gli entusiasmi creativi che non mancavano nemmeno ai manieristi (il Vasari impersona il suo diapason in Michelangelo, il Bellori in un'astrazione comprendente Raffaello e le statue antiche). Chi invece aveva l'animo aperto alle nuove possibilità dell'arte, ai rapporti tra l'espressione artistica e la passionalità della vita barocca, lasciava da parte statue antiche e Raffaello, ed esaltava la vivacità del colorito, della luce, del tocco. A Venezia, Marco Boschini trova gli accenti più convinti per esaltare Tintoretto, e in Francia, De Piles per esaltare Rubens. Ma la riforma neoclassica batte alle porte: la presente già lo Zanettì, e in parte l'accetta il Lanzi.

I fondatori della critica neoclassica sono il Mengs e il Winckelmann. Il primo, in una serie di discorsi teorici, tende ad astrarre la perfezione del gusto dall'esperienza di Raffaello, Correggio e Tiziano, in una maniera che si distingue dall'eclettismo carraccesco, soltanto per una maggiore serietà di pensiero. Ma per essa si affaccia la pretesa di "un'arte filosofica", che è poi l'ingenua proiezione, nell'arte, in quanto è contenuto della critica, di ciò che appartiene soltanto alla forma della critica stessa.

Parimente Giovanni Winckelmann si attiene alla tradizione italiana per l'interpretazione dell'arte, vi aggiunge una tutta nuova serietà nell'interpretazione dei monumenti antichi, e soprattutto sostituisce alle "vite degli artisti" una "storia dell'arte". Il successo dell'innovazione, che dura tuttora, dimostra che essa fu un progresso. Infatti nelle vite le notizie sull'uomo troppo s'intrecciavano con la valutazione sull'arte. Ma che cosa è per il Winckelmann l'arte superatrice dell'individuo empirico? È una forma astratta, che vive e si sviluppa per necessità fisica, concepita con una mente analoga a quella in cui il Buffon immaginò il suo Système de la nature. In tal modo, se alcuni elementi dell'arte potevano essere conosciuti e analizzati in una maniera migliore di prima, i pregiudizî intellettualistici dell'antichità e del Rinascimento venivano a essere organizzati e aggravati, per ostacolare sempre più la libera intuizione dell'arte. Soprattutto l'individualità dell'opera d'arte e la sua connessione con l'individualità dell'artista venivano assolutamente compromesse.

La non sufficiente individuazione della critica del Winckelmann fu sentita, perché il fenomeno figurativo vi era trattato in un modo generico e confuso col fenomeno letterario, secondo la tradizione della critica francese sino al Diderot. A tale confusione si oppose il Lessing col suo famoso Laocoonte, che segna una tappa essenziale nello sviluppo della coscienza individuatrice della critica d'arte.

Poco dopo, e sempre in Germania, l'inizio del romanticismo diede alla critica d'arte un problema diverso, per opera del Wackenroder, del Tieck e dei due Schlegel. Dal Rinascimento in poi la critica aveva ammesso il diritto della fantasia e del sentimento, soltanto a condizione che fosse prima osservata una certa conoscenza intellettualistica della realtà. Si poteva fare a meno di questa condizione? L'entusiasmo sentimentale che portò alla scoperta dei primitivi parve condurre alla liberazione da quella condizione; ma le statue greche, che tutti ammiravano, ma il Winckelmann, di cui non si poteva fare a meno, avevano osservato quella condizione. E però dopo i primi entusiasmi si cercarono i compromessi.

Nel frattempo il rigoglioso sviluppo dell'estetica idealistica permise alla critica d'arte di servirsi del nuovo concetto di fantasia creatrice, sostituito a quello d'imitazione della natura, per opera principalmente dello Schelling e del Hegel.

Il riconoscimento del campo proprio delle arti figurative, del diritto della fantasia e del sentimento di fronte alla ragione, del valore teoretico della fantasia, poteva portare al rinnovamento totale della critica d'arte. Mancò invece l'ardimento necessario per abbandonare le generalizzazioni del Winckelmann, per giungere al giudizio individuale, per sottrarsi al diapason della statua greca. Perciò le storie dell'arte fino ai giorni nostri non sono riuscite a mettersi al corrente dei risultati dell'estetica e contengono spunti critici soltanto nelle sporadiche intuizioni.

Il D'Agincourt s'interessò all'arte medievale più per pietà di storico, che per coscienza di esteta; il Cicognara, pur tra spunti felici, non si sottrasse all'idea del progresso della scultura sino al Cinquecento; il Rumohr, tutto intento alle ricerche filologiche, si occupò assai meno dei giudizî. Sotto l'influsso del Hegel, lo Schnaase lesse nelle opere d'arte più la psicologia dei popoli che il loro valore artistico. Jacopo Burckhardt giustappose all'analisi puramente formale dell'architettura e della decorazione lo studio dei particolari storici della vita dei popoli. E il Semper reagì, in nome di astrazioni empiriche, alla tradizione critica di origine hegeliana.

In Italia Pietro Selvatico echeggia le idee del Hegel; e in Francia il Rio tenta di trarre dalla religione cristiana un nuovo principio di giudizio sull'arte. Intanto il positivismo batte alle porte, e apre la via agli specialisti che naturalmente sviluppano la preparazione filologica alla critica e il gusto della monografia, per es., Hermann Grimm e Carl Justi in Germania; Émile Molinier e Eugène Müntz in Francia; Gaetano Milanesi in Italia. Mancava tuttavia a costoro una conoscenza diretta delle opere d'arte, che fosse almeno altrettanto raffinata e precisa quanto la loro conoscenza delle fonti scritte sull'arte, e controllasse le attribuzioni tradizionali con una nuova coscienza dello stile di ogni maestro. La necessità di essere "conoscitore" per scrivere storia dell'arte era apparsa ingenuamente al Vasari, aveva assunto una particolare energia nel Lanzi, ed era stata sentita dal Passavant e dal Waagen. Ma una tutta nuova coscienza di conoscitori assunsero gli studiosi italiani, che, sotto questo aspetto, riottennero un primato per opera principalmente di una triade: Giov. Batt. Cavalcaselle, Giovanni Morelli, Adolfo Venturi. Campo assai più vasto, comprendente tutte le arti dell'evo medio e moderno, abbracciò come conoscitore, con una genialità indubbia ma superficiale, wilhelm Bode (v.) in Germania; e Walter Furtwaengler introdusse nell'archeologia il metodo dei conoscitori italiani. Infine qualche raffinatezza teorica fu data alla scuola dei conoscitori da Bernardo Berenson (v.).

Siccome tuttavia i problemi della critica d'arte vanno assai oltre i propositi del conoscitore, la storia dell'arte, tutta preoccupata della precisione dei fatti particolari, trascurò alquanto lo sviluppo del giudizio critico.

L'estetica del Hegel non fu superata nel sec. XIX. E però il senso d'insoddisfazione che essa lasciò alla critica d'arte, non fu appagato da un nuovo sistema estetico, bensì da esperienze dirette che costruivano sistemazioni provvisorie.

John Ruskin, a contatto con l'arte primitiva d'Italia e di Francia, intese meglio di chiunque altro due profonde verità: 1. oppose arte e scienza, attribuendo a ciascuna un suo particolare contenuto, e quindi distrusse i residui intellettualistici del pensiero hegeliano; 2. riportò alla forma quel criterio di scelta che l'antichità classica aveva riferito al contenuto, affermando che ogni realtà è motivo d'arte, ma ogni artista deve scegliere e organizzare alcuni soltanto degli aspetti della realtà. E precisò quell'organizzazione nei rapporti di linea e di luce, di linea e di colore, di massa e di luce, di massa e di colore. Il Ruskin cioè liberò la critica d'arte da quell'intellettualismo che da Platone al Hegel vi si era infiltrato e le aperse la via d'intendere il valore spirituale del soggetto creatore e delle sue preferenze, anziché limitarsi a interpretare l'oggetto creato come pezzo di natura. Esaltato come spirito religioso e come artista, ma non compreso come critico d'arte, il Ruskin ebbe scarsa efficacia sulla critica posteriore. Lo stesso Walter Pater, che è così sottile e ferrato nell'argomentare e così sensibile, non ha né quella generosità di dedizione all'opera d'arte, né quell'entusiasmo che permisero al Ruskin, suo maestro, le maggiori scoperte.

In Francia, dopo il Diderot, e malgrado qualche felice intuizione dello Stendhal, la critica non assunse particolari altezze, se non quando fu praticata da artisti e da poeti. L'importanza del Salon di Parigi fu poi un'occasione eccellente per adeguare i giudizî della critica con l'arte nel momento in cui sorgeva. Il Delécluze, quando scrisse del suo maestro Louis David, partecipò col cuore a quell'avventura del gusto: e la critica affiorò. Parimente nel Journal di Delacroix si trovano specchiate tutte le aspirazioni della pittura romantica e tutti i suoi possibili rapporti con l'arte precedente. E un suo scolaro, Eugène Fromentin, seppe rivivere l'arte fiamminga e olandese del Seicento attraverso la propria coscienza romantica, con tale intensità, da creare nei Maîtres d'autrefois un capolavoro. Charles Baudelaire seppe indagare le possibilità artistiche degli opposti gusti di Ingres e di Delacroix con un alto senso dell'arte, ed ebbe anche qualche sporadica intuizione verso l'arte avvenire. Un altro poeta, Jules Laforgue, interpretò felicemente l'impressionismo che allora sorgeva. E si trova più critica intuitiva negli scritti improvvisati di uno Zola, di un Denis, di un Signac, di un Blanche, che nelle dotte elaborazioni di un Taine, di un Geoffroy, di un Moreau Nélaton. Parimente in Italia la critica di un Cecioni e di un Signorini è ben più viva di quella di un Rovani e di un Panzacchi. In Germania l'esperienza diretta dell'arte si ritrova nella "teoria della pura visibilità" del Fiedler e del Hildebrand, e nella Kunstwissenschaft che ne derivò. Sebbene filosoficamente disconoscesse molte verità già stabilite nell'estetica del Hegel, la teoria della pura visibilità ebbe un benefico influsso sulla critica d'arte, come un secolo prima il Laocoonte. Infatti ricondusse i critici d'arte a occuparsi di ciò che vedevano, a trovare in ciò che vedevano il carattere dell'arte, e polemicamente escluse le facili psicologie dei soggetti trattati, per cui ogni caratterizzazione si limitava a generalità sentimentali. Il pericolo del metodo consisteva nel fare la storia di astratti modi di vedere, anziché di concrete opere d'arte, nell'assegnare cioè di nuovo come contenuto alla storia un'astrazione intellettuale, anziché una realtà artistica. Ma il vantaggio, grandissimo, fu di sostituire schemi tratti dalla visione dell'arte agli schemi precedenti che, almeno in gran parte, erano tratti dalla vita e dalla letteratura. Il compito degli schemi è quello di avvicinare il critico a riconoscere l'individualità dell'opera d'arte; e l'esperienza ha mostrato che gli schemi della visibilità hanno servito meglio degli altri. Hanno servito al Wickhoff per distinguere l'arte romana dall'arte greca, e per rivelare il valore artistico di quel primo impressionismo romano, che sino allora aveva ricevuto soltanto l'epiteto spregiativo di decadenza. Hanno servito al Riegl per rappresentare maestrevolmente le varie tappe di sviluppo del gusto, dall'arte classica a quella bizantina e barbarica. Hanno servito al Riegl stesso, e poi al Wölfflin, per chiarire perché al gusto del Rinascimento sia succeduto il gusto barocco. E per mezzo dei medesimi schemi il Meier-Graefe ha saputo tradurre le dirette esperienze francesi in una sintesi sull'arte moderna. Naturalmente le teorie della Kunstwissenschaft (Dessoir, Utitz, ecc.) sono poco concludenti; ma gli studî concreti del modo di vedere in questo o quell'artista hanno recato contributi notevolissimi (molti di essi sono stati pubblicati nella Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft).

Per la medesima ragione per cui ci si serve degli schemi, anche quando non si confondano con le categorie, ci si serve della pura visibilità, anche quando si abbia coscienza dell'unità delle arti. Sennonché in questo caso si riconduce la propria esperienza visiva al momento storico dello sviluppo dello spirito umano, e cioè, conosciuto il "visivo" come parte astratta dello spirito, lo s'interpreta come specchio di tutto lo spirito. È quello che il Hedicke chiama la "storia delle trasformazioni spirituali sulla base della forma artistica", che sarebbe il nuovo tipo di storia dell'arte in formazione, e del quale avrebbero sinora dato saggi imperfetti il Dvorak, il Rosenthal e alcuni altri.

Intanto, per l'impulso dell'estetica di Benedetto Croce, in Italia. in Germania e negli Stati Uniti si lavora attorno la storia della critica d'arte, che dovrebbe appunto trovare il rapporto spirituale tra la singola opera d'arte e il mondo in cui è stata creata.

Per la critica musicale, v. musica.

Bibl.: K. B. Stark, Handbuch der Archäologie der Kunst, 1878; B. Croce, Estetica, 6ª ed., Bari 1928; id., Problemi di estetica, 2ª ed., Bari 1923; id., Nuovi saggi di estetica, Bari 1923; K. O. Müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, Breslavia 1834-37; A. Dresdner, Die Kunstkritik, Monaco 1915; J. V. Schlosser, Die Kunstliteratur, Vienna 1924; R. Hedicke, Methodenlehre der Kunstgeschichte, Strasburgo 1924; L. Venturi, Il gusto dei Primitivi, Bologna 1926; id., La critica e l'arte di Leonardo da Vinci, Bologna 1919; id., Pretesti di critica, Milano 1929; W. Waetzold, Deutsche Kunsthistoriker, voll. 2, Lipsia 1921 e 1924; M. Nicoll, Une anthologie de la critique d'art en France, in Gaz. des beaux-arts, 1931, I, pp. 45-63.

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