Croce epistolografo

Croce e Gentile (2016)

Croce epistolografo

Emma Giammattei

Forma epistolare e pensiero dialogico

L’epistolografia crociana, solo di recente focalizzata dagli studiosi come elemento distintivo e quindi sottratta alla mera rilevazione documentaria, spicca per la molteplicità dei livelli e delle pratiche in cui si espresse, dello scrivere ma anche del curare e pubblicare carteggi, propri e altrui e, si può dire, della totale tematizzazione storicistica delle lettere. L’importanza di questo versante testuale risalta immediatamente nella cospicuità eccezionale e nell’ordinamento sistematico della corrispondenza entro l’assetto tempestivo dell’Archivio, a mano a mano realizzato sotto la guida diretta di Croce, storico, bibliotecario, archivista, editore di se stesso. Organizzato in indici di consultazione, di tempo in tempo aggiornati dal filosofo, inclusivo di estratti e opuscoli inviati dai corrispondenti, nonché delle minute di epistole ritenute significative per la ricostruzione storica di relazioni e di particolari vicende, questo corpus di testi costituisce un’eredità culturale imponente. Oggi essa è depositata e conservata a Napoli, a palazzo Filomarino, all’interno della Fondazione Biblioteca di Benedetto Croce. Con i suoi 100.000 pezzi circa rappresenta la rete epistolare, fitta ed estesa, dell’ultimo rappresentante dell’Umanesimo europeo, che copre i territori della repubblica letteraria, della politica, della «storia grande», e insieme quelli pertinenti alla dimensione più intima, affettiva e familiare.

«Libera e codificata, intima e pubblica, tesa fra segreto e sociabilità» (Chartier 1991, p. 9), la lettera, si sa, associa la relazione sociale alla soggettività. Quando si tratti di carteggi filosofici di età contemporanea, essa sollecita in misura speciale sia le teorie della epistolarità sia le ragioni della filologia, nel momento in cui investe la questione stessa della produzione del senso, nella dialettica propria tra forme e interpretazioni. La lettera filosofica si manifesta infatti al lettore come testo esemplare e sperimentale insieme, spazio di frontiera fra biografia e opera, fra persona e istituzione, dove il soggetto collauda il discorso della verità, di cui è titolare, almeno per statuto.

Per ciò che concerne Benedetto Croce, la forma epistolare condensa l’esigenza di illustrare, spiegare, mettere in gioco il modello di pensiero, già costituito o in via di elaborazione: vale da punto di riferimento un carteggio fondativo del Novecento come quello intercorso con Giovanni Gentile, soprattutto nei primi fervidi anni dell’amicizia e del sodalizio intellettuale (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, 1981; B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., 1896-1900, a cura di C. Cassani, C. Castellani, introduzione di G. Sasso, 2014). Inoltre, la scrittura epistolare attua nel modo più evidente quell’autobiografismo trascendentale di cui ha parlato Gianfranco Contini a proposito del Contributo alla critica di me stesso (G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, 1967; cfr. Galasso 1990). Intesa ‘alla lettera’, questa specifica dimensione testuale offre gli strumenti più concreti per meglio intendere il percorso, le dinamiche e i contesti dell’itinerario intellettuale; nello stesso tempo rende manifesta una pratica scrittoria così densa e pervasiva, da evocare una sorta di epistolarità diffusa quale habitat privilegiato dell’opera di Croce, secondo una fenomenologia storicamente individuata.

Infatti, nella storia culturale dell’Italia il primo Novecento stabilisce un significativo discrimine: risale a questo periodo un gremito sistema di corrispondenze incrociate, che sono giunte a noi come testimonianza di una società intellettuale di grande vitalità. Questa estese le scritture dell’io – lettere, diari – a tutti i piani della comunicazione attraverso una serie di interferenze multiple, anche con i registri formali dell’oggettività come quello del saggio o dell’articolo di giornale. Quando si ricorre alla formula «autobiografismo vociano» si riduce non poco un fenomeno più ampio e radicale se è vero che tocca, sul fronte opposto, anche la controllatissima pagina crociana. Sono molti i segni rivelatori dell’organicità del modello primonovecentesco: per es., il modo immediato e reattivo da parte di taluni interlocutori e destinatari privilegiati – Giovanni Papini, Giuseppe Antonio Borgese, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Amendola, Giovanni Boine, Renato Serra, che denominiamo «i giovini» secondo la loro stessa autodefinizione – nel recepire articoli e saggi di Croce come lettere aperte. L’intermezzo polemico Di un carattere della più recente letteratura italiana (1907), sotto le sembianze di una rigorosa analisi critica, circa il passaggio da Giosue Carducci alla triade Gabriele D’Annunzio-Giovanni Pascoli-Antonio Fogazzaro, additava il fenomeno di massa della insincerità e della conseguente retorica dell’ineffabile, legittimato appunto dai vociani. Ebbene, questi, come attestano i carteggi, risposero subito con lettere private a quella che avevano inteso come argomentazione a essi diretta: «un articolo di fondo» aveva avvertito Croce su «La Critica», in effetti la prima delle molte sue lettere al proprio tempo. Si tratta di un esempio, fra i tanti possibili, non solo della comunicazione circolare fra superficie pubblica e sottotesto privato, ma dell’orientamento significativo verso la ricezione, sempre, della parola crociana. In tale senso, la direzione del testo, in casi speciali sottolineata dalla dedica, che individua un lettore privilegiato – a Wilhelm Windelband, a Thomas Mann, a Leo Spitzer – rivela il carattere di corrispondenza di per sé intrinseco al rapporto scrittore-lettore, in virtù di una estensiva sensibilità epistolare. Per Croce la forma lettera agisce già sempre, come funzione ermeneutica diffusa, dal momento che comprendere che cosa dice un testo significa sempre comprendere a chi parla quel testo.

Segnatamente l’epistolario crociano, nella sua vastità geografica ed estensione cronologica, configura traiettorie caratterizzanti: Napoli ’ Firenze nella stagione vociana; e poi Napoli ’ Torino, verso la città di Piero Gobetti, di Leone Ginzburg, di Carlo Dionisotti; così come Milano è circoscritta ad Arcore, cioè ad Alessandro Casati, l’amico di tutta una vita; c’è la Francia di Georges Sorel, interlocutore determinante, e di Élie Halévy (cfr. Galasso 2015, pp. 329-90) e naturalmente la Germania di Karl Vossler e, in misura diversa, di Mann. Sullo sfondo c’è il dialogo, tra conversazioni e lettere, costituito da rapporti intellettuali decisivi, con Antonio Labriola e poi, fino al 1924, con Gentile. E viene subito innanzi la varietà singolare dei numerosi corrispondenti negli ambiti della cultura pertinenti al multiversum crociano: da Eduardo Scarpetta ad Albert Einstein, da Mann a Sorel, da Salvatore Di Giacomo a Labriola, da Serra a Robin George Collingwood, da Gentile ad Aby Warburg, da Gino Severini e Ardengo Soffici a Romain Rolland e a Bernard Berenson. A questi nomi va aggiunta la folta schiera dei lettori comuni, i quali scrivono a Croce nelle diverse stagioni, dalla Prima guerra mondiale al fascismo al secondo dopoguerra, per consentire o dissentire, per averne un orientamento o per trarne coraggio, e anch’essi ordinatamente accolti negli schedari, a rappresentare nel grado più semplice, ma pur esso significativo, quell’orizzonte della ricezione che è funzione immanente nella scrittura crociana. Luogo centripeto e insieme profondamente connesso con il mondo, la biblioteca di Croce è lo spazio nel quale la sincronia delle relazioni, da una parte, si incrocia con la profondità prospettica del passato vivente che parla dai libri e, dall’altra, rappresenta la dinamica irresistibile di una scrittura che si distende verso l’altro.

Si parta allora dal dato quantitativo che si è indicato, per dir così, in arrivo, nell’archivio dei corrispondenti e che è speculare all’energia e alla capacità del mittente. Nella dimensione autobiografica, nei Taccuini di lavoro come nelle stesse lettere, è frequente il riferimento all’impegno epistolare, proiezione inesorabile dell’amplissima giornata del filosofo, il quale tenne le fila, quotidianamente, di molteplici corrispondenze, con picchi che vanno segnalati. Nel 1897 comunica a Gentile: «Io son tornato stamane a Napoli, ed ho scritto 35 lettere arretrate!» (B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., cit., p. 39). A distanza di più di trent’anni, in una lettera a Vittorio Spinazzola, si riscontra l’analoga attestazione: «Caro Vittorio, Eccoti la minuta della lettera. Procura di decifrarla. Se dice tutto quello che era da dire, falla copiare a macchina in due copie, e portamela, e io la firmerò. […] ho scarabocchiato in fretta, e sono stanco, avendo scritto oggi trenta lettere!» (lettera del 6 dic. 1931, ora in Giammattei 2009, p. 201).

Questa pratica intensa e in talune fasi intensiva – con speciale ragione politica negli anni Trenta – si aggiunge, come si sa, al lavoro costante e sino alla fine mai intermesso del filosofo, dello storico, del critico, alla conseguente correzione delle bozze, alla redazione dei Taccuini di lavoro che registrano e invigilano l’operosità stessa (Sasso 1989). Altrettanto importanti risultano i monumentali 90 volumi della Miscellanea di scritti concernenti B. Croce (Fondazione Biblioteca Benedetto Croce), che raccolgono, incollati, ritagli di giornali e riviste, interi opuscoli, vignette: è una rubrica parallela organizzata personalmente dal filosofo. Sono tutti questi – lettere, Taccuini, miscellanee – sistemi complementari di testi, i quali, nell’essere insieme, prima sui tavoli contigui dello studio-biblioteca, e poi nello spazio ordinato dell’Archivio, mostrano la relazione esistente tra pensiero, scrittura, presenza dell’altro, in un dialogismo permanente, che realizza la continua identificazione, posta e vissuta da Croce, di autobiografia e storia. Non aveva del resto sostenuto nel 1928, a proposito della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, il «saldo convincimento che ogni seria e schietta storia sia e debba essere “autobiografia”»? («La Critica», 1928, 26, p. 231; cfr. Ciliberto 1992).

In tale specifico senso, Croce ha demandato alla lettera il compito di verificare contestualmente e processualmente il dialogo con il proprio tempo, e di divulgare il modello critico-filosofico che va elaborando, rivelandone così l’intrinseca relatività alla situazione e alla coscienza complessiva prodotta dall’epoca: egli è davvero, in ogni momento, come si definisce al Vossler citando Henri-Louis Bergson, un «individuo mondo». Bisogna intanto ritenere altamente significativo il fatto che il filosofo abbia compreso nell’edizione laterziana delle proprie opere, il Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, del 1951, che costituisce un’opera estrema nella biografia crociana, e come tale fu sentita e presentata dall’autore, nel suo valore testamentario. Si tratta di un testo dalla configurazione in sé problematica – proprio dal punto di vista delle nozioni filologiche di opera e di auctoritas. Esso raccoglie le lettere intercorse fra Croce e il filologo tedesco Vossler dal 1899 al 1948, ed era stato curato da Croce stesso, con l’ausilio, tutt’altro che inerte, di Vittorio De Caprariis. Ebbene, con decisione importante, il filosofo affidava a un appunto dattiloscritto del 1° aprile 1952 il proposito di includere il volume nel corpus delle proprie opere; ne rivendicava, in tal modo, il carattere di libro crociano. In effetti, la struttura del carteggio, di per sé a due voci, viene restituita al lettore, attraverso la rilettura e la messa a punto unificante di Croce in qualità di curatore-autore, secondo una peculiare esemplarità, con una cifra ben riconoscibile e fortemente caratterizzante (cfr. l’ed. critica a cura di E. Cutinelli Rendina, 1991). Il dialogo fra Croce e Vossler attraverso le due guerre mondiali è il dialogo di due «sentinelle nella notte» dello spirito europeo, e poté essere offerto come un’autobiografia dell’Europa, quale era stata e quale avrebbe dovuto tornare a essere.

La cospicuità e la rilevanza dei carteggi a mano a mano pubblicati confermano la modalità «relazionale» del pensiero e dell’opera di Croce e in particolare la dimensione europea. Già subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, Croce fu parte attiva della Modern humanities research association (MHRA), fondata a Cambridge nel 1918, che aveva per fine «d’incoraggiare lo studio delle lingue e letterature moderne con la collaborazione mercé corrispondenze, relazioni personali, scambii d’informazioni o consigli, e con sussidii finanziarii per studiosi che conducono ricerche» (B. Croce, recensione a Publications of the Modern humanities research association, 1919-1922, «La Critica», 1923, 5, p. 312). Ne assunse la presidenza per il 1923-24 con il discorso, tenuto a Cambridge, Shaftesbury in Italia, esemplificandovi il carattere militante e politico del suo comparatismo innervato nella storia, di fatto in una resistente idea di Europa.

Peraltro, nel 1910, costruendo le linee assiologiche della tradizione letteraria con la collana degli Scrittori d’Italia Croce includeva insieme con «opere storiche geografiche critiche» appunto «gli epistolari, fin qui di solito ignorati e negletti». Così si leggeva nel programma della collana allegato al primo fascicolo della «Critica» del 1910, firmato da Achille Pellizzari, ma ispirato direttamente dal filosofo. Il programma in effetti prevedeva molti volumi di epistolari, e fra questi Diari lettere e ricordanze famigliari del Trecento, Epistole di umanisti, le Rime e lettere di Niccolò Franco, le Lettere di viaggio di Pietro Della Valle, i tre volumi di lettere edite e inedite di Ferdinando Galiani e i due di Lettere di patriotti italiani. Per questo aspetto, il progetto degli Scrittori d’Italia rivela una storia quanto mai complessa, anche dal punto di vista sociologico, intanto perché coinvolse centinaia di letterati, professori, intellettuali. Momento di conflitto e fusione fra professori e intellettuali, tra gli amici-nemici del «Giornale storico della letteratura italiana» e i giovini raccolti intorno alla «Voce», in un itinerario che comprende Torino e Firenze, Milano e Napoli, la grande officina promosse relazioni, raccordi, rimescolamenti di gruppi, portò una ventata di aria nuova nelle stanze dell’accademia e indusse allo studio e al rigore critico curatori i quali non erano neppure laureati. Un «giovane studente di lettere all’Istituto di Studi Superiori di Firenze», ed era Carlo Michelstaedter che così si presentava, poteva, per es., proporsi nel 1907 per la traduzione di Arthur Schopenhauer (lettera inedita, Archivio della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce). I carteggi di questo periodo ci restituiscono una temperie fervida, di edizioni desiderate, intraprese, spesso non compiute, di concorrenze non sempre pacifiche. E intorno a ogni edizione c’è un racconto epistolare, a volte un intrigo ‘giallo’, come nel caso dell’edizione delle poesie di Tommaso Campanella, contesa fra Emilio Cecchi e Papini e poi realizzata com’è noto da Gentile. Questo versante editoriale si può oggi fruttuosamente confrontare e connettere con il carteggio con Giovanni Laterza, vero ‘motore’ epistolare – per cospicuità, tenuta, oltre che testimonianza di un sodalizio mirabile nella capacità di fare (Carteggio Croce-Laterza, a cura di A. Pompilio, 5 voll., 2004-2009). Qui in particolar modo le lettere si prestano a essere considerate come documento, poiché restituiscono il retroscena, o il verso della trama istituzionale, e permettono di entrare nel vivo della formazione di una cultura che da diverse matrici geostoriche si fa infine profondamente italiana e contemporanea. Nello stesso tempo si deve ripetere che i carteggi di un intellettuale e scrittore a tutto campo, quale è Croce, non solo testimoniano, ma costituiscono la realtà stessa della relazione, come «azione comunicativa».

Una epistolarità aperta

Alla grande attenzione storiografica verso il fenomeno e la natura delle corrispondenze fa riscontro poi una speciale poetica del discorso epistolare in tutte le sue articolazioni, implicita nel modo di scrivere lettere e di farsi editore di lettere proprie e altrui, da Croce stesso dichiarata.

Accanto al dato quantitativo, si deve ricordare il principio che sottende questa pratica discorsiva: bisogna scrivere lettere sempre come se dovessero essere pubblicate. È una frase del filosofo riportata da Raffaello Franchini (cfr. Metodologia ecdotica dei carteggi, 1989, pp. 194-95). Essa indica il carattere sempre confermato dalle sue lettere a mano a mano che divengono effettivamente pubbliche e che avvicinano il lettore contemporaneo a quel paradosso ognora verificato dagli studiosi ed editori delle carte crociane, persino di quelle più intime: che cioè, in virtù della permanente predisposizione dei testi, implicante il controllo e il dominio della ricezione, anche postuma, non esistono lettere inedite di Croce, non possono ritrovarsi «lettere rubate», se è vero, che egli stesso appronta una speciale cartella del suo Archivio, contenente qualcosa che è da non pubblicare. Difatti la lettera, anche la più privata, viene scritta alla presenza di un pubblico ideale, quasi il rappresentante dello Spirito della Storia, che trascende il destinatario reale e risulta così raccordata a quella pertinace «aspirazione al dialogo», anche oltre la morte, testimoniata dalla figlia Elena (cfr. E. Croce, Ricordi familiari, 1962, p. 31).

Il modello al quale Croce può essere rapportato, rimane, in tal senso, il Cicerone delle Familiares, nel segno appunto della familiaritas intesa come registro laico, equanime, fondato sulla dicibilità e tramandabilità della vita, anche nei meandri nascosti, ma non segreti. Su questa linea, però, la sua differenziale classicità di moderno risulta in un al di qua della letteratura, che ha a che fare con l’etica, da lui intesa, con Labriola, di converso, come «reazione estetica dello spirito» (B. Croce, Antonio Labriola. Ricordi, «Il Marzocco», 14 febbraio 1904). In questo modo, il patto epistolare si costituisce come un patto a quattro, dove accanto al mittente e al destinatario empirici c’è, da una parte, un super-io storiografico, dall’altra, un ideale lettore futuro. «Le lettere si fanno sempre leggere» – aveva scritto da Torino nel 1851 Bertrando Spaventa al fratello Silvio, raccomandando cautela politica (B. Spaventa, Epistolario, 1° vol., 1847-1860, a cura di M. Rascaglia, 1995, p. 112). Per Croce, si tratterà, ormai, di tutt’altra consapevolezza. Certo, se si controlla il tragitto spesso raddoppiato delle sue lettere – lettere crociane a Prezzolini si trovano nell’Archivio Papini, o tornano a Prezzolini con il commento di lettori ulteriori, altre volte è Croce stesso che raccomanda al destinatario di far leggere la propria lettera anche a questo o a quell’amico (cfr. E. Giammattei, introduzione a B. Croce, G. Prezzolini, Carteggio. 1904-1945, 1° vol., 1990) – si comprende bene la condizione ‘aperta’ di ogni sua missiva, sempre. Ma, al di là della realtà circoscritta e funzionale delle corrispondenze, il filosofo impegna nella lettera il suo talento di scrittore sotto le insegne di ciò che deve diventare vero, tramite la produzione di quelle concordanze e regolarità discorsive che, in assenza del «fondo sostanziale dei codici» danno senso all’agire umano. «La coscienza della verità – scrive a Gentile nel 1915 – come duro lavoro; ecco il nostro dovere presente» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 487). La lettera viene allora percepita come l’immagine primaria di ciò che, in quanto scritto all’altro, sopravvive all’effimero e potrà un giorno rientrare in circolo, nel gioco delle interpretazioni.

Proprio una così profonda e, per dire così, genetica, tensione epistolare, legittima poi lo studioso a considerare i carteggi crociani, a partire da quello d’autore, con Vossler, come testo esemplare, dotato di autonomia letteraria. Basti ricordare quello intrattenuto per quasi cinquant’anni tra fasi diverse con Prezzolini. Si tratta di un carteggio pilota, che ha aperto una nuova stagione di studi sul Croce primonovecentesco e di carteggi crociani filologicamente approntati (cfr. almeno Carteggio Croce-Laurini, a cura di G. Genovese, 2005; B. Croce, G. Papini, Carteggio. 1902-1914, a cura di M. Panetta, introduzione di G. Sasso, 2012; Carteggio Croce-Flora, a cura di E. Mezzetta, introduzione di E. Giammattei, 2008; B. Croce, G. De Luca, Carteggio. 1922-1951, a cura di G. Genovese, introduzione di E. Giammattei, 2010). Là è possibile leggere il dialogo, storico, ma altresì aderente a una «metaforica delle parti» e a un dramma allegorico, fra il Vecchio e il Giovane, fra il saggio e l’inquieto, fra il napoletano europeo e l’apolide «americano», attraverso gli eventi drammatici del secolo. In questo ambito precipuo, il Croce autobiografico – che include naturalmente anche l’epistolografo – offre al lettore una prosa controllata da quello che si è definito il super-io storiografico, il quale sopraggiunge ognora ad aggiornare, modificare o comunque risolvere in una dimensione postuma, le vicende dell’io empirico.

Ha ricordato Alda Croce: «Per la pubblicazione delle lettere di nostro Padre [...] egli raccomandava di limitare molto non essendo mai stato un grande conversatore per lettera» (A. Croce, A proposito delle lettere di Benedetto Croce, «Rivista di studi crociani», 1985, 1, p. 46). A partire dal 19 marzo 1934, è lo stesso filosofo a «rivedere vecchi fasci di corrispondenza e a scegliere alcune lettere per farne trarre copia» (Taccuini di lavoro, 3° vol., 1927-1936, 1987, p. 423), non già in vista di una pubblicazione, ma per riorganizzare e, per dir così, mettere in scena, nella privatissima stanza della memoria, i documenti di una parte significativa del proprio passato. In questo periodo, i Taccuini di lavoro registrano il sovrapporsi della scelta delle vecchie lettere, della collazione delle copie e della corrispondenza nuova da sbrigare, in una vertiginosa moltiplicazione della scrittura autobiografica. Leggiamo, per es., il passo del 21 aprile: «Al solito, collazione di lettere copiate e copia di questo diario, per tenerlo in pulito, perché mi si è messo in mente il pensiero di prossima dipartita dal mondo» (p. 429).

Questo ideale libro di lettere risulta qui connesso a una temporalità postuma che, quando giunga, troverà sempre il soggetto «in pulito», in bella copia.

In siffatta operatività, mai conclusa, il ‘vero’ Croce consiste esattamente in questa dinamica della ricezione, termine non già ad quem, bensì a quo, secondo un movimento che mobilita e allarma un lettore non ingenuo. Il sentimento di lontananza dal proprio passato viene realizzato dunque dal filosofo «tamquam moriturus» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 498), a partire dal Contributo e dalle Memorie di un critico (1915-1917), il racconto epistolare composto in una forma che definiremo appunto autostoricistica, al pari del più celebre libretto del 1915. In modo omogeneo, ma con differente intonazione, negli anni Trenta subentra una nuova consapevolezza, che concerne, ancora una volta, il tempo, la profonda percezione della temporalità come sostanza e come vettore dell’opera:

Oltre tutto il resto, nella tristezza che mi grava c’è questo sentimento: che il mio lavoro non si volge più a un mondo presente, in ricambio con esso, ma a un mondo avvenire [...]. Sicché ogni mio lavoro prende il malinconico aspetto di un testamento (Taccuini di lavoro, 3° vol., cit., p. 429).

In questa atmosfera testamentaria e ‘monologica’, la lettera, forma dialogica per eccellenza, diventa essa stessa oggetto di riflessione. Nel 1935 Croce chiude il lavoro di scelta e di copia delle lettere del periodo 1914-35, con un moto di malinconia: «la nausea di occuparmi di me e di quel che pensai e feci nel campo pratico» (6 luglio 1935, Taccuini di lavoro, 3° vol., cit., p. 490). Destinate non già alla pubblicazione ma, annota l’autore, «a ricordo della mia vita», cioè come documento storico, le lettere di Croce sarebbero state poi pubblicate nel 1967 secondo un criterio in parte rispondente all’esigenza di verità espressa dal filosofo, ma dettato anche dall’equilibrata politica culturale di Raffaele Mattioli, presidente dell’Istituto italiano per gli studi storici. Così oggi, dopo tanti anni, è possibile integrare qualche passo della lettera «non inviata, a destinatario sconosciuto», del 1925, e non solo al fine di ricostruire uno stile epistolare che si appropria, di volta in volta, di tutti i registri e figure della prosa, secondo una capacità di mutationes che è la vera sigla del modello-Croce. C’è anche, difatti, da accostare il lettore alla lettera come documento e altresì come luogo non pacifico di ragione e rovello, dal momento che, in questo caso, si tratta del cospicuo incartamento concernente il rapporto Croce-Gentile. Uno dei passi espunti tratta della ‘metamorfosi’ gentiliana, con l’avvento del fascismo:

Come tutto ciò sia accaduto, io non riesco a spiegarmi appieno. Che la sua filosofia fosse generica e vuota, e perciò a rischio di riempirsi di qualsiasi contenuto passionale e di qualsiasi interesse, non importa che dovesse riempirsi di cattivo contenuto passionale e di cattivi interessi. L’animo buono e retto corregge tutta la cattiva filosofia che l’intellettuale può costruire. Che egli abbia nascosto a me e agli altri il vero esser suo durante tanti anni di amicizia e dimestichezza mi pare inverosimile. Piuttosto è da credere che il vero esser suo, la bestia che era accovacciata nel fondo del suo animo fosse nascosta a lui stesso. Quando egli, dalla umile e depressa e per più tempo travagliata condizione di insegnante, fu a un tratto sollevato ministro (e ministro con pieni poteri), e provò la gioia dell’ultrapotere, e accolse le adulazioni che circondano il potere, quel peggiore sé stesso emerse e si impadronì della sua vita (Archivio Fondazione Biblioteca Benedetto Croce; cfr. B. Croce, Epistolario, 1° vol., Scelta di lettere curata dall’Autore. 1914-1935, 1967).

Questa lettera così rilevante, nella sua integralità, appartiene certo, a pieno titolo, al controverso sottogenere epistolare della «lettera non spedita». Difatti, il tragitto io ’ io di quella che potremmo d’altronde definire, con lessico crociano, una ‘pseudolettera’, trova conferma testuale nelle pagine autobiografiche scritte a futura memoria, dattiloscritte e compiutamente organizzate come postume, a Sorrento nel settembre 1944: Le mie relazioni col Gentile, con l’importante aggiunta-correzione autografa nel sottotitolo, Pagine di ricordi da non pubblicare. Da pubblicare dopo la mia morte nel caso si pubblichino cose calunniose circa i miei rapporti con Gentile (ora in Giammattei 2009, pp. 177-201). Sono pagine straordinarie e paradossali che affidano la decisione della contro-pubblicazione («nel caso si pubblichino») a una valutazione storica affatto aperta e ben più che lungimirante. Se ne preleva il passo conclusivo, attraversato anch’esso, come la citazione precedente, dalla grave riflessione sul Male, ora nascosto dentro l’animo umano, ora come forza demoniaca esterna, alla quale ci si consegna:

E ora anche il Gentile è morto di una tragica morte: ma la pietà e l’orrore del sangue versato non possono nascondere la netta, recisa e dura verità che egli è caduto, vittima di quelle forze alle quali aveva dato l’anima sua, di quelle violenze che generano violenze, di quelle ingiustizie che provocano a selvagge ingiustizie. Né io sono in grado, per quanto mi ci sia provato, di cancellare e obliare quella che mi ferì come diserzione e tradimento verso l’ideale di alta umanità intrinseco agli studi filosofici che, da giovani, coltivammo insieme, nell’azione che insieme per più anni esercitammo per la formazione di una più seria e profonda cultura italiana (p. 198).

Questa omogeneità costante fra registro epistolare e registro prettamente diaristico sarà ancora più vistosa e significativa, quando si tratti di questioni affrontate in lettere destinate, in sincronia, a persone diverse. Rimaniamo ancora nell’ambito del contrasto filosofico, prima che ideologico, con Gentile. Siamo nel novembre 1913, Croce ha appena scritto sulla «Voce» l’articolo, in forma, si badi, di lettera aperta, che così esordiva: «Miei cari amici della Biblioteca filosofica di Palermo, e tu che sei primo fra tutti così nel valore come nell’amicizia, il vostro idealismo attuale non mi persuade». A Gentile, il quale aveva visto in bozze l’articolo e se ne era dichiarato soddisfatto, ma poi, tornato a Palermo, aveva cominciato a dolersene, anche sotto la pressione degli «scolari», Croce ricordava che il «contrasto non poteva non venire in luce, e il primo ad accusarlo fortemente non sono stato io ma tu e (se non ti dispiace) i tuoi scolari agmine facto». E aggiungeva auspicando: «Io sono persuaso che, restando concordi e collaboratori, faremo il vantaggio degli studii italiani, e faremo una miglior filosofia, di quella, ottima che sia, che possa nascere nella tua o nella mia mente» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 455). Il 3 dicembre, dopo aver letto la replica dell’amico, gliela elogiava, quasi a confermare la natura profondamente polemica del proprio filosofare, e quindi il bisogno strategico dell’antitesi e dell’avversario: «mi pare che abbiamo dato ora un bell’esempio di lealtà scientifica, portando alla pubblica discussione il nostro dissenso; e ne daremo uno più bello di amicizia, restando indivisibili» (p. 457).

Ed ecco che nei medesimi giorni, scrivendo una lettera, di tutt’altro carattere, all’amica Adele Rossi, di lì a poco sua fidanzata e sposa, Croce le si confidava, raccontando gli ultimi sviluppi della discussione fra filosofi amici, e alla fine, a mo’ di morale, ripeteva unificati i due passi sopra citati in quello che qui si dà in corsivo:

Il mio amico si è finalmente calmato: ha scritto una risposta, della quale temeva che io mi dispiacessi e che invece gli ho lodata, e alla quale ho promesso di replicare più in là, avviando una discussione amichevole. Il meglio che era nei cuori mio e suo (egli è un uomo eccellente, e forse la sua irritazione proveniva dallo stesso affetto che ha per me) è sgorgato quasi contemporaneamente in due lettere che si sono incrociate; e ormai siamo tra noi come siamo sempre stati da 18 anni!

Io gli ho scritto che avevamo dato un bell’esempio di lealtà scientifica, portando alla pubblica discussione un nostro dissenso scientifico; e dovevamo darne uno anche più bello di amicizia, rimanendo indissolubili e collaboratori; e che così avremmo fatto una maggior filosofia di quella che poteva nascere nel suo o nel mio cervello (Archivio della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, parzialmente in Giammattei 2001, p. 256).

Il trascorrere di tessere testuali da un carteggio all’altro costituisce dunque una costante della scrittura epistolare di Croce. È nota questa univocità, così come viene attestata, per es., dal carteggio con Prezzolini, laddove i ‘giovini’ vociani, da Papini a Cecchi, da Prezzolini a Boine, scrivono e rendono omaggio a Croce, ma diversamente, a proposito di Croce, si scrivono fra di loro. Per ciò che concerne Croce, il carattere mai contraddittorio dei suoi epistolari ci informa una volta di più del principio di coerenza e fedeltà a se stesso che costituisce la legge originaria di quella antropologia filosofica.

Uno dei carteggi più significativi e probanti di questa modalità di scrittura è ancora inedito, ed è quello intercorso, per circa quarant’anni, fra Croce e l’editore napoletano Riccardo Ricciardi, vero asse epistolare della storia della casa editrice Ricciardi, ma anche carteggio tra i più franchi e familiari. Non è questo il luogo per dare conto di queste lettere ancora inedite e in via di ordinamento; si vuole solo indicarne il carattere, confidenziale e aperto, che meglio evidenzia perciò la circolarità di pubblico e privato nella pratica epistolare crociana. A una lettera di Ricciardi che commentava amaramente l’esclusione di Croce dal governo Bonomi nel 1921, il filosofo risponde il 10 luglio con una lettera messa a prefazione del volume ricciardiano che proprio in quei giorni movimentati andava mettendo a punto, Nuove curiosità storiche:

Caro Riccardo,

Or son tre anni [...] detti a te un gruzzolo di noterelle di varia erudizione, che mettesti a stampa col titolo di Curiosità storiche. Con mia meraviglia, dopo solo pochi mesi, tu mi annunziasti che l’edizione se n’era spacciata e che conveniva ristamparla. Dunque – pensai – nonostante la guerra, nonostante tutti i cangiamenti accaduti nei gusti e nelle idee, nonostante che io quasi non riconosca più la mia Napoli e scontri ora per le sue vie una gente quasi nuova e alla quale mi par d’essere straniero, c’è ancora chi ama le tradizioni locali, l’aneddotica storica e letteraria, le minute notizie che valgono a rendere prossimo e come domestico il passato? [...] Ti confesso che questo pensiero mi apportò qualche gioia [...] Così sono nate queste Nuove curiosità storiche, che forse non saranno nemmeno le ultime, perché a me giova, negli intervalli di più gravi lavori, tornare a tale sorta d’indagini, quasi come a un giuoco riposante e rinfrescante.

Croce lettore ed editore di lettere

Sapiente scrittore di lettere, Croce ha in seguito ricercato, curato e pubblicato carteggi, all’insegna dell’analogo principio della comunicabilità, liberalissimo e ognora ligio alla regola, alla «convenienza» – come la definisce nel presentare nel 1927 sulla «Critica» le lettere di Sorel – di volta in volta imposta dalla situazione.

Certo, ci sono innanzi tutto le lettere di Francesco De Sanctis, con riferimenti a persone ancora vive e presenti nel primo Novecento, e quindi ancora bisognose di detersioni ed espunzioni (Ricerche e documenti desantisiani, «La Critica», 1914-1917: cfr. Scritti su Francesco De Sanctis, a cura di T. Tagliaferri, F. Tessitore, 2 voll., 2007). Ma i carteggi desanctisiani debbono illustrare l’opera e la vita del grande critico irpino nella proiezione di un modello concreto e insieme ideale, che all’aumento cospicuo di informazione complessiva fa registrare l’esclusione della dissonanza. L’immagine del maestro e il nuovo paradigma critico che egli rappresenta vengono così convogliati da Croce nel proprio tempo, verso il lettore e contro gli avversari del metodo estetico, secondo le esigenze di una filologia limitata, poiché nel possedere tutti gli elementi del testo essa si vieta di offrire, già incrinata, la voce della quale si vuole fare intendere il ‘vero’ suono. Pure, il segno diacritico della censura, i puntini sospensivi, sta lì a richiamare l’attenzione degli studiosi: come l’Idea hegeliana, anche la filologia «non ha fretta». Interesse primario per Croce è – se ne accorse primo Gianfranco Contini – mirare alla «immediata circolazione di quelle idee» (G. Contini, Croce e De Sanctis, in Omaggio a Benedetto Croce. Saggio sull’uomo e sull’opera, 1953, 1972, p. 71).

E ci sono poi i carteggi contemporanei anch’essi pubblicati sulla «Critica», con Francesco Gaeta, con gli scrittori considerati nelle Note sulla letteratura italiana contemporanea (Dalle memorie di un critico), da consegnare ricomposti entro la struttura dell’intreccio narrativo e quindi orientati verso una ricezione latamente letteraria. Di converso, le lettere già incluse nella tradizione letteraria, sebbene mal note o inedite – di Veronica Franco, di Gian Giorgio Trissino –, vengono restituite all’integralità del ritratto biografico, o attratte dal curatore, in quanto «vecchie carte», entro l’avventura metatestuale della ricerca e del ritrovamento.

Nel 1903 Croce lancia sulla «Critica» un appello alla famiglia Nicolini, in possesso dei manoscritti e delle lettere dell’abate Galiani, sollecitandone la pubblicazione, che avrà inizio appunto sulla rivista, dove Fausto Nicolini, con la supervisione di Croce, metterà fuori lungo il 1904 le lettere inedite del carteggio del délicieux abbé. Si deve notare, a questo punto, che assai spesso si verifica l’affido e il dono di lettere e documenti, che convergono, con significativo viaggio testuale, verso l’Archivio di Croce (si pensa alle carte desanctisiane, al fondo Imbriani, alle lettere di Antonio Tari), presto percepito come ricovero sicuro, operoso laboratorio e quasi vestibolo della Storia.

Se il tempus della scrittura epistolare di Croce, come si è ripetuto da diverse angolazioni, vuol essere un tempo assoluto, assimilabile alla fine a un presente gnomico, la temporalità che presiede alla pubblicazione delle lettere altrui è di carattere eminentemente narrativo, dove l’esemplarità è sottoposta alla giurisdizione del passato remoto. Nel presentare nel 1898 il volume di Silvio Spaventa, con il semplice titolo Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti, Croce raccontava le peripezie di «un grosso fascio di lettere e altre carte» appartenenti a Silvio e a Bertrando Spaventa, da lui ritrovate e restituite all’unico proprietario ancora vivente e da questi di nuovo ritornate, dice Croce, «nelle mie mani». Si raccolga la dichiarazione del giovane curatore di quel materiale disperso:

Invece di annotare semplicemente queste lettere, scritti e documenti, ho stimato di agevolarne la lettura col raggrupparli in capitoli, e congiungerli, dove fosse necessario, con poche righe di racconto. Onde questo volume ha preso qua e là le sembianze di una biografia; ma biografia non è, perché contiene meno e più di quanto sarebbe chiesto all’uopo (Avvertenza alla prima edizione, in S. Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da Benedetto Croce, 19232, p. IX).

Ecco illustrato un modo di leggere e pubblicare carteggi, come racconto, poi dal filosofo sempre praticato. All’insegna del medesimo gusto narrativo, cinquant’anni dopo, avrebbe pubblicato un volumetto di lettere «contenente una storia settecentesca di prelati, di cantatrici e di amori». Così, con provocatoria frivolezza, il vecchio Croce scriverà il 31 dicembre 1945 in una lettera di risposta a Palmiro Togliatti, annunciandogli l’invio del libro Un prelato e una cantante del secolo decimottavo. Enea Silvio Piccolomini e Vittoria Tesi. Lettere d’amore. È l’ulteriore riprova della spregiudicatezza e libertà di pensiero, del suo essere stato, anche per questo verso – come dichiara all’avversario politico che gli aveva inviato gli auguri per il 1946 –, «il più radicale, e con ciò sempre liberalissimo, rivoluzionario nella vita mentale e culturale italiana della prima metà del Novecento» (lettera del 31 dic. 1945, in Dall’«Italia tagliata in due» all’Assemblea costituente. Documenti e testimonianze dai carteggi di Benedetto Croce, a cura di M. Griffo, prefazione di G. Sasso, 1998, p. 254).

Di qui il carattere epigrammatico di un messaggio tra i più suggestivi e letterariamente densi dell’ultimo Croce, dove accanto alla inflessione testamentaria dell’io – «quando io non sarò più al mondo» – c’è il «filosofico sorriso» che accompagna l’invio, a un uomo totus politicus, di un volumetto di lettere di tutt’altra indole. Ma si vada poi alla prefazione di quel godibile libretto. Là Croce confessa l’origine della pubblicazione: un viaggio di carattere politico a Siena nel maggio 1945, in qualità di presidente del Partito liberale, si raddoppia, e prende un senso più pieno, nel pellegrinaggio erudito dell’antico cultore del teatro settecentesco, verso «un fascio di carte [...] salvate dal macero dell’altra guerra che [...] contenevano, tra l’altro, un carteggio amoroso» (pp. 5-8).

In tale senso, una distinzione concernente i carteggi organizzati e pubblicati da Croce, che separi le lettere a lui dirette dai carteggi ed epistolari storici, non possiede un significato metodologico davvero dirimente, poiché tutti sono riducibili, più o meno immediatamente, a una dimensione autobiografica o familiare del curatore. Su questo versante, il testo più istruttivo, nella sua novità e messa in soqquadro dei generi letterari – fra autobiografia, racconto epistolare, edizione di lettere, saggio critico – fu pubblicato a puntate sulla «Critica» tra il 1915 e il 1917, con il titolo Dalle memorie di un critico. È il racconto, scritto in prima persona e composto con le lettere ora di preghiera ora di reazione, ora di ringraziamento ora di delusione, degli scrittori contemporanei da Croce analizzati nelle Note sulla «Critica» poi rifluite nella Letteratura della nuova Italia (1°-4° voll., 1914-1915; 5°-6° voll., 1939-1940). Ebbene, la cronologia di queste lettere, situate nel periodo 1903-15, che arriva quindi a lambire il tempo reale della narrazione, viene ridisegnata in una dimensione lontana e aoristica: «Forse taluno ricorda (ma è cosa che io stesso vedo ora tornarmi assai pallida alla mente [...])».

Questa attiva costruzione della distanza, come presente ricordato, attraverso la metafora temporale, può liberare una funzione riparatrice e consolatoria quando si tratti di intessere un racconto critico-autobiografico con le lettere di un amico molto amato, un poeta morto suicida. Ne emerge, allora, come nel caso di Francesco Gaeta, un personaggio epistolare tra i più suggestivi. Ancora una volta, interessa quel discorso sulla temporalità che fin qui ci ha attratto:

Nella prefazione alle Prose del Gaeta (Bari, 1928) ho ricordato le conversazioni che con lui facevo [...] intorno alla poesia e ai poeti. Ritrovo nelle sue lettere a me alcuni tratti di questo nostro spirituale fervore, e voglio qui stamparli perché credo che saranno letti con frutto. “Ne relisez jamais vos vieilles lettres!” ammoniva il tristo suicida nella novella del Maupassant, tanto quella rilettura lo aveva sconvolto a disperazione. Ma io le rileggo con diverso animo, abolendo il tempo, sentendo vive le persone care, continuando a conversare con loro (Dal mio carteggio letterario. Lettere di Francesco Gaeta, «La Critica», 1935, 2, p. 142, corsivo nostro).

Abolire il tempo, dunque, continuare a conversare con i morti come fossero vivi. Per questa via degli inferi, per questa condizione del ‘morto e sepolto’ – se è lecito ricorrere alla metafora frequentatissima da Croce della ‘sepoltura’ – passa poi il ritorno della Vita come Storia. In modo speculare, la frase dalla quale si è preso l’abbrivo – bisogna scrivere lettere come se dovessero sempre essere pubblicate – attribuisce all’epistola i caratteri incisi e immodificabili dell’epitaffio. Si configura così un doppio transito, vita ’ morte ’ vita, reso evidente dalla ragione affettiva che sottende il passo citato, ma che concerne in toto lo stile di pensiero e il modo di immaginare il reale, da parte di Croce.

Si prenda, a esempio conclusivo, un racconto epistolare messo insieme con le lettere del suo maestro Labriola, in pochi giorni nell’estate del 1937, dal titolo Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Una singolare coincidenza proietta sulla ricezione di questo testo un’implicita ragione commemorativa, quasi di trasposto necrologio. Ma della morte di Antonio Gramsci, avvenuta nell’aprile di quell’anno, i Taccuini tacciono, registrando, con la solita concisione, lo spoglio del materiale «raccolto per un’eventuale ristampa dei Saggi del Labriola» a partire dal 2 luglio.

Il sottotitolo Da lettere e ricordi personali, con la preposizione di origine o provenienza, rinvia, come in altri titoli consimili di Croce, all’immagine di un costante prelievo dai faldoni ordinati dell’Archivio, di testimonianze che la collettività contemporanea ha dimenticato o non ha mai conosciuto. Il meccanismo riattivatore della memoria è destinato a far riemergere il ricordo di ciò che è stato cancellato, ma esponendone il segno della dimenticanza, secondo una peculiare antropologia del tempo. Sull’intenzione che presiede al montaggio dei passi delle lettere trascelte, dato il carattere rilevante, per più aspetti, della edizione, si deve almeno accennare qualche considerazione sintetica. Il saggio, pubblicato in opuscolo nel 1938, sarebbe stato poi aggiunto, a partire dalla sesta edizione del 1941, al volume Materialismo storico ed economia marxistica. Nello stesso anno appariva anche in appendice alla ristampa dei saggi di Labriola a cura di Croce intitolata La concezione materialistica della storia. La formula del racconto epistolare, così organica alla prosa critico-autobiografica di Croce, viene dunque attagliata ai documenti del rapporto intellettuale forse più importante per il filosofo, quello con Labriola. Ma il dato autobiografico viene presentato come storia non privata, ma pubblica del momento più alto, secondo Croce, del marxismo come pensiero.

Da una parte, c’è Labriola, con lettere vive, straordinarie per acume e per verve polemica, dall’altra, Croce, io narrante e deuteragonista, il quale, alla fine del racconto, nel presente della narrazione, rimane solo sulla scena. Di certo, nel 1937, al centro degli anni più cupi e disperati del filosofo negli anni del fascismo, in modo tutt’altro che disinteressato e casuale Croce rifà in pubblico, in forma autobiografica, la storia di «come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia».

Il destinatario delle lettere, nel commentarle, ricorda che lui e Labriola consentivano «su questi tre punti capitali: 1) difesa della cultura di fronte, e anche dentro, il socialismo; 2) serio sentimento della patria; 3) intransigenza verso le oppressioni politiche e l’oscurantismo chiesastico» (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi, 2001, corsivo nostro). È un messaggio verso il presente, assai chiaro. Nello stesso periodo, all’amico Spinazzola, epurato dal fascismo e in grandi difficoltà economiche e psicologiche, scriveva della propria strana condizione d’animo di «condannato a morte», nel trasformare il pessimismo in operosità:

Quanto all’andamento delle cose in Europa, si ha da esso la conferma della terribile depauperazione accaduta nelle forze mentali e volitive: in quello che il vecchio ministro Tanucci chiamava il sillogismo! Io, da un paio di mesi, provo uno strano sentimento: una sorta di salus nascente dalla desperatio. E mi meraviglio di star calmo e di essere operoso dalla mattina alla sera. Mi par di essere un condannato a morte che vuole profittare delle ore che gli restano, non per godere ma per mettere a posto quante più faccende può (lettera del 24 dic. 1935, in Giammattei 2009, p. 187).

In questa luce viene fatto di ricorrere, nella lettura del piccolo essai par lettres, ai termini analitici di una pragmatica del testo, cioè alla prospettiva linguistica la quale considera il testo come azione, prospettiva assai consona alla mentalità del filosofo così come apparve allo stesso Labriola, quando rimproverava a Croce di interessarsi non al marxismo in sé, ma all’uso da farne (B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, 1895-1900. Da lettere e ricordi personali, 1938, ora in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, 2001, pp. 265-305; e cfr. Ciliberto 1973). Il punto di vista di questa narrazione epistolare riflette la modalità d’accesso alla ricezione contemporanea di un personaggio, Labriola, messo in scena nella voce dell’enunciatore, Croce, il quale garantisce la testimonianza. Vale a dire: trascritte come discorso obliquo, riportato, quelle lettere – provenienti da una storia dichiarata finita – vengono accompagnate dal commento attuale del trascrittore, per agire nuovamente, secondo un diverso orientamento. A questo fine lo scaltrito scrittore mette in atto la funzione di alleggerimento ideologico nella forma costante della preterizione: «Lasciando da parte il modo in cui Labriola discorre delle condizioni d’Italia, che è uno dei tanti quadri neri che si possono dipingere, quando si è d’umor nero, per qualsiasi tempo e per qualsiasi paese [...]». Ma intanto, condotto sotto le insegne della riduzione ironica, il recupero della viva voce e delle sferzanti considerazioni del fondatore del marxismo italiano sull’insoddisfacente realtà italiana, sulla corruzione politica, nel 1895 come nel 1937, è assicurato. Esso rappresenta il significativo guadagno del pensiero moderato, quello che opera cioè per contraccolpi dialettici.

Questa generale poetica e politica della lettera risulta poi fittamente innervata dentro i testi d’autore, anche quelli dalla struttura più compatta. Le lettere ora costeggiano, ora anticipano, ora ripetono e dispiegano ad personam il senso dell’elaborazione teorica. Passa infatti per la forma epistolare – giova ripetere in conclusione – il nesso comunicativo, determinante per intendere il filosofo, fra registro autobiografico e tensione storicizzante e autostoricistica, che si costituisce come un’ampia e articolata strategia della verità: e questa è sempre verità pertinente alla temporalità storica. La lettera, forma tenuta aperta, per eccellenza voce scritta, nella sua configurazione molteplice scandisce e intercala la sequenza delle opere in modi diretti o mediati: di volta in volta azione, testo letterario autonomo, autocitazione, ripresa intertestuale, infine come racconto esemplare e antifona. Considerata attraverso questa organica dimensione della scrittura, emerge con maggiore risalto la natura mobile e drammatica, pur nei tratti solitamente riconosciuti – perspicuità imperturbata, distesa argomentazione, adesione al genus dicendi copiosum – di una pratica discorsiva tra le più complesse del Novecento.

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