Croce: la categoria della vitalità

Croce e Gentile (2016)

Croce: la categoria della vitalità

Mauro Visentin

Con la pubblicazione di Teoria e storia della storiografia, avvenuta nel 1915 in edizione tedesca e poi, nel 1917, in edizione italiana, Croce aveva portato a compimento la costruzione del cosiddetto sistema, ossia la filosofia dello spirito. Le date sono significative: esse stanno a indicare, l’una, l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, e, l’altra, la fase culminante di questo (con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’uscita della Russia e, per quanto riguarda l’Italia, la rotta di Caporetto), preludio, sebbene ancora indecifrabile, alla sua conclusione, che sarebbe arrivata l’anno successivo. Il fatto che il ‘sistema’ giunga a compimento con la Prima guerra mondiale è emblematico: la guerra rappresenta, per molte ragioni, la fine di un’epoca. Un’epoca che è, certo, un tratto di strada percorso dalla storia europea, ma anche una fase compiuta della vita intellettuale e del cammino speculativo di Croce. La filosofia dello spirito rispecchia bene il clima morale e culturale di questo inizio del 20° sec. (il primo volume del ‘sistema’, l’Estetica, risale al 1902 e la memoria accademica dalla quale esso trae origine è del 1900): un clima di sostanziale fiducia nel destino positivo del continente e di rinnovamento, che si riflette nell’idea crociana (e anche gentiliana) che l’attività spirituale e la storia siano sempre espressione di progresso e di valori, mai di disvalori. Rispetto a questo clima, la guerra mondiale aveva rappresentato uno spartiacque per la storia d’Europa. Soprattutto nelle nazioni sconfitte, come la Germania. Ma anche in Italia, Paese che, pur rientrando nel novero dei vincitori, aveva sostenuto uno sforzo bellico ed economico sproporzionato per le modeste risorse di cui poteva disporre un organismo politico e sociale ancora gracile come il suo.

La soluzione di continuità nella storia europea, e in quella del nostro Paese in particolare, prodotta dal conflitto 1915-18, risulterà retrospettivamente del tutto chiara agli occhi di Croce, come dimostra, dieci anni dopo la fine delle ostilità, la sua scelta, nel ricostruire la vicenda dei primi decenni del giovane Stato unitario, di far terminare la narrazione degli avvenimenti che avevano contraddistinto la storia dell’Italia unita proprio con l’ingresso in guerra (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928). E questa scelta non sarà determinata, come da più parti si è detto, dal fatto che con lo scoppio della guerra e con il suo svolgimento e la sua conclusione – preludio della crisi dello Stato nato dal Risorgimento e dell’avvento alla guida di questo del regime fascista – l’Italia fosse entrata, per Croce, in una sorta di cono d’ombra storico, indecifrabile per mezzo delle sue categorie storiografiche e dei suoi strumenti di lettura e interpretazione degli eventi politici e sociali. Non per questo, come è stato persuasivamente chiarito da una diversa e innovativa lettura di quest’opera crociana (Sasso 1979), ma perché la storia si fa di ciò che è compiuto, come, appunto, l’epoca che si era chiusa con la Prima guerra mondiale, non di ciò che è in via di compiersi, e il cui decorso si svolge sotto i nostri occhi (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 2004, p. 283).

A Croce era quindi ben presente la circostanza che con la cosiddetta grande guerra terminava una fase della storia europea e se ne inaugurava un’altra, nuova e diversa, ricca di incognite e di ombre, ma ancora alla ricerca di una sua definizione, come dimostra il fatto che anche la successiva Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata in prima edizione nel 1932, avrebbe posto come proprio terminus ad quem il 1914. E non meno presente gli era il fatto che nel periodo che si era concluso con l’inizio della guerra si dovessero individuare, sia pure in potenza, le premesse (che riguardavano soprattutto la vita culturale e spirituale, con l’affacciarsi di istanze torbide e irrazionali nella letteratura, nella filosofia, nella saggistica: cfr. Storia d’Italia, cit., pp. 243 e segg.; Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1972, pp. 298 e segg.) di quelle ombre minacciose che si andavano addensando sul cielo della nuova epoca, quella che a partire dal conflitto continentale e soprattutto dopo la fine di questo aveva intrapreso il proprio cammino. Senza che una simile consapevolezza attenuasse minimamente, nella sua visione del percorso sino ad allora compiuto dal 20° sec., quella «discontinuità» fra le due fasi che nella storia si produce sempre, perché in essa il «poi» non è mai necessariamente e ineluttabilmente legato al «prima» (Sasso 1979, pp. 31-38). In questo quadro, era però innegabile che la premonizione della crisi che si andava preparando venisse ricostruita solo a posteriori – e anche questo è stato messo in evidenza dalla medesima, già ricordata interpretazione del testo di Croce che ha impugnato i luoghi comuni riguardanti la presunta inesistenza, nella Storia d’Italia, di un’analisi delle cause del fascismo (Sasso 1979, pp. 22-30, 78 e segg.) – dal momento che, negli anni in cui certi segni avevano cominciato a manifestarsi, la loro gravità e minaccia era stata ignorata o come minimo sottovalutata. Cosa che ne aveva reso tanto più insidiosa la minaccia e oscuro l’incombere, facendo pesare l’una e l’altro sulla responsabilità di chi avrebbe potuto prevenirli ma non lo aveva fatto, o non aveva saputo farlo, perlomeno non con la necessaria energia ed efficacia, stando, se non altro, ai risultati constatabili (pp. 64-77). La Storia d’Italia, scritta negli anni in cui il fascismo si era già ormai trasformato in regime dittatoriale, era stata composta da Croce con l’intento di testimoniare la nobiltà del recente passato contro la vuota, altisonante retorica che si appellava a quello più antico, a una romanità inventata e di maniera, funzionale all’uso propagandistico di una politica degenerata, fondata sulla menzogna e sull’abuso (Maggi 2011, pp. 130-32). Per testimoniare, quindi, indirettamente, l’inconsistenza di questa immagine retorica, insieme alla cecità (che era stata parzialmente anche sua) di chi non aveva saputo o voluto vedere in certi segni premonitori il prepararsi del peggio.

Tuttavia, nell’implicita autocritica di cui, per questo aspetto, la Storia d’Italia recava testimonianza, era presente, anche se sottaciuto, il senso dell’inadeguatezza dell’impianto speculativo che Croce aveva elaborato nella filosofia dello spirito, incapace di cogliere la realtà esistenziale e storica del negativo. Un’incapacità che le traversie cui il Paese era andato incontro dopo la fine della guerra e l’avvento del fascismo avevano fatto emergere ai suoi occhi con stridente evidenza, spingendolo, innanzitutto, a rivolgersi alla ricostruzione del passato, antico e recente, con la stesura in rapida successione dei quattro volumi della cosiddetta tetralogia storiografica (Storia del Regno di Napoli, 1925; Storia d’Italia, 1928; Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale, 1929; Storia d’Europa, 1932) e, in questo quadro, a cimentarsi, anche, con qualcosa che dal suo originario punto di vista avrebbe dovuto rappresentare un’impresa impossibile: quella di delineare la vicenda, almeno in parte, di una decadenza culturale e civile, visto che questo, in ultima analisi, è la Storia dell’età barocca.

La revisione dell’assetto delle categorie dello spirito pratico

Se la composizione delle quattro grandi opere storiche occupa sostanzialmente per intero il terzo decennio del 20° sec., è solo nel quarto che comincia a delinearsi una ‘revisione’ dell’impianto sistemico della filosofia dello spirito con la graduale attribuzione di un carattere emergente alla sfera pratica, articolata nei due gradi dell’attività spirituale rappresentati dall’utile e dal moralmente buono. Già nel corso degli anni Venti assistiamo a qualche tentativo di rivisitazione del ruolo dell’etica nell’organigramma del «circolo dei distinti». Per es., in un saggio del 1926 intitolato Filosofia come vita morale e vita morale come filosofia (in B. Croce, Ultimi saggi, 2012, pp. 211-18), il rapporto fra attività teoretica e attività pratica viene espresso riconducendo l’attività speculativa a una forma di vita morale, dove la compresenza e compartecipazione di ogni «distinto» rispetto a tutti gli altri, caratteristico della relazione (che Croce chiamava «circolo») nella quale la filosofia dello spirito aveva disposto e ordinato le sue quattro categorie di riferimento (cfr. Logica come scienza del concetto puro, 1996, sezione I, cap. 5), sembra volersi trasformare nella risoluzione entro l’orizzonte dell’etica e dell’agire morale delle diverse espressioni disciplinari dell’attività filosofica (e in modo specifico della logica) volte a elaborare il significato della realtà. Ovvero entro il perimetro di uno dei momenti in cui il circolo originariamente si articolava, e in cui formalmente continuava ad articolarsi (anche se in modo nuovo e tale da alterare sostanzialmente gli equilibri del vecchio, esaltando a tal punto il ruolo di uno dei quattro «distinti» – la sfera dell’agire pratico volto al bene, ossia l’espressione della volontà universale – da rendere la sua compartecipazione agli altri un tratto eminente e peculiare di tutta la vita dello spirito). All’inizio degli anni Trenta, poi, Croce, in un contributo dedicato a evidenziare il significato «moderno» delle due «scienze mondane» rappresentate dall’estetica e dall’economia (Le due scienze mondane. L’estetica e l’economica, 1931, in Ultimi saggi, cit., pp. 49-62), finiva con il sottolineare la risoluzione del vecchio concetto di «natura» nel nuovo e moderno concetto dello «spirito» e, più esattamente, in una delle sue specifiche modalità di attuazione: quella che si realizza attraverso le manifestazioni della «vita passionale» – gli «stimoli», gli «impulsi», il «piacere e dolore», la «varia e molteplice commozione» –, aspetti che appartengono tutti all’espressione elementare della volontà, cioè alla volontà particolare, egoistica o utilitaria (vale a dire, quella economica), che, come tale, fornirebbe la materia a tutti i gradi successivi (compresi quelli teoretici: non solo, quindi, all’agire morale, ma anche alla fantasia artistica e al pensiero filosofico). Sono due tappe sul cammino che porterà Croce, di lì a poco, a riformulare il ruolo della sfera pratica nella vita dello spirito, conferendo alle sue due forme un carattere quasi ‛sovracategoriale’.

Questo è ciò che di fatto avvenne nel 1938 con la pubblicazione dell’opera forse più celebre e celebrata di Croce negli anni a cavallo fra le due guerre, ossia La storia come pensiero e come azione. In questo libro famoso (che fa da pendant a quello coevo su La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura), Croce raccoglie e dispone in una forma sistematica i pensieri che era venuto tessendo negli ultimi anni intorno all’argomento che ne costituisce l’oggetto. Il primo capitolo, che ha lo stesso titolo del libro al quale, in un certo senso, fa da introduzione, contiene un paragrafo su “L’attività morale”, in cui Croce delinea una sorta di dialettica fra la tendenza alla disorganicità e allo squilibrio che insidierebbe costantemente la vita dello spirito, in tutte le sue manifestazioni, e un’opposta tendenza alla ricostruzione dell’equilibrio e dell’unità organica, ugualmente destinata a riproporsi di continuo nelle alterne vicende dell’esistenza storica.

Bene e male e i loro contrasti, e il trionfo del bene, e il rinascere dell’insidia e del pericolo, non sono effetto dell’intervento di una forza estranea alla vita […] ma sono nella vita stessa, e anzi sono la vita stessa, la quale, per parlare in linguaggio naturalistico, vuole specificazione delle funzioni nell’unico organismo, e, per ripetere la cosa in linguaggio filosofico, perpetuamente si distingue nelle sue forme e nel circolo di esse si unifica. Ma, come in ogni sano organismo c’è la tendenza al disorganismo, e la sanità è l’equilibrio dello squilibrio perché domina e rinserra in sé la malattia, così ogni forma speciale, in forza della sua specialità che è la sua individualità, e nell’impeto del suo proprio fare che non può farsi senza impeto, si sforza verso il tutto, e si spinge innanzi quando deve cedere il luogo, avendo raggiunto il proprio fine; e in questo sforzo di esuberanza distruggerebbe l’unità spirituale e sé medesima, e lo spirito tutto morrebbe, se non fosse da raffrenare e infrenare con le altre che le susseguono e che a lor volta tengono lo stesso metro (La storia come pensiero e come azione, 2002, p. 51).

È evidente che in queste righe i rapporti fra i quattro «distinti», rispetto a come erano stati delineati nel ‘sistema’, subiscono una sostanziale ridefinizione. La tendenza alla disorganicità viene rappresentata come parte integrante della vita dello spirito: quasi un nietzschiano istinto di sopravvivenza e sopraffazione insito in ciascuna forma, in virtù del quale questa – che dopo aver raggiunto il suo scopo provvisorio, quello assegnatole dalla storia, volta per volta, dovrebbe ritirarsi e cedere il passo alle altre – tende invece, del tutto naturalmente, a insistere nell’affermare e realizzare se stessa, impedendo alle forme successive e alle esigenze storiche di cui queste sono portatrici di esprimersi. Nel brano citato, Croce attribuisce al ‘complesso’ delle altre categorie l’energia che pone freno a una simile esuberanza vitale presente in ciascuna di esse, presa per sé. Dove sembra che se ogni singola forma tende, in modo egoistico, alla propria autoaffermazione, il loro «insieme» eserciti, quasi spontaneamente, la forza di contenimento che riconduce ciascuna nei suoi limiti. Ebbene, dal momento che poche righe prima Croce aveva definito il male come l’«insidia all’unità della vita» e il bene come «il continuo ristabilimento dell’unità», appare evidente che l’attività che produce il bene, vale a dire la volontà morale, opera qui come l’«insieme», appunto, delle forme o come un’energia, interna a ciascuna di esse, che incarna l’istanza del «tutto» e che contrasta l’analoga e opposta tendenza, presente anch’essa in ogni singola forma, volta a spingerla in senso contrario, ossia verso la conservazione e affermazione della propria dimensione individuale.

Una tendenza, quest’ultima, che nel capitolo da cui abbiamo desunto i brani appena citati del volume sulla Storia come pensiero e come azione non ha ancora un’identità categoriale precisa, ma che è già facilmente riconoscibile – nel senso che sono già presenti tutti gli elementi per giungere a una simile identificazione – nella volontà economica, egoistica, mirante solo al proprio utile. Si tratta del volere che attiene al primo grado dell’attività pratica dello spirito e che, in un capitolo successivo e non meno importante di questo stesso libro, intitolato “Il cosiddetto irrazionale nella storia” (pp. 157 e segg.), viene associato al concetto di «vitalità», che fa così la sua comparsa ufficiale nel quadro del pensiero crociano. Tale volontà elementare, che viene ora contrassegnata da aspetti decisamente negativi (l’irrazionale, il recondito, il misterioso, lo sconvolgente), è, del resto, la stessa volontà che era stata raffigurata, nel contributo sulle Due scienze mondane, come ciò che assume la coloritura del «male» quando lo spirito vive, attraverso di essa, lo «spasimo» del «ricadere senza ricadere» in una dimensione di pura naturalità, avendo messo in atto uno sforzo inefficace di attingere le sfere più alte (in B. Croce, Ultimi saggi, cit., p. 62).

Tuttavia, il nuovo ruolo assegnato all’etica nella Storia come pensiero e come azione non cancella il carattere che le era stato attribuito nella filosofia dello spirito (e che in quel quadro essa condivideva con ognuna delle altre forme), visto che proprio alla fine del paragrafo sull’“Attività morale” Croce, nel ribadire che l’attività morale compenetra tutte le altre, ricevendo da ciascuna di esse la sua concretezza, aggiunge che questo stesso modo di rapportarsi alle restanti è proprio di tutte e di ognuna, sottraendo, con ciò, all’etica quel ruolo esclusivo e preminente che nelle pagine precedenti era sembrato invece volerle riconoscere (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 53). Per questo motivo, se è incontestabile che l’assetto originario delle categorie, disposto nei quattro volumi (Estetica, Logica, Filosofia della pratica, Teoria e storia della storiografia) in cui aveva preso corpo il ‘sistema’, venga, con il nuovo peso assegnato alla sfera morale (e in prospettiva anche con quello, ugualmente nuovo, che verrà presto attribuito all’utile), alterato in maniera significativa, tutto questo non giunge comunque fino al punto di potersi configurare, come pure è stato autorevolmente sostenuto (Galasso 2002, cap. 15), nella forma di una «seconda Filosofia dello spirito». Perché Croce non arriva mai a mettere espressamente in questione i principi sui quali aveva originariamente fondato il suo impianto di pensiero e ancor meno a ridisegnare il profilo di questo impianto: il suo tentativo (impossibile) fu invece quello di introdurre, nel quadro a suo tempo definito, alcune ‘correzioni’ che di fatto ne destrutturavano l’architettura, senza però cercare di sostituire a questa qualcosa di ugualmente strutturato. E un simile tentativo andrà avanti negli anni successivi, giungendo a toccare il suo culmine con l’ingresso, in modo non più episodico, ma sistematico, sulla scena del suo pensiero, del tema già apparso della «vitalità».

Barbarie e fremito vitale

Il libro successivo, Il carattere della filosofia moderna (1941, ma l’“Avvertenza” di Croce porta la data del gennaio 1940), è una raccolta di saggi che svolgono alcuni corollari dei temi trattati nei due volumi dedicati alla Poesia e alla Storia, la cui pubblicazione aveva contraddistinto in modo senza dubbio significativo, per ciò che riguarda l’evoluzione del suo pensiero, la seconda parte del decennio precedente. L’ottavo capitolo, che da solo occupa la metà circa del volume, è costituito da una serie di 27 Paralipomeni del libro sulla “Storia”, uno dei quali, il XXIV, ha per titolo “Forze vitali e forze morali. Economia, politica ed etica”. Leggiamone alcune righe che colpiscono per la loro rilevanza:

La distinzione di forze vitali e forze morali, utilitarie ed etiche, o come altrimenti sono state definite e metaforizzate (terrestri, celesti, barbariche e di civiltà, ecc.), ha importanza capitale per l’intelligenza delle azioni e degli avvenimenti storici, e non si può raccomandare abbastanza di mantenerla nella sua nettezza e rigore, perché è categoriale, cioè formatrice di giudizî. D’altra parte, appunto perché categoriale, non bisogna intenderla come distinzione empirica o separazione, quasi si possano sceverare individui e fatti che appartengono esclusivamente all’una e all’altra sfera, il che sarebbe contro l’unità e concretezza dello spirito. E la morale resterebbe un’astrattezza se non s’appoggiasse e alleasse a qualche forza vitale o interesse economico, piegato a suo mezzo. Così l’alta spiritualità del cristianesimo lottò contro i barbari e a sé li sottomise, [...] in quanto era armata di armi vitalmente, utilmente e barbaricamente efficaci [...]. Correlativamente, i barbari non erano semplicemente e totalmente forze fisiologiche e vitali, perché erano uomini e perciò capaci di impeti e di elevamenti intellettuali, morali poetici, e possedevano un’idea del divino, una religione e un’etica [...]. Quando, come accadde col rovinante impero romano e con le invasioni barbariche, si entra in un’età storica nella quale sembrano soverchiare le prorompenti e dilaganti forze vitali, che abbattono e asserviscono tutto quanto si oppone alla soddisfazione della loro brama vorace di espansione, di alimento, di godimento e di dominazione, non bisogna aspettare la difesa o la ripresa della civiltà d’altronde che dall’uso di forze della stessa qualità, ciò dall’azione bensì di principi morali ma che in certo qual modo abbiano adottato le virtù dei barbari (Il carattere della filosofia moderna, 1991, pp. 220-22).

La lunga citazione era necessaria per consentire di afferrare certi nodi che qui incominciano a stringersi. In primo luogo, la differenza fra utile e bene viene equiparata a quella tra forze vitali e forze morali, spingendosi addirittura ad assimilarla al divario che intercorre fra barbarie e civiltà. In secondo luogo (e questa è una diretta conseguenza dell’identità appena stabilita fra le suddette coppie di fattori storici contrapposti), la distinzione che divide questi concetti l’uno dall’altro viene definita «categoriale». Ora, una differenza categoriale è, com’è ovvio, quella che distingue due «categorie». Perciò, da questo passo di Croce possiamo desumere che ai suoi occhi la forza vitale e barbarica è diventata, a questo punto, essa stessa una categoria, ovvero un’espressione o manifestazione reale, autonoma e perciò positiva, dell’agire dello spirito. Qualcosa, in altri termini, di equivalente a un valore. Non (più), pertanto, un disvalore o il semplice opposto (che non sarebbe in se stesso nulla) al quale l’autentico valore deve contrapporsi per potersi affermare ed essere ciò che è o deve essere, ma una modalità dell’agire pratico che, come tale, incarna un’esigenza storica emergente dalla realtà concreta del corso delle cose. Che la questione sia messa così, e che nel passo citato la violenza barbarica venga concepita e interpretata in modo positivo (nel senso della realtà e concretezza spirituale), è vero al punto che Croce si spinge fino a raffigurarla come una forza di cui non può fare a meno neppure la civiltà se vuole contrapporsi validamente al dilagare proprio della barbarie (la quale, pertanto, finisce così con l’essere, in un certo senso, un rimedio a se stessa, e con l’assolvere, di conseguenza, entro una simile contrapposizione, il doppio ruolo di «positivo» e «negativo»).

Ma in questo modo è pur vero che l’originario profilo dei «distinti» crociani e della loro differenza dagli «opposti» finiva con il subire un’alterazione piuttosto evidente, in conseguenza della quale poteva sembrare che le due relazioni categoriali (la «distinzione» e l’«opposizione», appunto) – a suo tempo tenute rigorosamente separate, allo scopo di non permettere quella confusione tra un genere di concetti e l’altro in cui, a giudizio di Croce (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, 1907), era caduto Georg Wilhelm Friedrich Hegel – tornassero in una qualche misura a sovrapporsi. Perché, come equivalenti di «barbarie» e «civiltà», l’utile economico e il bene etico non potevano più essere solo «distinti», ma dovevano essere allo stesso tempo (e definiti così non era possibile che non fossero), per altro verso anche «opposti». E tuttavia, d’altra parte e allo stesso modo, visto che qui la barbarie o il disvalore erano certo qualcosa di storicamente reale, essi dovevano essere, simmetricamente e proprio come «opposti», anche «distinti». A ogni modo, come si deve ora ulteriormente ribadire, sbaglierebbe chi in questi sviluppi e svolgimenti del pensiero di Croce volesse vedere l’espressione di un programma intenzionalmente volto ad abbandonare il sistema costruito nei primi dieci anni del 20° sec., che aveva il suo fulcro nella differenza delle due relazioni («distinzione» e «opposizione») intrattenute, la prima, dai concetti «puri» fra di loro e, la seconda, da ciascuno di essi con se stesso (o con quella sua «ombra» evanescente, rappresentata dal corrispondente disvalore).

Ne è prova un altro dei saggi contenuti in questo stesso volume (tutti appartenenti, per ideazione e stesura, al medesimo biennio, 1939-40): Il posto di Hegel nella storia della filosofia. Qui è vero che le imputazioni rivolte contro Hegel riguardano esclusivamente la distinzione fra natura e spirito e la presenza nel suo pensiero di una concezione filosofica e ideale del corso storico (la «filosofia della storia», da Croce sempre rigettata), mentre non si fa, in modo esplicito, alcun cenno alla confusione fra «distinti» e «opposti», nella quale, secondo la lettura critica del pensiero hegeliano proposta nel 1907 in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, l’autore della Scienza della logica sarebbe invece caduto, con conseguenze deleterie per la sua filosofia. Cosa che potrebbe essere indizio di una minore importanza attribuita ora da Croce a questo «errore» hegeliano, sebbene in un passaggio del testo «distinti», «correlativi» e «opposti» vengano menzionati nella stessa sequenza in cui li abbiamo appena chiamati in causa, che li presenta come nettamente diversi e non sovrapponibili, in riferimento al procedimento triadico, ricorrendo al quale Hegel li dialettizza tutti in modo indiscriminato. Ma, a parte questo accenno, del resto di significato generico, è incontestabile il fatto che non c’è, nel contributo su Hegel di cui stiamo parlando, alcun esplicito riferimento critico al tema dei «distinti» e degli «opposti», al quale, nel saggio del 1906, era dedicato un capitolo, breve ma di grande importanza, il quarto, volto appunto a tratteggiare l’errore rappresentato dalla mancata osservanza della diversità fra le due relazioni (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, 2006, pp. 59-71); tutto questo è vero, ma altrettanto vero è il fatto che Croce, in una nota di questo medesimo testo, ribadisce la sua sostanziale e perdurante adesione alle conclusioni raggiunte trentaquattro anni prima, in quell’ormai lontano contributo.

Insomma, benché la progressiva sostituzione del concetto di «utile economico» (che ha una valenza, per sé preso, eticamente neutra) con quello di «forza barbara e vitale» (che ne ha una, invece, di per sé eticamente negativa) indichi una tendenza da parte di Croce, in questo stadio della sua evoluzione filosofica, ad assegnare al «negativo in se stesso» un’autonomia categoriale del tutto incompatibile con il ruolo che esso assolveva nel quadro sistematico del pensiero espresso negli anni Dieci, Croce non intende rinunciare al modo in cui, in quel quadro, aveva delineato il rapporto di «opposizione», separandolo da quello che legava tra loro i «distinti» in un circolo. Il primo, caratterizzato dal rifiuto per mezzo del quale il valore nega ed espelle da sé il disvalore (che non ha la medesima forza repulsiva e dunque è sempre sconfitto e non prevale mai); il secondo, nel quale entravano in gioco solo i valori, non i disvalori, integrandosi a vicenda con il nutrirsi l’uno dell’altro secondo una sequenza precisa che definiva l’ordine in cui ciascuno giungeva ad affermare se stesso. Ma dal momento che la nuova impostazione e la conservazione del vecchio quadro sistematico erano, per più di un rispetto, incompatibili, la conseguenza da trarre è allora che in questa fase tarda della sua evoluzione il pensiero di Croce tende a presentarsi in termini conflittuali, di un conflitto interno al suo stesso orizzonte. Nei termini, cioè, di un dissidio, di una lacerazione che ha aspetti e toni a tratti drammatici (anche se lo stile letterario di Croce, sempre calibratissimo e pacato, nella sua pulizia e nel suo rigore formale, riesce in buona parte a dissimulare questa drammaticità).

Quella che qui si delinea è una vicenda che ha una forte coloritura d’epoca. Più che motivi filosofici, a spingere Croce nella direzione che si potrebbe, semplificando, descrivere nei termini di un tentativo di recupero dell’autonomia del negativo entro il quadro del suo impianto di pensiero sono i tragici eventi della storia europea di quegli anni. Croce aveva promosso, prima ancora di Gentile (in un certo senso provocando, con la sua lettura del pensiero hegeliano, anche quest’ultimo a procedere, per proprio conto e con intento difensivo nei confronti dell’hegelismo, nella stessa direzione, cfr. Visentin 2006, pp. 443-53), una «riforma della dialettica» che aveva ottime ragioni da far valere, dal punto di vista speculativo (cfr. Antoni 1955, 19642, cap. 4; Sasso 1975, parte II, cap. 1), ma che della dialettica aveva, in ultima analisi, fortemente ridimensionato la capacità di cogliere la dinamica dei processi storici – e questo, al di là delle parole, vale anche per Gentile (cfr. Sasso 1998 e, in una prospettiva però molto diversa, Natoli 1989; contra: Severino 1978) – risolvendo la «sintesi dialettica» di Hegel in una «sintesi a priori» di tipo piuttosto kantiano che hegeliano (Valentini 1966, pp. 14-21), fatta di due momenti, uno dei quali originariamente inclusivo e risolutivo dell’altro, e non di tre, due dei quali destinati a confluire in un terzo (la sintesi, appunto). L’insoddisfazione filosofica che comincia a manifestarsi in Croce alla fine degli anni Venti, e che abbiamo cercato qui di documentare attraverso i suoi sviluppi, non riguarda, quindi, tanto lo schema e l’assetto categoriale appena riassunto (che infatti Croce tende a conservare), quanto l’incapacità di questo di fornire strumenti adatti a interpretare e intendere i movimenti della storia che si andava svolgendo in ‘presa diretta’, contraddistinti dal prorompere di forze distruttive devastanti, come quelle emerse nelle due guerre mondiali e attraverso i totalitarismi.

Con gli anni Quaranta, lo svolgimento del pensiero crociano nel senso che abbiamo descritto si consolida. In un testo del 1943, significativamente intitolato L’“Apologia del diavolo” e il problema del male (in B. Croce, Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 2011, pp. 181-94), Croce sottolineava, riprendendo l’Apologie des Teufels (1795) di Johann Benjamin Ehrard – nei confronti della quale esprimeva un consenso limitato da diverse riserve –, come il «diavolo», cioè il male, debba essere risolto in bene, non già negando che esso sia male, ma ritrovando il bene al fondo della sua stessa negatività (pp. 182-83). Per arrivare a concludere che bene e male non sono l’uno estraneo all’altro, ma «coniurant amice», «la forza vitale, o la natura che si dica, aspirando alla vita morale, e questa avendo nell’altra la sua condizione» (p. 193). Conclusione che rende bene il senso del principio espresso poche pagine prima:

Il processo logico filosofico, che scioglie in questa parte le contraddizioni, è processo di distinzione tra due gradi dello spirito, la cui unificazione operandosi dialetticamente, passa per la contrarietà (p. 186).

Che è affermazione davvero sorprendente se confrontata con le posizioni espressamente riconducibili alla filosofia dello spirito, nella quale non si faceva alcun cenno di una «dialettica dei distinti», che anzi Croce rifiutava con nettezza (Antoni 1955, 19642, p. 63), anche se da parte di qualche interprete se ne evoca frequentemente il concetto per la mancata avvertenza del fatto che solo in modo improprio e per metafora la «circolarità» dei distinti si può considerare, nel quadro del ‘sistema’, una «dialettica», visto che in essa non entra, appunto, in gioco alcuna forma di opposizione o di contrarietà. In questo passo, invece, e da qui la sorpresa, la «contrarietà» viene espressamente richiamata con riferimento ai «gradi dello spirito», che pure, nella pagina precedente, Croce aveva evocato come dei semplici «distinti», senza lasciar minimamente trasparire l’idea che nel primo dei due, in sé considerato, potesse profilarsi la presenza di qualcosa di malvagio o negativo, ribadendo, anzi, il vecchio principio secondo il quale nell’opposizione di bene e male il male è «negativo e irreale» e «positiva e reale» «è solo la moralità che lo combatte e lo vince» (Discorsi di varia filosofia, 1° vol., cit., p. 186), a testimonianza di come, in questa fase, il suo pensiero oscilli di continuo fra vecchio e nuovo.

Il primo volume della raccolta di saggi cui appartiene L’“Apologia del diavolo” (quei Discorsi di varia filosofia che comprendono contributi composti quasi esclusivamente fra il 1941 e il 1943) si chiude con un testo celebre, pur nella sua stringata brevità: il Soliloquio di un vecchio filosofo. La stesura risale al febbraio 1942 ed è molto interessante l’appunto con il quale, nei Taccuini di lavoro, alla data dell’11 febbraio, Croce registra l’inizio della composizione del testo:

Ho passato tutta la giornata a scarabocchiare un articoletto a cui ho dato il titolo di Soliloquio di un vecchio filosofo. Perché l’ho intitolato così? [...]: per dare agli uomini del giorno la soddisfazione di dichiararmi decrepito e rammollito, il che non mi importa, purché mi si lasci dire quel che sento di dover dire (Taccuini di lavoro, 4° vol., 1937-1943, 1987, pp. 334-35).

E che cosa sentiva di dover dire Croce in quel primo scorcio del 1942? Che un’età storica si giudica per l’ideale morale che riesce a esprimere, ma che non sempre accade che le epoche della storia siano pervase da un ideale di questo genere: ve ne sono alcune nelle quali una simile forza morale è venuta meno fin quasi a sparire del tutto. Sono, queste, le epoche di «decadenza e barbarie». E non è difficile comprendere che quella in cui Croce sente, mentre scrive, di vivere, è una di queste, in cui la forza morale è «scemata» al punto che sembra essersi spenta, come si vede guardando agli «uomini del giorno», quelli che il fascismo aveva convinto di incarnare un nuovo soggetto umano, energico, risoluto, restauratore dei fasti della civiltà romana, e che non erano, invece, altro, almeno da noi, se non l’ultima, grottesca incarnazione dell’eterna maschera provinciale e arrogante della commedia plautina, uomini che avevano ammainato la bandiera della libertà per cedere all’impulso gregario di seguire gli ordini di una Guida. Questi uomini, incapaci di elevarsi al di sopra della bramosia di un benessere elementare, riguardante esclusivamente la propria persona e i propri sodali, erano individui capaci di coltivare solo gli istinti più bassi, in cui si rifletteva l’impulso animale volto alla «mera “gioia di vivere”, del lasciarsi vivere» (Discorsi di varia filosofia, 1° vol., cit., p. 283). Una simile smania di vita è la forza vitale che impronta di sé le epoche di decadenza. A essa si contrappone l’ideale etico della libertà. Ma nel crepuscolo di un’esistenza ormai prossima alla sua conclusione, al «vecchio filosofo» tutto appare in certo modo decantato e filtrato attraverso lo sguardo d’insieme di una visione dall’alto, che permette di cogliere la ristrettezza della prospettiva campale, inserendola nel quadro più ampio di quella che consente di capire come

nel contrasto e nella dialettica, che è la legge della storia, l’azione morale dell’uomo non sta sola, astratta in un mondo astratto, ma sempre in relazione con quella che è tutt’insieme la sua materia e il suo strumento, la sua avversaria e la sua alleata, cioè con la forza vitale (pp. 285-86).

Una definizione del ruolo e del significato della forza vitale senza dubbio diversa nel tono (e per questo aspetto anche molto diversa) da quella che appena due anni prima, concludendo il saggio di apertura dei Discorsi di varia filosofia, dedicato a La “Loica” nei tarocchi detti del Mantegna, Croce aveva offerto con pochi tratti energici e vibranti:

La Logica non soffoca né sostituisce la spontaneità del fare, ma la sorregge e la difende contro le rapine che sopr’essa tenta la convulsa e bruta vitalità, la quale prende arie spavalde di vigoria, ed è mostruosità ed è debolezza (p. 17).

Non che nel Soliloquio la forza vitale sia descritta ricorrendo a tinte più tenui, ma mentre nel saggio sulla “Loica” nei tarocchi la vitalità appare semplicemente e senza attenuanti negativa, nel Soliloquio essa si mostra possibile «alleata» dell’etica e comunque destinata a non avere mai partita vinta, perché gli ordinamenti liberali potranno, senza dubbio, essere «soverchiati e rovesciati», ma mai definitivamente: essi saranno talvolta «per un tempo più o meno lungo» costretti a cedere «in maggiore o minor misura al loro opposto, alla selvaggia forza vitale» (p. 286), ma dovranno alla fine risorgere ed essere riaffermati. Dove si vede bene che uno dei tratti distintivi del concetto di vitalità in questa fase tarda della riflessione di Croce è il modo alterno in cui esso viene interpretato e proposto. Seguendo spesso l’umore del momento, a sua volta influenzato dall’evolversi della realtà in cui il filosofo si trovava a vivere e a essere immerso, soprattutto con lo sguardo rivolto alle vicissitudini storico-politiche – perlopiù tragiche, ma anche in grado di suscitare e mobilitare, per reazione, insospettate risorse morali – cui l’Europa era andata soggetta nel corso degli ultimi decenni.

Dopo la guerra: la «vitalità cruda e verde»

Con la fine del secondo conflitto mondiale e con la caduta dei totalitarismi che lo avevano scatenato, la storia europea sembra entrare in una fase meno cupa e la prospettiva a partire dalla quale Croce adesso guarda alla realtà politica che si profila ne risente. Il primo volume di argomento filosofico che pubblica nel dopoguerra (che è anche il penultimo della serie di quelli cui è affidata la sua complessa, ampia e inesausta opera di meditazione e ricerca in questo campo, e che porta la data del 1949) è, ancora una volta, una raccolta di saggi, Filosofia e storiografia, composti tra il 1945 e il 1948. Si tratta di contributi, in particolare quelli che costituiscono la prima sezione, dedicati ad aggiornare, ma anche a ribadire, alcuni capisaldi del ‘sistema’. Croce, evidentemente consapevole di aver introdotto nel corso degli anni – e, in modo specifico, degli ultimi – alcune novità nell’organigramma della filosofia dello spirito, si propone ora di mostrare come queste novità non avessero avuto alcun intento (e neppure l’involontaria capacità) di scardinare quell’organigramma (segno, questo, che il sospetto di aver proposto mutamenti categoriali e alterazioni del quadro originario che si sarebbero anche potuti interpretare come espressivi di un’intenzione del genere non gli era del tutto estraneo).

Così, il secondo saggio ritorna sulla «teoria della distinzione», e in esso Croce, memore forse di aver utilizzato toni e modi di esprimersi, nelle sue più recenti formulazioni riguardanti i rapporti fra le categorie pratiche, che avrebbero potuto magari, agli occhi di qualcuno, appannare alquanto la nettezza dei profili, in origine rigorosamente separati, della «distinzione» e dell’«opposizione», ripropone la loro differenza, ma con la variante di attribuire ora un ruolo, in un certo senso, subordinato e funzionale alla seconda rispetto alla prima. Sia perché l’opposizione «presupporrebbe» la distinzione, come qui si dice, sia perché essa si «accenderebbe» «nel trapasso da un distinto ad un altro, da una ad altra forma o categoria della realtà o dello spirito», come espressione di un «travaglio» nell’«attuazione di quel trapasso» che avverrebbe esclusivamente «attraverso il contrasto del nuovo col vecchio, del positivo col negativo» (Filosofia e storiografia, 2005, p. 23). È una dichiarazione, a ben vedere, singolare, nella sua apparente ovvietà, perché, invece di collocare l’opposizione all’interno di ciascun distinto (che è il valore con il quale esso si identifica solo in forza del suo non essere – ossia del suo negare, del suo respingere da sé, avendone da sempre già avuto ragione – il proprio disvalore), la interpone tra un distinto e l’altro, facendone la ‘molla’ del passaggio dal primo al secondo.

Questo passaggio, che è alla base della circolarità dei distinti, Croce lo aveva, nella Logica, espressamente sottratto alla responsabilità dell’opposizione (Logica come scienza del concetto puro, cit., pp. 90-91). Ma nella filosofia dello spirito esso era sempre rimasto un problema aperto, nel senso che Croce non era mai riuscito a individuare un principio che ne fosse responsabile in ultima istanza, e aveva bensì parlato della «decadenza» (Sasso 1975, pp. 303, 333) del distinto precedente a materia del successivo (Logica come scienza del concetto puro, cit., pp. 169-70), della contraddizione intrinseca non a ciascun distinto nella sua distinzione, ma alla realtà in quanto tale (in quanto divenire; Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, cit., p. 68), lasciando, tuttavia, sempre fuori dall’orizzonte di questa questione gli «opposti» ed evitando con cura ogni richiamo a essi in rapporto alla dinamica con la quale si realizzerebbe la circolarità dei distinti. E per buone ragioni, visto che gli opposti, non essendo entrambi reali (perché solo il positivo lo è) sono l’uno (il negativo) intrinseco all’altro (il positivo) e pertanto non richiedono, e meno che mai contemplano, alcuna possibilità di «passaggio» dall’uno all’altro (Visentin 2008, pp. 67 e segg.). Ora, invece, Croce riconduce espressamente all’«opposizione» la ragione del passaggio tra i distinti. Un po’ come aveva già fatto, lo abbiamo visto, quattro anni prima, nell’“Apologia del diavolo”, dove un tale ruolo era, però, affidato genericamente a una non meglio precisata «contrarietà», e dove, del resto, questa garantiva piuttosto l’«unificazione» che il «passaggio» da un distinto all’altro.

Evidentemente, la «vitalità» ha inciso una traccia profonda nel suo pensiero e in essa i due diversi modi di guardare ai concetti puri, che la filosofia dello spirito aveva considerato separatamente, si sovrappongono. La vitalità, infatti, è un distinto che è però anche un negativo, cioè un opposto. E per quanto, secondo un autorevole studioso e interprete del pensiero di Croce, fin dalla Filosofia della pratica (1909), il momento economico mostrasse i segni di una polarità tra piacere e dolore che, unica in tutta la vicenda dello spirito, dava luogo a un’opposizione nella quale entrambi gli opposti erano «reali» (Antoni 1955, 19642, pp. 132-34), con la vitalità le cose si prospettano in una maniera che è ancora più eversiva dell’originaria logica, fondata sulla separazione dei «distinti» dagli «opposti» e viceversa, di quanto lo fosse o potesse esserlo la «realtà» dell’opposto negativo nella sfera economica, perché con la vitalità non solo il «negativo» assume aspetto e contenuto di realtà, ma esso riveste, addirittura, il ruolo di «distinto» (e non solo di «opposto», ossia di ciò che il distinto nega).

La vitalità è, in altre parole (e alcuni dei saggi raccolti nel tardo volume filosofico lo attestano chiaramente), positiva come tutte le altre forme (Filosofia e storiografia, cit., p. 208) e positivi sono gli eventi che ne rappresentano l’espressione storica e che la storiografia deve sforzarsi di comprendere e ricostruire (p. 145). Ciò nondimeno, non si può disconoscere che l’aspetto con il quale Croce ce la fa a tratti balenare davanti è decisamente negativo, al punto di rendere plausibile il fatto di giungere ad attribuirle le sembianze dell’Anticristo. In questa veste, dice Croce, essa è in noi come tutte le forme dello spirito, ma, diversamente dalle altre, non può attuare fino in fondo la sua vocazione a distruggere anziché a creare, perché la realtà «cesserebbe di essere realtà se quell’impulso fosse attuabile a pieno» (p. 94). E questo mostra piuttosto bene come, al riguardo, il suo pensiero continui a oscillare tra l’esigenza di concedere alla vitalità un compiuto e totale riconoscimento del ruolo e della dignità di «distinto» (che vuol dire farne qualcosa di «positivo», qualcosa che sia produttivo di realtà storica, idealmente e ontologicamente autonomo) e l’attribuzione a essa di un carattere puramente e assolutamente «negativo», incompatibile, nella sua prospettiva, con quel ruolo e con tutto ciò che esso comporta. Che in una simile incertezza e alternanza di prospettive si nasconda un disagio, una difficoltà, un’insoddisfazione è fin troppo facile a dirsi. Ma che, d’altra parte, proprio qui si intraveda il segno prevalente dell’ultima riflessione di Croce lo attesta il fatto che precisamente intorno a questi temi si svolgerà la trama del suo ultimo libro filosofico, nel quale, accanto a un ritorno di interesse critico per Hegel, si ripropongono ancora una volta, e con insistenza, le questioni legate a quello stesso motivo, il cui ricorrere costante nelle sue tarde, angosciate e irrequiete meditazioni abbiamo seguito fino a questo punto.

In quest’ultima e in qualche modo conclusiva raccolta di testi (la data della prima edizione di Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici – 1952 – è quella dell’anno stesso della morte), Croce tenta in maniera organica di saldare il tema della vitalità a quello della dialettica, e di farlo tornando, a distanza di quarantacinque anni dal primo confronto con il pensatore tedesco, a rileggere la filosofia di Hegel. L’opera è in qualche modo conclusiva, nel senso che non è semplicemente l’ultima in ordine cronologico e per l’assenza, dovuta alla morte dell’autore, di testi successivi che possano dipanarne i fili ancora intrecciati. Non solo per questo, ma anche perché, appunto, in essa Croce si sforza di trovare una sistemazione che possa vedere la convergenza coerente – in una tesi che integri, senza alterarne l’originario profilo, le linee sistematiche della sua filosofia degli anni Dieci – delle molte osservazioni sparse nei suoi scritti filosofici più tardi, relative al ruolo della vitalità nella vicenda dello spirito, calato nella realtà storica. Conclusiva, però e d’altra parte, solo in qualche modo, perché, se questo è l’intento di Croce, occorre dire che esso non è stato raggiunto, o meglio che non viene raggiunto neppure in questo volume e con questo volume.

Il primo dei testi riuniti nelle Indagini su Hegel è, cosa alquanto singolare e sorprendente, una novella. Una vera e propria piccola pièce, nella quale Croce, vestendo i panni del giovane napoletano Francesco Sanseverino, immagina di presentarsi a casa di Hegel nell’estate del 1831 (pochi mesi prima che l’epidemia di colera, che allora aveva investito la Germania, portasse via, senza nessun riguardo per la sua fama e la sua riconosciuta grandezza speculativa, anche il sommo filosofo) e di intrecciare con lui un dialogo nel corso del quale emergono tutte le riserve a suo tempo espresse, nei confronti di questo imponente sistema di pensiero, dal suo più giovane ‘se stesso’ del 1906. Utilizzando l’escamotage stilistico della forma narrativa e del dialogo diretto, Croce tenta un bilancio del suo rapporto, lungo mezzo secolo, con la filosofia hegeliana: rapporto di attrazione e repulsione insieme. La novella espone i punti salienti delle critiche da lui mosse, in più di quattro decenni, alla dialettica di Hegel e ai capisaldi del sistema, ma mostra anche i motivi simpatetici che legano, nel profondo, questo pensiero a quello di Giambattista Vico e, quindi, in prospettiva, a quello stesso cui Croce darà vita, a distanza di circa settant’anni dalla data in cui nella finzione narrativa avviene l’incontro immaginato nel testo. Essa va letta in solido con il secondo saggio di queste Indagini, dedicato a Hegel e l’origine della dialettica, che ha lo scopo di mettere in risalto e valorizzare l’apporto di Hegel e del suo pensiero alla filosofia posthegeliana e a quella di Croce, in particolare.

In questo secondo contributo, l’interesse si concentra subito sul tema della «vitalità», cercando di mostrare come essa rappresenti una naturale evoluzione del concetto dell’«utile» e quindi della scoperta, che Croce riteneva essere uno dei meriti principali ascrivibili alla propria opera filosofica, della natura categoriale di questo concetto. Al riguardo, è interessante osservare con quale argomento venga illustrata questa conquista speculativa: un argomento, si potrebbe dire, di natura essenzialmente morale o, se si preferisce, di carattere fondamentalmente etico. Per tutto il (lungo) tempo, infatti, nel corso del quale l’utile/egoistico era stato privo di una propria ‘casa’ categoriale, in cui trovare ospitalità e riconoscimento filosofico, esso aveva variamente invaso e contaminato le altre sfere dell’attività dello spirito, corrompendole, come era avvenuto «nei tanti Utilitarismi, morale, estetico, e persino logico». Dove è chiaro, anche se Croce non lo dice espressamente, che la tutela garantita a tutti gli altri ambiti della realtà storico/spirituale dalla collocazione dell’utile in una «casella» autonoma, se assicurava la «purezza» di ciascuno di essi, era, però, espressione di un intento innanzitutto etico, e solo in seconda battuta estetico o logico. E questo, non solo perché l’utilitarismo aveva invaso, storicamente, in maniera più significativa e insidiosa piuttosto l’orizzonte dell’attività morale che quello delle altre forme e manifestazioni della vita dello spirito, ma anche e soprattutto perché l’opera di «contenimento» dell’esuberanza «vitale» del motivo economico/utilitario è compito, per Croce, dell’etica.

Del resto, la naturale evoluzione del concetto di «utile» in quello di «vitale» viene spiegata da Croce, in questo quadro, rinviando al fatto che

la Vitalità è una integrazione necessaria delle diverse forme dello spirito, le quali non avrebbero voce, né altri organi né forze, se, per assurda ipotesi, restassero avulse da essa (Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1998, p. 38).

Ossia, ricorrendo alla tesi che il vitale esercita nella realtà dello spirito la funzione di una base comune da cui emergono e su cui si innalzano, nella loro peculiare espressione, le forme «superiori», e, come dirà subito dopo, nello stesso tempo, anche quella di stimolo «rivoluzionario», atto a suggerire alle altre forme questioni e «problemi da risolvere». In questa veste, la «vitalità» appare qui, a Croce, come la soluzione del vecchio e sempre insoluto problema (che era stato al centro degli sforzi esegetici di Kuno Fischer in Germania e di Bertrando Spaventa in Italia) riguardante l’«origine della dialettica» (p. 39). Un problema che, come lui stesso riconosce, non gli era stato possibile risolvere quando si era, per la prima volta, quasi cinquant’anni prima, applicato a considerare con attenzione critica la filosofia di Hegel (e che anzi aveva, allora, espressamente negato potesse essere sul serio un problema, in base al principio per il quale, la filosofia essendo «circolo», essa non poteva avere un inizio assoluto, cfr. Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Saggio sullo Hegel, cit., pp. 79-80). La ragione che si opponeva alla scoperta di un «punto di avvio» del processo dialettico era rappresentata dal fatto che mentre Hegel aveva contrapposto la Natura allo Spirito, contraddicendo così il suo stesso principio ispiratore, lui, Croce, aveva risolto integralmente la realtà nella sfera spirituale e non aveva, pertanto, potuto trovare nulla di ulteriore a essa che si dialettizzasse con lei, «dando origine» (in senso logico e ideale) al suo svolgimento. Ma con la vitalità gli sembrava, ora, di aver finalmente trovato, all’interno dello spirito stesso, il motivo propulsore in grado di innescare, con la dialettica, il movimento delle cose e della storia (Indagini su Hegel, cit., p. 51).

Tuttavia, queste presunte ‘integrazioni’ mostravano, a ben vedere, di essere difficilmente ‘integrabili’ nel contesto della precedente lettura di Hegel, che a sua volta risentiva del quadro di riferimento categoriale rappresentato dalla filosofia di cui Croce stava allora elaborando il profilo. E infatti, se l’accusa rivolta a Hegel di aver spesso trasformato in concetti «opposti» forme ed espressioni concettuali che non erano affatto disposte, l’una rispetto all’altra, in modo da dare luogo a un’autentica «opposizione» sembrava rispecchiare quella a suo tempo rivoltagli di aver confuso «opposti» con «distinti», proseguendo nella lettura del contributo crociano si trova che altra colpa di Hegel è quella di non aver mantenuto «netta la differenza tra l’astrazione e la distinzione» (p. 46). Osservazione da cui può scaturire il dubbio, nel lettore, che l’errore autenticamente imputato a Hegel non fosse tanto la confusione fra «distinti» e «opposti» quanto quella fra «astratti», da un lato, «distinti» e «opposti» dall’altro.

La verità è, allora, e la cosa va riconosciuta con chiarezza, che il tentativo di far tornare i conti messo in atto da Croce nel libro con cui si conclude la sua opera filosofica (forse percependo oscuramente che si trattava, per lui, dell’ultima possibilità di dare un senso compiuto all’insieme del proprio cammino speculativo), utilizzando la dialettica hegeliana come reagente della combinazione chimica tra la sua precedente impostazione e quella attuale, fallisce. E non perché la morte gli abbia impedito di completare un disegno che in esso aveva solo iniziato a delinearsi, ma per la ragione più profonda che quello che nella filosofia dello spirito, portando alla luce le istanze speculative diverse e conflittuali che ispiravano il pensiero idealistico, era andato perduto, ossia il movimento concreto della vita e dell’esistenza storica, non poteva essere recuperato con un ritorno alle esigenze in reciproco conflitto di quel sistema di pensiero, ma solo procedendo oltre di esso. E questo, Croce, per ragioni legate alla propria formazione e alla propria cultura, non avrebbe mai potuto farlo in prima persona.

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