CULTURA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)

CULTURA (XII, p. 102)

Pietro Rossi

A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso il concetto di c. tende a trasformarsi da nozione storicofilosofica (o pedagogica) in un concetto scientifico che trova una precisa definizione in campo antropologico o psicoanalitico o sociologico. Esso viene in tal modo a designare le caratteristiche distintive del mondo umano nei confronti della natura, o del comportamento umano nei confronti del comportamento animale, o ancora il patrimonio d'idee, di tecniche, di costumi che si trasmettono da una generazione all'altra nel corso dello sviluppo dell'umanità; oppure viene utilizzato come designazione collettiva di un complesso di c. che abbraccia sia la c. primitiva sia quelle più evolute (le cosiddette civiltà); in altri casi - in un'accezione più ristretta e più legata a un uso tradizionale - esso indica invece l'insieme delle manifestazioni intellettuali di una società in quanto distinte dalla vita politica ed economica, seppure variamente condizionate da questa.

Alla base di queste diverse definizioni del concetto di c. vi è il trapasso dal significato soggettivo al significato oggettivo del termine, che si accompagna al passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali dell'ambito della cultura. Questo duplice mutamento di significato ha le proprie radici nella seconda metà del sec. 18°, e può essere chiaramente percepito nell'opera di Herder. Da Herder, attraverso l'opera di sistemazione teorica della scienza etnologica tedesca della prima metà dell'Ottocento (basterà qui ricordare il contributo di G. Klemm), il concetto di c. perviene all'antropologia evoluzionistica e trova una definizione esplicita in Primitive culture di E. B. Tylor (1871). Per Tylor la c. "è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società". La c. non designa più - come avveniva ancora nella concezione storica illuministica - soltanto le attività specificamente intellettuali, ma comprende anche i costumi e le capacità acquisite e trasmesse socialmente; di conseguenza, vi è c. ovunque esista o sia esistita una società umana con propri modi di vita, perciò anche presso i popoli primitivi. Questa estensione del concetto di c. da un lato a tutte le manifestazioni dell'esistenza sociale di un popolo, dall'altro a tutti i popoli (poco importa se ancora selvaggi o barbari, o già pervenuti a un livello di civiltà), ha rappresentato la base teorica dei vari tentativi di ricostruzione delle tappe dello sviluppo dell'umanità compiuti dai maestri dell'antropologia evoluzionistica (da Tylor a L. H. Morgan, a J. G. Frazer, ecc.). Questi tentativi fanno appello al presupposto dell'unità dello sviluppo culturale, ossia della sostanziale uniformità del processo evolutivo dei diversi popoli e delle sue singole fasi. Tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, durata la quale fornisce la chiave per comprendere il loro diverso grado di sviluppo. Da ciò discende il parallelismo istituito tra la società antica (in particolare quella del periodo arcaico) e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, nei quali viene rintracciato l'equivalente del passato preistorico del mondo europeo.

L'antropologia novecentesca ha sottoposto a una critica esplicita il presupposto dell'unità dello sviluppo culturale. Soprattutto la scuola che fa capo a F. Boas e ai suoi allievi R. H. Lowie e A. L. Kroeber ha posto in luce l'arbitrarietà delle corrispondenze che l'antropologia evoluzionistica aveva creduto di scoprire nello sviluppo dell'umanità, sottolineando la molteplicità di forme che un medesimo fenomeno culturale può assumere in contesti storici differenti. Ma anche l'antropologia britannica tra le due guerre, rappresentata soprattutto da B. Malinowski e da A. R. Radcliffe-Brown, ha respinto il tipo di ricostruzione condotto dall'antropologia evoluzionistica qualificandolo negativamente come "storia congetturale" e denunciando l'infondatezza delle sue generalizzazioni. Alla ricerca delle fasi successive di sviluppo della c. si è sostituita così l'analisi delle diverse aree culturali (intrapresa da O. T. Mason, da C. Wissler, da Kroeber) e lo studio dei processi di diffusione all'interno di una certa area.

Pur sulla base d'impostazioni metodologiche differenti, l'antropologia contemporanea si è però sempre richiamata al significato tyloriano di c., cercando di precisarlo e di svilupparne le implicazioni. Soprattutto la scuola boasiana ha assunto la c. come il concetto-chiave della scienza antropologica, la quale si è venuta configurando come la scienza della c., cioè come antropologia "culturale" - in antitesi all'antropologia "sociale" di Radcliffe-Brown e della scuola funzionalistica inglese. Per Boas (The mind of primitive man, 1911) la c. è un complesso di elementi o di "tratti", al cui interno si possono distinguere due componenti principali: da una parte gli "abiti" sociali, dall'altra i prodotti "materiali" dell'attività umana. Della c. così intesa, egli mette in rilievo per un verso il suo carattere acquisito, per l'altro verso la sua irriducibilità a condizioni extraculturali. La c. non si trasmette per via genetica, ma è oggetto di apprendimento; essa costituisce un'eredità sociale, patrimonio non del singolo individuo ma del gruppo. I fenomeni culturali devono quindi essere spiegati riportandoli ad altri fenomeni anch'essi culturali, non già attraverso un'arbitraria riduzione a fenomeni esterni alla c. - cioè all'ambiente geografico o a caratteristiche razziali o a qualità psicologiche dei singoli individui. La formulazione estrema di questo punto di vista è rappresentata dalla concezione della c. come un livello super-organico dell'evoluzione della realtà formulata da Kroeber in alcuni saggi degli anni Trenta.

Alla tesi dell'autonomia della c. si collega strettamente quella della pluralità delle culture. La negazione di uno schema di sviluppo universalmente valido mette capo infatti al riconoscimento dell'individualità di ogni c., che dev'essere quindi studiata nella sua peculiare fisionomia storica (come sostiene Boas) oppure nella sua struttura interna e nelle correlazioni funzionali tra i suoi elementi (come asserisce Malinowski). In questa maniera il concetto di c. si trasforma - ed è una svolta d'importanza decisiva - in un concetto che designa non già un oggetto singolo ma una molteplicità di oggetti distinti, una "classe" di oggetti: ciò che di fatto esiste, e a cui si riferisce la ricerca antropologica, non è la c. umana considerata in una sua presunta unità, ma sono le varie c. l'una diversa dall'altra. La struttura portante delle c. viene così individuata da Kroeber e da altri autori (come R. Benedict e C. Kluckhohn) in un sistema di valori specifico, che può essere ricostruito sulla base delle regole che presiedono al comportamento concreto dei membri di una società e delle sanzioni che colpiscono i comportamenti devianti. Ma la c. diventa anche un fattore plasmante della personalità degl'individui che ne fanno parte: a ogni c. corrisponde un tipo particolare di personalità, definito come 'personalità fondamentale', rispetto a cui le personalità individuali rappresentano variazioni o forme devianti.

Nel corso degli anni Trenta il riconoscimento della pluralità delle c. è diventato la base di una posizione filosofica caratterizzata dalla negazione dell'esistenza di valori assoluti comuni a tutte le c., nonché dal rifiuto dell'etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una particolare cultura. Tradotta in termini positivi, tale posizione - che si richiama da un lato allo storicismo diltheyano e a O. Spengler, dall'altro al relativismo d'ispirazione darwiniana di W. G. Sumner, l'autore di Folkways (1906) - conduce ad affermare l'eguaglianza assiologica delle varie c. e, al limite, la loro incomparabilità. Il relativismo culturale non è però stato recepito universalmente dall'antropologia contemporanea. Malinowski ha infatti elaborato (dall'articolo Culture del 1931 al volume A scientific theory of culture del 1944) una concezione della c. che la riconduce ai bisogni primari inerenti alla natura biologica dell'uomo, cioè a bisogni comuni a tutte le società, anche se i modi del loro soddisfacimento - vale a dire le "risposte" culturali - variano da un gruppo all'altro, caratterizzando diversamente la fisionomia di ogni cultura. Perciò la pluralità delle c. non esclude la possibilità d'individuare degli "universali culturali", i quali possono essere formulati in uno schema teorico applicabile a tutte le culture. Per un'altra via G. P. Murdock (in Social structure, 1949) si è proposto di determinare - attraverso un inventario il più completo possibile dei dati disponibili - le regolarità statistiche riscontrabili nella vita delle c., riportandole all'azione delimitante esercitata dalle condizioni biologiche e psicologiche sulle possibilità di scelta delle singole culture. Se le c. globalmente prese sono tra loro incomparabili, ciò non toglie che possano essere oggetto di comparazione i loro diversi aspetti o settori specifici.

Molti dei presupposti formulati dall'antropologia della prima metà del Novecento appaiono oggi rimessi in questione. L'affermazione dell'autonomia della c. - e la conseguente dicotomia tra mondo animale, caratterizzato da una trasmissione per via genetica, e mondo umano, caratterizzato dalla trasmissione culturale fondata sull'apprendimento - non appare più sostenibile dinanzi ai risultati dei recenti studi sul comportamento animale, i quali hanno spostato la linea di demarcazione tra natura e cultura. Come l'antropologia evoluzionistica aveva esteso il concetto di c. ai popoli primitivi, così l'etologia sta ormai imponendo (attraverso le ricerche di K. von Frisch, di K. Lorenz, di N. Tinbergen e di numerosi altri studiosi) un ulteriore allargamento del suo ambito. Essa ha infatti dimostrato che anche altre specie animali, oltre all'homo sapiens, sono capaci di apprendimento, e quindi possono produrre e trasmettere c.; ha posto altresì in luce che il linguaggio non è una prerogativa esclusivamente umana. Anche la tesi dell'assoluta individualità delle c., su cui poggiava il relativismo culturale, appare oggi in crisi: se è vero che ogni c. possiede una propria fisionomia che può essere caratterizzata storicamente, ciò non toglie che sia possibile condurre un'analisi comparativa delle varie c. e determinarne le principali fasi di sviluppo, in qualche misura comuni a tutte. Soprattutto il neo-evoluzionismo ha tentato (con V. G. Childe, L. A. White, J. Steward e altri) d'individuare i grandi mutamenti tecnologici attraverso i quali si è compiuto il passaggio da una condizione primitiva allo stato di civiltà, ponendo in rilievo l'importanza decisiva di due rivoluzioni - la rivoluzione agricola, in virtù della quale la coltivazione e l'allevamento del bestiame hanno preso il posto delle tecniche di caccia, di pesca e di raccolta, e la rivoluzione urbana, che ha segnato il trapasso dalla vita di villaggio alla vita di città. D'altra parte lo sviluppo della ricerca antropologica ha riconosciuto l'impossibilità di studiare una c. isolatamente, prescindendo dai suoi rapporti con altre culture. Specialmente nel secondo dopoguerra il contatto tra le c. e i processi di acculturazione sono diventati un tema centrale d'indagine e ciò ha condotto a considerare le varie c. come strutture complesse, che agiscono l'una sull'altra in situazioni disparate - di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o di ostilità, d'indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di scambio o d'influenza unilaterale.

Fin dalla pubblicazione di Totem und Tabu di S. Freud (1912-13) la psicoanalisi si è affiancata all'antropologia come sede di elaborazione teorica del concetto di cultura. A base dell'impostazione freudiana sta il postulato del parallelismo tra ontogenesi e filogenesi, tra sviluppo psichico individuale e sviluppo culturale della specie: l'analisi del sorgere della c. ai primordi dell'umanità deve condurre alla scoperta di quelle medesime strutture inconsce, di quegli stessi meccanismi di rimozione che si trovano alla radice della formazione della personalità. La ricerca dell'origine della c. - che Freud ha ereditato dall'antropologia evoluzionistica - viene quindi a coincidere con la ricerca delle sue basi psichiche, universalmente presenti in ogni individuo e in qualsiasi forma di organizzazione sociale. Su questa base Freud rintraccia, all'origine della c., una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi: il parricidio originario, che mette fine al monopolio sessuale delle donne da parte del padre tiranno e suscita nei figli che l'hanno ucciso un rimorso collettivo, il senso di colpa per il delitto compiuto. Il complesso di Edipo diventa così la chiave per spiegare il passaggio dall'orda primitiva, caratterizzata dal dominio assoluto del padre, a un'organizzazione sociale in cui i rapporti tra i membri del gruppo sono regolati dal divieto dell'incesto - divieto derivante dal rimorso per l'uccisione del padre rivale, che provoca la rinuncia al commercio sessuale con le donne del gruppo e quindi la ricerca di rapporti esogamici. In numerosi scritti degli anni Venti, fino a Das Unbehagen in der Kultur (1930), Freud generalizzò queste conclusioni in una teoria dello sviluppo culturale fondata sulla contrapposizione tra principio del piacere e principio della realtà. Secondo tale teoria la c. è possibile in virtù della repressione dell'istinto, della limitazione e del differimento del piacere, della subordinazione del principio del piacere al principio della realtà: qualsiasi organizzazione sociale, e cioè qualsiasi forma di c., poggia sulla limitazione della sessualità, in quanto si procura l'energia di cui ha bisogno sottraendola alla sessualità. Il fondamento della c. è sempre la sublimazione degli impulsi sessuali, che consente la realizzazione di fini superiori.

Le concezioni di Freud sono state il punto di partenza di un ampio dibattito, sia da parte di psicoanalisti che di antropologi. La tesi dell'universalità del complesso di Edipo è stata criticata da Malinowski, il quale ha riconosciuto la sua presenza nelle società di tipo patriarcale ma l'ha invece negata nelle società matrilineari, nelle quali il portatore dell'autorità non è il padre ma lo zio materno e la repressione sessuale ha per oggetto non il rapporto con la madre ma quello con le sorelle. Per Malinowski il complesso di Edipo non rappresenta perciò il fondamento della c., ma è esso stesso un prodotto culturale legato a una particolare forma di organizzazione socio-familiare; in altre società prevalgono complessi strutturalmente differenti, non riconducibili a quello di Edipo. Replicando a Malinowski, G. Róheim si è invece proposto (The riddle of the sphynx, 1934) di dimostrare l'identità della situazione infantile in tutte le società, e la derivazione delle differenze culturali dal diverso tipo di trauma che si verifica nell'infanzia. La contrapposizione tra principio del piacere e principio della realtà - non recepita in campo antropologico - è stata ripresa e riformulata da H. Marcuse (in Eros and civilization, 1955), che ha sì accolto la tesi freudiana della connessione tra c. e repressione degli impulsi sessuali, ma è pervenuto a distinguere due tipi di repressione: la repressione fondamentale, senza la quale non è possibile nessuna forma di c., e la repressione addizionale, dipendente dai rapporti di dominio-subordinazione e quindi storicamente condizionata dal legame con determinate forme di organizzazione sociale.

Se in antropologia e in psicoanalisi il significato 'totale' del concetto di c. prevale nettamente, in sociologia è più frequente il significato 'parziale', in virtù del quale la c. viene intesa come un settore o un sistema specifico della vita sociale - di solito come il complesso delle manifestazioni superiori di una società, cioè di quelle manifestazioni che si presentano separate dall'apparato materiale dell'esistenza e che costituiscono il prodotto dell'attività di gruppi sociali specializzati. Questo significato di c. è stato variamente definito, in relazione al concetto di civiltà oppure a quello di società. Nella sociologia tedesca del primo dopoguerra c. e civiltà sono state concepite (soprattutto da A. Weber) come due processi che si svolgono contemporaneamente, ma con differenti modalità: il processo della c. comprende le manifestazioni creative della vita spirituale, producendo i valori peculiari di ogni società, mentre il processo della civiltà coincide con il progresso tecnico-scientifico e riveste quindi carattere cumulativo. Questa impostazione è stata ripresa nella sociologia americana degli anni Trenta da autori come R. E. Park e R. M. MacIver, che hanno definito la c. come il complesso dei fini di una società, distinguendola dalla civiltà considerata come l'apparato strumentale della loro realizzazione. In rapporto al concetto di società, la c. è stata invece caratterizzata come un sistema specifico coestensivo a quello sociale, ma distinto da esso e ad esso irriducibile. Tale è soprattutto la posizione di T. Parsons (The social system, 1951), il quale ha individuato, nell'ambito del sistema generale dell'azione sociale, tre sistemi specifici: quello della società, quello della c. e quello della personalità - oggetti rispettivamente della sociologia, dell'antropologia culturale e della psicologia sociale. In questa prospettiva la c. risulta costituita da sistemi simbolici i quali agiscono come orientamenti di valore che, rendendo possibile la socializzazione della personalità e il perpetuarsi del gruppo, fungono da elemento di miediazione tra individuo e sistema sociale.

Su un altro versante, la sociologia marxista ha impostato lo studio della c. in termini di analisi della stratificazione sociale dei fenomeni culturali, e quindi della loro origine di classe. Nell'opera di Marx ed Engels manca una vera e propria teoria della c.: in quanto complesso delle manifestazioni intellettuali di una società (e quindi in quanto "ideologia"), la c. viene considerata parte della sovrastruttura. Nel periodo tra le due guerre l'interesse per i ceti intellettuali e per la loro funzione storica ha proposto al pensiero marxista un esame più approfondito dei rapporti tra forme di c. e classi sociali. In questa direzione A. Gramsci ha distinto (Quaderni del carcere, 1945-51) tra ceti egemonici e ceti subalterni, considerandoli portatori di tradizioni culturali diverse - i primi di una c. 'superiore', fondata sul possesso (e talvolta sul monopolio) di determinati strumenti di elaborazione culturale, e i secondi di un'altra c. che si oppone, con maggior o minor successo, alla penetrazione dei modelli prodotti dai ceti egemonici. Questa impostazione di ricerca si è affermata soprattutto (basti ricordare il contributo di E. De Martino) nello studio della c. dei ceti subalterni.

All'elaborazione del concetto di c. in contesti disciplinari specifici (anche se, come abbiamo visto, largamente interagenti) ha fatto riscontro il suo impiego in sede storiografica o per la costruzione di filosofie della storia. Tra queste occorre ricordare, per la vasta diffusione avuta nel primo dopoguerra, la concezione di O. Spengler (espressa in Der Untergang des Abendlandes, 1918-22), che interpreta la storia come storia di c. superiori appartenenti a una medesima specie biologica, e quindi sottoposte alle leggi di sviluppo e di decadenza proprie di tale specie. Al pari di un qualsiasi organismo vegetale o animale, infatti, anche le c. percorrono un loro ciclo vitale predeterminato e vengono a morte allorché esso si sia concluso, cioè quando il loro complesso di possibilità si sia esaurito. Ma la differenza di patrimonio biologico che le caratterizza fa sì che ogni c., una volta distaccatasi dal seno dell'umanità primitiva, dia vita a un proprio mondo simbolico, del tutto eterogeneo rispetto a quello delle altre culture. La profezia dell'imminente tramonto dell'Occidente si congiunge in tal modo con una concezione relativistica della storia che ha largamente agito pure su antropologi come Kroeber e la Benedict o su sociologi come P. Sorokin, e che è stata in seguito criticamente rielaborata da A. J. Toynbee in A study of history (1934-54). Nella filosofia del Novecento il concetto di c. è però presente anche in altri indirizzi, i quali se ne sono avvalsi per sottolineare il carattere simbolico specifico dell'attività umana e per proporre una definizione dell'uomo come "animale simbolico" (come ha fatto E. Cassirer nella Philosophie der symbolischen Formen, 1923-29), oppure per designare un mondo formale trascendente rispetto alla vita (come ha fatto G. Simmel), o più sovente per analizzare la crisi della civiltà e il processo di massificazione della società contemporanea (come hanno fatto J. Ortega y Gasset, J. Huizinga, T. W. Adorno, H. Marcuse e numerosi altri). Ma nessuno di questi indirizzi ha dato luogo a nuove formulazioni significative del concetto di c., il cui uso appare piuttosto subordinato a interessi speculativi di altro genere.

Bibl.: Sulla storia del concetto di c. cfr. J. Niedermann, Kultur. Werden und Wandlungen des Begriffs und seiner Ersatzbegriffe von Cicero bis Herder, Firenze 1941. Un'analisi dei significati che esso assume nel pensiero contemporaneo è data da A. L. Kroeber e C. Kluckhohn, Culture. A critical review of concepts and definitions, Cambridge, Mass. 1952 (trad. it.: Il concetto di cultura, Bologna 1972). I più importanti testi antropologici sull'argomento sono tradotti nel volume Il concetto di cultura (a cura di P. Rossi), Torino 1970. Dell'ampia letteratura antropologica si veda, oltre alle opere menzionate nel testo: R. H. Lowie, Culture and ethnology, New York 1917 (trad. it.: Cultura ed etnologia, Roma 1968); R. Benedict, Patterns of culture, Boston 1934 (trad. it.: Modelli di cultura, Milano 1960); F. Boas, Race, language and culture, New York 1940; A. L. Kroeber, The Nature of Culture, Chicago 1952 (trad. it.: La natura della cultura, Bologna 1974); C. Kluckhohn, Culture and behavior. Collected essays, New York 1962. Sui rapporti tra c. e personalità, cfr. A. Kardiner, The individual and his society. The psychodynamics of primitive social organization, New York 1939 (trad. it.: L'individuo e la società, Milano 1965), e R. Linton, The cultural background of personality, New York 1945. Sul relativismo culturale cfr. i saggi critici raccolti in Relativism and the study of man (a cura di H. Schoeck e J. W. Wiggins), Princeton 1961. Sui contatti tra le c. cfr. M. J. Herskovits, Acculturation. The study of culture contact, New York 1938. Un'esposizione delle recenti teorie etologiche è fornita da D. Mainardi, L'animale culturale, Milano 1974. Sulla concezione psicoanalitica si vedano, oltre alle opere di Freud e di Marcuse, soprattutto G. ROheim, The origin and function of culture, New York 1934 (trad. it.: Origine e funzione della cultura, Milano 1972) e Psychoanalysis and Anthropology: culture, personality and the unconscious, New York 1950 (trad. it.: Psicoanalisi e antropologia, Milano 1974). La critica di Malinowski è formulata in Sex and repression in savage society, Londra 1927 (trad. it.: Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Torino 1950). Per le interpretazioni sociologiche cfr. A. Weber, Prinzipielles zur Kultursoziologie. Gesellschaftsprozess, Zivilisationsprozess und Kulturbewegung, in Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, XLVII (1920-21), pp. 1-49, e Kulturgeschichte als Kultursoziologie, Leida 1935; R. M. MacIver, Society: its structure and changes, New York 1931; R. E. Park, Race and culture, Glencoe, III, 1950.

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