CULTURA

Enciclopedia Italiana (1931)

CULTURA

Vittorio SANTOLI
Bernardino VARISCO

. È l'insieme delle cognizioni, e delle disposizioni così mentali come sociali, al cui acquisto è necessaria, quantunque non sufficiente, una vasta e varia lettura. Della scienza, che richiede anch'essa molta lettura, si parla oggettivamente: c'è una matematica, una fisiologia, ecc. Nella cultura è più difficile astrarre dal soggetto che, possedendola, si dice colto: due uomini, avendo fatto letture diversissime, saranno diversamente colti, eppure tutti e due colti. La lettura essenziale alla cultura, e quella essenziale alla scienza, differiscono per la qualità, per l'intento e per il metodo.

Per la qualità: un astronomo, come tale, non legge che libri d'astronomia; e, con estensione molto minore, d'altre scienze atte a servir d'aiuto all'astronomia: la lettura scientifica è specializzata. Quella fondamentale alla cultura non è, o soltanto in senso negativo, specializzata. L'uomo che vuol essere colto non intraprende, come tale, nessuna ricerca scientifica oggettiva (neanche, benché legga molto, filologica). Dei libri non gl'importa che in quanto vi si manifesta il pensare umano; e tanto più gliene importa, quanto più chiara, viva e compiuta n'è la manifestazione. Dalla scienza, manifestazione anch'essa, ma circoscritta e parziale, del pensare, non astrae; ma gli basta un'informazione sommaria delle conclusioni accertate, senz'addentrarsi nel procedimento costruttivo, non intelligibile che dagli specialisti. Lo scienziato vuole impadronirsi della scienza da lui coltivata, conoscerne a fondo e valutarne il procedimento non meno che le conclusioni; perché l'intento suo è di contribuire a svilupparla.

Per l'uomo, che vuol essere colto, l'intento è invece di riprodurre in sé il pensare umano, di sentirselo (ci si passi la metafora) circolare caldo e pulsante nelle vene, di assimilarselo in guisa che il suo proprio pensare ne sia nutrito, risanato e nobilitato. Questo egli vuole, perché il suo intento ultimo è di concorrere a rinvigorire, risanare, nobilitare il pensiero de' suoi contemporanei e dei posteri. L'effetto sulla moltitudine sarà così piccolo, da potersi e doversi praticamente considerare come nullo. Ma, intanto, egli avrà compiuto il dover suo. Inoltre: lavorando a formarsi una cultura, egli rende questo medesimo lavoro più facile ad alcuni altri, e ne fa nascere in loro la voglia. Basta un piccolo numero di persone colte perché si formi, e rapidamente cresca di numero, una classe colta. Cioè una classe di persone che, non essendosi chiuse in alcuna specialità, comprendono il necessario essenziale connettersi delle funzioni specializzate; non perdono di vista l'"umano", a cui ogni specialità si deve subordinare. Alla classe colta spetta, oggi più che in addietro non mai, una funzione sociale imprescindibile.

Alla diversità nell'intento corrisponde la diversità nel metodo. La scienza esige che i suoi libri siano studiati. La cultura non esclude lo studio scientifico, anzi può, e fino a un certo segno deve, giovarsene (così come si disse che si giova della scienza in genere: delle conclusioni accertate, senza entrare nei procedimenti con cui furono accertate. Per es.: un uomo colto leggerà e rileggerà la Divina Commedia; ma in un'edizione filologicamente accreditata nel testo e nei commenti). Ma la cultura esige qualcosa d'altro, e, in un certo senso, qualcosa di più: esige che la lettura sia quasi una vivace conversazione con l'autore; sicché il modo con cui egli concepì e trattò il suo argomento e ci si appassionò, il suo pensare insomma, in ciò che ha di più concreto, e secondo i casi di più gentile o di più crudo, ci si renda familiare.

In generale, il suo pensiero non sempre da noi accettato senz'altro; noi anzi vi contrapporremo il nostro, appunto come accade nella conversazione. Ma il nostro pensare, venendo col suo in contatto intimo, ne sarà divenuto più agile, più acuto, più ricco, più vario; l'autore ci avrà insegnato un po' dell'arte non facile di osservare, di valutare, d'essere uomini veri tra uomini veri; ci avrà innalzati al suo livello; sia pure per pochi momenti, ma che non saranno stati vissuti senza frutto.

Con questo è detto implicitamente che, per esser colto e per intensificare, come sempre dovrebbe, la sua cultura, l'uomo deve leggere libri di scrittori segnalati, e con preferenza dei più segnalati, prosatori e poeti, perché ci vogliono e questi e quelli. Ma non che non debba leggerne altri. L'uomo colto, secondo l'idea che ne vorremmo dare, non è un dilettante, che aspiri a una futile fama letteraria; è un uomo di proposito, che lavora, indirettamente o non, al bene altrui, e anche al proprio, ma in quanto è connesso con l'altrui. Per giovare a' suoi contemporanei, deve conoscerli. E, se non si adattasse a leggere libri mediocri e men che mediocri, si priverebbe di un mezzo non unico (d'un altro diremo tra poco), ma efficacissimo, per conoscere i suoi contemporanei. Perché non soltanto qui, oggi, ma dappertutto sempre, i mediocri e i men che mediocri, libri e uomini, sono di gran lunga i più.

Ma un libro qualsiasi non dovrebb'esser letto mai sbadatamente, con l'animo di chi legge come fumerebbe un sigaro. Si possono leggere, da qualcuno si devono leggere, anche libri oziosi e perversi; ma per capire fin dove, nel campo della letteratura o della carta stampata, possano arrivare l'oziosaggine e la perversità; non mai per semplice divagazione: chi proprio vuol perdere il tempo, ha cento vie men peggiori di perderlo.

Ma chi non si occupasse (a parte i suoi affarucci particolari) che di leggere, non riuscirebbe, neanche leggendo assiduamente con attenzione i libri migliori, a formarsi una cultura seria. Leggendo, non capirebbe quello che più importa capire. Contemplare dall'alto, unificare nel pensiero, e insomma capire la vita moderna, tanto complicata e pregna di cultura, è impossibile all'uomo incolto. Ma è anche impossibile all'uomo che se ne apparti, limitandosi ad esserne spettatore inerte. I migliori sussidî culturali sono inutili per lui, come una macchina è inutile per chi non la sappia mettere in movimento. Perché l'intelligenza illumini la pratica, bisogna che la pratica esista. E se non illumina la pratica, l'intelligenza si perde: la scacchistica è vana, benché sia una dottrina difficile. Ricordiamo quel che divennero gl'Italiani quando, essi che allora erano il primo popolo del mondo, furono dalla forza brutale costretti a non essere nella storia che spettatori o vittime. La cultura integrale, cioè la coscienza che l'uomo ha di sé medesimo, esige insieme l'intelletualità e la praticità.

Molti credono che la prima debba servire di strumento alla seconda. Ma non è vero; come non è vero (ciò che del resto non venne in mente quasi a nessuno) che la seconda valga soltanto come strumento alla prima. Sono, l'una e l'altra, forme inseparabili, coessenziali, dell'attività consapevole umana.

Alcune brevi note gioveranno a chiarire le nozioni esposte. In primo luogo: non è da credere che la lettura, necessaria per divenire colti, sia inconciliabile con l'indagine scientifica la più accurata, con l'esercizio d'una professione, o anche d'una funzione politica, per la quale anzi la cultura è, come apparisce da quanto fu detto, essenziale. Gli scolari non fannulloni escono dalle scuole medie con una cultura non sufficiente, ma preparati così da potere, senza gravi difficoltà, e senza doverci dedicare troppo tempo, andarla estendendo e integrando. Un paio scarso d'ore al giorno, impiegate ogni giorno in letture bene ordinate (sul come ordinarle non ci dobbiamo trattenere qui), dànno rapidamente buon frutto. E questa occupazione in più finisce col diventare un sollievo dalle altre cure.

Secondo: l'uomo che, leggendo e scrivendo, bada soltanto al pensiero, non all'espressione (alla sostanza, non all'apparenza vana, come suol dirsi), non acquisterà mai che una cultura imperfetta. Trascurar l'espressione significa ridurre il pensiero dell'autore (leggendo), e il nostro (scrivendo), a un'astrazione inefficace. Il pensiero e l'espressione sono connessi tra loro ben più che il corpo e la veste; son tutt'uno: il pensiero mal espresso è anche mal concepito; e il pensiero altrui ben espresso, ma di cui non s'avverte, perché non ci si riflette, questo carattere, non è ripensato che rozzamente; ossia è ripensato come se mancasse del suo pregio migliore.

Terzo: tra le letture, quelle che hanno più attinenza con la storia e con la politica sono forse le più importanti; non vanno lasciate in disparte, quantunque non ci si debba limitare a queste sole; ci mettono a contatto con la realtà viva, e l'interesse che destano è sano, perché non soggetto a divenire ozioso. Si è detto: letture attinenti alla storia e alla politica; non soltanto libri di storia o di politica generale. Per es.: la Divina Commedia non è un libro di storia, né vi si trattano ex cathedra questioni politiche; ma gl'interessi e le passioni di quel tempo (materia di storia e di politica) vi sono rappresentati con vivacità insuperabile.

A contatto con la realtà ci mettono anche i libri di filosofia e di religione. Ma la filosofia e la religione sono materie, intorno alle quali non è possibile procacciarsi (come si farebbe in storia o in astronomia) un'informazione buona quantunque sommaria; le questioni vitali che vi si dibattono esigono, per essere discusse con serietà, una preparazione lunga non facile: mentre il discuterle senza serietà, senza mezzi per giungere a una conclusione certa, è disonesto.

La più grande nemica della cultura è, in tempi di raffinamento, la moda. La moda non vuole che surrogati, se li fabbrica, e tende così a screditare, a eliminare, i reali valori. La cultura è forse la miglior medicina degli animi; viceversa, gli animi, che più n'avrebbero bisogno, non vogliono saperne. Siamo in un circolo vizioso; come se n'esce? Rispondere sarebbe un parlar d'altro, che di sola cultura.

La storia della cultura. - Quando si parla di storia della cultura, s'intende generalmente il concetto di cultura in un senso che per alcuni aspetti è più vasto di quello analizzato nella trattazione precedente, per quanto, nella sua prima radice, sia con esso strettamente collegato. "Cultura" infatti è, parzialmente e originariamente, anche in questo senso, cultura animi, nel significato che a questo concetto diedero Cicerone ed Orazio (e che è ancora vivo se ai nostri giorni G. Papini ha intitolato Cultura dell'anima una collezione di testi in senso lato filosofici), nel significato moderno di autoeducazione dell'uomo; ma è anche qualcosa di derivato, e quindi di diverso: vale a dire una certa media di gusti, di cognizioni, di credenze morali e religiose quale si ha in un certo ambiente e in una certa epoca. La storia della cultura è quindi la rappresentazione dei valori spirituali in quanto hanno acquistato un valore sociale e istituzionale, di quello che nel sec. XVIII si disse "progresso", e la cui prima formulazione si ha, forse, nel terzo capitolo dello Specimen controversiarum del Pufendorf, stampato nella Eris Scandica (Francoforte 1686), dove si contrappone lo stato naturale a quello della cultura "quae vitae humanae ex auxilio, industria et inventis aliorum hominum propria meditatione et ope aut divino monitu accessit".

La storia della cultura, intesa in tal senso, il quale coincide in gran parte con quello di "civiltà" (v.), è nata nel sec. XVIII. Ne fornirono esempî da un lato il Vico con la sua Scienza nuova (1725, 1730, 1744), dall'altro il Muratori con le Antiquitates (1738-1742) e il Sainte-Palaye coi suoi Mémoires sur l'ancienne chevalerie (1759-81). E col formarsi del concetto nacque anche la parola: del 1766 è la più antica testimonianza, trovata dal Febvre, del sostantivo civilisation; della seconda metà del Settecento il tedesco Kultur, calco del francese culture. Ma furono veramente il Montesquieu e, soprattutto, il Voltaire gli autori delle opere più significative di questo nuovo ideale scientifico. Si cominciò principalmente per merito loro a sentire con una vivacità prima ignota che gli avvenimenti e le istituzioni che avevano più diretta relazione con lo stato erano una parte soltanto della storia, e neanche la più importante; che allato e alla base delle campagne guerresche, dell'azione della diplomazia, della vita dei governi erano forze molteplici, trascurate dagli storici ma essenziali nel corso effettivo delle cose del mondo: commercio e industria, agricoltura e finanze, idee e fedi, usi e costumi, aspirazioni e pregiudizî. Si aggiunga, inoltre, il senso, pur esso nuovo, del cosmopolitismo, il quale fece impallidire e cacciò nello sfondo la rappresentazione delle lotte dinastiche e statali europee per portare in primo piano e in nuova luce i sentimenti, le credenze e le condizioni di vita delle varie classi sociali e anche di popoli primitivi ed extraeuropei, ciò che comprensivamente si dice l'incivilimento umano.

Questo nuovo ideale storiografico che accentuò - come era inevitabile - il motivo della "diffusione dei lumi", con la congiunta dissoluzione delle credenze religiose e delle superstizioni ad esse connesse, trovò la sua più brillante espressione nell'Essai sur les møurs e nel Siècle de Louis XIV del Voltaire, il quale, riferendosi a quest'ultima opera, scriveva: "Je suis las des histoires où il n'est question que des aventures d'un roi, comme s'il existait seul ou que rien n'existât que par rapport à lui: en un mot, c'est encore plus d'un grand siècle que d'un grand roi que j'écris l'histoire". Il pensiero e l'esempio del Voltaire ebbero larga eco in tutta Europa; e congiunti con nuovi motivi attinti al pensiero romantico, al neoumanesimo del Humboldt e alla nuova filosofia, contribuirono largamente, nella seconda metà del Settecento e nella prima dell'Ottocento, al sorgere di una storiografia più profonda e più ricca di pensiero che non quella governamentale, biografica o meramente erudita, e anche distinta da quella, che vigoreggiò in Germania e culminò poi nel Droysen e nel Treitschke, statolatra e conservatrice; una storiografia che soprattutto mirava alla rappresentazione della storia delle idee, dell'incivilimento umano. Sorgeva così l'ideale augusto, e, come disse il Goethe, "religioso" della storia del mondo intesa come il progressivo crescere su sé medesimo dello spirito, come il farsi di una luce sempre più viva nella coscienza umana: un ideale che lo Steinthal nel 1864 così esprimeva: "sembra anche a me che bisogna riconoscere che ogni storia non è altro che storia della cultura, della formazione spirituale, vale a dire storia dell'autocoscienza" (Philologie, Geschichte und Psychologie in ihren gegenseitigen Beziehungen, p. 54).

Ma accanto a questa elevata storia della cultura nacque in Germania dopo il 1848 un genere di storiografia che fece suo oggetto unicamente la vita apolitica delle classi inferiori. Era un misto di manierismo, di vecchio romanticismo rimesso a nuovo, di conservatorismo provinciale: dipinture di "nature morte storiche", celebrazione del popolo fedele alle sue vecchie abitudini, lontano dalla politica, glorificazione dell'immutabilità e grandezza originaria del carattere nazionale, con la congiunta mancanza di metodo e di critica. W. H. Riehl (1825-97) fu di questo indirizzo il principale rappresentante: un folclorista per il quale la nazione era "la base che sopravvive di gran lunga alla mutevole vita statale dei popoli" (era questa un'eco del Herder), un pittore di idillî rustici e piccolo-borghesi nei minori stati tedeschi del Settecento, un temperamento di conservatore divenuto conservatore di proposito dopo il 1848. Minore importanza hanno G. Freytag (1816-95), il quale tipizzò e universalizzò il contrasto da lui osservato da ragazzo fra tedeschi e polacchi in Slesia; e il Janssen (1829-91), autore di una Geschichte des deutschen Volkes (1876-88, proseguita poi da L. Pastor), spirito di piccolo borghese, ingegno acritico che s'industriò di derivare il gran corso della storia nei fossi e rigagnoli della tendenziosità cattolica.

Contro questo basso andazzo dilettantistico insorse nel 1888 lo Schäfer, il quale negò alla storia della cultura il diritto di esistere accanto alla storia politica. Contro di lui prese il Gothein le parti della storia della cultura, come quella che "ricerca in prima linea le forze operose" del mondo, richiamandosi a una storia integrale dell'umanità (non a quella "delle pignatte e dei costumi"!) che doveva essere, appunto, la storia della cultura. Nella polemica intervenne successivamente anche il Croce, il quale negò che potessero coesistere due circoli "dei quali l'uno abbia per centro lo stato l'altro la cultura, l'uno la vita politica, l'altro la vita sociale e individuale". Come poi la storia della cultura sia stata generalmente intesa quale una specie di bric-à-brac storico, abbandonato ai dilettanti, ai romantici in ritardo, agli amatori di antichità patrie e di curiosità folcloristiche, è cosa nota.

Un carattere speculativo intese dare alla storia della cultura il Lamprecht, per il quale il metodo culturistorico, nascendo, com'egli ingenuamente diceva, "dalla pura lettura delle fonti", privo di pensiero, dava origine, instaurando una relazione ineccepibile di causa e di effetto, a una visione meccanistica della storia.

Un indirizzo che in America ha preso il nome di The new History (J. H. Robinson, F. J. Taggart, H. E. Barnes), movendo dal concetto della dinamicità della storia nella forma datagli dal materialismo storico e dall'evoluzionismo, ripete ora la critica della storiografia diplomatico-militare-nazionale e l'ideale settecentesco dell'Histoire de la civilisation, sostenendo che il fine della storiografia è la ricostruzione del passato nella sua totalità, ma posto prammatisticamente in relazione con la civiltà e le istituzioni contemporanee, contribuendo così a distruggere "l'atteggiamento reverenziale e credulo verso il passato, che è l'ostacolo principale al progresso sociale e intellettuale e la minaccia più pericolosa alla società" (Barnes).

Con profonda originalità il vecchio concetto della storia della civiltà è stato parzialmente ripreso dal Croce nella sua concezione della storia "etico-politica": per merito suo, mentre la più alta esigenza della storia della cultura come storia "morale" riceve una superiore giustificazione, viene dissolto quel che d'ambiguo e di incerto è tuttora nel concetto corrente di storia della cultura.

Il concetto di "cultura", d'altronde, non è sempre ben distinto nell'uso dai concetti affini civilizzazione, civiltà, incivilimento. Si può però dire che oggi, in italiano - mentre civilizzazione (come il ted. Zivilisation) esprime l'aspetto materiale ed economico della vita sociale (il quale appare come estrinseco e può essere introdotto estrinsecamente e magari violentemente: donde il transitivo civilizzare); civiltà, la spiritualità totale di un popolo o di un'epoca o dell'umanità intera: arte e scienza, economia e vita morale e incivilimento il divenire di questa civiltà - cultura designa ora la vita intellettuale, il pensiero critico e riflesso di un'età o di un paese, ed è quindi un aspetto della civiltà (G. Gentile, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del sec. XIX, nella Critica, 1915-23; G. Prezzolini, La cultura italiana, Firenze 1923), ora la vita teoretica, nella sua distinzione-unità o nel suo confondersi con la vita morale e politica (B. Croce, Cultura e vita morale, Bari 1914; G. Gentile, Il fascismo nella cultura, nel vol. Che cosa è il fascismo?, Firenze 1925, pp. 95-116), ora l'armonica formazione dell'individuo attraverso lo studio dell'arte e la ricerca scientifica: l'ideale dell'honnête homme (C. de Lollis; cfr. La Cultura, VII, 1928, pp. 473-77). Il concetto di cultura è quindi in italiano più ristretto di quel che non sia il ted. Kultur (che corrisponde presso a poco al nostro concetto di civiltà), e s'accosta, e qua e là s'identifica, al concetto di Bildung, a quello antico di cultura animi.

Come caso curioso di una lotta politica mascherata sotto l'opposizione di due sinonimi, molti ricorderanno la polemica ch'ebbe luogo in Francia, durante la grande guerra, fra le presunte civilisation francese e la Kultur tedesca, voluta spacciare, questa, come meccanica e brutale.

Bibl.: E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, Monaco-Berlino 1911 (specialmente i paragrafi sul Voltaire, il Guizot e la "culturistoriografia astatale in Germania"); G. von Below, Die deutsche gschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unsern Tagen, 2ª ed., Monaco-Berlino 1924; M. Ritter, Die Entwicklung der Geschichtswissenschaft, Monaco-Berlino 1919; F. Jodl, Die Kulturgeschichtschreibung, ihre Entwickelung und ihr Problem, Halle 1878; E. Schaumkell, Geschichte der deutschen Kulturgeschichtschreibung von der Mitte des 18. Jahrhunderts bis zur Romantik, Lipsia 1905 (segue le idee del Lamprecht). - La polemica sulla storia della cultura dibattuta sulla fine del secolo scorso è rappresentata essenzialmente dagli scritti seguenti: D. Schäfer, Das eigentliche Arbeitsgebiet der Geschichte, Tubinga 1888; E. Gothein, Die Aufgaben der Kulturgeschichte, Lipsia 1889; D. Schäfer, Geschichte und Kulturgeschichte, Jena 1891; B. Croce, La storia della cultura (1895), rist. in Conversazioni critiche, I, 2ª ed., Bari 1924, pp. 201-24. Del Lamprecht si veda l'opuscolo Die Kulturhistorische Methode, Berlino 1900. Sulla New History: H. E. Barnes, Nuovi indirizzi nella storiografia Nord-Americana, nella Nuova rivista storica, XIV (1930), pagine 107-30. La confusione che ancora persiste intorno alla storia della cultura, si rispecchia nettamente in A. Tille, Was ist Kulturgeschichte?, nella Festschrift A. Cartellieri, Weimar 1927, pp. 159-67. - Le idee del Croce sulla storica "etico-politica" e sulla sua relazione con la "storia della civiltà" sono esposte principalmente in Elementi di politica, Bari 1925, pp. 91-106. - Sul concetto di "cultura" nel Pufendorf, E. Hirsch, Der Kulturbegriff, nella Deutsche Vierteljahrsschrift, III (925), pp. 398-400. Un acuto studio di L. Febvre sull'origine e sullo svolgimento della parola Civilisation è contenuto nel vol. Civilisation: le mot et l'idée, Parigi 1930, pp. 1-55, nel quale è anche un breve abbozzo (pp. 61-73) della storia della parola Kultur, fatto da E. Tonnelat. Ricchissimo d'indicazioni è l'articolo di S. Wedkiewicz, Cywilizacja czy kultura? inserito in Symbolae Grammaticae in honorem I. Rozwadowski, Cracovia 1927, II, pp. 501-21.

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