Dal manoscritto al libro

Storia di Venezia (1996)

Dal manoscritto al libro

Marino Zorzi

Produzione e commercio del libro prima della stampa

Nel primo Quattrocento Venezia è una metropoli cosmopolita, ricca, in piena espansione. Le merci vi abbondano, e fra esse non mancano i libri. Ne ha bisogno una società complessa, articolata, alla cui organizzazione e prosperità concorrono i più diversi mestieri, professioni, attività.

L'alfabetizzazione è elevata (1). La conoscenza della scrittura e qualche nozione di contabilità sono indispensabili a coloro che si dedicano al commercio; e sono numerosissimi, nella classe patrizia anzitutto, ma anche negli altri ceti. Il bisogno di istruzione è diffuso, anche in rapporto alla progressiva burocratizzazione dello Stato, che si riscontra nel Quattrocento in tutta l'Europa e che è particolarmente evidente nelle grandi città italiane. A Venezia tale processo è già in atto nel Trecento e anche prima. Nel 1345 erano sorti, per volontà del colto doge Andrea Dandolo, storico e giurista, i diplomatari contenenti gli atti relativi ai rapporti tra Venezia e gli Stati d'Oriente e d'Occidente, rispettivamente il Liber Albus e il Liber Blancus. Si erano formati già prima i registri dei Pacta, contenenti gli atti di diritto internazionale; vi erano poi i Commemoriali, in cui venivano trascritti gli atti di maggior rilievo per la città. Tale opera di riordinamento degli atti pubblici era espressione di un bisogno di registrazione e di documentazione, che si rifletteva in vari aspetti dei rapporti fra cittadini e Stato, rendendo sempre più necessario l'uso dello scritto. I patrizi in particolare avevano bisogno di una serie di prontuari di rapida consultazione per partecipare efficacemente alla vita politica e in particolare alle votazioni: elenchi di uffici e di persone ad essi preposte, notizie di famiglie, risultati elettorali (2).

Ciò presupponeva la presenza di un numero adeguato di scuole. A Venezia gli insegnanti erano molto numerosi: un centinaio, e forse assai di più (3). Essi venivano assunti non da istituzioni pubbliche, come accadeva in varie città della terraferma, ma dai privati (4), che si accordavano per stipendiare maestri di loro fiducia, ciascuno dei quali impartiva le sue lezioni a un numero variabile, ma certo non piccolo, di allievi. L'apprendimento seguiva regole antiche, e si attuava sulla scorta di testi non meno antichi. Il bambino muoveva i primi passi nella lettura avvalendosi della tabula (in veneziano tola): un foglio su cui erano tracciate le lettere dell'alfabeto, che veniva incollato su una tavola di legno appesa alla parete della scuola (onde il nome). Il maestro indicava sulla tavola le lettere con una bacchetta, e gli scolari si sforzavano di riconoscerle. Esistevano poi delle tavole più piccole (a Venezia, tolete) che riproducevano la maggiore e che ogni scolaro teneva con sé, per meglio seguire e ripetere la lezione. Una volta memorizzato l'alfabeto, si imparava a leggere col salterio (raccolta di preghiere e di salmi) o piuttosto con un estratto di tale libro, il psalteriolus, a Venezia psalterio picolo, o psalterio da puti, contenente alcune delle preghiere più note, come il Pater noster, l'Ave Maria, il Salve Regina. Il passo successivo era lo studio del Donato, vale a dire dell'opera del grammatico Elio Donato, vissuto nel IV secolo, rielaborata e adattata in epoca più tarda. Il bisogno di tabule, salteri e Donati era grande, tanto che vi si provvedeva già nella prima metà del secolo con l'ausilio della xilografia: si stampavano tali testi elementari incidendoli su matrici di legno, come già alla fine del Trecento, come si accennerà, si faceva con le immagini dei santi. Accanto alle scuole di grammatica, basate sull'insegnamento del latino, esistevano poi le scuole d'abbaco, destinate alla formazione professionale del mercante: vi si insegnava l'aritmetica commerciale, il calcolo degli interessi e dei cambi, la suddivisione dei profitti e delle perdite, le stime delle merci, la tenuta dei libri contabili, la corrispondenza commerciale. L'insegnamento si svolgeva in volgare; la scrittura impiegata era la mercantesca, così chiamata perché diffusa appunto nel mondo del commercio (5). Vi accedevano giovani di solito provenienti dai gradi più bassi della scuola di grammatica, capaci ormai di leggere e in possesso di qualche nozione di latino. È probabile che in queste scuole maturasse l'idea di giungere alla lettura senza passare per il dominante latino, e si elaborassero quindi i primi sillabari in volgare (6).

Molti dei "latinantes" si fermavano al livello più basso, "a tabula usque ad introitum Donati"; altri proseguivano; quattro gradi d'istruzione ad esempio erano previsti a Treviso e a Chioggia (7). I discenti affrontavano, assieme e dopo il Donato, i Disticha Catonis, raccolta tardoantica di massime morali, il Liber Aesopi, compilazione del XII secolo, l'Ecloga Teoduli, operetta del X secolo in cui si contrapponevano in forma dialogica il vero e il falso, gli dei pagani e l'insegnamento di Cristo, il Liber Eve Columbe di Prudenzio, le opere di Prospero di Aquitania, il Physiologus. Vasta diffusione avevano il Catholicon di Giovanni Balbi, dizionario enciclopedico, e la massiccia opera grammaticale in versi di Alessandro di Villedieu, il Doctrinale. Fra i classici, i più letti nelle scuole erano Virgilio, Ovidio, Stazio, Lucano, Boezio.

È naturale che vi fosse una forte richiesta di questi testi, tanto maggiore quanto più elementare ne era il contenuto; se tutti chiedevano tabule e salteri, tanto da renderne conveniente la riproduzione xilografica, la domanda si restringeva via via per le opere di contenuto più impegnativo. Una domanda comunque esisteva: vi era chi nella classe patrizia e cittadinesca proseguiva negli studi per esercitare le professioni liberali, di medico o di giurista, o per intraprendere la carriera ecclesiastica; alla vetta vi era poi un'élite economica e culturale che cercava una cultura non finalizzata soltanto, o principalmente, alla carriera, ma che mirava ad un vero arricchimento spirituale.

Ci si poteva procurare il libro desiderato in due modi principali: si poteva trovarlo già confezionato, o farlo fare espressamente. I maggiori produttori di manoscritti erano i monasteri e i conventi. A Venezia essi erano molto numerosi e godevano generalmente di buone, talvolta ottime, situazioni economiche. Vi erano anzitutto vari monasteri benedettini, di diverse osservanze. Presso alcuni dei più importanti vi era uno scriptorium, organizzato ai fini della produzione di libri. Di regola si trattava di libri destinati all'accumulazione nel monastero stesso, ma spesso essi venivano invece venduti al di fuori del monastero. Il maggiore scriptorium veneziano era forse quello del monastero camaldolese di S. Michele in Isola; esso non lavorava solo per i monaci, ma anche per altri. Vediamo così Matteo Guidoni, abate di S. Maria degli Angeli a Firenze, consigliare nel 1401 a Tommaso Caffarini, domenicano senese trasferitosi a Venezia per darvi impulso al culto di santa Caterina, di rivolgersi all'abate di S. Michele per le necessità librarie del suo convento: quest'ultimo avrebbe fatto fare "per suos vel alios fidos" quello che serviva. Il monastero muranese cercava anche fuori di Venezia libri di particolare qualità artistica, come modelli per i miniatori del proprio scriptorium; per questo era in rapporto con il monastero fiorentino, che fornì allo scopo alcuni raffinati graduali. Nel 1422 furono acquistati a Firenze tre libri sacri, con una spesa di rilievo: 60 fiorini (8). Attorno al 1430 il monastero divenne sede di un laboratorio cartografico: in esso lavoravano Andrea Bianco e fra Mauro, autori di opere geografiche richieste in tutta l'Europa (come il famoso mappamondo, un esemplare del quale fra Mauro inviò a Enrico il Navigatore in Portogallo) (9).

Per i Benedettini la produzione di libri rientra nei compiti del monaco ed è raccomandata come opera di pietà. Diverso è l'atteggiamento degli Ordini mendicanti. Per i Francescani il libro è un mezzo da usare, non oggetto di possesso e di accumulo. Per i Domenicani esso interessa in quanto strumento dell'attività intellettuale e spirituale, sussidio all'insegnamento e alla predicazione: non importano pretiositas e pulchritudo, contano legibilitas ed emendatio, per una lettura diffusa e controllata. L'acquisto di libri è incoraggiato (la diligenza del librarius si misura dall'incremento dei volumi durante il periodo dell'incarico), ma si considera secondaria l'attività di trascrizione rispetto allo studio e alla predicazione: ciò che conta è avere i libri a disposizione, comperati o trascritti che siano (10). Poteva comunque essere vantaggiosa per il convento la seconda soluzione; e infatti nel convento di S. Domenico di Castello e in quello dei SS. Giovanni e Paolo la produzione di codici era considerevole (11). Alle suore del Corpus Domini, che evidentemente trascrivevano codici abitualmente, Giovanni Dominici consiglia, nel 1401, di chiedere in prestito all'abate di S. Michele, per copiarli, i graduali del monastero muranese (12).

Monasteri e conventi non solo acquistavano e producevano manoscritti, ma anche li vendevano. La produzione cartografica di S. Michele non era certo destinata ai soli monaci. A due frati dei SS. Giovanni e Paolo pensa di rivolgersi, già nel 1335, Oliviero Forzetta, lo straordinario collezionista trevigiano studiato da Luciano Gargan, per comperare Seneca, Orosio e i commenti di s. Tommaso e Averroè alle principali opere di Aristotele (13). A S. Domenico si vendevano manoscritti anche nel secondo Quattrocento: ci rimane un libro di conti, ove risulta che vi si trascrivevano libri in buon numero, che venivano poi venduti: ciò negli anni 1460-1476 (14). Anche il monastero di S. Maria della Carità esercitava il commercio dei libri: nel 1461 comperava a Venezia (da Giovanni Morosini, dal libraio Gasparo) e vendeva al priore della Badia di Fiesole (15).

Alla produzione del libro attendevano, oltre agli istituti religiosi, artigiani specializzati: cartolai e librai. Anche se i termini venivano spesso usati indifferentemente, compito specifico dei cartolai era la fornitura dei materiali scrittorî (la carta, la pergamena semilavorata) mentre il librarius produceva e vendeva il prodotto finito. Al cartolaio toccava conciare la pergamena, raschiarla, riunirla in fascicoli; quanto alla carta, doveva fascicolarla e darle il formato richiesto. Subentrava poi il libraio, che curava direttamente, o attraverso suoi collaboratori esterni o dipendenti, la copia; poi, se del caso, il codice passava al miniatore; seguiva, ma non sempre, l'ultima fase, quella della legatura. Il libraio provvedeva poi alla vendita (16). I librai veneziani (detti anche bidelli; il termine a Venezia, come attesta il Filelfo, equivaleva a librarius publicus) (17) erano numerosi anche prima della stampa ed avevano le loro botteghe nei punti più diversi della città. A S. Salvador aveva sede quella dell'incauto acquirente di un libro rubato nel convento dei Crociferi da un tal Antonio detto a tabuleis, a S. Canciano era sito il negozio di un altro cliente di Antonio, che paga due ducati per un libro rubato a S. Zaccaria (18), a Rialto risiedeva mastro Nascimbene a cartis, che compera una schiava nel 1421 (19). Molti svolgevano la loro attività nelle Mercerie, come il "bidellus" di cui parla il Filelfo a Pietro Tomasi, la cui "taberna libraria" era situata appunto "euntibus ex Rivoalto ad forum divi Marci ad dextram", o come Gasparo e Niccolò, che poco dopo il 1440 avevano il loro negozio sul ponte sito al mezzo di tale strada; negli stessi anni Giacomo di Giorgio aveva una bottega in salle Lunga a S. Maria Formosa e altre nella zona, mentre Giovanni d'Alemagna esercitava la sua attività in Strazzaria (20).

Copisti e miniatori non lavoravano solo negli scriptoria dei conventi o per i librai: spesso, anzi nella maggior parte dei casi, essi entravano in contatto diretto con i committenti, pubblici e privati, e si impegnavano verso di loro, con accordi verbali o scritti, a fornire la copia di un'opera o la sua illustrazione.

Fra i copisti professionisti, operanti per lucro, si distinguevano i notai. I notai padroneggiavano la tecnica della scrittura ed è naturale che fosse loro richiesto di trascrivere non solo atti giuridici, ma anche testi diversi. A Venezia appartenevano spesso al clero. Quello del notariato ecclesiastico era un uso antico, che nel Quattrocento sopravviveva soprattutto a Venezia: ciò sino ad un decreto del 1433 di Eugenio IV, che era un patrizio veneziano ed aveva visto coi suoi occhi i preti della sua città intenti a rogare atti patrimoniali per parecchie ore al giorno, incuranti dei loro doveri religiosi. La disposizione papale mirava a porre fine a quell'antico costume, uniformando la situazione veneziana a quella del resto d'Italia; ma non sembra vi riuscisse, se il maggior consiglio doveva reiterare il divieto, con decreto del 19 gennaio 1474 m.v., motivandolo con l'opportunità di consentire ai cittadini laici dotti e virtuosi di "sostentarsi con le famiglie" nelle corti di Palazzo o negli uffici di Rialto. Ma neppure questa disposizione ebbe effetto, se il maggior consiglio dovette ripeterla il 28 giugno 1521, riferendosi in particolare agli uffici dipendenti dai procuratori di S. Marco (21).

Un'altra categoria di copisti di grande dignità e prestigio era quella dei membri della cancelleria. Anch'essi avevano grande dimestichezza con la scrittura in relazione ai loro incarichi e veniva quindi loro richiesto di trascrivere opere letterarie. È probabile che essi svolgessero tale attività occasionale di copia non solo per lucro, ma anche per altre ragioni: per compiacere i loro superiori patrizi, che delegavano volentieri l'onere della copia, impegnati com'erano nella politica e negli affari, o per procurare determinate opere a se stessi o al proprio colto entourage. Michele Salvatico, ad esempio, notaio presso i capi sestiere, copia numerosi codici per Francesco Barbaro (22). Giovanni Marzi di Castelbaldo trascrive un Terenzio per Andrea Foscolo, quando è addetto alla cancelleria di quest'ultimo, capitano a Vicenza nel 1424 (23).

Cancellieri e notai sembrano dominare a Venezia il mondo della scrittura: lo dimostra anche il prevalere delle forme grafiche notarili-cancelleresche.

Nei pressi dell'entrata del palazzo Ducale si affollavano poi degli scribi, la cui esistenza è ampiamente documentata per gli ultimi secoli della Repubblica, ma che con ogni probabilità operavano già nel Quattrocento: essi informavano avvocati e clienti circa l'andamento delle loro cause, segnalavano nascite e morti patrizie, comunicavano i risultati delle elezioni. Ad essi era dovuta la copia e probabilmente anche la compilazione dei prontuari necessari ai nobili per partecipare alla vita pubblica: brogetti e consegi, contenenti i risultati delle elezioni, libri d'oro, con le notizie aggiornate circa le famiglie patrizie, zucchette, con informazioni relative agli uffici (24).

Una singolare categoria di copisti era rappresentata dai prigionieri: anche a Venezia, come altrove, i carcerati che possedevano l'arte dello scrivere venivano utilizzati come scribi. Così Giovanni Soranzo di S. Giovanni in Bragora si fa copiare la Commedia da un mantovano detenuto nelle pubbliche prigioni, che termina l'opera nell'agosto del 1498 (25). I carcerati con questa e altre prestazioni lavorative potevano mantenersi in prigione e finanziare alcune loro attività comuni; potevano anche giungere a rimborsare così i loro debiti.

Molti copisti erano poi forestieri: soprattutto in età umanistica le persone capaci di scrivere con eleganza si spostavano da una città all'altra, seguendo le richieste dei committenti. Così Giovanni Aretino, uno dei primi ad usare la littera antiqua, lavora per qualche tempo a Venezia (26). Così Biagio da Ragusa copia codici petrarcheschi nella casa di Paolo Loredan, nel 1435 (27). Zuan Todesco trascrive codici umanistici per Leonardo Sanudo (28). Un'estrema mobilità caratterizza questi scribi, che vagano nell'Europa alla ricerca di commesse, precorrendo il peregrinare dei primi tipografi, anch'essi come i loro precursori amanuensi alla ricerca di finanziatori, ovunque si trovino.

Un'analoga mobilità si riscontra in un'altra prestigiosa, raffinata categoria di artigiani che partecipano alla produzione del libro, quella dei miniatori. Nel primo Quattrocento ricercata a Venezia e altrove è l'opera di Cristoforo Cortese, che si cimenta anche nella nascente xilografia; nella seconda metà del secolo a Leonardo Bellini, veneziano residente, si affiancano personaggi come il mantovano Franco de Russi, come Marco Zoppo, Girolamo da Cremona, Giovan Pietro Birago, Antonio Maria da Villafora, peregrinanti da una corte all'altra dell'Italia settentrionale al seguito delle commesse ricevute o sperate (29).

Di grande livello artistico era anche la legatura, ispirata a modelli bizantini, islamici, orientali, ovvero rispondente a canoni di semplice eleganza umanistica; ai raffinati artigiani che la praticavano non tutti i raccoglitori di libri si rivolgevano, perché spesso ci si accontentava di tenere il libro "desligado", a risparmio di spese (30).

Nel processo di produzione del libro l'importanza dei produttori di carta e di pergamena era certo grande, al pari di quella dei venditori all'ingrosso di tali materiali. Nell'era della stampa gli Agostini, banchieri operanti anche nel commercio della carta, appaiono coinvolti nell'attività di alcuni tipografi, come si accennerà; alla fine del secolo i Barbarigo, proprietari di cartiere, sosterranno l'azienda editoriale di Aldo (31). Per il periodo anteriore alla stampa, ben nota è l'importanza, a Roma, dei Massimo, fornitori della Curia romana; e anche a Venezia i grandi commercianti del settore avranno influenzato il mercato e i costi di produzione.

Alla vendita dei libri provvedevano i privati, con scambio diretto fra loro, e i produttori stessi: i monasteri, i conventi, i librai. La vasta presenza di istituti religiosi e i non pochi librai di cui ci è giunta notizia inducono a ritenere che il commercio librario fosse vivace, grazie anche all'atmosfera stessa della città, in cui la mercatura faceva parte integrante della vita quotidiana. Vi partecipavano librai di rango, come quelli che servivano Oliviero Forzetta, ma anche personaggi assai più modesti, come quella rivendugliola ai Carmini cui il già incontrato Antonio ruba un libro nel 1363, rivendendolo per 16 soldi di piccoli; o quel tartaro, probabilmente uno schiavo affrancato, che teneva sul balcone nel 1396 "unus breviarius portatile ad vendendum" chiedendone 6 lire di piccoli; o quella schiava abitante a S. Cassiano che esponeva sul balcone, per venderli, uffizi, salmi, orazioni in volgare (32). Una qualche forma di commercio librario esisteva già nel Duecento: Iacopo abate di Moggio si era procurato a Venezia una decina di libri di argomento sacro, poco dopo il 1240 (33). Non ci è dato sapere a chi si fosse rivolto: se a conventi, a librai, o ad altra fonte. Rimane il fatto che era riuscito a trovare a Venezia ciò che gli interessava. Il libro faceva dunque parte dell'orizzonte mentale dei Veneziani già molto prima dell'era della stampa: era un oggetto che si incontrava facilmente, che si comprava e si vendeva in ogni parte della città.

Una fonte importante per l'approvvigionamento di libri erano le aste che i procuratori di S. Marco organizzavano per realizzare i beni delle commissaríe loro affidate: se nell'asse di chi non aveva lasciato eredi legittimi o testamentari erano compresi libri, o ve n'erano nel patrimonio di chi aveva nominato i procuratori esecutori testamentari, essi venivano venduti all'incanto al pari degli altri oggetti. All'asta dei beni di Pietro Corner, che si svolge in due tempi, nel 1417 e 1420, risultano assegnatari di libri un medico, un noto umanista e matematico (Giacomo Languschi), un ecclesiastico, quattro patrizi. Numerosi medici, provenienti da ogni parte d'Italia, sette patrizi, un prete, un libraio si aggiudicano i libri all'asta dei beni di Pietro Tomasi, nel 1461-1464. Partecipa con successo all'incanto anche un inglese, Giovanni: forse il famoso umanista e statista John Tiptoft, conte di Worcester (34). Alle vendite concorrevano quindi persone di ogni ceto, e a quelle più importanti partecipavano anche forestieri, a prova della fama di cui Venezia godeva, già prima di affermarsi come grande centro tipografico, di luogo privilegiato per il commercio librario.

Naturalmente i libri non erano solo comprati e venduti; erano anche rubati (una forma di circolazione, seppure vietata dalle leggi), prestati - e di ciò si tratterà a parte - e donati. Poteva trattarsi del dono di un uomo di cultura ad un altro, o dell'omaggio di un fedele alla chiesa o al monastero più frequentato o più apprezzato, o persino del dono dell'amata al dotto amante, come nel caso dell'umanista veneziano Andrea Contrario, che riceve in regalo dalla monaca di cui si era invaghito a Firenze, nel 1462, alcuni "graecos codices" e un vasetto d'argento (35).

I libri percorrevano grandi distanze, giungevano a Venezia da ogni parte dell'Europa e lasciavano la città per le più diverse destinazioni, in un movimento che preannunciava quello di più grandiose proporzioni dell'era della stampa. Nel 1392 Giovanni Contarini, che si era dato alla carriera ecclesiastica, è a Oxford per conseguire il dottorato "in artibus", mentre il fratello Andrea viaggia per commerciare fra Damasco e Beirut e il maggiore, Ruggero, rimane a Venezia per dirigere l'azienda famigliare. Dall'Inghilterra Giovanni invia libri "per lo piovan"; ne è evidentemente destinatario un ecclesiastico amico di famiglia. In un'altra lettera di molti anni dopo (Giovanni è ancora in Inghilterra), Ruggero informa il fratello che nell'estate (del 1407) sarebbe giunta laggiù, con il convoglio delle galere, quella di ser Marco Miani: questi aveva l'incarico da Pietro Miani, suo congiunto, di ritirare "tuti y so libri" (36). Evidentemente Pietro Miani, noto come uno dei primi umanisti veneziani, aveva fatto acquisti anche in quel lontano paese. Ruggero esorta il fratello ad approfittare della galera del Miani per mandare a Venezia anche i libri suoi. Si sarà trattato di opere teologiche, dati gli interessi di Giovanni (che, pur dedito agli studi sacri, non trascurava durante il soggiorno a Oxford di trattare la vendita di spezie e coloranti per conto dell'azienda famigliare); quanto ai libri di Pietro Miani saranno stati anch'essi di materia religiosa, dato che il Miani aveva intrapreso la carriera ecclesiastica: a meno che non si trattasse di qualche opera di interesse umanistico.

Il movimento di libri dall'estero e verso l'estero assumerà proporzioni più ampie con il trionfo dell'umanesimo: si accennerà agli acquisti di Leonardo Giustinian a Firenze, ai molti cultori del greco che si approvvigionavano di codici greci in Levante, ai corrispondenti degli umanisti veneziani che si procuravano loro tramite codici a Venezia o che li acquistavano sul posto durante i soggiorni nelle lagune. Un flusso continuo, che spesso percorre le stesse vie delle altre merci, destinato ad un imponente incremento con l'avvento della stampa.

Tale vasta circolazione caratterizza soprattutto il libro latino, opera di produttori professionisti: i religiosi, scribi per antica tradizione, i librai, i copisti a fini di lucro. Ma vi era un'altra categoria, vasta e composita, di copisti: quelli occasionali, non professionisti, che trascrivevano non per guadagno ma per altre ragioni.

Alcuni di questi ultimi, benché indifferenti all'aspetto economico dell'opera di copia, appartenevano al mondo umanistico e si collocavano quindi nei grandi circuiti culturali. Uno dei primi ad usare la littera antiquo, appena adottata da Poggio Bracciolini, è un patrizio, Girolamo Donà, che copia nel 1412 un Catullo, nel 1413 un Cicerone (37). Il Donà, nipote del colto bibliofilo e umanista Pietro Donà, vescovo di Padova, non aveva certo bisogno di trascrivere quei codici di sua mano: ma lo faceva per il piacere di sperimentare le novità grafiche che andavano diffondendosi in quegli anni. Così Gasparino Barzizza copiava a tale scopo passi di Cicerone (38). Anche il dotto zio di Girolamo si compiaceva di trascrivere codici, come un Nonio Marcello, nel 1415. Leonardo Sanudo copia nel 1446, mentre è a Zara, un libro di massime morali e più tardi, durante il soggiorno a Ferrara, vari codici, fra cui un Virgilio e un Lattanzio (39). Bartolomeo Paruta conclude nel 1457 la trascrizione di scritti di s. Agostino e s. Bernardo (40). Giovanni Gradenigo copia di sua mano un Sallustio (41). Pietro Dolfin, figlio del noto cronista Zorzi (Giorgio) Dolfin, trascrive codici con virtù di abile disegnatore e calligrafo (42). Raffinato copista è Bernardo Bembo (43). Vi è in questi intellettuali coltissimi il forte desiderio di trovare nuove espressioni grafiche, nuove soluzioni nella scrittura; e vi è il gusto per uno scrivere elegante, moderno, formalmente perfetto, in cui l'armonia del testo classico abbia a trovare un riflesso nella proporzione delle lettere e nella composizione della pagina. In questi casi il copista dilettante gareggia nei temi e nella capacità grafica con il professionista, rivolgendosi alla stessa élite, che parla lo stesso linguaggio in tutta l'Europa.

Ma vi sono molti altri copisti occasionali, non professionisti, che operano per diversi motivi: per soddisfare i propri bisogni culturali; o per annotare per sé e per pochi amici informazioni utili alla vita quotidiana e al lavoro. Il prodotto della loro fatica è un libro che non aspira alla grande diffusione, ma che è destinato per sua natura ad un "microcircuito" famigliare: alla fruizione del copista stesso, dei parenti, di qualche amico (44).

Tra i copisti non professionisti occupano un posto di rilievo quelli che trascrivono per proprio diletto libri in volgare: poesie, opere di devozione, romanzi. Alcuni copisti di questo tipo appartengono al ceto patrizio. Nei momenti di otium consentiti dai pubblici uffici e dalla mercatura, essi trascrivono i testi più amati, per goderli nella casa, per farne oggetto di lettura in comune con i famigliari, per scambiarli a prestito con gli amici più intimi. Ma vi erano copisti anche di altre classi sociali; e trascrivevano per proprio uso testi sacri anche donne, se è, come sembra, veneziana quella Maria che confeziona per sé un libro di preghiere, nel 1486 (45).

Oggetto di numerose trascrizioni è anzitutto Dante. Da quando Giovanni Querini, suo contemporaneo, aveva mandato il divino poema ad un amico accompagnandolo con un sonetto laudativo (e ciò avveniva prima del 1330) (46), l'amore per la Commedia non era mai venuto meno nella nobiltà veneziana. Vediamo così Marin Sanudo trascrivere l'intera terza cantica con commento, terminando l'opera a Montagnana, l'8 febbraio 1422 (47): si tratta dell'avo dell'omonimo diarista, anch'egli cultore di Dante. Negli ultimi anni del secolo si applica alla trascrizione della Commedia il patrizio Antonio Zantani. Al principio del Quattrocento Zorzi (Giorgio) Zancani copia invece la Vita di Dante del Boccaccio (48). Giacomo Gradenigo fa di più: non solo trascrive di suo pugno l'intero poema e lo adorna di miniature di sua mano, ma compone un'opera sua ispirata alla Commedia. Altrettanto aveva fatto anni prima Giovanni Girolamo Nadal con la sua Leandreide. Devotissimo a Dante, il Gradenigo fu anche podestà a Ravenna nel 1413: elezione da lui certo sollecitata, in quanto gli offriva la possibilità di venerare la tomba del poeta. Nel 1417 lo vediamo anche assicurarsi, all'incanto dei beni di Pietro Corner, una "figura Dantis picta in tabula" che faceva parte del patrimonio del defunto (49).

Le opere petrarchesche venivano del pari trascritte negli scriptoria domestici dei patrizi: il 10 marzo 1450 completa la sua trascrizione di Trionfi e Rime Giacomo di Giovanni Nani, che dichiara nel colophon "giamai piacermi puote cosa vile". Un altro gentiluomo, che si firma "B. Maurocenum Venetum" (forse il diplomatico Barbon Morosini), copia opere petrarchesche a Roma nel luglio 1469 (50). Leonardo Giustinian, il famoso umanista e poeta in volgare, trascrive di suo pugno il Canzoniere, da un codice ch'egli dichiara scritto dal poeta stesso di sua mano (51). Anche il Boccaccio veniva letto e copiato, come dimostrano i codici superstiti (52).

Vi era chi si costruiva con un'opera paziente di copia un'intera biblioteca in volgare: è il caso di Andrea Vitturi, che trascrive di suo pugno, dal 1456 al 1468, una decina di opere, lavorando nella sua casa di Venezia, a S. Agnese, o nella piazzaforte di Novigrad ove era castellano nel 1460 (53). La raccolta, frutto del suo lavoro di copista, mostra la lunga persistenza delle tradizioni medievali nella cultura del patriziato e insieme dà l'idea degli orizzonti intellettuali di un patrizio di media cultura e di medie fortune quale egli era; non si può dubitare che quei libri che egli copiava di persona non corrispondessero esattamente ai suoi bisogni culturali e ai suoi interessi. Vi sono poemi cavallereschi: la storia di Fioramonte di Durazzo e di Alessandro, la storia della "beata Guielma regina d'Ongaria"; quest'ultima era stata trascritta da un "libereto del egregio homo ser Matiozo, dignissimo scrivan dell'ofizio dell'armamento"; di quell'ufficio era "segnor" lo stesso Vitturi, che condivideva i gusti del collaboratore e che conversava evidentemente con lui anche di cose letterarie. Vi sono laudi in volgare della Vergine e di s. Giovanni Battista, in versi; vi sono opere di sapienza morale di sapore popolaresco, come il libro "dei sette savi" e quello contenente i detti di un "filosofo muto"; non mancano il trecentesco Fior di virtù, che in quaranta brevi capitoli tratta di altrettanti virtù e vizi, con esempi tratti dal mondo umano e animale, e la non meno diffusa Lezenda de Iosafat e Verlam (si tratta, come noto, della versione cristiana della vita di Budda, un testo che al pari del precedente si leggeva anche nelle scuole). Il Vitturi si trascrive anche un libro "de natura de animali", una traduzione in volgare del De regimine rectoris di Paolino minorita e una cronaca di Venezia in terza rima. Egli si accontenta di opere di qualità modesta; ama la poesia nelle sue forme più semplici, cerca qualche informazione di storia e di politica; e scrive tutta la sua biblioteca da sé. Andrea non era solo nello scriptorium famigliare: vi erano anche il padre Niccolò, che nel 1445 finisce di trascrivere il Milione di Marco Polo, e il figlio Antonio, che nel 1464 conclude la compilazione di un sommario di storia veneziana.

I copisti che operano per diletto sopravviveranno alla scoperta della stampa. Raffinate sillogi poetiche verranno trascritte per il piacere del raccoglitore; in tal caso la trascrizione ha uno scopo strettamente intimo e privato, non mira a far circolare testi ma soprattutto ad assicurarne il personale godimento (54). Si copieranno anche altri tipi di testi: come opere rare non disponibili a stampa; o come opere proibite, che non si riesce altrimenti a reperire sul mercato; o più tardi foglietti contenenti notizie di politica estera.

Altre categorie di opere che venivano trascritte in ambiente patrizio e spesso dai patrizi stessi erano le cronache di Venezia: si trattava di scritti di contenuto storico (la storia, come si accennerà, era il principale interesse del patriziato) che peraltro avevano un'utilità pratica non indifferente, dato che costituivano strumenti per la comprensione della vita politica, cui il nobile si dedicava. Vi erano poi le cronache delle famiglie, compilazioni cui prendevano parte più generazioni, contenenti annotazioni relative alle vicende del casato, destinate alla lettura non soltanto individuale ma anche, probabilmente, collettiva nell'ambito del microcosmo famigliare (55): forse apparteneva a questo tipo di opere quel "libro de chà Sanudo" che Leonardo Sanudo prestava di frequente, come si accennerà, ai parenti e agli amici più intimi.

Fine prevalentemente pratico avevano poi alcuni manoscritti compilati per fissare e trasmettere informazioni di ordine tecnico. È questo il caso delle "raxion dei marineri": manuali nautici, che raccoglievano note e materiali di interesse marittimo. Compilatori e copisti erano persone del mestiere: si trattava in sostanza di appunti destinati all'estensore stesso per sua memoria e ai congiunti e agli amici, senza pretese di organicità (56). Per il Quattrocento ne rimangono sei, che danno l'idea del genere: contengono note di architettura navale, notizie astronomiche, "martelogi" ovvero regole per il calcolo della rotta, informazioni su coste e porti, regole matematiche, consigli per formare una compagnia o per commerciare all'estero. I compilatori sono soliti aggiungervi anche poesie, spartiti musicali, preghiere, informazioni di vario argomento: tutto ciò che desideravano ricordare, perché poteva interessare o divertire.

Analoghe finalità e caratteristiche hanno altre raccolte mercantili, denominate usualmente, con voce araba, Tariffe, in cui l'accento viene posto sul commercio più che sulla tecnica navale. Vi si tratta di pesi, misure, monete e cambi, merci, dazi; talvolta vi sono notizie sui porti e sul modo migliore di accedervi. Ne è esempio ben noto lo Zibaldone da Canal, che nel 1422 era in possesso di un membro di quel casato, Niccolò. Esso consiste in una sorta di vademecum risalente alla prima metà del Trecento, in cui sono riassunte molte nozioni utili al mercante (di matematica, navigazione, tecnica commerciale) (57); ma vi sono anche nozioni mediche, preghiere, proverbi, massime morali, poesie, frammenti di un romanzo, quasi a formare un sommario degli interessi culturali del patrizio mercante.

Forse sul modello degli zibaldoni mercanteschi si formavano analoghe sillogi, prive peraltro di prospettive mercantili o marinare. In una di queste compilazioni, risalente agli anni 1453-1479, sono contenuti trentatré diversi argomenti: preghiere, rime, canzoni, novelle (58). Vi sono brani dei Trionfi, laudi di Leonardo Giustinian, nozioni mediche, la storia di Attila "frazelo dei", un lamento per l'eccidio di Costantinopoli, una lista di elettori ducali, l'elenco dei dogi: una piccola biblioteca utilitaria e insieme storico-letteraria, condensata in duecentodue carte.

Anche nel mondo umanistico si compilavano analoghe, anche se più dotte, sillogi, come il codice steso di sua mano da Daniele Vitturi, patrizio umanista, che incontreremo più oltre: contiene opere di Eusebio, Beda, Niccolò di Lira, e altri, nonché una confutazione del Talmud. Il carattere personale della silloge, che doveva essere particolarmente cara al suo autore, spiega forse il giuramento ivi scritto di non concedere il libro ad alcuno: proposito invero eccezionale in una Venezia in cui la circolazione del libro a mezzo del prestito era incessante. Non dissimile natura dovevano avere i libri di "correctiones" e di estratti messi assieme con tanta cura negli anni da Lodovico Foscarini, che difatti ne vieta, come si dirà, l'alienazione anche dopo la sua morte (59).

Al mondo mercantile ci riconducono i vocabolari bilingui, veri e propri manuali di conversazione pratica, in forma di dialogo, talvolta di sorprendente vivacità. Ve n'erano di veneto-greci e veneto-turchi, di cui poco è rimasto: ne restano vari veneto-tedeschi, ad uso della prospera colonia germanica a Venezia e dei mercanti che con essa entravano in rapporti d'affari (60).

Da quanto precede risulta evidente che vi era una grande varietà di libri, sia dal punto di vista della qualità sia della valutazione economica. Il prezzo dei libri sacri era molto elevato: probabilmente perché spesso miniati, e in pergamena o carta di buona qualità. Un breviario grande lasciato dal prete Antonio David nel 1417 vale 50 ducati, 34 un "missale pulchrum de pulchra litera" nel 1420, 32 un altro messale indicato nello stesso testamento, 11 un breviario. Addirittura 60 ducati d'oro è stimata una Bibbia di proprietà dei canonici di S. Giorgio in Alga (61). Le stime più alte alla già ricordata asta Corner riguardano due codici contenenti parti della Bibbia: 5 e 8 ducati.

All'asta di Pietro Tomasi il pezzo forte è un Tolomeo, probabilmente corredato di carte: lo compera "Iohannes de Engeltera" per la cospicua somma di 58 ducati; segue un "librum in greco" che Raffaele de Trieste, probabilmente lo Zovenzoni, si assicura per 32 ducati (62). Un "doctrinale glossato" è a pegno a fronte di un prestito di 11 ducati, a fronte di 17 un Terenzio. Un libro con "totum Avicenna" vale 14 ducati. Nel 1442 una "Rhetorica nova et vetus" è valutata 4 ducati, 4 "un officio della Madonna", 2 un Sallustio, 3 un "Doctrinale" (63).

All'asta Corner, due "parte de Dante in volgar" sono stimate 2 ducati, e aggiudicate per 9 lire e 10 soldi; 3 ducati vale un trattato di "loicha". Gli altri pezzi hanno stime inferiori (64). All'asta dei beni di Pietro Tomasi i Problemata di Aristotele vanno venduti per 6 ducati e 12 soldi, per 8 ducati circa un Galeno, per 6 un'opera di Gasparino Barzizza; gli altri pezzi valgono in media 2 o 3 ducati (65).

Non dissimili i costi dei libri confezionati su commissione. L'anonimo committente di un codice contenente il De anima di Giovanni di Gand paga la copia 4 soldi e 2 denari per la singola carta. Se il codice può essere identificato, come sembra possibile, con uno conservato alla Marciana, il costo globale del lavoro di copia si sarebbe aggirato sui 3 ducati, cui sarebbe da aggiungere il costo non irrilevante del materiale scrittorio (66). Si tratta in generale di valutazioni che non si discostano da quelle correnti in Italia e in Europa (67).

Per comprendere appropriatamente il significato di queste cifre, si possono ricordare alcuni prezzi di beni di consumo degli anni 1459-1464: con 13 soldi si compravano due polli, con 6 un'anitra, con 5 un grosso colombo, con 8 due libbre di cacio, con 4 uno staio di farina; 2 soldi bastavano per due porzioni di moleche e per una di go (crostacei e pesci comuni), per quindici limoni, per una libbra d'uva (68). In un ducato stavano - di regola, almeno 124 soldi, sicché con esso si potevano comprare parecchi beni di consumo. Il fitto di una bella casa, stando a Marin Sanudo, ammontava a 100-120 ducati l'anno. Un gondoliere al servizio di una famiglia percepiva mensilmente "il consueto uno ducato et le spese". Uno stipendio di 120 ducati annui era considerato buono: era quello assegnato, nel 1460, ai professori della Scuola universitaria di S. Marco. Un palazzo sul Canal Grande valeva in media 10.000 ducati; qualcuno anche 20.000. Alla fine del Trecento una schiava circassa dell'età di 26 anni costava 46 ducati; 34 ne costava nel 1421 una schiava bosniaca della stessa età (69).

Comprar libri era certamente un investimento non da poco. A Giovanni Contarini, che si trova a Oxford, come si è detto, e che vorrebbe comprare dei libri di teologia, il fratello Ruggero scrive che ci vuol pensare, e che sentirà il consiglio di "quel benedeto letor de S. Domenego" (si tratta del celebre predicatore Giovanni Dominici, giudicato molto competente nella materia). E aggiunge: "ma pur a mi par che cusì tosto non devese voler meter tanti dener in libri, salvo in quelli ve bisogna per lo prexente, e meté mente che, per quello che io aldo [sento, odo>, el se fa de gran bachalarie tra y scholeri, e perhò vardé cho spendé y dener, e feve ben chonsiar [consigliare>. Priego Dio in questo et in altro v'amaistra a far la so voluntade, ma mi non par el sia senno a meterse in libri de theologia 2 ni 3 ani avanti che y besogna" (70). Spese così rilevanti andavano fatte al momento giusto, e sentiti gli esperti.

Il possesso di libri di buona qualità era dunque limitato, di necessità, a chi disponeva di buoni mezzi; ma, come si è visto, circolavano anche libri, soprattutto in volgare, di modesto valore venale, nonché immagini xilografiche, salteri, libretti scolastici di poco prezzo.

Le biblioteche prima della stampa

I proprietari di libri rimanevano comunque una minoranza; dei molti che sapevano leggere, relativamente pochi utilizzavano le loro capacità per finalità che non fossero meramente pratiche; ancor meno erano coloro che avevano la possibilità di investire in libri. Tuttavia si può ipotizzare una presenza di libri nelle famiglie veneziane maggiore di quanto risulta dai testamenti, unica fonte disponibile per questi anni (a parte alcuni rari inventari): ciò almeno limitatamente alle opere correnti e di scarso valore economico.

Va infatti rilevato il fatto che, a differenza dell'inventario, redatto da notai di regola straordinariamente scrupolosi, che tengono nota di ogni oggetto anche modestissimo lasciato dal defunto, il testamento isola alcuni beni specifici, cui il testatore annette una particolare importanza. L'assenza di libri nella grande maggioranza dei testamenti può anche essere spiegata col fatto che essi vengono compresi nelle generiche attribuzioni di quote o di residui, qualora non rivestano particolare importanza o pregio. Tale è invece il caso dei breviari o dei libri sacri in generale, spesso miniati o legati con qualche ricchezza che il testatore pone per questo in particolare rilievo. Così nel 1356 Marco Capello lascia il suo libro "de le exposicion de li vagneli" alla figlia Elisabetta, disponendo che dopo la morte di lei passi al convento di S. Caterina, al quale viene fatto divieto di venderlo o darlo in pegno. Si tratta evidentemente di un oggetto di valore, la cui evidenziazione non esclude la presenza di altri libri di minore importanza nella casa del Capello. Un secolo dopo, Franceschina Corner "fu de messer Donà" dispone, con testamento dell'8 febbraio 1465, "ch'el breviario mi lasò mia madre sia venduto et danari dispensati ai poveri over dato a qualche bona persona che faci l'oficio" (71). Anche qui il libro è oggetto di una disposizione specifica in quanto bene di valore; ma anche forse perché si tratta di un oggetto caro, amato ("mi lasò mia madre": sembra un accenno a un vincolo antico di affetto), che ha accompagnato per tutta la vita le ore della giornata, fornendo momenti di raccoglimento e di conforto. Forse anche non si vuole che un oggetto così ricco di significato nella vita di una persona vada a chi non lo merita; si cerca invece che pervenga a chi ne è degno, e magari ricorderà il defunto nelle preghiere.

Quanto precede consente di meglio valutare i risultati di un'indagine effettuata circa gli ottocentottantasette testamenti conservati in tre buste all'Archivio di Stato di Venezia, di data compresa fra il 1451 e il 1510: solo dieci contengono disposizioni relative a libri e sette di tali atti riguardano libri devozionali (72). Agli altri tre casi (quelli di Franceschina Gabo, di Ercole del Fiore e dello stampatore Codecà) si accennerà oltre. Nei sette testamenti in cui è menzione solo di libri sacri, un solo testatore, Girolamo di Tommaso Benedetti, ricorda oltre ad un salterio "do altri librisuoli", che lascia al monastero di S. Andrea (73). Sembra invero difficilmente credibile che, almeno per i testamenti redatti quando la stampa trionfava ormai senza contrasti, nessuno dei testatori avesse in casa un qualche libro a stampa: probabilmente essi li ritenevano di valore modesto, non degni di una specifica clausola testamentaria, e lasciavano che seguissero la sorte del rimanente patrimonio.

I patrizi, per cominciare dal ceto di maggior rilievo, erano senza dubbio in possesso di libri: non tutti, certo, ma quelli di maggiori fortune e cultura. Tutti, o quasi, i patrizi avevano comunque in casa un archivio, contenente lettere, commissioni ducali, notizie di interesse politico. Molti avranno avuto consegi, brogetti, libri d'oro. Molti infine avevano certamente almeno una cronaca di Venezia dalla fondazione, aggiornata sino ai tempi recenti, e un elenco delle famiglie patrizie con un cenno storico sommario indicante l'origine e i caratteri salienti di ciascuna. Spesso lo stesso codice ospitava cronaca ed elenco di famiglie, corredato di blasoni. Ne sono noti almeno mille, ma probabilmente ne sopravvivono assai di più. Tali codici, scrive il Carile, "dovevano essere un elemento comune nella vita, non dirò solo culturale, ma familiare di Venezia, almeno della Venezia patrizia dalla metà del '300 in poi", e probabilmente da prima: un elenco di famiglie, "nello stile dei più tardi blasonari", si trova già nel Chronicon Altinate (74). Sino alla metà del Trecento la lingua è il latino, talvolta, nel Duecento, il francese; poi il volgare. L'intento è costantemente apologetico, patriottico: le cronache alimentano l'amor patrio, lo spirito di libertà, confutano le accuse contro Venezia, fondano storicamente pretese e interessi dello Stato veneziano. Esse sono incessantemente copiate e aggiornate dai patrizi stessi, che ne sono spesso autori, copisti, lettori insieme. La circolazione di queste cronache non è più vasta di quella dei manoscritti in volgare coevi: salvo casi particolarmente importanti venivano lette dai membri del casato e dagli amici, come i "libri di famiglia". Le notizie di storia cittadina e internazionale si ripetevano da una cronaca all'altra, dato che esse attingevano agli stessi modelli - che ovviamente avevano invece circolazione ampia - mentre le notizie specifiche sulle famiglie interessavano soprattutto ai consanguinei.

Per i patrizi la storia è un amore costante: alcuni eccellono nella storiografia, come Andrea Dandolo nel Trecento, Bernardo Giustinian nel Quattrocento, Marin Sanudo nel primo Cinquecento. Talvolta chi scrive di storia corre dei rischi: la materia è delicata, tocca da vicino il prestigio e la sicurezza dello Stato. Nel 1418 Antonio Morosini è costretto a subire la distruzione di due cronache da lui compilate, sacrificate per ragioni di Stato (75); un secolo dopo la storia di Pietro Bembo verrà pesantemente censurata (76). La Repubblica tiene molto alla propria immagine, alimenta essa stessa il proprio mito.

L'interesse maggiore è per la storia veneta, ma anche la storia antica ha molti cultori: nel 1381 Giovanni Gradenigo lascia, oltre a una Bibbia, un Tito Livio in due volumi (77); Marco Soranzo, cultore di Dante, lascia, nel 1373, un Cesare e un Tito Livio: alla sua morte i due codici sono comperati da due patrizi (78). Una volta affermato l'umanesimo, la storia greca e romana sarà uno dei principali oggetti dell'interesse patrizio.

Altra grande passione del patriziato, la poesia in volgare: anzitutto, Dante. Si è visto che molti patrizi amavano copiarlo di loro pugno; molti altri lo facevano copiare o acquistavano codici già pronti della Commedia. Belello da Pesaro, morto prima del 1332, possedeva già un Dante glossato (79); nel 1349 Niccolò Zorzi, marchese della Bodonizza, lascia un Dante al figlio (80); Lorenzo Celsi, lo splendido principe amico del Petrarca, possiede un Dante che compera alla sua morte Nicoletto Garzoni (81). Marco Soranzo, cavaliere, vende un Dante nel 1373; ne compera uno nel 1382 Bertuzzi da Pesaro; ne lascia uno l'anno stesso Zorzi Baseggio (82). Un magnifico Dante miniato dell'ultimo Trecento apparteneva a casa Loredan (83). Tommaso Duodo, nel Quattrocento, ne possedeva uno copiato per lui da un tale Caracristo (84). Pietro Corner possedeva due "parte de Dante in vulgar", che vanno all'asta alla sua morte nel 1417; ma aveva anche un Dante glossato, che lascia a Marino Dandolo perché, egli scrive, "io so che ser Marino Dandolo ha dellecto delle gloxe de Dante". Il Corner pare avesse per Dante una sorta di culto, dato che ne conservava un ritratto, che - come si è accennato - verrà acquistato all'asta da Giacomo Gradenigo (85).

Dante era popolare anche presso le gentildonne, e in altre categorie sociali. Flora Novella, vedova di Pietro Morosini, lascia la casa del defunto consorte, attorno al 1457, recando seco un Dante e due altri libri non identificati; uno dei rari casi in cui compaiono donne in possesso di libri. Nicolò Buora "zoielier" possedeva un Dante (86).

Anche il Petrarca aveva numerosi estimatori nel ceto patrizio. Si è già accennato ai gentiluomini che trascrivevano di loro pugno opere petrarchesche. Altri le facevano copiare per il proprio uso o le acquistavano già pronte. Così un codice contenente Trionfi e Rime, appartenuto prima a Gasparino Barzizza, reca l'arma Michiel; passerà poi a Giovanni Marcanova (87). Vari codici del secondo Quattrocento recano armi patrizie: uno quella Priuli, un altro quella Morosini (88). Bernardino Barbo si dichiara in un codice "Petrarcei carminis dulcedine captus" (e precisa di essersi procurato il manoscritto con i suoi denari, per cui esso non andava computato nell'asse ereditario) (89). Un altro codice era, attorno al 1470, proprietà di Pietro Foscari (90).

Il cantore di Laura aveva cultori anche negli altri ceti: un codice petrarchesco apparteneva nel 1396 a Niccolò Carandolo, che si definisce "civis Venetianus" (91); un altro a Piero di Antonio Damiani, alla metà del Quattrocento (92); un altro ancora alla fine del secolo a un benedettino cassinese, Tita Meratti (93). Il Damiani teneva molto al suo manoscritto: "chi el caterà" - si raccomanda - lo porti "a la botega in Rialto niovo", ove evidentemente egli esercitava la sua attività, "che ge verà dà in bona cataura", un buon compenso.

Un'altra predilezione del patriziato erano i poemi cavallereschi, in particolare quelli del ciclo troiano, che consentivano di trovare le radici della libertà dei Veneti addirittura nella gloriosa libertà dell'antica Troia: una conferma dell'originaria indipendenza della città veneta, che vi appariva della stessa illustre ascendenza di Roma. Questo amore per le colorite storie dei cavalieri - creazioni tipicamente medioevali - era destinato a sopravvivere a lungo, anche all'esplosione della cultura umanistica. Si è già accennato ai libri lasciati da Niccolò Zorzi, nel 1349, al figlio Francesco detto "il marchesotto": fra essi vi è "troian uno": certo una copia della rielaborazione veneziana - derivata a sua volta da Guido de Columna - delle composizioni tardoantiche ispirate alla guerra di Troia che andavano sotto il nome di Darete Frigio e Ditti Cretese (94). Più di un secolo dopo Giovanni Corner lascia al suo amanuense Francesco "unum meum librum troianum quem pene se habet". L'amore del patriziato per la poesia cortese non è venuto meno. Va peraltro rilevato che il successo del ciclo troiano non era limitato alla classe patrizia: vediamo un prete comperare "uno Troiano" all'asta nel 1417 (95); Giacomo Sanson di Gasparo, di famiglia cittadinesca, possiede all'inizio del secolo una Istoria della guerra di Troia (96); il solo libro profano posseduto nel 1461 da Ercole di Giacobello del Fiore è un "Troiano" (97). E un "Troiano", a stampa, possiede anche Marin Sanudo: ed è solo uno dei ventisei romanzi cavallereschi che egli conserva e diligentemente elenca, con un'accuratezza che ne fa quasi un precursore della moderna bibliografia (98).

La poesia in volgare, i poemi cavallereschi, la storia si ritrovano nelle biblioteche di patrizi di diversa levatura intellettuale e fortuna economica; sono in minor numero i patrizi che coltivano interessi più ardui, filosofici e scientifici. Ma biblioteche patrizie contenenti opere di tali argomenti esistevano. Tale nel secondo Trecento è quella di Lodovico Gradenigo, che possedeva opere di metafisica e filosofia naturale (ma leggeva anche Svetonio e Livio) (99). Nel primo Quattrocento il procuratore di S. Marco Pietro Corner, che si è già incontrato, possedeva una biblioteca il cui inventario comprende trentotto voci: a parte una cronaca di Terrasanta, un esemplare del diffusissimo Doctrinale, e qualche opera religiosa, la raccolta si caratterizza per i testi astronomici, medici, filosofici. Vi sono opere di chiromanzia, geomanzia, ottica, logica. I classici sono rappresentati solo da Orazio e Boezio. Ma vi è anche - come si è detto - Dante "in volgar" (100). La raccolta pare espressione tipica di quegli interessi prevalentemente medici e astrologici e di quell'orientamento aristotelico che dominava nella Venezia del tardo Trecento: quell'atteggiamento culturale che impedì la piena comprensione dell'insegnamento petrarchesco, imperniato sulla poesia e sull'eloquenza fondate su basi classiche e cristiane. In quella biblioteca - rivelatrice comunque di una non comune cultura - si sarebbero potuti riconoscere i famosi quattro "averroisti" che avevano mostrato di non apprezzare il magistero del Petrarca. Si trattava insomma di una raccolta tradizionale: negli stessi anni incominciava ad affermarsi, anche nell'ambito del ceto patrizio, l'umanesimo. Tuttavia fra i patrizi molti resteranno fedeli agli antichi orientamenti, e troveranno il loro punto di incontro nella Scuola di Rialto.

Al movimento umanistico aderivano già da tempo i membri della cancelleria. A tale mondo, così sensibile all'insegnamento petrarchesco, appartengono i possessori delle maggiori raccolte di classici del secondo Trecento, fra i quali quel Giovanni Conversini che tanto contribuì ad orientare il patriziato veneziano verso l'umanesimo. La sua raccolta, di illustri origini, comprendeva opere di autori classici di notevole rarità; alcuni codici furono da lui prestati al notaio ducale Lorenzo de Monacis, altri a Coluccio Salutati. Alla sua morte, nel 1408, la preziosa biblioteca finì dispersa (101).

Importanti biblioteche avevano i medici, che godevano di grande prestigio. L'esercizio della loro arte comportava la conoscenza della filosofia aristotelica, dell'astrologia, degli autori antichi di medicina ancorché mediati attraverso i commenti e le traduzioni arabe. Uno dei medici più eminenti del secondo Trecento, Tomà Talenti (lo stesso che insieme ad un altro illustre medico, Guido da Bagnolo, e a due gentiluomini aveva definito il Petrarca "sine litteris virum bonum"), possedeva una delle maggiori biblioteche del suo tempo: centocinque volumi per la sola parte scientifica. Nel 1397 egli dispone un cospicuo legato, 7.000 ducati, una cifra enorme, perché si costituisca nella laguna un monastero olivetano, a cui egli lascia anche, come egli scrive, "omnes libros meos scientificos", i centocinque volumi di cui si è detto. Egli disponeva anche un altro cospicuo lascito (50 ducati annui) per il salario di un magister artium di fama "pro legendo artes, scilicet logicam et philosophiam", con cui dar vita ad una scuola universitaria ad indirizzo scientifico, quindi aristotelico, astronomico, medico: sarà la Scuola di Rialto, prediletta dal patriziato che ne fornirà gran parte dei docenti e non pochi allievi. Il Talenti si spegne nel 1402. Ci vorranno vari anni perché il lascito al costituendo monastero olivetano divenga operante: solo nel 1407 si troverà il luogo adatto, il monastero di S. Elena, rimasto vacante. Il 21 settembre di quell'anno il papa lo assegnò agli Olivetani che, nel 1408, poterono stabilirvisi e godere del legato (102).

Anche al di fuori della classe medica dovevano poi circolare manuali di medicina pratica e di igiene, come quel Tesoro delli poveri, ovvero raccolta di medicamenti per ogni sorta di infermità, di cui appare in possesso Gaspare de Frigeriis, o Frizier (103). Libri di semplici e composti dovevano poi avere i farmacisti, a guida della preparazione dei loro medicamenti: ce ne rimane un magnifico esempio nel codice dovuto al medico Niccolò Roccabonella e al pittore Andrea Amadío, che fu conservato per secoli nella farmacia "Alla testa d'oro" a Rialto (104).

Biblioteche di una certa entità avevano, per ragioni d'ufficio, gli ecclesiastici. In esse prevalgono opere giuridiche: sia perché utili all'amministrazione dei beni ecclesiastici, sia per le funzioni notarili che molti di loro, come si è accennato, svolgevano. Quasi tutti di argomento giuridico sono i libri che possiede nel 1380 l'abate di S. Giorgio, Bonincontro, venticinque in tutto: libri di diritto ha nel 1388 il prete Rodolfo de Sanctis, e così pure nel 1463 il prete Matteo Perenzini (105).

Un'altra categoria era provvista di libri per motivi professionali: i maestri di scuola. L'importanza dei libri nella vita degli insegnanti doveva trovare una solenne consacrazione nei funerali, se Lodovico de la Fontana dispone, nel 1371, che due suoi libri siano posti nel feretro in cui sarà portato, "unus a capite et alter a pedibus more scolastico"; anche Aldo Manuzio verrà deposto nella chiesa di S. Paternian "con libri atorno" (106). I loro libri vengono dati in prestito (il predetto Lodovico li aveva consegnati a Leonardo da Pesaro; Matteo de Ursariis da Salerno, che testa nel 1411, aveva prestato il suo Prisciano alla priora di S. Maria Celeste), sono dati in garanzia di mutui, sono comperati e venduti per cifre non trascurabili. Paolo da Fiaiano, che testa nel 1420, sembra ne facesse un florido commercio: doveva aver accumulato non pochi libri di medicina e di filosofia, che lascia all'amico Antonio Vannozzi, con il quale aveva collaborato negli studi e nell'insegnamento. Fra i libri ch'egli menziona vi sono un Terenzio, le Epistolae di Tullio, un libro con tutto Avicenna e tre libri ch'egli aveva avuto da un tale "qui ivit in galleis"; doveva trattarsi di una persona di non modesta cultura, se prima d'imbarcarsi aveva ceduto a Paolo per la vendita le Epistolae di Seneca e gli aveva consegnato anche un Boezio e un "Tullium de Amicicia". Paolo appare in buone condizioni economiche, ma non è il solo fra i maestri a disporre di mezzi: Giovanni da Bologna detto "maistro Çan Soranço", che testa nel 1416, sembra addirittura ricco; e benestante appare "Iacomo Moron da l'abacho", che detta le sue ultime volontà nel 1429 (107).

Il libro era presente anche in altri ambienti. Ci è pervenuto l'inventario della biblioteca di Ercole, figlio adottivo del famoso pittore Giacobello del Fiore, redatto nel 1461 (108). Non vi sono classici, ma solo libri di argomento religioso, per lo più in volgare: un breviario, un "diurno", anch'esso libro di preghiere, un officio "de nostra dona", un libro di salmi, "un libro in bambaxina, trata de la conscientia de san Bernardo", un altro che tratta di virtù e vizi, "el transito de s. Jeronimo", il "Dialego de san Gregorio", l'Apocalisse, le Epistole, i Vangeli. Da buon cittadino Ercole ha gli Statuti di Venezia e una "promission del doxe". Unico libro di argomento profano, un "Troian", il poema cavalleresco così popolare a Venezia. Si tratta di una biblioteca tradizionale, conservatrice; l'umanesimo non sembra averla influenzata; a meno che qualcosa di diverso non si celasse in quei "molti altri volumi e scartafazii" che appaiono in possesso della sua "comessaria", Ixabeta moglie di Niccolò Zen.

Oltre alle biblioteche private, esistevano anche raccolte pubbliche. Perduta la grande occasione di dar vita ad una biblioteca statale cori i preziosi libri del Petrarca, la Repubblica rimase priva, sino al 1468, di una raccolta libraria destinata al pubblico uso: l'ebbe in quell'anno, come si accennerà, grazie alla lungimiranza di un cardinale umanista, il greco Bessarione.

Vi era peraltro, custodita dai procuratori di S. Marco, probabilmente in un locale dell'edificio della basilica marciana, una raccolta libraria avente per contenuto atti ufficiali non destinati al pubblico ma ai governanti. Si trattava, come si è già ricordato, dei documenti pubblici di maggior rilievo, conservati per lo più in copie, stese con elegante scrittura libraria e ornate nei capilettera (109). Accanto agli atti ufficiali in originale e in copia vi sarà stata presso la cancelleria qualche raccolta di modelli di bello scrivere, di grande utilità per i diplomatici. Certamente essi avranno avuto sottomano qualche trattato di "ars dictandi", con modelli di lettere e di atti redatti con le formule opportune. È noto poi che, diffusasi la fama del Petrarca, le sue lettere erano gelosamente tesaurizzate dal cancellier grande Benintendi e dai suoi collaboratori come fonte d'ispirazione per uno stile elegante, più raffinato e ricco di quello tradizionale: ve ne sarà stata una copia a disposizione dei funzionari, che poi avranno aggiornato via via i loro modelli con l'evolversi del gusto e della cultura.

Vi era anche un libro conservato nella sala d'armi del consiglio dei dieci: un codice di lusso, ornato con i ritratti dei Carraresi, contenente la genealogia dei signori di Padova. Non si trattava di un libro destinato alla lettura, ma di una preda di guerra da custodire gelosamente: tuttavia esso venne rubato nel 1481 (110).

Vi era poi la raccolta della chiesa di S. Marco, amministrata, come noto, dallo Stato stesso, attraverso l'altissima autorità dei procuratori. Nel santuario di S. Marco era custodito, a partire dal 1420, il pezzo più importante dal punto di vista religioso: un frammento del Vangelo di s. Marco, creduto di mano dell'Apostolo. Nel Tesoro si conservavano alcuni codici di apparato, racchiusi in sontuose legature ornate di pietre preziose, perle e smalti; il contenuto pergamenaceo veniva usato nelle maggiori ricorrenze e poteva anche essere sostituito in caso di deperimento. Altri volumi erano conservati nella Sacrestia: libri liturgici, d'uso, spesso destinati a un rapido ricambio. Nelle residenze del primicerio e dei cappellani vi saranno stati anche libri non strettamente liturgici: quegli ecclesiastici avranno avuto necessità di qualche testo giuridico, di patristica, di agiografia, forse di qualche opera di erudizione, di storia, di grammatica. Anche la chiesa episcopale, poi patriarcale, di S. Pietro di Castello aveva una raccolta libraria, già esistente nel 1285 (111).

Considerevoli biblioteche possedevano le istituzioni monastiche. Anzitutto quelle dell'Ordine benedettino: la produzione di libri, come si è detto, è approvata e incoraggiata dalla Regola; i libri confezionati nello scriptorium si accumulano nella biblioteca del monastero. Si è detto dell'importanza delle attività scrittorie del monastero camaldolese di S. Michele di Murano; una serie di abati particolarmente sensibili alla cultura come Paolo Venier, Maffio Gerardi, Pietro Donà, Pietro Dolfin, favoriva l'arricchimento della biblioteca monastica (112).

Il monastero di S. Mattia di Murano gareggiava con quello assai più grande di S. Michele nella raffinatezza delle raccolte librarie, chiamando a miniare i suoi libri liturgici l'illustre artista Cristoforo Cortese. Alla fine del secolo XVI conservava ancora una cinquantina di manoscritti, molti dei quali miniati e in pergamena (113).

Una settantina di codici, tutti di argomento religioso, possedeva nel 1362 il monastero di S. Giorgio (114). Usato spesso per ospitare visitatori illustri, esso ebbe la ventura di offrire asilo a Cosimo de' Medici, in esilio a Venezia negli anni 1433-1434; a lui risalirebbe la volontà di rinnovare la biblioteca del monastero. La predilezione di Cosimo per S. Giorgio dipendeva forse dai suoi legami con papa Eugenio IV Condulmer, che anche dopo l'elevazione alla tiara manteneva stretti rapporti con quella fondazione monastica. Secondo la tradizione, Cosimo avrebbe affidato la ricostruzione a Michelozzo. Quel che è certo invece è che l'edificazione di una nuova biblioteca a S. Giorgio avvenne anni dopo, concludendosi nel 1473, sempre peraltro a spese dei Medici, che così onoravano l'impegno assunto dal fondatore della loro potenza. La costruzione della nuova biblioteca era resa forse necessaria dall'imminenza di un cospicuo lascito al monastero, quello del Bessarione, che poi ebbe destinazione diversa; e fu forse in quegli anni, e non all'epoca di Cosimo, che si verificò l'intervento di Michelozzo (115).

Il monastero di S. Cipriano di Murano aveva nel secondo Trecento una biblioteca di centocinquanta titoli, tutti di argomento sacro. Libri di carattere religioso si conservavano nei monasteri di S. Andrea della Certosa, S. Daniele, S. Maria della Carità, S. Giorgio in Alga, S. Salvador. Avevano libri i Gesuati di S. Agnese e gli Eremitani dell'Angelo Raffaele, che facevano anche opera di copia (116).

Anche i monasteri femminili ne avevano: così S. Zaccaria, S. Servilio, S. Alvise, S. Girolamo, S. Maria degli Angeli di Murano. Le suore domenicane della Croce della Giudecca coltivavano interessi letterari di buon livello: Ermolao Barbaro il vecchio fornì loro una sua traduzione dal greco della Vita di S. Atanasio scritta da Eusebio, venendo incontro ad un loro espresso desiderio (117). Si è già visto che le suore della Croce cercavano libri sacri miniati da copiare; e presso il loro convento Leonardo Giustinian si procura, come si accennerà, una grammatica greca.

I libri dei monasteri benedettini erano di norma destinati all'uso dei monaci: la lettura aveva una parte importante nella vita monastica. Al capitolo 48 della Regola di s. Benedetto vengono minuziosamente disciplinate le ore in cui la lettura è lecita (dopo la colazione di mezzogiorno) e quelle in cui è invece obbligatoria: due ore alla mattina, tre in Quaresima. All'inizio della Quaresima ogni monaco riceve un codice, da leggere "di seguito e interamente": due anziani devono vigilare che tutti siano effettivamente intenti alla lettura, percorrendo il monastero nelle ore ad essa consacrate. Era talvolta consentito il prestito anche a persone esterne al monastero (118). Non è previsto uno spazio apposito per la lettura: i monaci leggono nelle loro celle. I libri si conservano nei monasteri maggiori in uno spazio assimilato all'archivio, accessibile solo a chi ne ha la custodia; in altri nella stanza dell'abate o nella sacrestia.

Francescani e Domenicani possedevano invece vere e proprie biblioteche di consultazione, con i libri incatenati ai banchi di lettura, aperte talvolta anche a chi non appartenesse al convento. Di solito esse si presentavano come una sala oblunga, occupata da due file parallele di banchi con un corridoio libero in mezzo: un modello che avrà larga e durevole fortuna. La sala era talvolta ornata alle pareti da dipinti, come quella di S. Francesco della Vigna che il Sanudo descriverà, alla fine del secolo, indicando i nomi dei personaggi illustri dell'Ordine i cui ritratti si vedevano al tempo suo. Accanto alla biblioteca di consultazione vi era poi di regola un'altra biblioteca, detta segreta, perché chiusa in armadi, o circolante, perché destinata al prestito: quest'ultima era usualmente di maggiori dimensioni, come risulta, peraltro in epoca posteriore, anche a S. Francesco della Vigna. Il prestito, sia pure controllato attentamente per evitare la diffusione di testi che potessero essere fonte di scandalo o di errore, veniva infatti largamente praticato dai due maggiori Ordini mendicanti, di norma contro un pegno adeguato (119). La consistenza di tali biblioteche, acquisite per le necessità di studio dei confratelli e accresciute per lasciti e doni, era considerevole: quella di S. Domenico di Castello contava centotrentuno titoli nel 1399 (120).

La più importante biblioteca domenicana era quella dei SS. Giovanni e Paolo: alla fine del Quattrocento, grazie al padre generale Gioachino Torriano, umanista e studioso di greco, giunse a grande prestigio (121), al punto che il senato pensò di affidare al convento, come si dirà, la biblioteca del Bessarione.

In generale l'affermazione dell'umanesimo determinò un considerevole arricchimento delle biblioteche religiose. I monaci, e in particolare i superiori, erano spesso persone colte, che tenevano ad aggiornare le raccolte dei loro istituti. Il livello culturale delle istituzioni religiose era elevato. Leonardo Giustinian, che trascorre a Murano un felice soggiorno estivo, conversa con i padri "de sacris litteris aut optimo vivendi genere", traendone nobile diletto: meriterebbero, dice, di essere chiamati "filosofi cristiani" (122).

Anche altre istituzioni, oltre a quelle religiose, possedevano libri. Testi liturgici, "mariegole" ornate, libri con nomi e stemmi di confratelli possedevano le scuole o confraternite, sia quelle "grandi" sia le altre (123).

Gli umanisti e il libro

Quello che si è cercato di delineare è per così dire lo sfondo su cui si innesta, nei primi decenni del secolo, una trasformazione, si direbbe una rivoluzione, di grande portata nel mondo della cultura: l'adesione del patriziato all'umanesimo. Dapprima indifferente ad essa, l'élite patrizia, in coincidenza anche con l'acquisto della Terraferma, si impadronisce della nuova cultura e anzi vi si distingue al punto da fare di Venezia uno dei centri maggiori di irradiazione del messaggio umanistico.

I primi patrizi interamente conquistati all'umanesimo appartengono alla generazione nata negli anni Settanta del Trecento: Zaccaria Trevisan il vecchio (1370-1414); Pietro Marcello (1376-1428); Pietro Miani (1370-1433) scrivono eleganti orazioni latine, corrispondono con Guarino e col Vergerio; ad essi fanno seguito i più giovani, Leonardo Giustinian (o Zustinian, 1389-1446), Francesco Barbaro (1390-1454), Andrea Giuliano (o Zulian, 1384-1452), i tre nomi più illustri della prima stagione umanistica del patriziato, fiorita nei primi decenni del nuovo secolo (124). Essi scoprono con infinito entusiasmo la bellezza degli studi, vi dedicano con infaticabile passione le ore che riescono a strappare agli impegni politici e amministrativi, cui non possono né vogliono sottrarsi perché connaturati alla loro condizione, sfidano le critiche della maggioranza dei loro colleghi che non ne comprendono le motivazioni ideali; a seguito dei loro sforzi Venezia si inserisce a pieno titolo nel fervore umanistico della penisola. A guidare questi giovani - che naturalmente costituiscono un'élite - nella scoperta della nuova cultura sono soprattutto due grandi maestri: Gasparino Barzizza e Guarino Veronese, il cui insegnamento non si limita alla filologia ma mira alla formazione morale dell'uomo. Un'attenzione agli aspetti morali della cultura che caratterizzerà tutta la storia dell'umanesimo veneziano (125).

Strumento della conquista da parte di questi giovani entusiasti di una nuova dimensione della vita è il libro. Dalla lettura essi traggono una gioia che nella sua grandezza quasi li sorprende: "mirum est, mi Guarine, quanta in legendo delectatione afficiar", scrive Leonardo Giustinian al suo maestro e amico nel 1420. Nulla egli desidera di più, nulla può meglio rasserenare e nutrire l'anima. Dai libri egli si svelle con somma riluttanza; anzi li lascia solo perché la cura della salute glielo impone, non certo perché gli venga meno il gusto della lettura o si ingeneri in lui un senso di sazietà (126).

La lettera del Giustinian è scritta da Murano, nell'estate: egli si è recato in quel "municipium egregie amoenum" con la famiglia, grazie ad una sospensione di due mesi da ogni carica, inflittagli per il rifiuto di un reggimento. Invece di soffrire della sanzione, egli ne è felice, perché la rottura di quei vincoli che impacciavano a Venezia la sua vita quotidiana gli consente di godere appieno di una libertà insperata. Il quadro ch'egli dà della sua vacanza muranese è vivacissimo: una vita armoniosa, in cui alla lettura si alternano visite ai dotti monaci nei monasteri, passeggiate nelle isole deliziose ricoperte di frutti e di vegetazione, gite in barca, musica. Ma è il libro il centro: agli altri diletti egli si accosta strappandosi ai libri, "e libris ereptus". Il libro è un amico con cui si parla, si conversa, si discute: il momento più bello è il riposo, all'ombra, durante il quale Leonardo non è mai solo: "aliquis semper aut latinus aut graecus comes mecum confabulatur, disserit, loquitur". Vi è sempre un libro con lui: latino o greco.

In modo analogo si esprime, anni dopo, Lodovico Foscarini, uno dei maggiori esponenti dell'umanesimo veneziano della generazione successiva. Nei libri, egli dichiara nel testamento, dettato nel 1478, "consistit omnis mea felicitas" (127). Della consuetudine con Tucidide, scrive nell'estate del 1461 a Guarnerio di Artegna, che gli aveva prestato una traduzione latina dello storico greco, egli si era dilettato "mirum in modum": senza la compagnia dei greci non gli pareva di poter trascorrere una vita "iocundam" in terra friulana. Comè per Leonardo Giustinian, gli autori antichi sono dei "comites", degli amici. Attende con impazienza Erodoto, Appiano; non riesce invece ad affrontare Falaride, troppo crudele, che quasi lo spaventa con le sue gesta feroci: tutt'al più, scrive nel dicembre, poteva servirgli per imparare qualche metodo efferato per tenere a bada Geremia de Simeonibus, il medico udinese ch'egli fa oggetto di motti scherzosi nella sua corrispondenza, dipingendolo come monumento di ottusità. Il Foscarini ne fa il simbolo dell'erudito passatista, insensibile al fascino dei classici perché timoroso del loro contenuto pagano; ma poi, quando legge un codice di Guarnerio contenente gli scritti di Efrem monaco, anch'egli si riscatta, perché si mostra almeno capace di entusiasmo: "Ephraim laudat, benedicit, magnificat". I libri sono personificati, quasi degli amici essi stessi, degli ospiti che decidono di ritornare a casa: "Thucidides hospes noster post multos hos dies domum reverti deliberavit"; "redeunt nunc ad te Leo, Ambrosius et Appianus". Presenze costanti, benefiche, che cementano l'amicizia con Guarnerio, destinatario non solo di libri ma anche del dono di due salmoni, venuti direttamente dalla Russia, e designato ad essere padrino del primogenito del patrizio (128).

Un aspetto importante del nuovo atteggiamento nei confronti degli studi è la riscoperta della cultura greca. Nel secondo Trecento erano passati per Venezia o vi avevano soggiornato numerosi dotti bizantini, ma la loro presenza non aveva lasciato traccia alcuna. A partire dal secondo decennio del Quattrocento il mutato orientamento culturale fa sì che ci si appassioni alla grecità soprattutto antica, che se ne ricerchino i documenti scritti, che ci si sforzi di apprendere la lingua in cui erano stati espressi tanti capolavori, della cui importanza per la storia umana ci si andava rendendo consapevoli. È ancora Guarino a farsi pioniere di questa impresa spirituale: per apprendere il greco si reca a Costantinopoli, nel 1404, al seguito del bailo Paolo Zane, e vi rimane per circa cinque anni, ospite nella casa dei Crisolora. Al suo rientro egli è in grado di incominciare l'insegnamento del greco, avendo come discepoli il Barbaro e il Giustinian. Ai due dotatissimi allievi si offrirà l'occasione di far mostra con successo della loro competenza, nel 1423, con l'imperatore bizantino Giovanni VIII in persona, durante un soggiorno di questi in Venezia. Sintomo eloquente del nuovo clima, il venerando ammiraglio Carlo Zeno (1334-1418), vero eroe nazionale, si dedica, ottantenne, allo studio della grecità antica, con un amore e una devozione che Francesco Barbaro rievoca con parole commosse. Egli conosceva certo il greco moderno, avendo viaggiato e guerreggiato per anni nel Levante: ma ora si volgeva ai capolavori della classicità. Tale è il suo amore per la cultura che, quando attorno al 1407 si reca a Gerusalemme per mare, porta i libri con sé, e li perde nel naufragio della sua galera.

Attorno a Guarino e ai suoi due grandi allievi patrizi, il Barbaro e il Giustinian, ruota interamente la rinascita dell'interesse per la grecità. Ad essa partecipano alcuni membri di una classe professionalmente interessata alla scrittura e in contatto col mondo greco per ragioni d'ufficio: quella dei funzionari della cancelleria. Non tutti, ché anzi proprio dalla cancelleria provengono forti resistenze alla tendenza filo-greca: quell'ambiente cui si doveva la prima diffusione dell'umanesimo a Venezia rimaneva attaccato alla tradizione latina e contestava l'utilità dello studio del greco. Ciò almeno valeva per quei membri della cancelleria che si riconoscevano nelle posizioni espresse dal cancelliere di Creta Lorenzo de Monacis († 1438) in una perduta lettera al Barbaro: dalla risposta di questi si ricava che il cancelliere, che pure conosceva bene Guarino, il Bruni e gli altri entusiasti della grecità, e che inoltre si serviva di fonti bizantine per le sue opere storiche, sosteneva che quegli studi erano una perdita di tempo (129). Altri invece dello stesso ambiente sono di diverso parere e seguono Guarino, il Barbaro e il Giustinian, entrando nel loro circolo, collaborando ai loro studi.

Personalità di rilievo è Francesco Bracco, compagno di studi di Guarino, amico sin dal 1414 di Francesco Barbaro, che lo dice, in una lettera del 1418, "mihi familiarissimum": gli aveva affidato anche il compito di fungere da tramite con Camillo da Ferrara, incaricato quest'ultimo di trovare libri greci, preferibilmente sacri, nella città padana. Amico di Guarino è anche Ludovico Bevazzano, che riceve in dono da lui un codice di s. Basilio. Bartolomeo Fasolo è intento nel 1422 a trascrivere un Apuleio (e, nel 1464, lascerà in morte un breviario, scritto di sua mano, a un ecclesiastico, Agostino della Carità). Michele Salvatico, notaio presso i capi sestiere, copia numerosi codici per Francesco Barbaro. Ruggero Cataldo, notaio, attivo fra il 1420 e il 1461, è allievo e corrispondente di Guarino: per lui cerca anche libri sul mercato veneziano (lettere di s. Girolamo, opere di Cicerone). È anche amico del Barbaro, che nel 1443 lo prega di restituirgli un codice di s. Girolamo. Più giovane è Sebastiano Borsa, protetto di Leonardo Giustinian e di suo figlio Bernardo, amico di Niccolò Sagundino e di Marco, Pietro e Paolo Aurelio, tutti membri di rilievo della cancelleria: cancelliere a Modone dal 1434 al 1455, doveva conoscere il greco per "roborar le carte de griexi" nel suo ufficio.

La familiarità di questi funzionari con il greco e con la scrittura bizantina, in particolare con quella usata negli atti ufficiali, li porta ad elaborare una scrittura particolare, un'antiqua influenzata da usi grafici bizantini: una scrittura che si ritrova non solo in atti di cancelleria o in manoscritti, ma anche in epigrafi dell'epoca, a prova dell'importanza del fatto culturale della rinascita degli studi greci (130).

Un'altra categoria pienamente partecipe del movimento umanistico è quella dei medici. Niccolò Leonardi (1370-1452 ca.) possedeva una biblioteca anche greca: fra i copisti da lui impiegati vi era, sembra, anche Giorgio Trapezunzio. Era particolarmente vicino a Francesco Barbaro e a Pietro Tomasi. Della biblioteca di quest'ultimo si è detto. Giannino Corradini era molto legato al Barbaro, che dichiara di aver ricevuto in dono un prezioso Catullo "a cive veneto Ianino Coradino suo" (131).

Ma il maggior numero di biblioteche di impronta umanistica si ritrova nell'ambito dell'élite patrizia. Zaccaria Trevisan desiderava imparare il greco antico durante il suo soggiorno come capitano a Candia (1403-1404), ma non sembra vi riuscisse pienamente; si procurò peraltro traduzioni latine di opere greche che gli stavano a cuore, come la Vita di Temistocle di Plutarco, tradotta da Guarino, che gli dedicò la sua versione, e la Repubblica di Platone, che ebbe dal Crisolora: scelta indicativa degli interessi di un patrizio vivamente partecipe della cosa pubblica. Anche Pietro Marcello (1376-1428) si applicò allo studio del greco sotto la guida di Giorgio Trapezunzio, ma preferì procurarsi le traduzioni latine eseguite dai discepoli del Crisolora: fu anzi fra i primi ad averle e le diffuse fra i dotti, al pari delle Epistulae ad Atticum di Cicerone, che fece conoscere a Venezia. Pietro Miani possedeva codici latini e anche greci, che lasciò al figlio e ai nipoti con la proibizione di venderli per almeno quindici anni. Fra i codici greci, Tucidide, Plotino, Plutarco, Senofonte, la Vita Homeri attribuita a Erodoto, un salterio (132).

Cospicua era la raccolta di codici greci di Francesco Barbaro: a quelli che si trovavano nel Settecento a S. Michele di Murano (la Retorica di Aristotele, Basilio super Genesim, Cirillo, Galeno, gli Erotemata del Moscopulo, l'Isagoge di Porfirio ad Aristotele, i Dialoghi di Platone, una raccolta di trattati musicali) sono da aggiungere molti altri codici, come quelli contenenti Luciano, Aristofane, una silloge di poeti (Luciano, Esiodo, Pindaro, Euripide, Licofrone), Omero, Tucidide, Senofonte, Gemisto Pletone, e probabilmente altri di cui non si è ancora trovata notizia. Accanto ai codici greci, ve n'erano numerosi di latini, a cominciare da Aristotele (133).

Anche Leonardo Giustinian aveva codici greci, come quella copia della Vita di Temistocle di Plutarco che inviò a Guarino. Nel 1415 invia un "indiculus" della sua biblioteca ad Ambrogio Traversari. Rimangono alcuni codici con sue note di possesso: contengono Eliano e Aristotele, Psello e Teodoro Abu-Qurra, Libanio, Plotino e Massimo Tirio. Si sa che possedeva anche Diogene Laerzio. Nel 1416 il Traversari si informa se sono arrivati da Cipro i codici che Leonardo attendeva (134).

Leonardo ricorreva naturalmente agli amici, anzitutto a Guarino, che gli scrive dolendosi di non potergli subito procurare la Repubblica di Platone che desiderava (135); per gli acquisti di opere di letteratura in volgare si rifornisce a Firenze, ove ha un altro amico illustre, il già nominato Traversari. Il tramite con il grande camaldolese è Mariotto Nori, un fiorentino che si recava spesso a Venezia come incaricato di affari degli Strozzi o di altri o come segretario d'ambasciata. "Mariottus ipse noster", scrive il Traversari nel 1429, "aperuit mihi de libris sacris nostralis idiomatis quid cupias, quid velis" (136). Forse più che inviare una lista precisa di desiderata Leonardo avrà fatto sapere all'amico il genere di composizioni che desiderava acquisire: e il Traversari promette di soddisfarne i desideri con abbondanza e subito. Poco dopo fa seguito per rassicurarlo: un gran numero di libri in volgare, sacri ma anche profani, era in arrivo, al più presto gliene avrebbe inviato un elenco. L'"index" è perduto, ma in una lettera successiva il Traversari dà un ampio resoconto di quel che aveva fatto per compiacere l'amico: non gli era riuscito di avere il Testamentum vetus vulgariter scriptum: un amico che glielo aveva fatto sperare si era volatilizzato. Doveva trattarsi di un libro di difficile reperimento. Altri due volumi, la Medicina cordis e la Mystica Theologia, erano invece a portata di mano: li aveva un buon amico, e sicuramente li avrebbe fatti pagar poco. Non gli era riuscito di trovare in alcun modo, nemmeno pagando, la Summa confessorum.

In una successiva lettera il camaldolese fornisce nuove notizie sul progresso delle trattative: presto avrebbe avuto un ottimo Textus sententiarum; aveva anche trovato la Summa de casibus conscientiae, costava 15 fiorini ed era a disposizione del Giustinian, se era d'accordo. Quanto al volume De vitis sanctorum patrum, poteva procurarlo: ma costava troppo, da vergognarsi. "Piget pretiis nimis magni": ma i libri in volgare costavano più cari di quelli in latino. Tale scarsità si spiega col fatto che la produzione di libri in volgare era opera, in particolare a Firenze, di scribi non professionisti, che li producevano per l'uso proprio e dei famigliari, non per la vendita (137).

Dalla accurata relazione del Traversari apprendiamo così alcuni dei desideri di Leonardo: ma forse egli avrà chiesto anche altro. Sembra naturale pensare che gli siano giunte da Firenze le Laudi di Jacopone e di altri poeti toscani, prezioso alimento per la sua musa religiosa (138).

Da parte sua, anche il Traversari manifesta a Leonardo dei desideri in tema di libri. Ripetutamente gli chiede l'invio di qualcuna delle sue laudi, "cum melodiis suis". Un'altra volta ricorre all'amico perché gli venga inviata, naturalmente a pagamento, una libbra di colore azzurro: dev'essere di alta qualità, deve servire all'ornamento sapiente e raffinato dei libri del monastero (139). Il libro, anche nella sua confezione e non solo nel contenuto, è sempre al centro delle cure e dei pensieri dell'élite umanistica. È sempre Leonardo a procurare a Guarino buone penne, comperate "con diligenza" addirittura a Creta (140): ed egli si preoccupa che non siano all'altezza di quello che Guarino si attendeva, e assicura l'amico di aver fatto il possibile, mostrando di tenere moltissimo a far buona figura con queste forniture di materiale scrittorio.

I libri danno origine ad un'intensa corrispondenza, i prestiti producono una fioritura di copie che diffondono i testi più amati e insieme quelli meno noti e quelli tratti dall'oblio, rinvenuti soprattutto nelle biblioteche monastiche. Poggio ritrova nel 1415 due Orazioni di Cicerone: già pochi mesi dopo il Barbaro le può leggere a Firenze. Nel 1417 al Concilio di Costanza Poggio fa le sue scoperte più sensazionali: ne dà subito notizia al Barbaro, che gli scrive entusiasta. Pochi anni dopo il Barbaro proverà a sua volta l'ebbrezza della scoperta, quando gli apparirà a Grottaferrata un piccolo fondo di codici greci (141). Durante il Concilio di Basilea Gregorio Correr si procura una copia del De providentia Dei di Salviano (142). Pietro Donà rinviene un codice contenente tredici preziosi opuscoli "di carattere geografico topografico antiquario" (143).

Oltre ai grandi monasteri del Reno, fonte senza pari di codici latini, l'altra grande sorgente di scoperte è Costantinopoli, con le sue biblioteche che sembrano inesauribili. Non si ha peraltro notizia di ritrovamenti sensazionali da parte di collezionisti veneziani: nulla di paragonabile agli straordinari acquisti di Giovanni Aurispa, e nemmeno a quelli di Francesco Filelfo e di Guarino; ma un flusso costante di libri greci andava ad alimentare le raccolte della città. Un'altra fonte di manoscritti è Creta. Marco Lippomano, duca a Candia, mette a frutto il soggiorno facendosi trascrivere Luciano, la Meccanica di Aristotele e il De operatione daemonum di Psello (144). Anche da Cipro giungono codici: è là che si approvvigiona Leonardo Giustinian.

Naturalmente nel commercio dei codici greci i maggiori intermediari sono i Greci, o i Greco-Veneti. Il Basilio del Barbaro gli proviene da Demetrio Filomati; il Galeno da Giano Podocataro (145). Nel 1420 il Traversari si attendeva grandi cose dalla venuta a Venezia di un membro della famiglia imperiale bizantina che si diceva avesse seco gran copia di libri: ma poi non sembra vi fosse un seguito (146).

Le missioni diplomatiche e militari e gli incarichi di governo in Oriente rappresenteranno sino alla fine della Repubblica la grande occasione, per i collezionisti, di buoni acquisti: di codici antichi, ma anche di opere d'arte e di oggetti archeologici. Il recupero dell'antico non coinvolge soltanto il libro: nel desiderio di ritrovare lo spirito dell'antichità, di riappropriarsi della sua luce, l'umanista ne ricerca con devozione ogni testimonianza: statue, monete, oggetti.

Un animato quadro del mondo dei nobili umanisti veneziani ci viene offerto dal generale dei Camaldolesi Ambrogio Traversari, in visita a Venezia nei mesi di maggio e giugno 1433 (147). L'accoglienza in città è calorosissima: vengono a festeggiarlo Francesco Barbaro, Leonardo Giustinian e molti altri giovani nobili. E continuano a venire al monastero ove alloggia, S. Michele di Murano, in molti, ogni giorno, con tale devozione da metterlo quasi in imbarazzo. Viene anche il grande scopritore di epigrafi e di reliquie dell'antico, l'esploratore archeologico dell'Oriente, Ciriaco d'Ancona, che gli mostra antiche scritte e monete d'oro e d'argento. Giunge poi un medico di gran fama, che gli parla dei codici che possiede, mettendo al Traversari una gran voglia di vederli; ed è anche impaziente di vedere quelli degli amici Barbaro e Giustinian.

Pochi giorni dopo il medico, che altri non è che Pietro Tomasi da noi già incontrato, gli porta in visione i suoi codici greci; il Barbaro gli manda in dono due manoscritti; Giorgio Trapezunzio ottiene da lui una commendatizia. Ma il soggiorno non gli offre solo delizie intellettuali: deve anche occuparsi di controversie, beghe, accuse, le solite miserie della vita fratesca. Nel vicino monastero di S. Mattia le liti fra il priore e alcuni monaci erano giunte al punto che si erano snudate le spade e i religiosi correvano qua e là armati di bastoni. Ma a dargli consolazione c'erano sempre gli amici umanisti. Fantino Dandolo si intrattiene con lui un'intera giornata: lo accompagna a vedere i luoghi santi, lo invita a pranzo, indi si reca con lui a visitare due biblioteche private: anzitutto quella di Giovanni Corner, vicino di casa del Dandolo. Il camaldolese ammira la residenza "splendidissime instructam" e la biblioteca, che giudica "non ignobilem": non vi trova nulla di nuovo, ma "multa tamen pulchra ornatissimaque volumina, tum sacra tum profana". Visitano poi la biblioteca del ricco medico Pietro Tomasi. Si trattava di un luminare della medicina, ma anche di una persona cortesissima ("vir humanissimus" lo dice il Traversari) e colta: non era ancora del tutto padrone del greco, ma possedeva vari codici interessanti, fra i quali il Traversari nota Paolo di Egina, Galeno, i trattati musicali di Tolomeo e di Plutarco col commento di Porfirio a Tolomeo, e i Moralia di Plutarco in due volumi. Alla sua morte, nel 1458, si troveranno centotrentadue libri che verranno - come si è detto - venduti all'asta: soprattutto testi di medicina, ma non libri greci, salvo uno, purtroppo non descritto.

Il Traversari non riesce invece a vedere le biblioteche degli amici Barbaro e Giustinian, perché sono occupatissimi "in Reipublicae negotiis"; per i patrizi gli impegni pubblici hanno la precedenza su ogni altro, anche se la visita di un personaggio della levatura del Traversari sarebbe stato per loro un avvenimento gratissimo. Non fa in tempo nemmeno ad incontrare il vescovo di Vicenza Pietro Miani, morto pochi giorni prima, ma spera di poter vedere il magnifico salterio greco che quegli possedeva. Quanto a Fantino Dandolo (1379-1459), che gli dedica volentieri tanto tempo, la spiegazione di tale libertà è fornita dal Traversari stesso: egli si consacrava ormai all'esercizio "sacrarum litterarum", dopo una vita attivissima, trascorsa al servizio prima della Repubblica, poi della Chiesa.

Poco dopo, recatosi a Padova, vi trova presso un frate dalmata, Marino, sette epistole a lui ignote di s. Antonio; e presso un altro patrizio veneziano, Ermolao Barbaro (il vecchio, 1410-1471), figlio di un fratello di Francesco, Zaccaria, fa una scoperta che lo entusiasma: un codice contenente un autore ancora non noto a Firenze, Cornelio Nepote.

Un altro incontro interessante per il dotto monaco è quello con Benedetto Dandolo. Questi si duole di non aver saputo in anticipo del suo arrivo; se ne fosse stato informato si sarebbe adoperato in tempo perché fossero mostrate al Traversari le molte monete antiche che si trovavano a Venezia: ve n'erano infatti "apud plerosque nobilium". Dal canto suo Benedetto gli mostra varie monete antiche, alcune delle quali d'oro, che aveva raccolto nei suoi viaggi (148). Il collezionismo antiquario era dunque già diffuso: in esso eccellerà, qualche anno dopo, Pietro Barbo, che nel 1457 possedeva quarantasette bronzi antichi, duecentoventisette cammei, vasi, avori, monete, pietre incise: egli continuerà ad occuparsi con passione della sua raccolta anche dopo l'ascesa al pontificato col nome di Paolo II (1464-1471) (149).

Un quadro sereno della vita ideale del patrizio umanista ci è offerta da Cristoforo Buondelmonti, il colto prete fiorentino che percorse l'Egeo raccogliendo manoscritti e oggetti antichi. Egli è a Candia fra il 1415 e il 1418 e vi incontra un veneziano, Niccolò Corner. Questi viveva solo, traendo diletto dalla lettura dei classici: leggeva spesso anche Dante ("et Dantem in manibus aliquando tenet"). Egli ornava il suo giardino "sculpturis marmoreis antiquissimis" che trovava nella campagna circostante e poneva su appositi piedistalli. Nel giardino c'era anche una fonte viva che sgorgava dalla bocca di una testa antica, a destra e a sinistra della quale erano posti i busti di Marc'Antonio e di Pompeo. Quel giardino, nota il Buondelmonti, era simile al paradiso (150).

Certo il Corner poteva permettersi una vita così serena perché viveva in una remota colonia, lungi dagli affari e dal potere. Per i nobili umanisti rimasti in patria la partecipazione assorbente all'attività di governo lasciava poco spazio agli otia. Il che non significa, naturalmente, che non si concedessero dei periodi di riposo: Zaccaria Contarini passava parecchio tempo nella quiete dei Colli Euganei, ove ospitò nel 1435 Ciriaco d'Ancona, senza, peraltro, trascurare gli affari con Costantinopoli (151).

Perché, giova ripeterlo, questi gentiluomini sono umanisti, statisti, dotti, ma sono professionalmente mercanti: commercianti su scala internazionale, imprenditori, banchieri. Il patrizio deve sapersi ben condurre negli affari pubblici e in quelli privati, dev'essere "publicis privatisque negociis accomodatissimus" (152). Persino Leonardo Giustinian esercitava attivamente la mercatura, coi 1.000 ducati che il padre gli aveva lasciato "per merchadezar"; e anche suo figlio Bernardo si occupava attivamente di forniture di grano alla Repubblica e di altri traffici, dedicandovi anzi, secondo il Filelfo, troppo tempo; e intanto scriveva il De origine urbis Venetiarum, testo fondamentale della storiografia umanistica, le numerose orazioni e le altre opere e svolgeva un'intensa attività diplomatica e politica (153). In altri l'impegno mercantile era dominante, ma non sopprimeva l'interesse per la cultura e per il libro.

Esemplare il caso di Guglielmo Querini, che è stato definito il tipico rappresentante della sua classe sociale, quella dei patrizi di media fortuna (154). Nato intorno al 1400, il Querini ha tre fratelli, tutti impegnati nei commerci a Trebisonda e a Costantinopoli; egli invece resta a Venezia, dirigendo la sua azienda e percorrendo un onorevole "cursus honorum" (morirà nel 1468). Mentre si adopera ad inviare panni in Barbaria, "veli luzenti" in Oriente, spezie a Londra, rubini e diamanti in Bosnia, al centro di una rete di affari che si estende sino a Siviglia e sino a Trebisonda, si occupa di libri. E di libri doveva interessarsi anche il fratello Bartolomeo, che muore nel 1437 a Costantinopoli. Dei volumi da lui lasciati si preoccupa Guglielmo, che scrive ai suoi rappresentanti in quella città: "Disive per altre mie de molti libri et bei autori aveva Bartolamio; piaquave mandarmeli e sel ne foxe romaxo algun in man de persona, fate de averlo, e sel fosse de qui venuto, avixemene, et che libro l'è, aziò el no se perda". I libri erano dunque molti, belli e di buoni autori; forse Bartolomeo si era fatto consigliare anche da Francesco Filelfo, cui l'altro fratello Taddeo aveva fatto un consistente prestito che i Querini, malgrado ogni sforzo anche per via diplomatica, non riusciranno mai a ricuperare.

Quali fossero i gusti di Guglielmo in fatto di libri si ricava da una lettera ch'egli indirizza nel 1443 a Febo Capella, un erudito membro del ceto cittadinesco che si trovava a Milano come segretario di Francesco Barbaro inviato come ambasciatore alla corte viscontea: egli chiede che il Capella gli procuri "le pistole de s. Jeronimo, e quanto le serano più in numero tanto serò più contento, item le Philipice, item uno Latancio, item le oration de Tito Livio separade da le Deche". Interessi dunque ben precisi, e nettamente orientati in senso umanistico. Di più: li preferirebbe scritti con la nuova grafia umanistica. "Questi volumi se fossero de letera antiqua seria al gusto mio"; se peraltro non fosse possibile averne "salvo de nostrana", egli li vorrebbe ugualmente, ma con precise cautele: il Capella dovrà prima controllare come il copista scrive e non impegnarsi sino a che non avrà visto; poi dovrà far vedere "se i sono coreti". Se non lo fossero, egli non spenderebbe un soldo, precisa; e specifica anche che li vuole "in carta bergamena". Una committenza dunque competente, attenta, precisa ad ogni particolare: un atteggiamento che si ritrova anche in Leonardo Sanudo, quando dà le sue istruzioni ai miniatori, o in quell'anonimo bibliofilo, cui si è accennato, che si fa copiare le Quaestiones di Giovanni di Gand: egli interviene continuamente, sorvegliando lo svolgimento del lavoro, pretendendo precise promesse dallo scriba (un maestro Benedetto frate minore) circa la forma e lo spessore dei caratteri e altri particolari, annotando diligentemente di giorno in giorno il progredire dell'opera sino alla legatura in tavole "cum fundello coriali" e all'ornamentazione dei piatti. Non si tratta certo di un caso isolato: analoghe disposizioni si trovano in altre città e in altri documenti del tempo: non ci sembra azzardato tuttavia ritrovare in questa minuzia quasi confinante con la pignoleria, in questa attenzione al particolare, in questa aspirazione ad un lavoro pienamente rispondente ai bisogni e al gusto del committente, lo spirito concreto del mercante: quello spirito metodico e preciso che presiede alla tenuta dei libri dei conti, all'approntamento delle forniture, alla riscossione dei crediti e all'adempimento dei debiti, alla corrispondenza commerciale.

La stessa naturalezza nell'occuparsi del libro come oggetto rientrante nella vita quotidiana, che si presta e si riceve a prestito, si compra e si vende nel corso di transazioni commerciali non dissimili da quelle riguardanti altre merci, si nota in un altro personaggio tipico di questi anni, dotto, bizzarro, geniale, Lauro Quirini. Dal 1452 alla morte (1475-1479) vive a Candia, commerciando in allume, vino, terre, panni, e anche libri. Ricerca manoscritti per Bessarione assieme a Michele Apostolis, che copia codici anche per lui; acquista un Laerzio e un Cornuto per Maffio Valaresso, gli invia i commentarii di Vittorino "in artem veterem" di Asconio Pediano e un Donato così prezioso che il Valaresso non si decide a restituirlo, per non doverlo "inconsulte pelagi committere periculo" (quest'ultimo codice era stato evidentemente non venduto, ma prestato: un prestito addirittura dall'oltremare). Il libro si inserisce dunque in un'attività che è prevalentemente pratica e commerciale, in un clima che favorirà lo straordinario sviluppo del commercio librario nell'era della stampa (155).

Quali fossero le dimensioni delle biblioteche umanistiche del periodo che andiamo esaminando non è facile dire, in mancanza di inventari. Il colto medico Tomasi aveva centotrentadue libri. Il vescovo di Padova Pietro Donato, o Donà (1380-1447), ne lascia molti di più: l'inventario redatto da lui stesso attorno al 1443 consta di ben trecentocinquantotto voci. Si trattava peraltro di una raccolta eccezionale, che l'illustre diplomatico aveva cominciato per sé (nel 1421 possedeva già vari manoscritti) ma che poi aveva certo proseguito con finalità mecenatesche. Che egli non pensasse soltanto ai propri bisogni culturali ma anche alla creazione di un'istituzione culturale durevole si ricava chiaramente dalla destinazione ch'egli dà alla biblioteca: nel 1445 dispone la fondazione di un collegio universitario che si chiamerà Domus sapientiae, destinato ad accogliere venti studenti poveri avviati allo studio del diritto canonico. I libri di diritto canonico e civile, quelli di filosofia e quelli religiosi, con l'eccezione di testi liturgici, destinati a varie istituzioni, dovevano andare alla Domus, cui toccava anche la Bibbia grande "de littera antiqua" con altri libri biblici glossati per la lettura "in mensa". La disposizione fu poi mutata e tutto andò ad una costituenda Certosa patavina.

La raccolta del Donà è quindi qualche cosa di più della biblioteca di un semplice privato: è il primo esempio di quelle grandi biblioteche sorte con finalità mecenatesche, che si moltiplicheranno nel Cinquecento (156). Essa comprende opere di argomento biblico e patristico, filosofia, medicina, diritto, liturgia. Vi sono numerosi classici latini; vi è un solo libro greco, un salterio greco-latino, un solo libro francese, due italiani: la Divina Commedia e il Canzoniere del Petrarca. Biblioteca austera come si addice a un prelato, che per di più ha intenzione di destinare la raccolta a giovani da educare o a monaci della Certosa. Per la stessa ragione egli non si preoccupa se vi sono duplicati: anzi lo ritiene opportuno, come esplicitamente dichiara. La sua volontà di fare della sua biblioteca uno strumento utile per l'istruzione dei giovani determina anche un'altra disposizione: i libri preziosi dovevano essere venduti e il ricavato utilizzato per acquistare libri di minor prezzo utili agli studi.

Jacopo Zeno (circa 1418-1481), vescovo di Padova, possedeva una biblioteca di notevoli dimensioni, se è vero quanto asserisce il suo successore Pietro Foscari: i trecentosessantuno volumi rimasti erano meno di un terzo della sua raccolta. Gli altri purtroppo erano andati dispersi nel saccheggio del palazzo vescovile, avvenuto dopo la morte improvvisa dello Zeno, che non aveva avuto il tempo di mettere al sicuro la biblioteca e nemmeno di disporne adeguatamente: vi provvedeva, ma tardivamente, il Foscari. Dei volumi, di cui rimane l'inventario redatto per ordine di quest'ultimo, duecentododici sono manoscritti, centoquarantanove a stampa. Ricchissima la parte giuridica, com'è naturale per un alto prelato con un'ampia diocesi da amministrare: centoquarantatré volumi. Ricca del pari la parte religiosa e teologica, meno quella filosofica, che comprende, oltre ad Aristotele, il Burley e Paolo Veneto. Settanta voci sono dedicate ai classici, greci (ma in traduzione latina) e latini. Due sole le opere in volgare: la Divina Commedia e una traduzione di Giovenale. Con quei volumi il Foscari, interpretando la volontà dello Zeno, faceva sorgere una biblioteca pubblica presso la cattedrale di Padova, aperta agli ecclesiastici, perché migliorassero la loro cultura, e a tutti i cittadini che si dilettassero di lettere (157).

Anche Jacopo Zeno aveva dunque condiviso il nobile desiderio del Petrarca, quello di dar vita con la propria raccolta ad una pubblica biblioteca: un'idea che aveva avuto un'eco profonda nello spirito degli umanisti. Palla Strozzi aveva coltivato un simile progetto senza riuscirvi perché esiliato da Cosimo; questi invece l'aveva realizzato nel 1441 grazie ai codici del Niccoli, assicurati al convento domenicano di S. Marco in Firenze garantendone l'uso pubblico. Anche Guarnerio d'Artegna istituisce una raccolta pubblica con i suoi codici, testando nel 1466; altrettanto fa a Rimini nel 1475 Roberto Valturio (158). Era un progetto che molti nutrivano, anche persone di condizione non particolarmente elevata: come quel prete Antonio da Sambrino, cappellano a S. Gregorio in Venezia, che nel 1478 lascia la sua biblioteca, una decina di libri in tutto, alla chiesa di S. Vincenzo di Ognento. Le sue disposizioni sono precise: i libri devono essere "posti in qualche bancho"; devono essere "inferati cum le catignele"; li devono poter leggere "sì preti come diaconi et altri che haverà piacer de studiar". Si tratta di opere religiose e giuridiche di una certa mole, alcune manoscritte e altre a stampa: la raccolta di un ecclesiastico, che condivideva con gli umanisti la nobile ambizione di durare dopo la morte con un'istituzione culturale destinata a giovare agli studi (159).

Non pochi dei patrizi umanisti che si sono incontrati avevano abbracciato lo stato ecclesiastico, anche per aver l'agio - come si è detto - di dedicarsi agli studi. Altri invece non rinunciavano al servizio della Repubblica, giungendo ad alte cariche nella diplomazia e nel governo. Zaccaria Barbaro (1422-1492), figlio del grande Francesco, terminò la carriera come procuratore di S. Marco. Raccoglitore di manoscritti, si interessava anche alle iscrizioni antiche. Poco prima della morte ebbe la gioia di una visita del Poliziano, cui affidò un "bellissimo vaso di terra antiquissimo" perché lo recasse in dono al Magnifico Lorenzo (160). Domenico Morosini (1417-1509), autore di un famoso trattato sulla costituzione della Repubblica veneziana, anch'egli procuratore di S. Marco, si preoccupa di impedire la dispersione della sua biblioteca, disponendone la conservazione a cura degli eredi. Un altro Morosini, Barbon, torna nel 1453 dall'ambasceria di Napoli recando seco la traduzione di Platone fatta da Giorgio Trapezunzio, dedicata a Francesco Barbaro (161). Niccolò da Canal, destinato a una grande carriera diplomatica culminata con la nomina a capitano generale da mar per meriti esclusivamente diplomatici e culturali e non militari (nomina rivelatasi infelice: la poca pratica delle cose di mare lo rese incerto ed esitante, impedendogli un tempestivo intervento in difesa di Negroponte, nel 1470, con tragiche conseguenze), era così amante delle lettere che volle recare seco nella spedizione in Oriente la Ciropedia di Senofonte, per averne guida e ammaestramento nell'impresa; per questo chiese al Filelfo di procurargli una copia della sua traduzione di quell'opera e il Filelfo lo accontentò, dedicandogliela. Sulla galera generalizia il Canal volle seco un umanista da lui protetto, Paolo Marso, con l'incarico di narrare in versi latini le vicende della guerra (162).

Un altro eminente patrizio, Jacopo Antonio Marcello (circa 1398-1464), fratello dell'assai più anziano Pietro (che abbiamo già incontrato fra i primi umanisti veneziani, divulgatore a Venezia delle Epistulae ad Atticum di Cicerone), rivela un gusto squisito nella scelta dei suoi miniatori: due codici sono decorati per lui forse dallo stesso Andrea Mantegna ed egli ne fa dono a Giovanni Cossa, ministro del re Renato d'Angiò, e al re stesso, noto bibliofilo e collezionista. È probabile che tali doni avessero anche lo scopo di rafforzare le buone relazioni tra il sovrano e Venezia: un distico celato da un crittogramma, in uno dei due codici, sembra alludere ad una "speranza" che avrebbe reso "non ingrata" la "patria" del fastoso donatore. Il Marcello usa dunque il libro come veicolo di un messaggio culturale ma insieme politico, nell'interesse della Repubblica (163).

Un diplomatico non meno eminente, Bernardo Giustinian, autore del capolavoro della storiografia umanistica veneziana, il De origine urbis Venetiarum, non trascura l'occasione di acquistare libri durante le missioni diplomatiche: così a Parigi, nel 1462, compera da un libraio un buon codice dell'Iliade tradotta da Lorenzo Valla; ne consegnerà poi una trascrizione ad uno stampatore di Brescia, che la pubblicherà nel 1474 (164).

Quanto a Lodovico Foscarini, del suo amore per i libri si è detto: alla sua morte egli lascia la biblioteca al figlio Vettor purché voglia studiare: in caso contrario ne autorizza la vendita. Fanno eccezione peraltro alcuni pezzi, che non possono essere in alcun modo alienati, ma devono restare nella famiglia: i due libri contenenti le lettere del Foscarini; otto libri di "correctiones" a varie "sententiae" contenute nei libri della biblioteca; un libro di pareri di Francesco Montagnana; un libro in cui "extractae sunt orationes Livii" (165). Si tratta evidentemente di volumi che erano il frutto delle fatiche erudite del Foscarini, estratti, note, commenti: ed egli vi teneva particolarmente, forse anche perché aveva raccolto quelle massime e quei testi avendo in vista l'attività politica e diplomatica, che sperava sarebbe stata proseguita dai discendenti.

Un mondo, questo della diplomazia, in cui la cultura aveva un'importanza centrale, perché la qualità letteraria di un'orazione poteva influire sulle trattative e in ogni caso giovava al prestigio della potenza accreditante e a quello personale dell'orator (ché tale è il nome che significativamente vien dato all'ambasciatore in età umanistica). Non meraviglia quindi di trovare uomini di grande cultura tra i diplomatici del ceto cittadinesco: Marco Aurelio, segretario ducale, incaricato di missioni diplomatiche a Roma e altrove, che incontreremo come membro della cerchia di Girolamo Molin; Febo Capella, segretario dell'ambasceria veneziana a Milano nel 1443 (a lui scrive Girolamo Querini per ottenere i libri che gli interessano, come si è detto sopra), corrispondente veneziano del Ficino, che gli manda una sua opera; Niccolò Sagundino, originario di Negroponte, più volte incaricato di missioni in Oriente, a Napoli e a Roma, grande amico dell'Aurelio, cui procura da Napoli codici latini e greci. La sua biblioteca subì una tragica sorte: perì nel 1460 in un naufragio in cui trovarono la morte la moglie, due figli e una figlia di lui (166). Alla stessa cerchia appartenevano anche il riminese Pietro Perleone e il conterraneo Filippo Morandi, entrambi docenti alla Scuola di S. Marco: personaggi tutti per i quali il libro era strumento per l'attività quotidiana, nella diplomazia o nell'insegnamento.

Al ceto cittadinesco apparteneva anche un eminente ecclesiastico, Domenico Domenichi, vescovo di Torcello, la cui raccolta sembra fosse paragonabile per importanza a quella di Jacopo Zeno: alla sua morte finì dispersa. Conteneva opere di teologia, filosofia, medicina, diritto e testi classici, fra cui le Philippicae che gli erano costate, egli annota, 5 ducati. Un prezzo considerevole, che tuttavia egli aveva pagato volentieri, in ricordo del suo maestro nell'arte oratoria, Pietro Tomasi, dal quale egli le aveva ascoltate "magna cum voluptate" in gioventù. Il colto medico umanista che abbiamo già incontrato amava dunque leggere ai discepoli e agli amici le opere della grande oratoria antica. La lettura ad alta voce dei classici nei circoli dotti faceva così riscontro alla lettura comune di testi religiosi, di romanzi cavallereschi, di poesie e di notizie che certo aveva luogo nell'ambito della famiglia; anche se ormai la lettura silenziosa era divenuta la regola, almeno per i lettori cui lo scritto era più familiare (167).

Un altro cittadino veneziano, Giovanni Marcanova (circa 1410-1467), che era amico di Felice Feliciano e partecipe degli interessi archeologici di quel geniale "antiquarius", raccoglieva in quegli stessi anni in quel di Padova una raffinata biblioteca di oltre cinquecento codici, e insieme una collezione di iscrizioni, monete e medaglie (168).

Il prestito

In un mondo in cui il libro di qualità rappresentava un costoso investimento, il prestito assumeva un'importanza vitale nella circolazione del sapere. Come si è visto, i monasteri prestavano libri, soprattutto ad altri istituti religiosi, e altrettanto facevano gli Ordini mendicanti. Talvolta i beneficiari del prestito erano privati, di regola ecclesiastici. Si richiedevano di norma opportune garanzie, come il deposito di un pegno di valore pari o superiore a quello del libro: una disposizione cui si ispirerà anche il Bessarione nel dettare le direttive per l'utilizzo del suo lascito alla Repubblica. Ma la regola non era sempre rispettata, soprattutto se il richiedente era persona di rango e affidabilissima. Così, nel 1455, alla morte del patrizio Marino Contarini, vescovo di Treviso, i canonici di S. Giorgio in Alga rivendicano come propri quindici libri di pregio per un valore complessivo di ben 294 ducati. Si trattava di libri presi a prestito dal vescovo nel 1430, venticinque anni prima, segno della liberalità con cui il prestito era praticato, per di più senza il rilascio di pegni (di cui non è cenno nel documento) (169).

Prestiti di libri avvenivano anche tra privati. Lodovico Gradenigo nel suo testamento del 1372 ricorda di aver avuto a prestito da Guido da Bagnolo le Vite di Svetonio e la quarta deca di Livio De bello macedonico, e di attendere da lui la restituzione di un libro contenente le Declamationes di Seneca e quelle dello pseudo-Quintiliano (170). Si è visto che i maestri di scuola prestavano i loro libri a colleghi, ecclesiastici, suore.

Con l'avvento dell'umanesimo, il prestito assume nei circoli dotti un'intensità ancor maggiore. Nei cultori dell'antico vibra la sensazione inebriante di partecipare alla scoperta di un nuovo mondo: fra coloro che sanno intendere si crea una solidarietà profonda, che si alimenta con le nuove scoperte e si cementa con la circolazione dei testi dati alla luce o tradotti. Fra i patrizi la comune passione rende ancor più saldi i vincoli già esistenti, famigliari, sociali, di interessi politici.

Le lettere del Traversari ci mostrano un continuo movimento di libri tra Firenze e Venezia, come già visto a proposito dei rapporti tra gli scriptoria camaldolesi delle due città: preludio al più intenso flusso che si avrà nell'era della stampa. Ma i libri viaggiano ovunque, in un vorticoso scambio tra umanisti. Andrea Zulian incontra Poggio Bracciolini a Costanza, al Concilio, e ottiene da lui il codice di Asconio Pediano appena scoperto, traendone copia; scambia manoscritti con Guarino e con Barzizza; diffonde a Venezia le scoperte di Guarino; riceve in prestito da un amico di quest'ultimo le lettere di Plinio. Pietro Miani presta a Pier Paolo Vergerio un Plutarco e un Tucidide, a Leonardo Bruni codici di Plutarco, Tucidide e Senofonte. Giovanni Corner dà a copiare il suo Plinio a Gasparino Barzizza, che, a sua volta, corregge un codice del De oratore di Cicerone che il Corner possedeva (171). Francesco Barbaro presta al Corner un Lattanzio, che il camaldolese promette di restituire emendato; al cardinale Bessarione presta il suo Tacito (172). Il Traversari a sua volta promette al Barbaro una copia dell'Agesilao di Senofonte; a Marco Lippomano presta un volume di versi greci (173).

Grande è l'impazienza di chi attende i codici: non altrettanto la sollecitudine a restituire. Leonardo Giustinian manda a Guarino i codici con le vite di Cimone e Lucullo da lui "iam dudum expectatos" aggiungendo che gli sono stati restituiti "nescio quo fato", "preter spem": una restituzione così rapida non se l'aspettava. Guarino deve pregare Andrea Zulian che gli restituisca il codice contenente le lettere di Plinio (ritrovate tre anni prima da Guarino stesso a Verona), perché il proprietario lo reclama (174).

Così alla morte di Pietro Donà, vescovo di Padova, si trova ch'egli aveva da tempo a prestito due libri, che non aveva restituiti: un Paolo Orosio e un frammento di Plinio. Il prestatore era Palla Strozzi, il grande mercante fiorentino, grecista e mecenate degli studi greci, che aveva fatto della sua biblioteca di Padova, durante il lungo esilio impostogli dai Medici, un centro di irradiazione dell'ellenismo e della nuova cultura. Anch'egli ne faceva godere generosamente gli amici, in particolare veneziani, con cui aveva stretti legami anche d'affari: uno dei suoi figli conduceva a Venezia una banca di proprietà della famiglia. Forse il prezioso Tolomeo di Palla, già appartenuto al Crisolora, fu il modello per le carte di Andrea Bianco (175).

Si prestano volumi propri, ma anche di altri: Leonardo Giustinian manda a Guarino la Vita di Temistocle che aveva avuto da Giovanni Corner; Guarino presta a Flavio Biondo un codice di Cicerone di Andrea Zulian (176).

Si scambiano le riscoperte opere degli antichi, ma anche i lavori recenti, in particolare le traduzioni, per avere pareri e consigli; così nel 1420 il Traversari manda al Barbaro la sua traduzione di Climaco, scusandosi per non aver inviato prima lo scritto, volendolo "melioribus literis trascriptum"; poco dopo ringrazia il Barbaro, che non aveva tardato ad immergersi nella lettura, del suo favorevole giudizio (177). Lo stesso Traversari sollecita Leonardo Giustinian ad inviargli le laudi da lui musicate (178).

Leonardo Giustinian consacra in una formula destinata a grande fortuna la generosa disponibilità a far godere gli amici della sua raccolta: "ἠ βίβλοϚ αὐτή Leonardi Justiniani veneti ἔστιν ἔτι δε ϰαὶ τῶν φίλων αὐτοῦ".

I libri della sua biblioteca non erano suoi soltanto, ma di tutti gli amici: è la prima formulazione dell'ex-libris "et amicorum" reso famoso dal Grolier (179). Non è da meno Francesco Barbaro: al Traversari in visita a Venezia dona addirittura due manoscritti greci, uno con il Libro dei Profeti, l'altro con le Orazioni di Gregorio Nazianzeno (180). "Puoi leggere, sfogliare, rileggere questi libri", avverte Raffaele Zovenzoni rivolto all'ospite ammesso alla biblioteca di casa Vitturi, ammonendolo soltanto che non è lecito asportare fogli da quei "sacra volumina" (vi era evidentemente chi lo faceva) (181).

Lodovico Foscarini, uno dei patrizi più influenti del suo tempo, è, come si è accennato, in relazione sin dai giorni degli studi giovanili all'ateneo patavino con Guarnerio d'Artegna, colto gentiluomo friulano, col quale rinsalda i legami durante un periodo di governo a Udine, come luogotenente della Patria del Friuli. A Guarnerio, che raccoglie libri in grande stile, acquistandoli o facendoli copiare (giungerà ad avere centosettanta codici, che lascerà alla città di S. Daniele), chiede in prestito Tucidide, poi Erodoto e Appiano, che si fa trascrivere, poi i sermoni di Ambrogio e di Leone Magno. A sua volta egli presta a Guarnerio un suo manoscritto con i discorsi di Crisostomo contro gli Ebrei e cerca di procurargli - ma sembra senza successo - un codice di Quintiliano (182).

Che il prestito fosse usuale all'interno di una cerchia di amici, legati da rapporti di reciproca fiducia, non sorprende, dato il prezzo dei libri e la difficoltà di procurarseli; altrettanto avviene a Firenze, nell'ambiente dei colti mercanti (183). Più singolare è che vi sia chi tiene veri e propri registri di prestito, per tener dietro ad una quantità ingente di operazioni. Non si tratta di prestiti isolati, ma di un'azione sistematica, che mira a rendere partecipi della biblioteca del prestante una cerchia abbastanza vasta di amici e di "clientes". Il caso più interessante sinora apparso è quello di Leonardo Sanudo, padre del diarista Marino, che annota una serie di prestiti dal 1455 al 1459 nello stesso registro in cui annota le sue transazioni commerciali, che vanno dai panni al frumento e che vedono impegnati come controparte personaggi del calibro di "ser Bernardo Zustignan fiol de messer Lunardo el procolator", lo storico Bernardo Giustinian. Colpisce la naturalezza con cui il libro e le transazioni ad esso relative (prestiti anzitutto, ma anche istruzioni ai copisti e ai miniatori) si inseriscono nella vita quotidiana del patrizio mercante: tale è infatti Leonardo, per il quale il commercio è l'impegno maggiore in aggiunta alle funzioni di visdomino a Ferrara (il registro riguarda il periodo ferrarese della vita del Sanudo) (184). Nella stessa carta (178v), sotto il titolo "cose date ad altri" sono annotati il prestito di "roxoni et sonaie d'argento" a ser Francesco Sanudo, fratello di Leonardo e padre di Marco, personaggi tutti di frequente menzionati nel registro, di "piadene XXX de legno" a ser Piero Bernardo, di un compasso al predetto Francesco, di "1 libro de san Baxeio et altri libri" allo stesso, di un "Petrarcha" a Marco "so fio" e di altri libri ad altre persone.

Dal tipo di libri che il Sanudo possiede e dà a prestito si vede che non si tratta di un professionista della cultura, ma di un colto amatore. Si trovano libri religiosi: la Bibbia; le Epistole; i Vangeli; o di argomento religioso: Isidoro, De summo bono, Pascasio, De corpore Christi (un'opera sull'eucaristia scritta nel IX secolo da Radberto di Corbie, in religione Pascasio), lo Speculum humanae conditionis (forse l'opera di Rodrigo Sanchez de Arévalo). Vi sono opere di buona condotta morale come il De modo vivendi recte et perfecte, e opere di pietà popolare, come Il transito di s. Iacomo e la leggenda di Iosafat e Barlaam che negli stessi anni stava ricopiando Andrea Vitturi nel suo scriptorium domestico. Al tradizionale gusto patrizio per la letteratura in volgare ci conducono il "Petrarcha", la "Fiameta", e un "libro di chanzon et laudi", di cui purtroppo non ci vien detto l'autore. Ad un gaio e raffinato ambiente nobiliare ci fanno pensare le "chanzoni per liuto e spignola", mentre ci riconducono ad un clima più austero le "Epistole di s. Ieronimo", i "Soliloqui di san Augustin", "un libro de molte coxe con prima le admonition de san Baxeio".

In piena atmosfera umanistica ci portano le "pistole di Tulio", le "oration di Tulio", la "Rhetorica nova di Tulio", Terenzio, "el primo libro de Virgilio", le Metamorfosi di Ovidio e anche le "riegole" di Guarino. Ma non manca il Doctrinale di Alessandro de Villedieu, manuale principe della tradizione medioevale, e un altro testo di scuola usatissimo, il Catholicon del Balbi. Al Medioevo ci riporta anche "Campan, libro in astrologia", certo un'opera dell'astronomo duecentesco Giovanni Campano. Il Doctrinale, preso a prestito dal giovane Marco Sanudo, è "vecchio": un libro di scuola consunto dall'uso di più generazioni.

Non vi sono opere in greco. Di autori greci, oltre a Basilio, vi è Aristotele, col suo De regimine principum; lettura adatta a un patrizio, che deve occuparsi delle cose di governo. Volume quanto mai rappresentativo dell'amore patrizio per la storia della famiglia, il "libro de chà Sanudo"; certo una cronaca delle vicende del casato, che peraltro doveva contenere anche notizie storiche di interesse più vasto se viene chiesta a prestito non solo da membri della famiglia ma anche da amici.

Fra i prestatari, anzitutto i parenti Sanudo: il fratello Francesco, Marco suo figlio, un altro Marco figlio di Matio, Andrea, Beneto; ma anche molti altri patrizi, come Lorenzo Zorzi "de ser Marin", che predilige opere di edificazione religiosa, Girolamo Zorzi "de ser Andrea", che si orienta verso i classici latini, Carlo Morosini che chiede il libro di canzoni e laudi, Piero Barozi e Tomà Memo che si interessano al libro "de chà Sanudo". Antonio Dandolo, noto diplomatico, nella cui casa di Ravenna, nel 1472, spirerà il Bessarione, chiede la "Fiameta" e anche "el transito de s. Jacomo e i soliloqui de san Agustin". Un'opera di Guarino è chiesta da "Francesco prior de la Zertosa", che è il confessore di Cristoforo Moro, Francesco Trevisan, personaggio eminente nel mondo religioso veneziano. Compaiono anche altri nomi: sotto la voce "libri imprestadi a Ferrara" vi è Buoso de Chodignuola, il podestà Zuan Orsato, e anche "Dimitri grego", che abita "in la caxa de madona Rungarda", che vuol leggere "uno Petrarcha". Anche Niccolò Fregona di Treviso, cancelliere del Sanudo a Ferrara, ottiene a prestito "un libro de molte pistole et fra l'altro de Tulio ad Quintum fratrem". Molti libri circolano più volte; molto popolari appaiono Isidoro, Cicerone, Petrarca. Dal registro si ricava il ritratto di una società equilibrata, colta, vivace, in cui oltre al denaro e alle merci si scambiano con la stessa naturalezza letture e opinioni letterarie e filosofiche; una società capace di interessarsi alla storia locale e insieme, ai grandi problemi dell'anima, capace di apprezzare le opere impegnative della patristica e la piacevolezza della poesia e della musica, attenta alla salvezza eterna ma anche ad un armonioso sviluppo della vita terrena.

Il Sanudo si occupa anche attivamente della confezione dei suoi libri. Lo vediamo affidare "a Jacopo bidelo" che "sta soto el palazo", a Ferrara, "Tulio de Ofizi a ligar". Lo vediamo spendere ducati 1,32 "per far ligar Latanzio", 4,112 per "unire" un Plauto. Lo vediamo intervenire da vicino nella miniatura, con attente istruzioni ai miniatori. Impegni reciproci e spese sono registrati in ogni particolare. Appare "maestro Zorzi miniador", impegnato a decorare un breviario, Virgilio, Lattanzio: si tratta di un artista noto, Giorgio d'Alemagna. Appare "maestro Vielmo miniador": è Guglielmo Giraldi, che lavorerà anche per Federico da Montefeltro. Il Sanudo lo impiega di frequente, traendolo anche d'impaccio da una situazione di disagio finanziario, quando registra un prestito a fronte della somma che "Vielmo miniador die dar a Salamon zudio [...> per dispegnarli alcuni so pegni", consistenti in vesti paonazze e celesti. Compare anche "maestro Lunardo miniador", che riceve 2,40 ducati "per miniar Latanzio": è Leonardo Bellini, nipote di Jacopo e cugino di Gentile e Giovanni.

Ai miniatori il Sanudo affida Virgilio, Cicerone, Lattanzio, Terenzio, Girolamo, Agostino, il De summo bono di Isidoro, un breviario e altro, precisando colori, dimensioni delle lettere, numero delle stesse, pagamento per ogni lettera. "Per miniar Tulio de ofiziis", ad esempio, Vielmo dovrà fare "la prima lettera con l'arma" percependo 22 bolognini (il contratto si fa a Ferrara), le "altre letere al principio de libri" a 10 bolognini l'una e 43 "letere pizole", percependo per queste "quatrini 4 l'una". Tanta minuzia lascia vedere un'attenzione appassionata e costante al lavoro del miniatore, cui vengono affidate le opere che sono più care al committente, che vuole avere il piacere di tener tra le mani un oggetto bello, e non solo importante per il contenuto intellettuale. D'altro canto, nota Vittore Branca, per i Veneziani di quel tempo, e Sanudo non faceva eccezione, il libro aveva un grande contenuto spirituale, ma era anche "carta, pergamena, colla, rilegatura. Era un bene commerciale, economico, oltre che un bene spirituale": una concretezza che si esprime nella capacità di fare del libro un oggetto economico, ma anche nell'attenzione alla formazione fisica del libro, alla sua produzione materiale. Se poi il Sanudo seguisse il lavoro del miniatore anche dal punto di vista artistico non è detto nel registro; ma appare assai probabile che un committente così preciso avesse idee ben determinate anche per i soggetti, lo stile, la forma. A Vielmo egli presta "un libro de desegni": forse modelli da cui trarre ispirazione, secondo le direttive del committente.

A un altro tedesco spetta invece il compito di trascrivere il De civitate Dei, che Vielmo dovrà poi miniare. L'accordo con Zuan Todesco è concluso il 6 ottobre 1458: egli dovrà "scriver un Agustin de zivitate dei" e dovrà avere 20 bolognini al quinterno; "e io [scrive il Sanudo> li devo far le spexe di boca e de candelle, e lui darme ducati 1 al mexe, e ubligase far almanco quinterni 5 al mexe, ma dise ne faria 6". Zuan Todesco lavorò rapidamente: "Adì 18 decembrio [nota il Sanudo>, el mandì via".

Possiamo veder qui in funzione lo scriptorium domestico del Sanudo, cui lavoravano artigiani pagati ma anche lo stesso patrizio: le Epistole di s. Girolamo sono scritte, egli annota, "de mia man"; opera sua è il Virgilio miniato da Guglielmo e il Lattanzio decorato da Leonardo Bellini (185). Anche attraverso l'attività di copia svolta direttamente il libro entra nella vita quotidiana del gentiluomo: quella di copiare libri era, come si è visto, un'attività cui i nobili si dedicavano volentieri.

Un'altra registrazione di prestiti, più modesta ma non meno eloquente, si trova nei libri di note di Francesco Giustinian, che comprendono notizie degli anni 1445-1452 (186). Anche il Giustinian è aduso alla pratica mercantile: lo dice la premessa al primo dei libretti, in cui egli precisa che le cose da lui annotate sono "valide chome quelle de libro", anche se non registrate nel vero e proprio libro di cassa del mercante, che fa piena prova delle sue transazioni. I prestiti riguardano alcune opere di comune lettura, come la Bibbia, il Doctrinale, il De vita et moribus philosophorum di Walter Burley (tale è certo il libro designato come "de vita filoxoforum"), ma anche testi classici di alto livello, come Giovenale, le Epistole di Seneca, Virgilio. Ci sono anche "pastorali de san Gregorio" (la Cura Pastoralis), una "cronicha" e, sola opera in volgare, la popolare "Fiameta".

Anche qui le annotazioni relative ai libri sono frammiste ad altre di tutt'altro contenuto. I beneficiari dei prestiti sono parenti o amici. Il Giustinian annota anche la persona incaricata di ritirare materialmente il volume: Fantin Marzelo (Marcello) manda a prendere il Virgilio tramite "la soa femena tartara ch'à nome Malgarita"; Felipo Marzelo manda "so fio Fantin"; Ixabeta viene a chiedere il "doctrinal" per suo figlio: è un libro di scuola ed è quindi, annota il Giustinian, "tuto guasto e val pochi soldi". I registri del Giustinian ci mostrano un pittoresco andirivieni di volumi tra case patrizie; c'è anche un convento, quello femminile di S. Andrea della Zirada, dove la madre del Giustinian, Ixabeta, aveva depositato dei libri di devozione.

Anche Guglielmo Querini, il patrizio mercante che abbiamo già incontrato nell'atto di dare precise istruzioni a Febo Capella per l'acquisto di manoscritti a Milano, presta libri agli amici (187): un "libro di Aristotile", le "orazion de Tulio". Presta anche testi sacri ad un prete di S. Martino, che non ha i libri per l'ottava del santo: gli procura il leggendario dei santi, un Jacopo da Varagine e anche un breviario. A Giovanni Negro, che vuoi fare una collazione con la sua Bibbia "de letera antiga", presta una Bibbia gotica in formato portatile ("la mia bibia portativa de letera tramontana"). Da vero mercante, che conosce il valore del denaro, egli quantifica il rischio del prestito, valutando il pezzo di cui temporaneamente si priva: la Bibbia "vai ducati 12", il breviario che doveva essere antico e di pregio ("el breviario de madonna mia madre") 16 ducati, 6 il leggendario prestato al prete di S. Martino. Egli accetta anche libri in pegno: a fronte di alcuni vestiti e di due libri, un Pietro Crescenzio e "l'epistole de Senecha chon do tratadi in uno volume", anticipa 12 ducati a tale Cristoforo de' Poeti di Bologna. Non era un fatto inusuale: ad esempio, un codice di Seneca viene dato in pegno a Polo da Mula nel 1467 a fronte di un prestito di 4 ducati, e gli rimane (188). Ancora una volta si vede il libro entrare nella vita quotidiana come oggetto, nella sua fisicità economica, manifestarsi non solo nel contenuto spirituale ma anche nella sua materialità.

Né Leonardo Sanudo, né Francesco Giustinian, né Guglielmo Querini si dedicano, come si è detto, a tempo pieno alla cultura. Hanno familiarità col libro, lo conoscono, lo amano, lo usano, ma sono soprattutto uomini d'affari e di governo. Diversa è la situazione del più sistematico prestatore di libri, Girolamo Molin, che opera su vasta scala e dispone di una scelta di opere che rivelano una preparazione approfondita in alcuni campi, particolarmente nella logica e nella filosofia aristotelica (189).

Nel suo Alphabetum librorum mutuatorum il Molin - un gentiluomo di cui nulla si sa, a parte la benefica attività di prestatore di libri - annota dal 1450 al 1458, in ordine alfabetico, i prestiti da lui fatti e ricevuti: l'ordine è quello del nome proprio del prestatario. I codici descritti sono in tutto quarantasette, di cui tre presi in prestito dal Molin stesso e gli altri invece imprestati a varie persone da lui. Il Molin possiede solo cinque manoscritti di classici: Varrone, Festo Pompeo, Lattanzio, Cicerone (un codice contenente De officiis, De amicitia, De senectute), e le Metamorfosi di Ovidio. Ha tre codici di argomento giuridico, il Digesto, le Istituzioni e un commentario all'opera di Gaio dovuto a Dino del Mugello. Ha due messali, due Bibbie, il De trinitate di Agostino, le Epistole di Girolamo, i Dialogi di Gregorio papa e varie Summe e commentari biblici. In campo scientifico ha una Arithmetica e il diffusissimo trattato di Bartolomeo Anglico De proprietatibus rerum. Ciò che qualifica la biblioteca è la raccolta filosofica: il Molin possiede due opere di Paolo della Pergola, i Dubia e la Logicula, tre opere del Burley e, naturalmente, Aristotele. Sono questi i suoi interessi: tiene a mettere in rilievo che il trattato del Burley super libro Ethicorum è stato comperato da lui per 13 ducati (il venditore Giacomo Languschi è un noto umanista del ceto cittadinesco) e che un'altra opera filosofica che possiede, le Expositiones super librum de anima di Aristotele, un commento del ben noto filosofo Paolo Veneto, è stata comperata anch'essa da lui: gliel'ha venduta il prete Niccolò, "mansionarius in Sancto Salvatore, discipulus magistri Pauli Pergulensis". Tre soli libri sono registrati come presi a prestito dal Molin stesso: il prestatore è Domenico de Domenicis, o Domenichi, di cui si è ricordata l'importante biblioteca. I libri presi a prestito da Girolamo sono il Super totam logicam del Burley, i Sophismata Tisberi, vale a dire il trattato di logica dell'inglese William Heytesbury (sec. XIV), e un'opera dello stesso Domenichi, un trattato "super libro perì Ermeneias". Si tratta in tutti e tre i casi di opere di logica, che ci riconducono all'ambiente della Scuola di Rialto e all'insegnamento di Paolo della Pergola. Evidentemente tra il Molin e il più anziano Domenichi, vescovo di Torcello e noto studioso, vi è un rapporto di amicizia in cui la posizione del Molin è quella del discepolo, che restituirà i libri al maestro "cum voluerit".

Molti dei beneficiari del prestito appartengono all'ambito della Scuola di Rialto: Antonio de Cellis e Giovanni di Treviso, che il Molin stesso dichiara discepoli di Paolo della Pergola, Nicolaus Presbyter, anch'egli così qualificato, Giovanni Cesarini, un medico, di cui è noto altrimenti il legame con il filosofo. Vi sono anche "Angelus Baroerius, magister vitrarius", della ben nota famiglia muranese dei Barovier, e "Antonius de Sperata, magister aromatarius": due personaggi cui la Scuola di Rialto poteva offrire insegnamenti professionalmente utili in materie riguardanti la filosofia naturale.

Vi sono poi numerosi patrizi, con interessi meno specifici: Antonio Molin, che prende a prestito le Epistole di Girolamo, Francesco Bernardo, che riceve Gregorio di Nissa nella traduzione latina del Trapezunzio, Francesco Minio che ottiene le Epistolae di Paolo commentate e s. Agostino, Pietro Barbaro che chiede una "cronica" e alcuni commenti biblici, Marco Barbo, congiunto di papa Paolo II e futuro cardinale, che si interessa al De lingua latina di Varrone, Vinciguerra Dandolo che chiede Festo Pompeo. Stefano Querini forse rientra invece nel gruppo dei seguaci di Paolo della Pergola, dato che ne chiede a prestito due opere; analoghi interessi sembra avere anche Giovanni Corner di Paolo (da non confondere con l'amico di Ciriaco e del Traversari, figlio di Federico), che si interessa al trattato del Burley.

Vi è anche il domenicano Gioachino Torriano, futuro generale dell'Ordine, che deve restituire il commento sopra le Bucoliche, e vi è un futuro noto diplomatico dell'ordine cittadinesco, Marco Aurelio, che ha a prestito Gregorio di Nissa. I due prestatari più assidui sono Pietro Molin, che prende a prestito numerose opere giuridiche e patristiche, e Francesco Diedo, che si interessa al diritto, ma anche all'astronomia, alla medicina, ai classici. Si tratta di due patrizi ancor giovani (nati attorno al 1430), entrambi dottori a Padova, con forti interessi umanistici, al pari del coetaneo Marco Aurelio. Evidentemente la biblioteca del Molin, nella sua ampiezza, corrispondeva ai bisogni di entrambi gli orientamenti delle Scuole veneziane; e un patrizio colto doveva avere una non imprecisa nozione dei testi fondamentali dei due indirizzi.

Per il Molin i libri sono oggetti che contano anzitutto per il loro contenuto ideale, ma anche per il loro valore: lo vediamo vendere all'incanto tramite Zuan Bernardo "castaldo de miser lo dose" un "Messal belissimo", miniato "benissimo", coperto di cuoio rosso "ligado a Fiorenza"; e dare in pegno libri di pregio a Girolamo Querini e a Lodovico Diedo a fronte di complesse operazioni di prestito, assieme a bacili d'argento e a mitre con smalti e pietre. Un movimento continuo di libri, che si complica ancor più per il fatto che un libro porta le armi del cardinale di Aquileia (190), e un altro è detto essere proprietà di Antonio Querini dalle Papozze.

A registri di prestito assai simili a quello del Molin farà ricorso, anni dopo, la maggiore istituzione bibliotecaria veneziana, la Libreria di S. Marco. Il prestito sarà per decenni, come si accennerà, l'unico modo in cui si potranno godere i volumi donati dal Bessarione. Grazie al prestito essi avranno una sia pur limitata circolazione nell'ambito degli eruditi veneziani, soprattutto patrizi, e dei professori di Padova.

L'importanza dell'istituto del prestito non verrà meno dopo l'avvento dell'arte tipografica: testi rari, codici difficilmente reperibili o non riprodotti a stampa circoleranno sempre fra gli umanisti e i dotti. Per gli stampatori poi era essenziale ottenere a prestito i manoscritti contenenti le opere da pubblicare. Uno dei motivi che spingono Aldo a trasferirsi a Venezia, come si accennerà, è proprio la speranza di ottenere a prestito i libri greci conservati nella Libreria di S. Marco e nelle grandi raccolte private veneziane.

I patrizi umanisti e la Libreria di S. Marco

Se è vero che la cultura umanistica era rimasta appannaggio di una parte numericamente limitata della classe dirigente, è anche vero che in quell'ambito si prendevano le decisioni e si effettuavano le scelte più importanti per la cultura e per la politica.

La necessità di avere un personale diplomatico all'altezza delle esigenze dei tempi spinse la Repubblica nel 1446 ad aprire una Scuola di umanità a S. Marco, a beneficio dei giovani della cancelleria: si trattava del primo diretto intervento dello Stato nel campo dell'istruzione. Ma la vita di questa Scuola non fu sulle prime brillante; lo divenne nel 1460, con l'istituzione di una seconda cattedra, cui vennero chiamate personalità di primo piano nel mondo degli studi (191). Chi la volle e operò al fine di istituirla fu soprattutto Lodovico Foscarini, con l'appoggio della cerchia dei suoi amici: un gruppo di patrizi all'incirca coetanei, per lo più laureati a Padova, con interessi di studio comuni e analoghe ambizioni politiche, tutti impegnati in senso umanistico: molti dei membri di tale gruppo compaiono nelle pagine che precedono fra gli amanti del libro e i possessori di biblioteche (192). Altra preoccupazione del Foscarini e dei suoi amici fu quella di fornire alla Repubblica una storia adeguata, che fosse insieme strumento di apologia contro le accuse mosse alla Repubblica dai suoi nemici e di esaltazione della indipendenza, della libertà, dell'armonia del governo veneziano. Paolo Morosini scrisse celebri saggi in difesa di Venezia. Bernardo Giustinian scrisse la storia delle sue origini. Il Foscarini avrebbe voluto istituire l'incarico di storiografo pubblico e aveva già pronto il suo candidato, Flavio Biondo; ma si dovette attendere qualche anno, sino a che maturò la nomina del Sabellico. Essi erano pienamente consapevoli dell'importanza anche politica della cultura. E per questo si adoperarono per dotare la loro città di una grande biblioteca pubblica: ed ottennero un pieno successo con la fondazione della Libreria di S. Marco. Ma per comprendere questo evento in tutto il suo valore è necessario ricordare alcuni fatti di grande portata che si erano verificati in quegli anni (193).

Vi era stato, anzitutto, il Concilio di Ferrara, poi proseguito a Firenze. Nelle speranze dei promotori, esso avrebbe dovuto riportare l'unione tra le Chiese greca e latina, e nel contempo predisporre un'alleanza politica e militare tra le potenze occidentali e Bisanzio, atta ad arrestare l'avanzata dei Turchi.

Il primo risultato parve raggiunto, ma fu solo un'illusione: l'Unione solennemente proclamata in Firenze il 6 luglio 1439, venne respinta dai Greci, che videro in essa un'ennesima sopraffazione da parte degli odiati Latini. I pochi prelati e dignitari rimasti fedeli all'Unione furono oggetto di una violenta campagna di accuse e calunnie. Il secondo risultato sperato, una grande alleanza antiturca, ebbe un principio di attuazione; ma la disfatta di Varna (1444) troncò le speranze del papa e dei Greci. Venezia, che aveva messo in mare una flotta, non ebbe modo di farla intervenire e rinnovò la pace col Sultano. Per il momento almeno di crociata non si parlò più.

Il Concilio ebbe tuttavia alcune conseguenze di grande rilievo. Anzitutto rafforzò i legami tra Venezia e il mondo greco. L'accoglienza riservata all'imperatore Giovanni VIII, al patriarca Giuseppe II, ai numerosi personaggi ecclesiastici e laici giunti a Venezia l'8 febbraio 1438 per recarsi a Ferrara fu non solo fastosa, ma anche cordiale: i Greci si sentivano circondati dalla simpatia dei Veneziani, avevano l'impressione di essere tra amici. Era già un risultato non da poco, se si pensa a quanto erano state tempestose le relazioni fra i due popoli nei secoli precedenti. Inoltre la città, nella sua unicità, colpì i Greci profondamente: il ricordo di Venezia rimase incancellabile nell'animo di molti (194).

È altresì da presumere che i patrizi amanti e studiosi della grecità uscissero dal contatto coi maggiori dotti dell'Impero bizantino rafforzati nella loro conoscenza e simpatia per il mondo ellenico. I Greci avevano con sé molti libri: l'imperatore viaggiava accompagnato da un enorme Plutarco, da un bellissimo codice di Platone e da uno contenente tutte le opere più famose di Aristotele; Bessarione, vescovo di Nicea, portava seco il Contra Iulianum di Cirillo, e varie opere di Tolomeo e di Euclide. È probabile che i Greci si intrattenessero con gli amici veneziani su temi di comune interesse durante il soggiorno, protrattosi circa un mese e per alcuni anche più a lungo.

Un'altra conseguenza del Concilio fu il trasferimento a Roma della personalità più brillante che il mondo greco offrisse a quel tempo: Bessarione. Secondo forse solo a Gemisto Pletone, suo maestro, nella profondità del pensiero filosofico, il Bessarione era studioso insigne del pensiero di Aristotele e di Platone, quest'ultimo visto nella prospettiva dell'elaborazione neoplatonica. Durante un lungo soggiorno a Mistrà, nel Peloponneso, aveva seguito gli insegnamenti di Gemisto, acquisendo anche una non comune conoscenza dell'astronomia, necessaria al filosofo, data l'importanza che gli astri rivestivano nella visione neoplatonica, e della matematica, anch'essa indispensabile per dominare i segreti del cosmo. Pieno di venerazione per i capolavori della grecità antica, egli mirava a conciliare il culto della classicità ellenica con la religione cristiana; e al servizio della conoscenza dell'antica cultura egli poneva una consumata abilità di filologo e una vasta erudizione in campo storico e letterario. Con tali doti gli era facile assumere una parte dominante nel Concilio; ed egli aveva caldeggiato l'Unione sia perché sinceramente convinto della superabilità delle questioni teologiche che separavano le due Chiese, sia in omaggio ad una visione superiore di armonia e di fede nell'umanità.

Purtroppo l'Unione era stata ricevuta a Costantinopoli con la più violenta ostilità. Disperando di convincere i connazionali, Bessarione decise di accogliere l'invito del papa e di stabilirsi a Roma: il 18 dicembre 1439 Eugenio IV l'aveva infatti nominato cardinale. Dal centro della cristianità Bessarione pensava di potersi meglio adoperare in aiuto della sua gente, avvalendosi dell'alta posizione raggiunta nella Chiesa, delle numerose relazioni, dei mezzi ingenti che la carica gli poneva a disposizione. L'organizzazione della crociata contro il Turco divenne lo scopo principale della sua politica; e la sua alleata naturale divenne Venezia, che aveva tutto da temere da un'avanzata ottomana.

I suoi sforzi peraltro non valsero ad impedire il fatto più tragico che la cristianità potesse paventare: la caduta di Costantinopoli. L'evento è carico di conseguenze non solo politiche, ma anche culturali. Da un lato la distruzione in massa di opere d'arte e di libri: secondo il cardinale ruteno, Isidoro di Kiev, centomila libri sarebbero periti nel saccheggio. Dall'altro lato, si verificava una imponente diaspora di aristocratici greci, dignitari, proprietari terrieri, che cercavano di sopravvivere in Occidente facendo spesso ricorso a ciò che loro restava: la cultura. Una schiera di dotti gentiluomini, per i quali l'erudizione non era una professione ma un ornamento, si trovavano nella dolorosa necessità di trarre dal loro sapere i mezzi per vivere: schiera destinata tristemente ad ingrossarsi in breve volgere d'anni a seguito della conquista di altre terre greche (il Peloponneso, l'impero di Trebisonda) da parte dei Turchi. A seguito di questo afflusso, la grecità si diffondeva ulteriormente in Italia, e a Venezia in particolare. Subito dopo la caduta di Bisanzio, Bessarione scrive al doge di Venezia, Francesco Foscari, esponendo quello che sarà uno dei cardini della sua politica: far sì che Venezia si metta alla testa del movimento di resistenza e riscossa contro i Turchi. Venezia doveva prendere su di sé l'eredità bizantina, divenire una seconda Bisanzio.

A Venezia gli animi erano divisi. La maggioranza del patriziato, preoccupata di garantire la continuità dei traffici, inclinava piuttosto alla pace col Turco; una energica e decisa minoranza riteneva invece necessario seguire la politica opposta. Non sorprenderà trovare schierata al fianco di Bessarione quell'élite di patrizi umanisti che disponeva della capacità intellettuale per apprezzare la grandezza di un simile compito, della lungimiranza politica per vedere i vantaggi di un'unione tra Venezia e la grecità superstite e i pericoli di una supina acquiescenza all'aggressività turca, e insieme della forza politica per coagulare attorno a un simile programma una parte almeno dei consigli sovrani. Lodovico Foscarini, Vettor Capello, Cristoforo Moro, Orsatto Giustinian, Leonardo Giustinian e il figlio Bernardo, Paolo Morosini e il cugino Pietro sono i maggiori esponenti del partito favorevole all'intervento in Oriente. Alcuni di loro sono anche, come si è visto, fra i più attivi cultori dell'umanesimo. Per il momento la loro visione raccoglie scarsi suffragi, Venezia preferisce l'accordo col Turco; ma l'aggressività ottomana procurerà via via nuove adesioni ad una politica più decisa.

Nel frattempo il Bessarione andava assumendo il prestigio e la funzione morale e politica di punto di riferimento per i Greci, privi ormai di una guida; e nello stesso tempo egli sentiva l'imperativo di agire non solo per la salvezza dei Greci, ma anche al fine di scongiurare la perdita della grande tradizione culturale ellenica, cui l'avanzata distruttiva di una popolazione asiatica ad essa insensibile faceva correre il rischio dell'estinzione. Dai giorni della caduta di Costantinopoli egli si adoperava per salvare almeno le testimonianze scritte di quella grande civiltà: la sua biblioteca privata doveva trasformarsi in biblioteca della nazione e della cultura ellenica. Come egli scrive all'amico e discepolo Michele Apostolis, rimasto a Creta, inviandogli una lista di titoli da comperare, egli si propone di acquistare quei libri non per sé solo, perché - scrive - egli ha già quanto gli occorre, ma perché vi sia un luogo ove i Greci possano un giorno ritrovare, una volta passata la tempesta, la loro phoné, la loro voce, l'espressione della loro civiltà.

Nell'acquisto dei libri egli non solo profonde i mezzi cospicui che la porpora cardinalizia gli mette a disposizione, ma impiega anche la sua consumata perizia di filologo. Delle opere che non può comperare si procura copie, spesso eseguite sotto la sua direzione; alcuni testi sono copiati da lui stesso. Uno scriptorium ha sede a Roma nel suo palazzo ai SS. Apostoli; un altro, da lui finanziato, ha sede a Creta ed è diretto da Michele Apostolis. In entrambi gli scriptoria si riproducono principalmente i capolavori dell'antichità: il Bessarione si preoccupa soprattutto di acquisire i testi classici, sia perché li ritiene in maggior pericolo di completa distruzione, sia perché nutre per quelle opere un'ammirazione profonda: in esse è conservato un sapere antico e nel contempo eterno, il frutto più alto della ragione umana. I risultati da lui ottenuti nella raccolta dei testi antichi furono di straordinaria importanza. Il primo posto era riservato ai filosofi: Platone, Plotino, Proclo, Giuliano, Aristotele, Temistio, Alessandro di Afrodisia, tutti i maggiori. Non mancavano le opere di Gemisto, alcune delle quali autografe: tutte quelle che con pietà filiale e devozione di discepolo era riuscito a salvare dalla distruzione decretata dal fanatismo del vecchio rivale del filosofo, Scolario, divenuto patriarca ortodosso di Costantinopoli col nome di Gennadio. Vi erano poi tutti o quasi gli storici, gli oratori, i tragici, i comici, i poeti. Alcuni pezzi erano eccezionali: due tra i codici più importanti dell'Iliade; l'Anthologia Planudea, con duemilaquattrocento poesie brevi da Saffo a Leone VI il Saggio; Eschilo, Aristofane, Ateneo, Fozio, in edizioni manoscritte di alta qualità. Vi erano opere matematiche, geografiche e astronomiche, alcune del tutto ignote nell'Occidente; e opere di medicina, fra cui un Ippocrate del X secolo fondamentale per la tradizione del testo.

Accanto ai testi della grecità il cardinale raccoglieva anche opere latine: era infatti divenuto buon conoscitore della latinità, "inter graecos latinissimus, inter latinos graecissimus" secondo la celebre definizione di Lorenzo Valla. La sua azione, ispirata ai principi della concordia e dell'armonia, mirava anche alla reciproca comprensione e compenetrazione delle due civiltà, che egli più di ogni altro si adoperò per favorire e attuare. Peraltro i libri latini da lui raccolti, pur importanti, rivestono interesse minore: si trattava di opere che servivano ai suoi studi e rispondevano agli interessi ch'egli coltivava nel momento, senza che nel procurarseli egli obbedisse a quell'impulso ideale che moltiplicava i suoi sforzi nella ricerca e nell'acquisto dei testi ellenici.

Si comprende quindi come la biblioteca bessarionea fosse una delle maggiori del tempo, seconda solo a quella papale, e prima per i testi greci. Essa venne a comprendere un migliaio di volumi, con un numero di titoli peraltro di gran lunga superiore, dato che il Bessarione prediligeva i codici di grandi dimensioni, in cui faceva copiare l'intera opera di un autore. Un codice, ad esempio, contiene tutta l'opera di Aristotele, salvo l'Organon: trentasei titoli in un solo grande volume di 593 fogli. I codici greci nel 1468 erano quattrocentottantadue, il papa ne aveva, nel 1455, quattrocentoquattordici, mentre gli altri principi ne avevano pochi o nessuno.

Nel contempo il Bessarione non cessava di adoperarsi per la pace tra le potenze cristiane e l'alleanza di esse contro il Turco. Fu in buona parte opera sua il congresso di Mantova, ove gli Stati europei dovevano concordare una politica comune. Non si ottenne nulla, ma non certo per uno scarso impegno dei delegati veneziani, Orsatto Giustinian e Lodovico Foscarini. Benché paralizzati dalle istruzioni del loro governo (la Repubblica non era pronta alla guerra e non voleva ancora sottoscrivere accordi in tal senso), essi fecero quanto era in loro potere per far prevalere una linea interventista; anzi il Foscarini andò oltre i termini dell'incarico, ebbe incontri non consentiti con potentati ecclesiastici, sicché una volta tornato in patria durò molta fatica a discolparsi. I legami tra il Bessarione e gli umanisti si rinsaldavano. Quasi due anni dopo, di ritorno da un'infruttuosa missione in Germania, il Bessarione ritrovava il Foscarini in Friuli, dove quest'ultimo rivestiva la carica di luogotenente. Poco dopo, il 20 dicembre 1461, il maggior consiglio iscriveva il cardinale tra i propri membri: segno eloquente delle amicizie di cui egli godeva presso il patriziato e del peso crescente del partito dei suoi sostenitori.

I Turchi continuavano intanto la loro avanzata. Nel 1460 cadeva la Morea; l'anno dopo Trebisonda. A Venezia la preoccupazione aumentava. Alla morte del doge Malipiero, capo del partito pacifista, veniva eletto il suo maggior oppositore, Cristoforo Moro. Il partito favorevole ad un massiccio intervento per fermare il Sultano cominciava a prendere il sopravvento. Nel frattempo cadeva in mano turca l'isola di Lesbo (o Mitilene), nel settembre 1462; nel giugno dell'anno dopo veniva inghiottita la Bosnia. Era il momento per far pendere la bilancia dalla parte della guerra: e Bessarione giunse a Venezia a tal fine nel luglio 1463, con il titolo e i poteri di legato.

Fu questo il più lungo periodo da lui passato a Venezia, incominciato sotto i migliori auspici e meno felicemente concluso dal punto di vista politico, ma ricco di conseguenze sul piano umano e culturale. All'inizio gli arride un pieno successo: Venezia entra in guerra, l'esercito veneziano riconquista la Morea, si profilano nuove alleanze, i Turchi sembrano in ritirata. Poi verrà l'amaro disinganno, la sconfitta militare, l'abbandono della Morea, infine il tentativo di crociata sotto il comando del pontefice, la morte di questi, la rinuncia ad ogni ulteriore azione per il momento. Pienamente positivo invece il bilancio per quel che riguarda i rapporti con le istituzioni e gli amici veneziani. "Starei sempre qui, in questa magnifica città, ove sono onorato e circondato dalla venerazione di tutti", egli scrive (in latino) nell'ottobre del 1463 al cardinale Ammannati, e il senato lo chiama "nobilis noster et de nostro gremio". "Bessarion Venetus" egli si firma in vari atti giuridici: egli sente Venezia come la patria d'elezione, vi si sente a casa propria.

La benevolenza verso la città si traduce in una serie di atti pieni di particolare simpatia e favore. Alla Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni concede ampie indulgenze, in segno di gratitudine per l'impegno con cui i Dalmati si battevano contro il nemico comune. Alla Scuola grande della Carità, che lo elegge a confratello, dona un magnifico reliquiario contenente due frammenti della croce di Cristo. Quando sorge una controversia fra Venezia e i monaci di S. Giustina di Padova circa le reliquie di s. Luca, egli non ha dubbi: quelle vere sono a Venezia, nella chiesa prediletta del doge Moro, S. Giobbe. E al monastero dove risiede, e dove aveva soggiornato nel corso della prima visita a Venezia, nel febbraio 1438, S. Giorgio Maggiore, egli riserva il dono più prezioso: la sua stessa biblioteca greca, quella raccolta a cui egli aveva affidato le speranze di sopravvivenza culturale della sua gente.

Anche se la data dell'atto non è nota, sembra certo che fosse compiuto durante il soggiorno del 1463-1464. Il documento è perduto, ma le clausole principali si ricavano dalla bolla del 1467 con cui il papa autorizza la revoca della donazione. Questa non comprendeva tutti i codici, ma solo quelli greci; il donante se ne riservava l'uso in vita; i monaci dovevano riporli in una degna libreria e consentire l'accesso a tutti coloro che volessero leggere e studiare; non potevano vendere i libri né alienarli in alcun modo, né prestarli senza pegno sufficiente. In caso di inadempienza, il legato sarebbe passato al patriarcato di Venezia. Lo scopo della disposizione era che quei libri dovessero "publicos fore et posteritati servire".

Ad indirizzare la scelta del cardinale vi erano numerose ragioni: i legami del monastero con l'Oriente greco (esso possedeva da secoli beni a Negroponte, Tebe, Creta, Pera, Costantinopoli, e da esso dipendevano varie chiese e conventi in territorio greco); il nome stesso, quello del santo nazionale greco; la presenza in esso di due reliquie del santo eponimo, il braccio e la testa. Il trasporto di quest'ultima reliquia era avvenuto l'anno prima dell'arrivo a Venezia del Bessarione: Girolamo Valaresso, sopracomito nella flotta al comando di Vettor Capello, l'aveva recata dall'isola di Egina, ove si trovava sin dal 1451. Che la traslazione avvenisse in quel momento, e non prima, è un fatto che riveste significati precisi: era il segno che si voleva rinsaldare l'alleanza greco-veneta. E infatti l'operazione si era svolta ad opera di uno dei più decisi fautori dell'alleanza antiturca, Vettor Capello, uno dei capi del partito che mirava a consacrare Venezia come centro della grecità minacciata dal Turco. Certamente l'atto del Bessarione era ispirato alle stesse motivazioni; e sarà stato caldeggiato dagli amici veneziani, che vedevano innalzato il loro prestigio da un dono di tale importanza. Il monastero di S. Giorgio diveniva quindi il maggior simbolo della volontà veneziana di assumere l'eredità di Bisanzio.

È possibile che a far assumere questo ruolo al monastero di S. Giorgio cooperasse anche l'abate, Galeotto Beacqui, in religione Teofilo da Milano, un colto giurista che aveva ospitato nel monastero di S. Benedetto in Polirone, di cui era abate a quel tempo, molti dei cardinali e prelati diretti al convegno di Mantova (195). Alla sua influenza si deve forse una clausola testamentaria avente per contenuto libri, disposta a favore del monastero di S. Giorgio da parte di una veneziana, Franceschina Gabo, vedova di Niccolò Bratti. Nel 1462 Franceschina redige il suo testamento, lasciando al monastero due case, con facoltà di venderle e di investire il ricavato nell'acquisto di libri. Due figli della Gabo erano monaci a S. Giorgio e sembra lecito presumere che il gesto di Franceschina sia stato ispirato dall'abate, o quanto meno concordato con lui: prova di un interesse di questi per i libri, dato che ad essi pensava per l'arricchimento del suo monastero (196).

Nel luglio del 1464 il cardinale lasciò Venezia per non più tornarvi, ma non cessò di guardare alla città come ad alleata e protettrice dei Greci, seconda Bisanzio. Ad essa egli offrì ogni possibile appoggio diplomatico per tutto il corso della guerra col Turco, che si protrasse durissima per molti anni ancora dopo la sua morte. E nel 1468 volle fare alla città stessa, non più ad una istituzione veneziana, ma allo Stato stesso di Venezia, donazione della sua biblioteca.

La motivazione ufficiale del mutamento di volontà era il fatto che il monastero era sito "in insula" e quindi l'accesso era difficoltoso. Ma le ragioni erano probabilmente altre. L'importanza che egli giustamente annetteva alla sua biblioteca era tale che un'istituzione monastica, per quanto prestigiosa, non gli dava sufficienti garanzie: non sempre, egli lo sapeva bene, i monaci tenevano alla cultura (e nel frattempo il Beacqui aveva lasciato la carica di abate); d'altro canto essi erano soggetti all'autorità pontificia, e non sempre questa era sensibile ai valori della cultura laica. Per di più il papa regnante, Paolo II, era dichiaratamente nemico delle accademie che si richiamavano alla dottrina platonica: proprio quella sapienza che Bessarione venerava e che occupava largo spazio nella sua biblioteca. Ben diversa fiducia gli pareva meritasse lo Stato veneziano, che sembrava realizzare nell'equilibrio delle magistrature l'armonia della repubblica platonica: la giustizia a cui esso voleva ispirata la propria azione, la solidità della sua organizzazione, la sensibilità verso la cultura mostrata dai membri più autorevoli dei consigli sovrani, tutto ciò gli faceva preferire lo Stato veneto stesso come erede.

Vi era forse anche un'altra motivazione d'ordine politico: il monastero di S. Giorgio era sin dal tempo di Cosimo legato ai Medici, che anzi stavano per finanziare la costruzione di una nuova biblioteca nel monastero, forse chiesta dai monaci proprio in relazione al dono bessarioneo; nel 1467 i rapporti tra Venezia e Firenze erano tesi, dato che la Repubblica favoriva il Colleoni e i fuoriusciti antimedicei, mentre Piero de' Medici si appoggiava a Milano e a Ferrara. È possibile che da ciò derivasse al cardinale un'ulteriore spinta a distaccarsi dal monastero e a mostrare il suo favore direttamente allo Stato veneziano (197).

La revoca della donazione a S. Giorgio è del 1467. Nel marzo 1468, mentre una supposta congiura degli umanisti dell'Accademia romana scatena la persecuzione pontificia, il cardinale decide di accelerare i tempi per porre al sicuro la sua preziosa raccolta. L'ambasciatore veneziano lo visita ogni giorno: nel corso di quei colloqui la donazione a Venezia viene messa a punto. Egli dona alla chiesa di S. Marco: ma donare a S. Marco, cappella ducale, amministrata dai procuratori (magistrati laici, in altissimo luogo nella struttura dello Stato), significava donare alla Repubblica stessa (198).

Così operando egli mostrava solennemente al mondo di essere legato a Venezia da un rapporto speciale, rafforzando la sua stessa posizione in un momento in cui le persecuzioni antiplatoniche potevano diminuirne il peso; nel contempo dava una pubblica dimostrazione di fiducia nei confronti del doge Moro e della sua cerchia, di cui faceva parte Paolo Morosini, le cui "suasiones" sono messe in rilievo nella dichiarazione di accettazione da parte del senato. L'atto, ricco di risonanze nelle cancellerie e nei circoli più autorevoli, rafforzava internazionalmente la posizione del gruppo dei filelleni su cui il Bessarione fondava le sue speranze; e anche all'interno della città l'essersi accaparrati una raccolta di fama europea era per quel gruppo un successo, che si traduceva in un aumento di prestigio e di influenza (199).

Già il 23 marzo il senato prendeva atto della volontà del cardinale e disponeva che gli si scrivesse, ringraziando. Dalla deliberazione del senato si apprende: che il Bessarione intendeva donare i suoi libri alla Repubblica; che la biblioteca doveva essere intitolata a s. Marco, simbolo e protettore dello Stato veneziano; che il luogo ad essa destinato doveva essere "in plateis nostris Sancti Marci", in piazza S. Marco.

Il 2 maggio il luogo era identificato nel palazzo Ducale stesso: nella "sala novissima", appena costruita, che si sarebbe adattata allo scopo. Il 14 maggio il Bessarione compiva il formale atto di donazione, mentre si trovava a Viterbo, per godervi i bagni curativi e la compagnia dell'amico Perotti, che governava allora la Tuscia. Nell'atto è precisato che la donazione era diretta a S. Marco, "ecclesiae Sancti Marci Venetiarum". Le clausole dell'atto ricalcano quelle della donazione a S. Giorgio, con due varianti di grande importanza: i libri compresi nella donazione non sono soltanto i greci, ma anche i latini; l'effetto della donazione è immediato, non "post mortem".

Il 31 maggio il cardinale, sempre a Viterbo, stilava la celebre nobilissima lettera latina al doge e al senato, in cui illustrava le ragioni della sua decisione, parlava di sé, della sua studiosa, parca gioventù, dominata dall'amore dei libri: quei libri che, egli dice, "sono pieni della voce dei sapienti, pieni di esempi dell'antichità [...> vivono, conversano, parlano con noi [...> ci istruiscono, ci consolano [...>".

Nell'aprile 1469 una prima spedizione di libri, in trenta casse, portate da quindici muli, raggiungeva Venezia. Gli altri pervennero entro il 1473. L'inventario redatto nel 1474, quando le consegne erano terminate, elenca milleventiquattro volumi in cinquantasette casse. Il prezioso contenuto venne affidato ai procuratori di S. Marco, secondo la volontà del cardinale.

Con la loro opera diplomatica gli umanisti veneziani avevano così assicurato alla loro patria una delle maggiori biblioteche del loro tempo: un successo che insieme alla vivacità della colonia greca di Venezia, alla presenza di tanti esuli greci, alla rinascita degli studi, all'impegno politico antiturco e allo sforzo bellico in Oriente, contribuiva a fare di Venezia il centro dell'ellenismo nell'Europa occidentale. Tale carattere verrà ad assumere un'evidenza anche monumentale, quando sorgeranno le architetture di Mauro Codussi, ispirate a quelle bizantine in una renovatio che si richiama alla seconda Roma, alla Roma cristiana, Costantinopoli: anche questa volta l'idea matura nei circoli dei committenti patrizi, ad opera di uomini come Domenico Morosini e Bernardo Giustinian, strettamente legati alla cerchia di quanti avevano condiviso gli ideali e le speranze del Bessarione (200).

Con la donazione del cardinale Venezia diveniva la sede di una biblioteca di Stato: una biblioteca non solo pubblica quanto all'uso, ma altresì di proprietà pubblica. Il progetto del Petrarca trovava attuazione un secolo dopo, grazie al cardinale greco e ai suoi amici veneziani.

Le successive vicende della biblioteca sono all'insegna del contrasto tra le due anime della nobiltà: da una parte i patrizi appassionati alla cultura umanistica, dall'altra il grosso della classe dirigente ad essa meno sensibile. I primi premevano perché la biblioteca venisse signorilmente sistemata e aperta al pubblico, i secondi vedevano di mal occhio l'impegno di mezzi e denaro per un fine che appariva loro secondario rispetto ad altri più urgenti. Vi era comunque un preciso impegno assunto nei confronti del cardinale, collocare i libri a S. Marco. Si era pensato al palazzo Ducale, si era anzi identificato il locale, la Sala Novissima: ma nel palazzo pubblico ogni metro era prezioso, non pareva possibile sacrificare spazi che divenivano sempre più necessari ai consigli sovrani e agli uffici. Così i libri rimasero per lunghi anni costretti in una cameretta, chiusi nelle loro cinquantasette casse, divenute quarantotto nel 1494. Ciò non significava disprezzo del dono, se mai cura troppo gelosa; le biblioteche principesche, a differenza di quelle monastiche, si conservavano spesso chiuse in casse (201): ciò sia per sicurezza, sia per trasferire rapidamente i libri, assieme agli altri oggetti d'uso, quando il signore si trasferiva in un'altra delle sue molte residenze per godervi i frutti della terra. Ma certo non era quella la sistemazione che il cardinale e i suoi amici sognavano. I patrizi umanisti sollevarono più volte la questione, senza successo. Solo nel 1530 il bibliotecario Pietro Bembo poté spostare i libri in un luogo più adatto, una stanza sita al piano superiore della basilica di S. Marco; e finalmente nel 1537 si decise la costruzione di una sede nuova, affidandone la cura al Sansovino.

Anche sotto il profilo dell'amministrazione della biblioteca vi era un'evidente disparità di vedute: vi era chi voleva favorire la diffusione delle opere in essa conservate e chi invece si accontentava di una conservazione passiva. La raccolta era affidata collegialmente ai procuratori di S. Marco, secondo l'espressa volontà del donante: uno di essi assunse a data imprecisata il titolo di Bibliothecarius Sancti Marci. Il primo fu, sembra, Marco Barbarigo; quando fu eletto doge, nel 1485, gli succedette il fratello Agostino. Come si ricava da una lettera di Ermolao Barbaro, fu grande la delusione subita dal padre di lui Zaccaria, che aspirava all'onore (202). Mentre il Barbarigo era un personaggio di grande rilievo politico, ma poco impegnato culturalmente, Zaccaria Barbaro, eminente anche nel mondo umanistico per tradizione famigliare e meriti propri, era evidentemente il candidato dei circoli più dotti. Il fatto che gli fosse preferito il Barbarigo dimostrava che non si voleva un particolare impegno pubblico in rapporto alla Libreria.

Maggior significato poteva avere la nomina di Marc'Antonio Coccio di Vicovaro detto il Sabellico, umanista e storico assai gradito al patriziato, che succedette ad Agostino Barbarigo dopo che questi, nel 1466, fu eletto doge. Ma nulla fece, o poté fare, il Sabellico per la costruzione di una nuova sede, ché quella era la questione più importante. Alla sua morte, nel 1506, non venne sostituito. Venezia era impegnata nel gioco politico europeo, il patriziato pensava ad altro. Il clima mutò nel 1515, con la nomina di Andrea Navagero, fine poeta latino, legato alla cerchia di Aldo (203). Alla costruzione di una nuova, degna sede per i codici di Bessarione si interessava anche un autorevole amico del Navagero, il generalissimo Bartolomeo d'Alviano. Poi le guerre d'Italia assorbirono le energie della Repubblica, sino a che nel 1537 si giunse alla deliberazione dei procuratori che affidava al Sansovino la costruzione di un nuovo edificio per ospitare la biblioteca della Repubblica.

Nel frattempo peraltro i codici non erano rimasti inutilizzati: ad essi si accedeva grazie al prestito, istituto che si è visto largamente applicato dai Veneziani in materia di libri. Nel 1494, in occasione del trasferimento, progettato ma non attuato, della biblioteca al convento dei SS. Giovanni e Paolo (si era infatti pensato di unirla a quella domenicana, che attraversava un momento di splendore grazie alle iniziative del padre generale dell'Ordine, Gioachino Torriano, o della Torre), si compilò un elenco di "libri non restituidi". I prestatari inadempienti erano il segretario papale Marcello de' Rustici, Tomasin da Conegian, rimasto sconosciuto, Nicoletto Vernia, noto professore di filosofia a Padova, Niccolò Leonico Tomeo, anch'egli professore in quella Università, e tre patrizi: Bartolomeo Gradenigo, Leonardo Mocenigo e Domenico Pisani. Gli inadempienti non potevano essere che alcuni dei non pochi studiosi ammessi alla lettura dei codici niceni.

Anni dopo, nel 1506, il collegio decise di sospendere temporaneamente il prestito: evidentemente se ne era fatto un uso eccessivo. Nel 1516 fu il Navagero a minacciare sanzioni a chi non restituisse i libri avuti a prestito. La Biblioteca di S. Marco restava dunque un tesoro non utilizzato appieno, ma non sepolto e inaccessibile come alcuni lamentavano.

L'avvento e il trionfo della stampa

Quegli intellettuali patrizi che, come si è visto, si erano adoperati per dotare Venezia di una libreria pubblica, che avevano ottenuto l'istituzione di una seconda cattedra alla Scuola di S. Marco, che sostenevano la necessità di una politica di largo respiro in Oriente e che a tali fini usavano della loro influenza e dei loro rapporti entro e fuori Venezia, ebbero anche un altro merito storico di straordinaria importanza: l'introduzione nella città della nuova rivoluzionaria arte della stampa.

Una forma primitiva di stampa, che si avvaleva di matrici di legno su cui erano incisi i caratteri, esisteva già da tempo, addirittura, come si è accennato, dal tardo Trecento. Immagini xilografiche raffiguranti s. Caterina da Siena, oggetto di una devozione popolare largamente diffusa, circolavano già nel 1396: secondo una dichiarazione rilasciata in giudizio dal noto frate senese Tommaso Caffarini, ne erano state prodotte varie migliaia. Di esse, nessuna ci è pervenuta (204). Rimangono peraltro altre immagini di sante e santi risalenti con ogni probabilità allo stesso periodo o al primo Quattrocento. Talvolta le immagini erano corredate da una didascalia, anch'essa incisa nel legno; tal altra erano unite a formare un libro, come la famosa Biblia pauperum di Heidelberg, che risale al 1420 circa. Forse veneziano è un libro analogo di poco posteriore, oggi a Boston; certo veneziana è la Passione di Norimberga, di cui esiste un altro esemplare (o imitazione coeva) a Berlino; i disegni e forse gli stessi intagli sono ritenuti opera del Cortese, eseguiti tra il 1430 e il 1440 (205).

La xilografia era usata anche per stampare libretti destinati all'uso scolastico. Nel febbraio 1447 "mistro Zuane de Biaxio bidelo e miniador de Bologna", un libraio che stava "a S. Zulian in la ca' de le muneghe", vantava un credito per "una composixion fata [..> de alcune forme da stanpar donadi et salteri" (206). Il grande consumo di libri scolastici elementari rendeva più economico servirsi di legni incisi, con cui si potevano riprodurre non solo immagini ma anche brevi testi; con lo stesso procedimento si riproducevano anche carte da gioco. Facilmente oltre agli estratti dell'Ars minor di Donato e del salterio, cui fa cenno il documento, si saranno riprodotte xilograficamente le tabule, quei fogli contenenti lettere dell'alfabeto, sillabe ed elementari preghiere sui quali i bambini imparavano a leggere. La tecnica xilografica era in uso da molti secoli in Oriente e almeno dalla fine del Trecento in Germania; di qui forse era giunta nella laguna (207).

La xilografia era dunque procedimento ben noto a Venezia. Anzi, era largamente praticato, se nella mariegola dei Pittori è annotata, l'11 ottobre 1441, una deliberazione dello Stato volta a proteggere dalla concorrenza estera "l'arte et mestier de le carte e figure stampide", che era "vegnudo a tottal defaction" a causa della "gran quantità de carte da zugar, e figure depente stampide, le qual vien fate de fuora de Venexia" (208). Dato che nelle motivazioni di questo genere di provvedimenti si tende a dare un quadro fosco della situazione per giustificare le restrizioni, si può immaginare che l'arte minacciata doveva essere stata, e probabilmente ancora era, fiorente: ad ogni modo si disponeva che non potesse essere importato "alcun lavorerio de la predicta arte che sia stampido o depento in tela o in carta, come sono anchone e carte da zugar, e cadaun altro lavorerio de la so arte fatto a penello et stampido".

La tecnica escogitata da Gutenberg era peraltro cosa ben diversa e apriva possibilità prima inimmaginabili: anche se la diffusa presenza della stampa xilografica e dei suoi strumenti, come matrici e torchi, poteva facilitare l'accoglimento di un'arte che doveva apparire nuova, ma non del tutto; di essa era già familiare anche il nome, che suona in quelle carte stampide (209). Il primo a servirsi della tecnica di Gutenberg a Venezia fu, secondo la comune opinione, un tedesco, Giovanni da Spira: lo dichiara orgogliosamente egli stesso nel colophon del primo libro da lui pubblicato, le Epistolae ad familiares di Cicerone. "Primus in Adriaca formis impressit aenis Urbe Libros Spira genitus de stirpe Iohannes": così egli scrive nella prima edizione, mentre nella seconda, uscita pochi mesi dopo la prima (che, stampata in trecento copie, era già esaurita), sottolinea i benefici che la Germania, per mezzo di lui e dell'arte da lui importata, avrebbe recato a Venezia: "Spira favet Venetis", conclude, e a ragione. Poco di lui è noto: forse aveva appreso l'arte nell'officina stessa di Gutenberg. Un Hans von Spyre e un Clas Gotz "die Goltsmyde" sono ricordati in due documenti di Magonza, del novembre 1460 e del gennaio 1461, ed è possibile che Hans von Spyre e Giovanni da Spira siano la stessa persona (210). Se era orafo, Giovanni sapeva lavorare il metallo. Forse, come tanti altri artigiani, lasciò Magonza dopo il sacco del 1462. È probabile che si stabilisse a Venezia poco dopo: nel 1477 aveva una figlia in età da marito, che sposò in quell'anno un facoltoso libraio, Kaspar von Dinslaken, e doveva essergli nata a Venezia. La madre era infatti veneziana; si chiamava Paola ed era figlia di un Antonio da Messina, che peraltro non sembra possa essere identificato col pittore Antonello (211). Come molti dei primi stampatori, Giovanni era un artigiano: possedeva solo gli attrezzi e la capacità tecnica, e aveva bisogno di capitali per potersene avvalere. A Venezia, grande centro culturale e commerciale in cui prosperava un'attiva colonia tedesca, egli poteva far conto di trovare l'ambiente adatto.

La priorità di Giovanni non è tuttavia del tutto certa. L'affermazione del tipografo non è decisiva: Jenson viene dichiarato in un volume da lui stesso stampato "artis librariae mirabilis inventor"; lo stampatore Filippo di Lavagna si dichiara nel 1473 "primum latorem" in Milano "atque inventorem huius artis stampandi", mentre non era né l'una né l'altra cosa. Altri tipografi erano presenti nel Veneto in quegli anni, Cristoforo Valdarfer, Clemente da Padova; lo stesso Jenson era forse a Vicenza (212). Nel 1472, il 6 marzo, il cancelliere del duca di Milano Giovanni Simonetta scrive a Francesco Sforza per avvisarlo che gli si sarebbe presentato "quello maestro da libri dal stampo, che è venetiano et se trova qui"; il suo nome, precisa, è "Pamphilo de Castaldis, medico". Se era già un esperto in materia di stampa e vien detto veneziano, il Castaldi doveva avere svolto a Venezia per qualche tempo la sua attività prima di trasferirsi a Milano (213).

E a Venezia operava, nel 1470, Antonio Planella: uno stampatore rimasto misterioso, ma certamente competente nel suo mestiere, se il 30 aprile di quell'anno Gerardo de' Colli, ambasciatore milanese a Venezia, può scrivere alla sua corte che egli "fa molto miglior litera che non quella da Roma". Egli voleva "venir a star a Milano et fare de li libri a stampa", e aveva chiesto un privilegio decennale, ma il consiglio ducale si era mostrato restio a concedergli tanto tempo: ora il Colli l'aveva indotto ad accettare un termine di cinque anni. Se l'avessero accontentato, scrive il Colli, "darà utile a la terra et mostrarà l'arte in Milano, et habundiarà tutto il paese de libri, che quello si vende qua X si darà a Milano per VI" (214). Ma quel che più incuriosisce è il fatto che, a dire dell'ambasciatore, "quando il viene qua la Signoria li diede caxa per niente et altre comodità", mentre a Milano non chiedeva un analogo beneficio. Doveva dunque essere un tipografo di valore e ben conosciuto, se la Repubblica - talvolta generosa, ma prodiga mai - gli aveva addirittura assegnato una casa in uso gratuito. Qualche fatto che ci sfugge doveva aver indotto il Planella a cercare nel 1470 una nuova sede: forse proprio il prevalere di Giovanni da Spira. Ed è anche singolare che nulla rimanga di lui: forse avrà dato prova della sua valentia stampando fogli volanti o altro materiale destinato a breve vita.

Se dunque Giovanni non fu il solo a tentare l'impresa a Venezia, certo è che prevalse su tutti gli altri competitori, ottenendo dal collegio un privilegio quinquennale per la stampa in esclusiva a Venezia (215). Anche il Planella, come si è visto, mirava ad un privilegio; nel maggio del 1470 il consiglio ducale di Milano stava per concederglielo, ma uno dei membri, un Crivelli, asserì che vi era un tedesco disposto a venire "senza veruno pacto", per cui si preferì attendere quest'ultimo; ma il tedesco non venne, e il 7 settembre il Planella ebbe il suo privilegio quinquennale; poi, per motivi ignoti, non se ne avvalse e sparì dalla storia. Il privilegio era dunque un'aspirazione comune agli stampatori.

La famosissima deliberazione del collegio che concede a Giovanni da Spira l'ambita esclusiva prende le mosse da una constatazione: "inducta est in hanc nostram inclytam civitatem ars imprimendi libros"; segue una previsione, un voto: "in diesque magis celebrior et frequentior fiet per operam, studium et ingenium magistri Johannis de Spira, qui caeteris aliis urbibus hanc nostram praelegit, ubi con coniuge, liberis et familia tota sua inhabitaret, exerceretque dictam artem librorum imprimendorum". Si prosegue elogiando i libri da lui già stampati, le Epistolae di Cicerone e la Naturalis Historia di Plinio, usciti "in maximo numero et pulcherrima litterarum forma"; si prevede che molti altri libri usciranno con la nuova tecnica e che si venderanno "pervili pretio". Il provvedimento consiste nel divieto per tutti, ad eccezione di Giovanni, di "exercere ipsam artem imprimendorum librorum in hac inclyta civitate Venetiarum": ciò "per annos quinque proxime futuros". Come ha notato il Lowry, il testo del privilegio non chiarisce in modo definitivo la priorità nell'introduzione della stampa a Venezia: il fatto che essa sia "inducta" non è indissolubilmente legato dal punto di vista grammaticale alla "operam" di Giovanni.

Egli è comunque lo stampatore che la Repubblica sceglie fra tutti e tutela in modo particolare; resta da vedere da chi, e perché, egli venga scelto e protetto. La deliberazione è firmata da cinque consiglieri ducali: Angelo Gradenigo, Bertuzzi Contarini, Angelo Venier, Giacomo Morosini, Francesco Dandolo. Nessuno di essi è famoso per militanza umanistica. Ma il tono solenne del documento, lo stile elegante, i richiami alla novità e all'importanza dell'invenzione, alla qualità dei libri stampati, al loro basso prezzo, che ne faciliterà la sperata diffusione, tutto ciò riconduce ad un ambiente umanistico. E ad esso richiamano le opere pubblicate, Cicerone e Plinio, cui seguirà s. Agostino, e i caratteri, che non sono i gotici usati in Germania ma la littera antiqua degli umanisti.

Giovanni non è il primo a stampare in Italia: quattro anni prima si erano stabiliti a Subiaco due chierici tedeschi, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz. Forse li aveva chiamati il cardinale Torquemada, forse Niccolò da Cusa. Ma non sembra azzardato pensare al Bessarione: ammiratore del progresso tecnico occidentale, buon conoscitore della scienza meccanica e interessato alle sue pratiche applicazioni, egli era in grado di ben comprendere l'importanza della nuova invenzione e le possibilità ch'essa offriva ai fini della diffusione delle idee e, anzi, della propaganda ideologica. Del resto la stampa era stata usata per tali fini sin dall'inizio, in Germania, nel 1454, per diffondere le lettere d'indulgenza di Niccolò V a beneficio di chi si fosse adoperato per la crociata antiturca; e forse Gutenberg stesso aveva stampato in quell'anno l'opuscolo Eyn Manung der Cristenheit widder die Durken: "un monito alla Cristianità" perché si battesse "contro i Turchi", in nove pagine, che costituiscono il primo testo impresso in volgare (216). Bessarione aveva avuto certo notizia di quei fogli, che lo toccavano così da vicino, ed aveva avuto poi più occasioni di conoscere meglio la nuova arte nel 1461, durante il soggiorno in Germania. Certo è che il programma editoriale dei due chierici tedeschi, che nel 1468 lasciano Subiaco per Roma, sembra ispirato dal Bessarione e diretto a diffonderne il pensiero (217). Una serie di titoli di classici e di padri della Chiesa sembra condurre al momento culminante del programma, la grande opera del cardinale in difesa di Platone, pubblicata col titolo Adversus Platonis calumniatorem. Per la prima volta la stampa si pone al servizio di un organico piano editoriale, rispondente a un preciso disegno ideologico, la difesa e il trionfo del platonismo cristiano; ma il piano prevedeva anche l'uscita di un testo più nettamente propagandistico, le Orationes contro i Turchi dello stesso Bessarione.

Quest'ultimo testo non esce peraltro a Roma, ma a Parigi, nel 1471: anche qui la stampa viene introdotta da un amico e seguace strettissimo del Bessarione, Guillaume Fichet, cancelliere della Sorbona, che chiama tre tipografi tedeschi a cui affida la stampa di classici e, momento anche qui decisivo per qualificare il programma, le Orationes del cardinale.

Gli anni sono gli stessi, Venezia è al centro della rete di amicizie e di rapporti internazionali che il cardinale intesse per i suoi grandi progetti di diffusione della cultura greca e di crociata per la liberazione della sua terra. Nelle conversazioni quasi quotidiane del marzo 1468 tra il Bessarione e l'ambasciatore veneziano si sarà parlato non solo della donazione dei libri a S. Marco, ma anche della possibilità di diffondere il programma del cardinale da una tribuna privilegiata dal punto di vista politico, commerciale e culturale come quella di Venezia. Gli interlocutori, Paolo e Pietro Morosini, Lodovico Foscarini, i Giustinian, sono sempre gli stessi: gli uomini al centro di ogni fatto culturale, addentro ad ogni grande problema politico. Per loro la stampa non doveva essere un fatto sconosciuto: oltreché a Roma potevano averne avuto notizia nel corso delle missioni diplomatiche in Germania. L'idea di usare un simile mezzo propagandistico a beneficio dei loro programmi, in buona parte coincidenti con quelli del cardinale, non poteva che incontrare la loro adesione. Il 18 settembre 1469 Lodovico Foscarini e Bernardo Giustinian erano savi del consiglio: facevano quindi parte, in posizione particolarmente elevata, del collegio che decretava il privilegio di Giovanni da Spira. Anche se non sottoscrivevano l'atto, potevano ben esserne gli ispiratori.

Attraverso il meccanismo del privilegio quinquennale, i protettori di Giovanni intendevano probabilmente assicurarsi che la stampa si sviluppasse sotto il loro controllo e nelle direzioni da essi volute. Ma la morte repentina del tipografo, avvenuta nel 1470 quando ancora non era completato il s. Agostino, tolse al privilegio la sua efficacia, ed esso non fu più riproposto.

Lo spazio da lui lasciato venne rapidamente colmato. Anzitutto, l'azienda proseguì l'attività: se ne assunse il carico il fratello Vindelino, che pubblicò nello stesso anno ben dieci titoli: classici, ma anche il Canzoniere del Petrarca. E in quello stesso 1470 esce, forse nel maggio, il primo libro stampato dal maggior competitore di Vindelino: è opera di Nicholas Jenson, un francese destinato ad eccellere fra tutti i tipografi a Venezia e forse nel mondo. Degli anni antecedenti alla sua venuta a Venezia poco si sa. Un racconto che ha il sapore di una leggenda lo dice incaricato dal re di Francia di carpire i segreti dell'arte tipografica appena inventata da Gutenberg: ma si tratta di una vicenda che presenta aspetti poco chiari, e che per di più venne posta in circolazione molti anni dopo. Sembra che sia stato lo stesso Jenson a creare attorno a sé una sorta di cortina di mistero, facendo circolare leggende atte ad aumentare il suo prestigio. Nell'introduzione al Quintiliano del 1471, il curatore lo dice, come si è visto, inventore dell'arte tipografica: evidentemente l'abile Jenson non si opponeva a che gli fosse accreditato anche questo merito storico. La data apposta al Decor puellarum, un impossibile 1461, è certamente un errore di stampa per 1471: ma potrebbe essere una svista non del tutto involontaria. Il suo primo libro, che esce nel 1470, è la Preparatio evangelica di Eusebio. Il colophon, in lode dello stampatore, è opera di Antonio Cornazzano, un letterato di prestigio, legato al condottiero Bartolomeo Colleoni, generalissimo della Repubblica. Poco dopo esce la Rhetorica ad Erennium: questa volta il curatore è Ognibene da Lonigo, studioso di grande riputazione, che nel 1471 sarà anche il curatore dell'edizione, già ricordata, di Quintiliano. Sono le prime prove dell'abilità di Jenson nel procurarsi le giuste entrature, i legami opportuni; una dote che, unita a una capacità tecnica straordinaria e ad un gusto raffinato, lo porteranno al primo posto tra gli stampatori veneziani (218).

Ma Vindelino non è da meno: si procura la collaborazione di due ottimi nomi, Giorgio Merula, noto filologo, e Raffaele Zovenzoni, un letterato triestino assai bene introdotto negli ambienti patrizi. Ed è Vindelino che nel 1471 pubblica la Bibbia tradotta in volgare dal camaldolese di S. Michele Niccolò Malerbi, punto di partenza di una serie imponente di edizioni (219). Segno che gli stampatori tenevano d'occhio il mercato e non si limitavano a gravitare nell'ambito della committenza patrizia.

L'appoggio di chi determinava la vita culturale della città era certamente importante. Nelle pagine illuminanti che Martin Lowry dedica ai primi anni dell'attività di Jenson, egli ci mostra quest'ultimo, Vindelino e Cristoforo Valdarfer, il terzo a comparire (nel 1471), intenti a porre la loro arte in definitiva al servizio delle stesse persone: quegli intellettuali patrizi che credono nel libro e nella sua importanza culturale e politica, che amano il libro per il suo contenuto spirituale ma se ne servono anche come strumento di prestigio e come veicolo di messaggi culturali ma altresì diplomatici e politici.

Che i libri stampati siano rivolti ad essi direttamente, ovvero a coloro cui essi vogliono trasmettere una comunicazione più o meno esplicita, si ricava anzitutto dalle dediche: così il De natura deorum di Cicerone è dedicato nel 1471 da Vindelino ad Alvise Donà, diplomatico, che si era adoperato per la candidatura al papato di Bessarione; il De finibus, anch'esso di Cicerone, è dedicato lo stesso anno da Vindelino a Lodovico Foscarini; il volume degli Scriptores rei rusticae del 1472 di Jenson reca la dedica a Bernardo Giustinian, Domenico Zorzi, Pietro Priuli.

Le dediche possono significare qualcosa di più preciso che un semplice ossequio alla committenza. Vediamo così Vindelino inserirsi nell'azione difensiva organizzata da alcuni patrizi umanisti, sospettati di coinvolgimento in un grave affare di spionaggio ruotante attorno ai Barbo e al cardinale Battista Zeno. Nel 1472, pochi mesi dopo la scoperta delle segrete intelligenze con la Curia romana dell'entourage degli Zeno, Vindelino dedica quattro opere al vescovo di Padova Jacopo Zeno; in una si elogia anche, con la penna di Giorgio Merula, la vita di Carlo Zeno, il grande ammiraglio, che il vescovo aveva scritto. Il significato di queste dediche veniva certo colto da coloro cui esse erano rivolte: la famiglia Zeno aveva grandi meriti storici, il vescovo Jacopo, uomo colto e bibliofilo, non aveva colpa alcuna, e in ogni caso ad un grande casato si poteva perdonare un errore. Ecco all'incirca il messaggio che quei libri, certo distribuiti ai membri più influenti del patriziato a cura degli interessati, erano destinati a trasmettere a chi li riceveva in dono.

Quella volta erano i torchi di Vindelino a svolgere un velato compito politico. Altrettanto usati a tale fine quelli di Jenson. Eccolo pubblicare composizioni gratulatorie all'elezione del doge Tron; eccolo dare alle stampe il discorso dell'ambasciatore del duca di Borgogna che ravviva le speranze di un intervento di quel potente principe nella guerra col Turco. La rapida pubblicazione consente in questo (e in altri casi) di far circolare nelle cancellerie una notizia importante: la possibilità di un'alleanza che poteva modificare in meglio la situazione della Repubblica, favorendo la posizione di chi la guerra turca aveva voluta e di chi si adoperava per assicurarne il sostegno diplomatico.

Anche l'attività di Valdarfer, durata poco a Venezia ma intensa e di grande interesse (gli è dovuta la stampa delle lettere di Plinio, nonché la prima edizione del Decameron di Boccaccio), si svolge nello stesso ambito. A lui tocca - non si sa attraverso quale gioco d'influenza e di rapporti - un compito di straordinario prestigio: la pubblicazione della traduzione italiana dei discorsi di Bessarione contro i Turchi, opera di Lodovico Carbone. La pubblicazione viene quindi a inserirsi in primo piano nell'offensiva diplomatica che il cardinale e i suoi alleati stanno conducendo a mezzo della stampa: nello stesso anno le Orationes del cardinale escono in latino a Parigi ad opera del Fichet. Ma l'edizione ha anche un altro scopo: lasciar intendere che il cardinale è il miglior candidato alla cattedra di Pietro, proporlo alla successione di Paolo II a nome di Venezia. L'anno prima è caduta Negroponte, la minaccia turca si aggrava, Venezia è sempre più vicina al cardinale greco e alla sua politica. Verrà invece eletto il cardinale della Rovere, che accoglierà le richieste veneziane promuovendo una serie di missioni diplomatiche in cui avrà parte dominante il Bessarione: questi si riserverà la missione in Francia, la più difficile, che gli costerà la vita.

Due delle opere pubblicate dal Valdarfer sono dedicate a Borso d'Este: anche qui lo scopo è diplomatico, Venezia interviene nella politica ferrarese inviando in missione Domenico Zorzi, membro anch'egli del gruppo dei patrizi umanisti, che si provvede così di uno strumento di propaganda e di un'elegante presentazione (220).

Anche i libri di argomento devozionale pubblicati da Jenson si inseriscono in questo quadro: essi sono opera dei Certosini di S. Andrea, escono quindi da un monastero vicinissimo ai circoli umanistici attraverso il priore Francesco Trevisan, e sono veicolo di propaganda antiebraica. I patrizi umanisti sono infatti fieramente avversi agli Ebrei per motivi politici, in quanto li vedono pericolosamente vicini al Turco, ed economici, in quanto temibili concorrenti nelle loro imprese finanziarie e commerciali. Anzi durante il soggiorno veneziano del Bessarione Lodovico Foscarini in persona cercò di ottenere dal cardinale un provvedimento limitativo della libertà di movimento e di traffico degli Ebrei: ma ottenne una risposta del tutto negativa, ché anzi il cardinale dispose che essi potessero vivere e commerciare senza subire molestia alcuna (221).

È peraltro probabile che vi fossero interventi di finanziatori con finalità diverse da quelle cui si è accennato. Lilian Armstrong ha individuato vari esemplari di lusso, miniati e in pergamena, di libri stampati in questi anni da Vindelino, Jenson e Valdarfer: venti recano le armi della casata dei Priuli, ventuno di quella degli Agostini, ricca famiglia di banchieri (222). I Priuli svolgevano anch'essi attività bancarie e commerciavano in rame, la materia prima dei caratteri di stampa; gli Agostini avevano specifici interessi nel mercato della carta: ciò risulta da una fornitura di ottantasei balle di carta, per un valore di 731 ducati, da essi fatta a Giambattista Ridolfi e Girolamo Strozzi, associatisi per finanziare la stampa del Plinio tradotto in volgare da Cristoforo Landino, che esce nel 1476 ad opera di Jenson (223). L'ampia partecipazione al finanziamento dell'attività tipografica, che le numerose opere decorate superstiti paiono presupporre, sembra corrispondere ad un interesse più capitalistico che mecenatesco, più economico che culturale.

L'attenzione con cui il patrizio guardava al mondo della stampa è dimostrata dal notevole numero di incunaboli recanti armi miniate di famiglie veneziane (224); stemmi Bembo, Mocenigo, Loredan ricorrono con particolare frequenza (225): forse indizio di un coinvolgimento finanziario di quei casati.

Il mercato mostra un'importanza crescente. Jenson stesso compie già nel 1471 un assaggio in una direzione diversa da quella sino ad allora battuta, pubblicando opere mediche, in ciò preceduto da Clemente da Padova, che stampa pochi mesi prima, a Padova, l'opera del Mesue (226). Il mondo medico poteva rappresentare uno sbocco importante, tanto più se fosse stato attuato il progetto di papa Paolo II volto a creare in Venezia uno Studio medico abilitato a concedere diplomi in concorrenza con Padova: progetto che peraltro incontrò la più netta opposizione da parte della Repubblica (227).

Se Jenson e Vindelino dominano la scena, compaiono presto, oltre al Valdarfer, altre figure non prive di importanza. Adam di Ambergau, che pubblica nel 1471 il primo libro veneziano illustrato da xilografie (una Bibbia nella traduzione del Malerbi, copiata dall'edizione di Vindelino uscita pochi mesi prima), si muove nello stesso ambiente di Vindelino, Jenson, Valdarfer: pubblica poesie latine dello Zovenzoni e rime italiane di Leonardo Giustinian (228). Ma presto altri tipografi si aggiungono: Fiorenzo da Strasburgo, Cristoforo Arnoldo, Leonardo Aurl, tutti tedeschi. Tedesco è anche Francesco Renner di Heilbronn, che nel 1473 trova un finanziatore nel connazionale Niccolò da Francoforte, facoltoso mercante di libri. Il mondo della stampa comincia ad arricchirsi di nuove figure, queste più difficilmente riconducibili ad un rapporto con la committenza patrizia: lo stampatore e il capitalista che lo finanzia tendono solo al guadagno, non all'affermazione di principi o al sostegno di cause politiche.

Alla fine del 1472 il mondo della stampa è investito da una tempesta che travolge molte aziende e cambia la fisionomia dell'arte. La produzione cala bruscamente, sette degli undici tipografi spariscono di scena, quelli che sopravvivono mutano il tipo di produzione cui in precedenza si erano dedicati. Crolla la stampa di classici: sui venticinque titoli usciti nel 1473, i classici sono soltanto due, contro i venti del 1472 e i trenta del 1471.

La spiegazione data comunemente al fenomeno è che si tratti di una crisi di sovrapproduzione: un eccessivo numero di opere di autori classici si scontrava con l'insufficiente capacità di assorbimento da parte di un mercato ancora non abbastanza vasto (229). Tuttavia, se gli stampatori si muovevano attorno ad una classe dirigente che ne condizionava le scelte e ne determinava il successo economico, la crisi non poteva ricondursi soltanto a fatti di puro mercato.

Anche in questo fenomeno Roma aveva preceduto Venezia: già nel marzo 1472 Sweynheym e Pannartz si rivolgevano a Sisto IV per chiedere aiuto, dichiarando di avere la bottega carica di una mole immensa di libri e di essere al tempo stesso sprovvisti di mezzi per vivere. Una spiegazione di questo subitaneo crollo è proposta dal Feld: essi avevano prodotto i loro libri obbedendo a un piano preciso, finanziato dal Bessarione. Questi si era avviato alla infausta missione in Francia, non si sapeva se sarebbe tornato vivo: i due stampatori, che avevano prodotto per lui e su suo ordine, non erano più sicuri del futuro (230).

Una causa analoga si doveva cercare per la crisi veneziana, e il Lowry suggerisce di trovarla in una campagna scatenata proprio in quei giorni contro i falsificatori di moneta: questi potevano facilmente essere confusi con i tipografi, che usavano una tecnica molto simile agli operai di zecca e provenivano spesso da quel mestiere. Travolti da una caccia ai falsari che li coinvolgeva per affinità di mestiere, molti tipografi si sarebbero messi in salvo all'estero, abbandonando l'attività. Ed appare significativo che in quegli stessi giorni Filippo da Strada, il domenicano nemico della stampa, si lanciasse nella sua polemica contro la nuova arte corruttrice del gusto e dei costumi. La situazione di tensione induceva forse alla prudenza anche i patrizi che sino a quel momento avevano sostenuto la stampa (231).

Non sembra peraltro possibile negare l'importanza delle leggi del mercato. Si è visto che nuovi stampatori si erano affacciati, il mondo della tipografia si era complicato ed esteso. Del resto nella stessa Roma anche altre aziende convivevano con quella di Sweynheym e Pannartz: è stata di recente posta in luce l'importanza dell'azienda di Ulrich Hahn, attorno alla quale gravitavano associazioni di investitori che affidavano la loro sopravvivenza e il loro successo al mercato e non alla protezione dei grandi (232). Se ciò avveniva a Roma, dove la presenza della corte pontificia era soverchiante, tanto più ampia era a Venezia la zona lasciata libera per l'intraprendenza di editori e tipografi non legati a circoli di potere. Anche gli stampatori più vicini ai committenti patrizi avranno poi commercializzato parte almeno della loro produzione. La committenza se ne sarà riservata una quota, mentre un'altra quota sarà rimasta allo stampatore, che l'avrà venduta attraverso i librai o direttamente nella sua bottega.

Dopo la crisi sembra che gli stampatori abbiano un occhio più attento al mercato, puntino a una clientela più ampia, si evolvano in una direzione più capitalistica e meno letteraria ed erudita. Anzitutto vediamo le due maggiori aziende procurarsi nuovi capitali, per raggiungere una piena autonomia finanziaria. Vindelino li trova in casa. Sua cognata, Paola, vedova di Giovanni da Spira, abitava nel 1474 nella casa di Giovanni Manthen di Gerresheim ed era sposata con Giovanni da Colonia. Entrambi erano in possesso di cospicui mezzi liquidi, che investirono nell'attività di Vindelino. La loro posizione nella società dovette divenire dominante: il nome di Vindelino appare sempre più di rado e scompare definitivamente dalle edizioni nel corso del 1474 (233).

Jenson si associa anzitutto a un conterraneo, il suo "compatre" Jacques Le Rouge di Chablis, che peraltro non doveva disporre di grandi mezzi, se nel 1473 aveva dovuto associarsi a Smerio Querini per stampare un voluminoso Ovidio: impresa che si era risolta in una lite tra i soci davanti al giudice di petizion. Ma alla fine dello stesso anno Jenson trovava un nuovo socio: Johannes Rauchfass, agente a Venezia di una ditta di Francoforte, la Chrafft Stalberg. Il Rauchfass era in possesso di notevoli mezzi, se poteva finanziare anche a Padova uno stampatore, Pierre Maufer. Ai due poi si aggiunse un altro tedesco, Peter Ugleheimer, gestore della "Deutsches Haus", l'albergo all'insegna del Flauto e della Trinità, assai frequentato dai pellegrini diretti dalla Germania alla Terrasanta. A cementare l'unione, Rauchfass divenne anche compare di Jenson (234). Quest'ultimo peraltro manteneva nelle proprie mani la direzione dell'azienda, cui diede uno slancio straordinario, coltivando sempre i contatti con gli antichi protettori, in particolare i Giustinian, ma soprattutto dirigendo la sua attenzione a due mercati: quello dei libri di giurisprudenza e quello dei libri religiosi. A giuristi ed ecclesiastici bisognava offrire opere spesso di enorme mole, che richiedevano uno sforzo produttivo grandioso. Obbedendo alle precise tradizioni grafiche che regolavano la scrittura nei due campi in cui ora si cimentava, Jenson elaborava un suo carattere gotico, abbandonando il romano in cui aveva raggiunto una perfezione formale che ancora quattro secoli dopo ebbe a suscitare l'entusiasmo di William Morris.

Allo stesso pubblico si rivolgevano anche i competitori tedeschi, che anzi avevano preceduto Jenson stampando nell'ormai lontano 1471 per i tipi di Vindelino il commento del Panormita alle Decretali di Gregorio IX, uscito nel numero allora considerevole di mille copie: numero che peraltro verrà spesso uguagliato e superato. Si affrontavano due veri e propri colossi: dal 1476 al 1478 su duecentosette libri stampati quarantacinque sono di Jenson "et socii", trentasette dei due tedeschi (235); ma il dato sarebbe più impressionante se si tenesse conto del numero dei fogli stampati e della dimensione delle opere. Jenson e i suoi rivali hanno ormai raggiunto una dimensione capitalistica, lontana dalle loro origini artigianali: investimenti cospicui sostanziano i due complessi, che si avvalgono di vari torchi, di numerose maestranze, di una vasta rete commerciale. La distinzione fra l'editore capitalista e il tipografo che svolge il lavoro tecnico è ormai netta, almeno concettualmente, anche se le due figure possono coesistere nella stessa persona (236).

Nel corso del 1479 i due gruppi entrano nell'idea di evitare una logorante concorrenza, alleandosi. L'anno dopo, il 29 maggio 1480, si giunge all'unione formale.

Nasce la società "Zuan de Cologna, Niccolò Jenson e Compagni". Da una parte sottoscrivono Giovanni da Colonia, rappresentato da Giovanni Manthen che firma anche in proprio, da Alvise Dardani e da Alvise Donà, il diplomatico che si è già incontrato, e la vedova di Giovanni da Spira, Paola, nel frattempo unita a Giovanni da Colonia, assieme alla figlia Hieronima e al figlio Pietro Paolo. Le due donne sono rappresentate da Kaspar von Dinslaken, marito di Hieronima. Dall'altra, Nicholas Jenson, Ugleheimer e i commissari di Rauchfass, nel frattempo defunto. Quella appena sorta era un'azienda formidabile. Dato che la quota di Giovanni da Colonia e di Manthen ammontava a seimilatrecentocinquantaquattro libri, valutati 4.776 ducati, il contributo di Jenson sarà stato all'incirca uguale: il capitale investito era dunque di circa 10.000 ducati (237). Nel giro di un anno, avvalendosi dei torchi di Johann Herbort di Seligenstadt e di altri, la Compagnia stampò un numero imponente di opere giuridiche e teologiche: venti edizioni per complessive 5.300 pagine di grande formato, una produzione di gran lunga superiore a quella di ogni altra casa editrice del tempo; la sola paragonabile è quella di Koberger a Norimberga (238). Imponente il giro d'affari. Le connessioni di Rauchfass e di Ugleheimer con Francoforte - dove si stava preparando la celebre fiera - aprivano il mercato tedesco. Jenson non mancava di contatti col mondo francese. In Italia risulta che vi erano corrispondenti, agenti, depositi in molte città: a Firenze, Pisa, Perugia e "per totum territorium Tuschanum" (239); a Pavia, ove vi era un deposito di merce per 500 ducati; a Milano, ove Pietro Antonio da Castiglione e Ambrogio de' Caimi si impegnano con una convenzione ad acquistare "libri a stampa la spesa de li quali monta ducati decemilia l'anno" (240): cifra invero formidabile, che meglio di ogni altro dato dà l'idea dell'entità degli affari che si muovevano intorno alla Compagnia. Tutto insomma sembra assicurare a quest'ultima una durevole posizione di predominio. Ma il destino volle altrimenti. Nel settembre dello stesso anno 1480 Jenson dettava il suo testamento e probabilmente moriva poco dopo. L'anno successivo la Compagnia cessava di esistere come azienda editoriale: dal novembre 1481 non svolse alcuna attività di stampa, continuando invece ad operare in campo commerciale.

La Grande Compagnia non era peraltro l'unica azienda attiva a Venezia, pur essendo certo la maggiore. Il fatto che molti altri stampatori prosperassero, nonostante la presenza dei due grandi complessi poi fusi in uno, ci dice molto circa la vitalità dell'industria tipografica. Tra il 1469 e il 1480 si contano a Venezia quarantaquattro aziende, di cui sedici tedesche, ventuno italiane, sei francesi o fiamminghe, undici senza nazionalità identificabile o nome. Dai loro torchi escono circa seicento edizioni, di cui duecentosessanta opera di imprese tedesche, che mantengono a lungo una prevalenza che deriva loro dalla priorità nell'invenzione (241). Gli stampatori si trovano nelle situazioni più diverse. Vi sono persino Ordini religiosi che si impegnano direttamente nella gestione di aziende di stampa, come i Francescani di S. Maria Gloriosa (242). Vi sono i capitalisti puri, come Niccolò di Francoforte, finanziatore di Francesco Renner tra il 1473 e il 1478, poi investitore in varie aziende tipografiche come quelle di Ratdolt e Wild (243). Vi sono all'opposto i tipografi puri, che lavorano per conto di altri. Vi sono poi gli stampatori che operano per se stessi, pur accettando finanziamenti esterni ed eventuali associazioni: tale è Erhard Ratdolt, che si unisce a Loslein e a Maler per pubblicare il suo famoso Kalendarium.

Il Ratdolt è un nome importante nella storia della cultura. Con lui si fa ancora sentire, sia pure indirettamente, l'influenza del Bessarione: egli è infatti strettamente legato all'astronomo Regiomontano, amico e protetto del cardinale, nel cui entourage aveva appreso il greco ed aveva avuto modo di apprezzare l'importanza della stampa come mezzo di diffusione delle idee. Di ritorno a Norimberga il Regiomontano aveva deciso di divulgare la nuova scienza astronomica, nata dall'incontro della scienza tedesca con quella greca, cui aveva potuto attingere grazie al Bessarione; e per far ciò aveva pensato di ricorrere all'arte nuova. Aveva quindi fondato una tipografia, con un programma di edizioni scientifiche. Alla morte del Regiomontano, nel 1476, il Ratdolt ne eredita i caratteri, modellati sembra su una delle serie di Sweynheym e Pannartz, e il programma editoriale; e decide di darvi attuazione a Venezia, attratto forse dalla protezione accordatagli da casa Mocenigo. Qui, nell'atmosfera intellettualmente vivace della città, si lega ad altri studiosi di astronomia, come il pievano di S. Zan Degolà, Francesco Negro e Johannes Santritter, che collabora alle sue edizioni.

Nella dedica al doge Giovanni Mocenigo degli Elementa di Euclide, usciti nel marzo 1489, il Ratdolt rileva che non vi era un'adeguata produzione di opere matematiche: ciò per la difficoltà di riprodurre figure geometriche. Ora, egli dichiara, il sistema era stato da lui trovato: e infatti ben quattrocentoventi xilografie corredano i teoremi euclidei. Più tardi egli sperimenterà altre tecniche xilografiche con successo (244).

Altra innovazione destinata a grande fortuna, l'adozione di una tecnica per cui la decorazione del frontespizio non era più lasciata al miniatore, ma stampata direttamente in rosso e nero. Si era avuta una fase intermedia, in cui si era fatto uso di decorazioni xilografiche, apposte a mano ad ornare la pagina già stampata (245). Ora gli eleganti fregi fogliacei di gusto classico venivano impressi direttamente dai torchi del tipografo, nel corso del processo della stampa: appare così il primo vero frontespizio a stampa della storia, quello del Kalendarium del Regiomontano (1476). Tali lavorazioni, adottate da uno stampatore che usava il carattere romano, vennero accolte con grande favore dal pubblico e contribuirono a dare a tale carattere, che Jenson aveva portato a forme perfette e poi abbandonato, una nuova popolarità.

Alla fine dell'ottavo decennio del secolo, quel patriziato che aveva chiamato e protetto i primi tipografi poteva, guardando all'indietro, misurare il cammino percorso: il mondo del libro era completamente rivoluzionato da quell'invenzione che esso aveva avuto l'intelligenza di comprendere e di sostenere.

La fine della Grande Compagnia segna una svolta nella storia della stampa. Nel vuoto da essa lasciato trova spazio tutto un proliferare di nuove aziende. Non vi sarà più una posizione di predominio da parte di alcuno: tutti concorrono, sia pure in misura diversa, ad animare il ribollente mondo della stampa nell'ultimo ventennio del secolo. Attratti dalle favorevoli condizioni offerte dalla città, crocevia commerciale in cui abbondavano capitali e materie prime (compresa la carta, il cui costo incideva per più della metà sul costo finale del prodotto, e che affluiva in copia grazie alla presenza nel Dominio di numerose cartiere fra le quali assunsero importanza preminente quelle della valle del Toscolano, nel Bresciano) (246), gli stampatori giungevano non solo dalla Germania ma da ogni parte d'Italia. La presenza tedesca va percentualmente riducendosi: giungono Piemontesi (di Vercelli, di Torino, del Monferrato), come Bernardino Stagnino, Guglielmo di Fontaneto, Guglielmo Anima Mia, Tacuino, Comino, Portinari; Parmensi, come Matteo Codecà; Forlivesi, come i De Gregori; Fiorentini, come i Giunta. La mobilità dei tipografi è straordinaria: mentre molti vengono dall'Italia intera a Venezia, Veneziani emigrano in altre città. I Veneziani che operano a Venezia non sono molti: Bernardino de Vitali, Marco Conti e pochi altri. Ma i non Veneziani di nascita lo divengono d'adozione: Venezia offre loro un ambiente vivacissimo, la possibilità di trovare mille occasioni di lavoro e di arricchimento, una molteplicità di possibili committenti, stimoli intellettuali, artistici e tecnici, una rete commerciale organizzata per traffici su larga scala e su territori vastissimi.

I tipografi attivi contemporaneamente erano varie decine. Secondo i computi tradizionali, essi sarebbero stati circa centocinquanta dalle origini alla fine del secolo. Ma si tratta di una cifra probabilmente inferiore al reale. Il Borsa individua duecentosettantuno nomi di tipografi o editori: un dato grezzo, che andrebbe depurato in seguito all'esame delle singole situazioni, ma indicativo dell'ordine di grandezza relativo. Da quei torchi sarebbero usciti quattromilacinquecento titoli, secondo una congettura dello Scholderer: una percentuale rilevante dei circa trentamila titoli stampati in Europa (247). Le tirature erano le più varie: da un centinaio di copie a duemila e più per edizione. Se si assume, come fa lo Scholderer, una media di duecentocinquanta copie per ciascun libro, si giunge a un totale di unmilionecentoventicinquemila volumi stampati a Venezia nel Quattrocento. Ma la cifra andrebbe aumentata di molto. Sappiamo dalla prefazione che il Catullo di Aldo Manuzio era stampato in più di tremila copie; ma edizioni di mille/duemila copie erano frequenti anche prima. Le Decretali di Gregorio IX, ad esempio, vennero stampate da Battista de Tortis, nel 1491, in duemilatrecento copie, in mille e più esemplari il Plinio in volgare di Jenson cui si è sopra accennato (248), Matteo Codecà (o Capcasa, o Matteo da Parma) nel suo testamento del 12 agosto 1491 raccomanda al fratello Giovanni di curare la divisione dei libri stampati in società con altri che rimanevano in magazzino: si va dalle cento copie di un Marziale alle milletrecentotrentacinque della Meditazione della passione, dalle millequattrocentotré copie dei Miracoli de la Madona ai novecentonovantatré Salteroli de puti. Del Dante stampato in società con Bernardino Benali restavano millecinquecentoquattro copie (249). Salvo eccezioni, le tirature, soprattutto nell'ultimo decennio del secolo, erano dunque più vicine alle mille/millecinquecento copie che alle duecentocinquanta. Un fiume di libri a stampa usciva dalle officine veneziane. Secondo moderni calcoli, Venezia è nel campo della stampa quattrocentesca una "superpotenza", che a partire dal 1475 non conosce rivali (250). Dinanzi a questa esplosione, lo Stato mantiene un atteggiamento di benevola neutralità. Il tentativo di imporre un monopolio non è più ripetuto. Solo a partire dal 1492, su richiesta degli stampatori, minacciati da una concorrenza spesso sleale, il collegio o il senato intervengono concedendo privilegi di stampa per una determinata opera. Il primo ad ottenere un privilegio di questo tipo è Bernardino Benali, che lo chiede per la stampa dell'opera di Bernardo Giustinian, De origine urbis Venetiarum: gli viene concesso dal collegio il 17 agosto 1492.

Pochi anni prima, nel 1486, il famoso storico Marc'Antonio Coccio Sabellico aveva ottenuto dal collegio il primo provvedimento che si ricordi a tutela del diritto d'autore: un privilegio a protezione delle sue Historiae. Era disposto che egli potesse consegnarle "alicui diligenti impressori" di suo gradimento e che ad altri fosse vietato stamparle sotto pena di 500 ducati. Il Sabellico scelse il Torresani, che pubblicò l'opera nel 1487 (251).

Un importante effetto del gran numero di copie poste in circolazione fu il calo dei prezzi dei libri, proprio come auspicato dai primi patrocinatori della tipografia. All'inizio il libro a stampa era un prodotto tutt'altro che economico. Il Plinio di Giovanni da Spira costava 8 ducati, esattamente lo stesso prezzo del Plinio di Sweynheym e Pannartz: lo dice il noto umanista di Norimberga Hartmann Schedel (252). I due torni contenenti l'opera completa di Ovidio dovevano essere venduti, a norma del contratto concluso il 27 novembre 1473 da Jacques Le Rouge con Johannes Rauchfass, a non meno di 3 ducati la copia.

Nel 1492 Paganino de' Paganini ottiene un privilegio dal senato per la stampa della Bibbia con la glossa ordinaria e le Postille di Niccolò da Lira: un'opera imponente, che si sarebbe tradotta in quattro grossi volumi in folio, che l'editore si impegnava a vendere a 6 ducati la copia, mentre le Bibbie si vendevano, a suo dire, a 12 ducati e a 5 le Postille, sicché chi avesse comperato le due opere insieme avrebbe fatto un affare (253): 6 ducati per quattro grossi tomi sono indubbiamente un prezzo minore rispetto agli 8 ducati di un Plinio. Gli esempi che si sono fatti riguardano opere di mole cospicua; i prezzi sono di gran lunga inferiori per i libri d'uso: 3 lire costano in media i breviari, lo stesso i "missaletti", da 1 a 4 soldi i libriccini detti "psalmista" venduti dal libraio veneziano Francesco de Madiis, o Maggi. Cifre veramente minime, alla portata di tutti, al pari del Donato (10-12 soldi), delle Regulae di Guarino (10 soldi), delle Epistolae ad familiares di Cicerone (3 lire e 6 soldi). Il Lowry, nella sua acuta analisi del "listino prezzi" del de Madiis, le cui registrazioni vanno dal 1484 al 1488, nota che i prezzi per le opere più popolari tendono alla diminuzione con l'aumento del numero delle copie vendute: il Psalteriolo passa da 3 o 4 soldi a meno di un soldo.

Se riflettiamo sul fatto che nel 1460, all'asta di Piero Tomasi, le Epistolae di Cicerone sono aggiudicate a 3 ducati, la diminuzione di prezzo è notevole: il de Madiis le vende a poco più di 3 lire, un sesto circa del vecchio prezzo. Ma ancor più colpisce il numero delle copie vendute: se un libraio non di primaria importanza come il de Madiis poteva realizzare vendite di dodicimilanovecentotrentaquattro libri in quattro anni, ricavandone 4.240 ducati e 5 lire, si può pienamente condividere la conclusione del Lowry che il vasto aumento del numero dei libri combinato con il rapido declino del loro prezzo deve aver avuto "a revolutionary impact" sulla società veneziana, che trovava facilmente disponibile un vasto materiale culturale prima accessibile solo a determinati strati di essa (254).

La varietà delle situazioni di quanti operavano nel mondo del libro era, come si è già accennato, la più grande, al pari della diversità nella provenienza sociale dei tipografi (255). Vi era l'investitore capitalista, come quel Niccolò da Francoforte che si è già incontrato: nel 1478 lo vediamo affidare al tipografo Leonardo l'incarico di stampare una Bibbia, remunerandolo con 243 ducati. In questo caso egli agiva come editore, curando la parte commerciale dell'operazione. Così Ottaviano Scotto, che esordisce come tipografo, stampando in proprio dal 1479 al 1484 una trentina di edizioni, ma che poi si serve di Boneto Locatelli e altri numerosi tipografi, mantenendo le funzioni appunto dell'editore (256).

In altri casi era il tipografo stesso ad essere anche editore: così Paganino de' Paganini, che nel 1492 chiede il privilegio per la stampa della Bibbia glossata, precisando il prezzo a cui l'avrebbe venduta. Egli dunque curava la stampa e la vendita.

Vi erano poi i tipografi che lavoravano per altri: esclusivamente o prevalentemente, come Johann Hamman, che stampa per Ottaviano Scotto, Niccolò di Francoforte, Andrea Torresano, Peter Lichtenstein, Antonio Moreto e altri editori stabiliti a Venezia, ma riceve anche in proprio commesse dalla Polonia, dall'Olanda, dalla Francia, dalla Spagna (257).

Vi era infine chi si occupava solo della vendita; anche qui le differenze erano grandi, tra il mercante che acquistava e vendeva grosse partite di libri magari all'estero, come la Grande Compagnia sopravvissuta nella parte commerciale, che vediamo presente nel 1483 alla Fiera di Francoforte (258), e il semplice libraio, magari provvisto solo di un banco, o neppure di quello, come i numerosi venditori ambulanti che smistavano l'imponente produzione di stampe popolari, fogli di notizie, immagini sacre, di cui sopravvivono oggi pochi esemplari, ma che dovevano avere ampia diffusione.

In questo mondo pieno di iniziative, di occasioni, di capitali un investitore poteva salire da modeste fortune a grandi posizioni. Ottaviano Scotto incomincia lavorando per la Grande Compagnia, poi apre una sua tipografia a S. Samuele, dal 1484 diventa editore e pubblica oltre centocinquanta titoli sino al 1498, anno della sua morte (259). Lucantonio Giunta arriva da Firenze attorno al 1477 e fa per qualche anno il cartolarius; poi diventa tipografo-editore, nel 1491 ha già messo assieme col fratello Filippo un capitale di 4.500 ducati, che nel 1499 sono ormai 11.033 e nel 1510 19.909. Antonio Moreto arriva da Brescia nel 1472 circa, nel 1480 ha appena 137 ducati, ma rimane attivo sino al 1513 pubblicando ventuno edizioni e, in società con altri, altre in numero imprecisato ma di rilievo (260). Si è già ricordato il significato di queste cifre: alla morte del doge Agostino Barbarigo il suo magnifico palazzo a S. Trovaso era valutato (sia pure prudenzialmente, a fini fiscali) 4.600 ducati: Lucantonio Giunta avrebbe potuto comperarselo (261).

Il mercato cui la produzione si rivolge è vastissimo, non conosce confini; né li conosce l'intraprendenza degli stampatori. Rinaldo di Nimega, nuovo marito di Paola vedova di Giovanni da Spira, guarda all'Inghilterra: nel settembre 1483 stampa un Ordo Breviarii secundum morem ecclesie Sarum Anglicane, uno dei più antichi offici di rito inglese mai pubblicati (262). Hamman stampa un salterio in catalano, un messale per Burgos, uno per Parigi, breviari per Utrecht e per Ploc in Polonia. Due librai fiamminghi residenti a Londra gli commissionano breviari all'uso di Sarum (Salisbury) e di York. Grandi balle di libri profani e soprattutto sacri percorrono tutte le vie commerciali d'Europa: "la via delle spezie" ha predisposto i percorsi della "via del libro" (263).

Si stampano opere di piccola mole o minima, come i fogli volanti che si sono ricordati, ma anche testi di dimensioni imponenti, come la Bibbia latina con la glossa ordinaria e le Postille di Niccolò da Lira, cui si è già accennato: quattro massicci volumi, editi nel 1495 da Paganino. Se la Bibbia latina ha un grande successo editoriale, anche quella italiana, nella traduzione del Malerbi, ottiene continue ristampe: alla prima, quella già ricordata di Vindelino, succede lo stesso anno ['edizione di Adam di Ambergau, un plagio reso più gradevole dalle xilografie, e poi altre quarantaquattro edizioni sino al 1547, tutte, salvo tre, veneziane (264).

Si stampano opere in latino, in italiano, in greco, in slavo. Vindelino aveva usato per primo caratteri greci nel suo De finibus di Cicerone uscito nel 1471: subito dopo Jenson usò suoi caratteri pubblicando la grammatica del Tortelli. Pochi mesi più tardi apparve, presso Adam di Ambergau, la prima in assoluto tra le opere a stampa in greco: una versione abbreviata degli Erotemata del Crisolora. Poi un lungo intervallo, durante il quale appaiono opere in greco a Milano, a Brescia, a Vicenza, sinché il greco Laonikos stampa, nel 1486, la Batracomiomachia; l'anno stesso esce il Salterio di Alessandro. I due stampatori sono preti uniati di Creta (265). Essi si collegano allo scriptorium organizzato a Creta dal Bessarione e affidato a Michele Apostolis: ancora una volta l'influenza del cardinale agisce nel mondo della cultura greca e della stampa. Ma l'esperimento dei due greci non ha seguito; per una ripresa della stampa in greco si dovrà attendere la venuta di Aldo.

Nel 1491-1492 esce il primo breviario romano in carattere glagolitico: il testo era destinato ai sacerdoti croati, che officiavano in lingua paleoslava. Incominciava così anche la stampa dei testi in lingua slava. Al primo breviario fa presto seguito un altro, nel 1493, stampato da Andrea Torresani (266).

Le innovazioni tecniche sono continue. Nel 1481 Ottaviano Scotto pubblica un messale corredato di note musicali, cui faranno seguito altri, tutti stampati con tipi mobili. Il sistema viene portato a perfezione da Ottaviano Petrucci, che ottiene nel 1498 un privilegio a salvaguardia dell'invenzione. Nella supplica egli dichiara un debito di gratitudine verso un eminente diplomatico umanista, Girolamo Donà, a cui dedica, il 15 maggio 1501, il primo libro stampato col nuovo metodo, chiamandolo "summus patronus" delle arti (267).

Si fanno passi avanti anche nella xilografia. Il procedimento tecnico per inserire nelle forme i blocchi incisi stampando insieme disegno e testo era stato messo a punto a Bamberga da Albert Pfister poco dopo il 1460. Nel 1471 lo usa per primo a Venezia Adam di Ambergau. Poi per lunghi anni il procedimento non è molto usato: se ne servono lo Scotto per alcuni messali, il Walch, nel 1479, per il suo Fasciculus temporum, e il Ratdolt. Questi, dopo il successo del suo Euclide, continua nelle sperimentazioni: nel 1482 esce il suo Hyginus, Poeticon Astronomicon, in cui nuovi artifici consentono la stampa di fantasiose xilografie colorate, di gusto germanico, raffiguranti figure astronomiche, opera certamente di Johannes Santritter. Nel 1485 il Ratdolt stampa il trattato del Sacrobosco, Sphaera mundi, con sette tavole xilografiche a quattro colori. Con la stessa tecnica i fratelli de Gregori orneranno di tavole colorate, nel 1493, la loro seconda edizione del Fasciculus medicinae del Ketham. Nello stesso 1485 esce "il primo vero e proprio Atlante nautico" a stampa: l'Isolario di Bartolomeo dalli Sonetti, pubblicato da Guglielmo di Pian Cerreto detto Anima Mia, con quarantotto carte geografiche incise a piena e anche doppia pagina (268).

Tuttavia, come nota Lilian Armstrong, gli stampatori non fanno un uso sistematico della xilografia sino al 1490 circa. Sino ad allora vi è un ampio spazio per un rilevante numero di miniatori, alcuni dei quali artisti di prim'ordine. Anzi la stampa è per i miniatori la fonte di numerose commesse: iniziali decorate, cornici miniate uscivano in gran numero dal pennello di questi artigiani, che lavoravano in stretto contatto con gli stampatori e i librai, come quell'Antonio da Bergamo che si impegnava ad abitare col libraio padovano Antonio d'Avignone per tre anni, miniando i volumi da questi venduti e collaborando anche alla legatura e alla vendita (269).

Anche dopo la definitiva affermazione della xilografia vi sarà peraltro lavoro per i miniatori: la xilografia è il frutto della collaborazione tra disegnatore e incisore, e il primo è di regola un miniatore, che si cimenta del pari nell'illustrazione dei manoscritti e in quella dei libri a stampa.

Dal 1490 in poi la xilografia trionfa. Essling descrive oltre trecento edizioni veneziane illustrate con tale procedimento. È ovvio che vi sia la maggiore varietà sia dal punto di vista artistico che tecnico: i torchi sfornano libri d'ogni tipo, capolavori e mediocri opere di bottega. Spesso i legni si trasmettono da un editore all'altro, si ritrovano nelle edizioni più svariate, adattati con maggiore o minor appropriatezza.

Naturalmente le incisioni che ornavano i libri si inquadravano nella cultura artistica del tempo, si richiamavano alla lezione o alla scuola dei maggiori maestri, echeggiavano il clima spirituale e l'ambiente figurativo; per fare un esempio, il frontespizio a motivo architettonico trovava corrispondenza nelle architetture rinascimentali (270).

Gli effetti prodotti dalla circolazione di una simile quantità di immagini sul gusto e sulla sensibilità di vasti strati sociali furono certo imponenti. In particolare dovettero operare in profondità le illustrazioni delle opere più economiche, accessibili a tutti, che penetravano con tutta la loro forza comunicativa nelle case dei ceti meno abbienti. Carlo Ginzburg ha posto l'accento su un aspetto molto significativo di tale fenomeno: mentre sino al Cinquecento inoltrato i manuali per i confessori mettono in guardia contro il tatto e l'udito come fonte di peccato carnale, successivamente è la vista che emerge come senso erotico principale, oggetto di condanna nei confessionali. Evidentemente la circolazione delle immagini, anche di quelle ritenute "dishoneste", al di fuori dei ceti privilegiati aveva determinato il sorgere di nuove sensibilità e suggerito la necessità di una repressione (271).

Le xilografie influenzavano in particolar modo gli artisti: i rapporti tra il libro illustrato e l'arte figurativa sono strettissimi. Illustrazioni come il ratto d'Europa del Polifilo, capolavoro di Aldo Manuzio, o come le scene mitologiche delle Metamorfosi di Ovidio, entravano a far parte del bagaglio immaginativo dei pittori. Ovidio in particolare fu fonte privilegiata di immagini attraverso i rifacimenti volgari, che ebbero vasta diffusione, a cominciare da quello di Giovanni Bonsignori, stampato con dovizia di immagini da Giovanni Rossi di Vercelli per conto di Lucantonio Giunta nel 1497, per continuare con quelli di Niccolò degli Agostini (1522) e di Ludovico Dolce (1553). Bodo Guthmüller individua significativi esempi dell'azione reciproca tra arte figurativa e libro illustrato (272); e altri ci vengono forniti dalla vasta ricerca ideata e diretta da Vittore Branca sul Boccaccio "visualizzato", cioè sulla traduzione in immagine delle novelle del Decameron e sulla circolazione di tali espressioni visive. Così il tema della bella dormiente (Efigenia contemplata nel sonno da Cimone) rimbalza da una lunga tradizione manoscritta alla prima edizione figurata del Decameron (Venezia, de Gregori, 1492), indi, assieme al motivo della ninfa dormiente osservata dal satiro, di antica ascendenza, che appare nel capitolo VII del Polifilo, fiorisce nelle belle giacenti dei grandi pittori del Cinquecento (273). Né si può trascurare un'altra via attraverso la quale le immagini dei libri entravano nella vita quotidiana: le edizioni illustrate di Ovidio, di Livio, della Bibbia, e più tardi dell'Iconologia di Cesare Ripa, ispiravano largamente la decorazione della ceramica (274).

Biblioteche e stampa tra la fine del secolo XV

e il principio del XVI. Aldo Manuzio

Il trionfo della stampa rappresenta un fatto di capitale importanza, come si è visto, per Venezia. Dal punto di vista economico, anzitutto. Nel maturo Quattrocento si stampano cento, forse centocinquanta libri all'anno, un libro nuovo ogni due o tre giorni: decine di aziende tipografiche operano contemporaneamente; rilevanti capitali trovano un proficuo investimento, affluendo anche dall'estero; grandi fortune si creano dal nulla, grandi somme si spostano da una parte all'altra d'Europa. Un gran numero di persone è impegnato nell'attività tipografica o gravita attorno ad essa: gli editori che forniscono i capitali e il programma editoriale; i tipografi che dirigono e organizzano le aziende; i letterati che predispongono i testi e curano le edizioni; gli intagliatori dei caratteri; i battitori che ricavano le matrici dal rame; i fonditori che ottengono i caratteri dal piombo e dallo stagno; gli inchiostratori, i torcolieri, i compositori; i miniatori, i disegnatori delle xilografie, gli incisori su legno; i correttori di bozze. Una parte rilevante della popolazione veneziana traeva dalla stampa il suo sostentamento: se alcuni godevano di paghe discrete (un ducato e mezzo guadagnavano a Padova gli inchiostratori nel 1475, da 2 a 4 i turculatores; gli stipendi veneziani non si saranno discostati di molto), altri potevano ottenerne di buone o ottime. Per chi preparava i caratteri si arrivava a 5 e anche a 9 ducati al mese: poco meno di quel che guadagnava Gian Mario Filelfo, cui erano stati assegnati 120 ducati annui per ricoprire la prestigiosa seconda cattedra di umanità alla Scuola di S. Marco, nel 1460 (e altrettanti ne ricevevano Giorgio Trapezunzio, lo stesso anno, e Giorgio Merula nel 1468) (275). In generale gli operai abitavano nella casa dell'imprenditore, che era tenuto ad assicurare loro vitto e alloggio, sicché la retribuzione effettiva era ancora maggiore.

E vi erano poi i librai: numerosi, situati in zone vitali, come la centralissima arteria delle Mercerie. Quando Savarisius accompagna l'amico Iuliarius, verso le nove o le dieci del mattino, dal fondaco dei Tedeschi alle Mercerie, quest'ultimo, giunto al ponte, si ferma a guardare gli elenchi dei libri offerti dai librai che hanno là i loro negozi: e non c'è più modo di svellerlo, sì che Savarisius lo abbandona al suo destino per la maggior parte del giorno. Così il Sabellico nel suo De latinae linguae reparatione (276). I librai avevano i loro negozi non solo nelle Mercerie, ma in molte altre parti della città: a S. Polo, a S. Maria Formosa, e altrove. E vi erano poi i venditori ambulanti, quelli che avevano un banco, un banchetto, in funzione magari un giorno solo alla settimana, o addirittura tenevano in una cesta la loro merce. Vi era insomma una quantità di luoghi ove i libri si potevano vedere esposti e vendibili, e una molteplicità di vie attraverso le quali i libri entravano nella vita quotidiana dei Veneziani, influenzandone il gusto, la mentalità, il modo di vivere. Si è accennato al reciproco scambio di influssi tra le edizioni illustrate e gli artisti "maggiori"; e il Petrucci ha posto in rilievo gli influssi e le corrispondenze fra il libro e le iscrizioni pubbliche, che tutti potevano leggere o vedere (277).

I libri a stampa entravano poi, com'è ovvio, nelle biblioteche veneziane. Si è visto che non vi era da parte del patriziato veneziano alcun dispregio snobistico verso l'arte nuova; e va del resto rilevato che tale atteggiamento era tutt'altro che diffuso. Se è vero che gli Estensi rifiutarono a lungo la stampa, lo stesso Federico di Montefeltro, citato da Vespasiano da Bisticci come nemico della tipografia, in realtà accoglieva vari libri impressi nella sua biblioteca privata (278). Tanto più ciò è vero per i patrizi veneziani, che della stampa erano stati i promotori e i protettori. Il rilevante numero di copie superstiti di opere a stampa recanti armi di famiglie patrizie o note di possesso conferma il favore con cui l'arte tipografica veniva considerata dalla nobiltà veneziana. Ma gli acquirenti di opere a stampa appartenevano a tutte le classi sociali. L'analisi del libro di conti del de Madiis dimostra che i libri venivano comperati da nobili, preti, medici, frati, ma anche da persone sconosciute e modeste, come i numerosissimi acquirenti di officietti, messali, breviari, salteri, grammatiche (279). Il Psalteriolo e il Donato, vendutissimi, certo servivano per l'uso delle scuole; ma il de Madiis vendeva ogni sorta di libri, classici, religiosi, scientifici, giuridici, persino greci. E gli acquirenti erano, salvo "un tedesco", "un ungaro" e pochi altri, veneziani.

I nemici della stampa erano ormai soltanto quei pochi retrogradi, come frate Filippo da Strada, che temevano la circolazione incontrollata delle idee e la corruzione delle coscienze. Ma vi era anche un'altra categoria di persone che guardava alla stampa con molte riserve: l'élite intellettuale, i grandi eruditi e filologi, ai quali la rozzezza di certe edizioni dava - e non a torto - fastidio. I tipografi operavano spesso in fretta, per necessità di guadagno, e per insufficiente scrupolo dei curatori si accontentavano del primo manoscritto che capitava a loro disposizione.

L'affanno con cui i tipografi lavoravano partoriva errori macroscopici: la editio princeps di Catullo, uscita dai torchi di Vindelino nel 1472, conteneva, ad esempio, ogni sorta di fraintendimenti: "Annales Volusi, cacata carta" diventano un titolo, "Ad Lusi Cacatam", e così via (280). Il primo codice che capitava in mano dello stampatore, fosse pure deterior, veniva passato tal quale in tipografia.

In queste cattive abitudini Venezia non era sola. Il Plinio uscito nel 1472 dai torchi di Sweynheym e Pannartz era così pieno di errori che diede motivo a Niccolò Perotti di formulare la prima richiesta nella storia di una censura preventiva sulla stampa. Non si trattava di una censura motivata da ragioni ideologiche, ma - come ha dimostrato John Monfasani - solo filologiche: non si poteva tollerare che circolassero simili monumenti di scorrettezza; secondo il colto vescovo di Siponto bisognava che una commissione di eruditi autorizzasse preventivamente le edizioni dei classici, per scongiurare il ripetersi di simili misfatti (281). Le edizioni a stampa di Plinio provocarono una reazione assai simile nell'animo di un filologo di prim'ordine come Ermolao Barbaro: vi erano tanti errori - certo solo in piccola parte imputabili ai tipografi, dovuti piuttosto alla tradizione manoscritta - che bisognava farne giustizia una volta per tutte. Due sono le edizioni che il Barbaro prende come punto di partenza del suo lavoro, in quel tesoro di erudizione che sono le Castigationes Plinianae: quella romana del 1473 (la seconda a Roma dopo quella di Sweynheym e Pannartz), opera del Perotti e tuttavia non soddisfacente, e quella di Jenson (la seconda veneziana dopo quella di Giovanni da Spira), uscita nel 1472 (282).

L'opera del Barbaro, in cui si emendano gli errori del testo corrente di Plinio, partendo appunto dalle edizioni a stampa, dimostra ancora una volta il fatto che il libro a stampa entrava anche nelle biblioteche più raffinate ed esclusive, sia pure per esservi oggetto di critica. Tale era certo la biblioteca di Ermolao, il più rappresentativo esponente della generazione di umanisti che fiorisce negli ultimi anni del secolo. Figlio di Zaccaria, Ermolao (1453-1493) si inserisce nella grande tradizione famigliare con straordinario prestigio. Allievo di Giorgio Merula, si dimostra assai presto dotatissimo filologo, e non arretra dinanzi alle imprese più ardue. È suo convincimento che non si possa padroneggiare appieno un autore se non se ne conosce tutta l'opera, nella sua integrità. Ed egli applica questa convinzione metodologica ad Aristotele stesso, che egli vuole studiato in toto: un programma che verrà fatto proprio da Aldo, editore dell'intero Aristotele.

I vastissimi interessi di Ermolao si estendevano dalla filosofia (Aristotele, Temistio) alla storia naturale (Plinio), alla matematica (possedeva tre copie di Euclide, di cui una a stampa, e aveva concepito l'idea di una traduzione dei matematici greci) (283). È naturale che simili complessi ed elevati studi non potessero essere coltivati senza un'adeguata, sceltissima biblioteca in gran parte manoscritta. Il palazzo veneziano, in cui ai codici acquistati dal nonno Francesco e dal padre Zaccaria si aggiungevano quelli acquisiti da lui, era un centro di cultura cui facevano capo alcuni degli uomini di maggior ingegno e cultura del tempo. Anzitutto il Merula, maestro del Barbaro; Marco Dandolo (1458-1533), cognato della regina di Cipro e poi del cardinale Gasparo Contarini, dottore e cavaliere, destinato a una grande carriera diplomatica (dopo la rotta di Agnadello, prigioniero in Francia, troverà il modo di procurarsi i libri sulla cui scorta stendere una complessa opera teologica, ricca di fermenti innovatori); Girolamo Donà (1457 circa-1511), eminente diplomatico anch'egli difensore di Venezia presso Giulio II, traduttore di opere filosofiche dal greco e autore egli stesso di scritti teologici; Antonio Calbo (1439 circa-1505), erudito raccoglitore di manoscritti; Galeazzo Facino (1458-1506); Giorgio Valla (1447-1500) (284). I1 Facino, detto umanisticamente Pontico, era in possesso di una biblioteca di circa trecento volumi, ricostruita dal Gargan. Giorgio Valla, professore alla Scuola di S. Marco, personaggio di somma erudizione, aveva raccolto una biblioteca di grande importanza, ricchissima anche di opere matematiche greche, alcune delle quali ignote all'Occidente (285). Allo studio della matematica greca si applicava anche il suo illustre discepolo Bartolomeo Zamberti, cancellier grande della Repubblica.

In questo ambiente straordinariamente colto maturò l'idea di ricondurre il sapere ad un disegno unitario, di dare unità alla conoscenza alla luce della filologia umanistica e della fede cristiana: il grande progetto si tradusse nella vasta opera del Valla, De expetendis et fugiendis rebus, vera enciclopedia umanistica, frutto dell'elaborazione intellettuale svolta nel circolo di Ermolao. Strumento di tanta opera le biblioteche del Barbaro, del Valla stesso, degli amici.

Vari altri patrizi di grande cultura e amanti del libro si trovano tra gli amici e i protettori di Aldo. Bernardo Bembo (1433-1519), diplomatico, amico di Lorenzo de' Medici, possedeva una biblioteca straordinariamente preziosa: vi si poteva ammirare il Virgilio oggi Vaticano, del IV secolo, il Terenzio di poco posteriore e altri codici inestimabili. Marcantonio Morosini (1435-1509), diplomatico e uomo di Stato, nel 1464 si era già formato una biblioteca importante, ricca di codici non solo belli e ornati, ma anche curati nel testo: lo loda per questo Battista Guarini, che l'aveva saputo da Pietro, figlio di Coriolano Cippico. Il Morosini fu - assieme a Bernardo Bembo - tra i maggiori committenti di Bartolomeo Sanvito, scriba di raffinati codicetti umanistici, probabili modelli per le edizioni aldine. Al pari del Bembo e del Morosini, Daniele Renier (1451-1535), studioso di matematica e cultore dell'ebraico, apriva ad Aldo la sua libreria. Amico veramente fraterno del Manuzio, Marin Sanudo (1466-1536), diarista insuperato, negli ultimi anni del secolo cominciava a raccogliere la sua biblioteca, che divenne forse la prima di Venezia per numero di volumi, ricca di opere storiche e di classici (286).

Colpisce la capacità di questi intellettuali di coniugare lo strenuo impegno umanistico con un'assidua attività politica e diplomatica. Ciò impressionava anche i contemporanei: "in civilibus turbulentisque negociis" - nota ammirato il Ficino in una lettera del 1488 a Francesco Gaddi - Ermolao Barbaro riusciva a dedicare "solitum ocium ad studia litterarum". Pochi sanno congiungere Giove e Minerva, così diversi: "soli diis geniti potuere", ed Ermolao è di questi, al pari di Pico, "cui quidem igneus inest vigor et celestis origo" (287). Ma alla fine Ermolao cederà alla sua vocazione di uomo di studio e si indurrà ad accettare da Innocenzo VIII il patriarcato di Aquileia: decisione che lo farà incorrere nello sdegno della Repubblica, ma che si spiega con il naturale desiderio di sottrarsi al logorante succedersi di incarichi pubblici, sempre più difficilmente compatibili con quell'impegno culturale che era la sua vera ragione di vita. La vicenda del Barbaro rimase peraltro eccezionale; di regola i patrizi, per quanto letterati, restavano al loro posto sino all'ultimo, passando da un consiglio all'altro, da una missione all'altra, in una rotazione affannosa di incarichi in patria e fuori.

Diverso, e più tranquillo, era il destino di quei patrizi che avevano deciso sin dall'età giovanile di dare ascolto ad una vocazione religiosa. Pietro Barozzi (1441-1507) termina la carriera come vescovo di Padova. Alla sua morte lascia una raccolta di trecentocinquantaquattro volumi, in gran parte manoscritti, in cui oltre alle opere classiche e teologiche sono presenti rari scritti matematici. Pietro Dolfin (1444-1521), amicissimo del Barozzi, abate di S. Michele in Isola poi generale dei Camaldolesi, è raccoglitore di manoscritti e dà impulso alla biblioteca del monastero, che mantiene la qualità di importante centro di cultura: carattere questo comune, del resto, a molti altri istituti religiosi. In taluni di essi si svolgevano persino rappresentazioni teatrali di opere contemporanee e di argomento affatto profano: così nel convento di S. Stefano e in quello dei Crociferi, ove risiedeva il dotto frate Armonio Marso, musicista e autore di pièces di successo (288).

La fama delle raccolte veneziane era tale da richiamare visitatori di grande prestigio. Nel 1490 è a Venezia, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de' Medici, Giano Lascaris: oltre che dalle grandi biblioteche veneziane, fra cui quella bessarionea (che probabilmente non vide se non anni dopo, nel 1503), egli era certo attratto anche dalla fama di Venezia come centro del commercio librario, e in particolare dello smercio dei manoscritti greci provenienti dalle terre oltremare e di quelli trascritti dai numerosi copisti di codici che facevano parte della prospera e attiva colonia greca veneziana. Oltre a quella di Ermolao Barbaro e di Giorgio Valla, il Lascaris visita due altre biblioteche importanti: quella dell'erudito medico Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia acquistandovi manoscritti di pregio (289), e quella del generale dei Domenicani Gioachino Torriano (o della Torre). Raccoglitore di codici latini, ma anche greci, fortunato acquirente di alcuni magnifici manoscritti provenienti dalla biblioteca del re d'Ungheria Mattia Corvino, il Torriano aveva fatto del suo convento a S. Zanipolo un centro culturale importante: al punto che, come si è accennato, la Repubblica aveva persino pensato di trasferire nella biblioteca conventuale i codici del Bessarione. Un inventario da lui stesso compilato elenca duecentotrentatré voci, di cui novantatré relative a libri greci; ma vi erano altri duecentosettantadue libri "non scripti ne lo inventario de lo generale" (290).

Nell'anno 1491, il 16 o 17 giugno, giungono a Venezia due visitatori di eccezionale qualità: Poliziano e Pico (291). Si erano fermati qualche giorno a Padova, ove il Poliziano aveva potuto vedere rari codici a S. Giustina, presso il noto professore di filosofia Nicoletto Vernia e presso il medico Pietro Leoni. Qui aveva trovato un Astronomicon di Manilio che gli interessava moltissimo: l'aveva ottenuto a prestito e lo recava seco, impaziente di collazionarlo con l'edizione a stampa. Subito dopo l'arrivo al magnifico palazzo dei duchi di Ferrara, sul Canal Grande, ove i due dovevano signorilmente risiedere, Pico si ammalò agli occhi e non si poté muovere. Il Poliziano invece poté mettersi senza indugio a caccia di libri e cominciò con una visita ai librai, che si rivelò assai proficua: si procurò un Manilio a stampa e certo anche il Terenzio a stampa che poi collazionerà col codice di Pietro Bembo.

Oltre ai librai, al Poliziano interessavano molto le grandi biblioteche veneziane. In quella di S. Marco non gli riuscì di entrare, nonostante le insistenze dei numerosi autorevoli amici. In compenso gli fu aperta con ogni cordialità casa Barbaro: il 7 luglio faceva addirittura da padrino ad un figlio di Alvise, fratello di Ermolao. Qui trascrisse tra gli altri un codice di Giovanni Tzetzes. Le case veneziane lo accoglievano cordialmente: rimase affascinato da Cassandra Fedele, ebbe a guida nelle visite Bertuzzi Zorzi, grande amico di Ermolao Barbaro, attinse alla biblioteca di Giovanni Gabrieli, conversò con Antonio Pizzamano: né poteva mancare di frequentare la casa di Bernardo Bembo, amico dei Fiorentini e ad essi culturalmente legato. Qui ebbe modo di collazionare con la stampa milanese del 1475 il magnifico Terenzio del V secolo che Bernardo possedeva: ed era con lui il figlio di Bernardo, Pietro, allora ventenne, futuro cardinale e grande letterato. Forse il Poliziano (ma egli non ne fa cenno) ebbe modo di visitare la biblioteca del Torriano. Qui infatti si trovavano alcuni codici di cui egli scrive con entusiasmo al Magnifico Lorenzo: Archimede, Erone, e "uno Frunuto de deis", ch'egli si fece copiare in gran fretta da un greco, Papa Janni. Si trattava di testi ancora ignoti a Firenze (292).

La città abbondava dunque di tesori librari e di personalità di prim'ordine, capaci non solo di farne raccolta, ma anche di apprezzarne il contenuto, di studiarli profondamente, di diffonderli. Fu certo la fama della ricchezza culturale della città, e in particolare il prestigio goduto da Ermolao Barbaro e dal suo circolo, una delle principali ragioni della venuta a Venezia, non per un breve viaggio ma per restarvi, di un umanista romano destinato a divenire l'editore forse più illustre di ogni tempo: Aldo Manuzio (293). Quando giunse a Venezia, attorno al 1490, Aldo aveva già in mente il suo programma: stampare, nella loro lingua originale, i testi della grecità classica. Umanista, allievo a Roma di Pomponio Leto e a Ferrara di Battista Guarini, cultore di studi grammaticali, studioso di lettere classiche, Aldo decise di prendere su di sé un grande compito: diffondere i capolavori della grecità per mezzo dell'arte della stampa. Non si trattava di un compito facile: sino a quel momento egli si era dedicato agli studi, aveva curato l'istruzione di Alberto principe di Carpi, non aveva mai conosciuto il mondo dell'industria e degli affari. Eppure era in quel mondo ch'egli doveva cimentarsi per realizzare il suo generoso disegno. Non è improbabile che, accanto allo scopo nobilissimo ch'egli si prefiggeva, la divulgazione della sapienza greca antica per mezzo di edizioni filologicamente curate e raffinate nella veste tipografica, vi fosse in lui anche il legittimo desiderio di arricchire: un fine tutt'altro che impossibile da raggiungere, dati gli esempi che aveva davanti agli occhi: quelli di Scotto, Giunta, Moreto che si sono ricordati, e tanti altri.

Il campo che aveva scelto, l'editoria greca, non aveva avuto a Venezia uno sviluppo adeguato. Eppure la città sembrava offrire le condizioni ideali per impiantarvi una tipografia greca: vi era una fiorente colonia ellenica che la diaspora successiva all'invasione turca di Costantinopoli e della Grecia aveva di molto accresciuto; vi era un'élite di uomini di cultura, alcuni dei quali erano stati vicini al Bessarione. Non doveva quindi apparire difficile trovare da un lato consulenti capaci, dall'altro maestranze competenti. Certo Aldo tenne conto di tutto ciò nella sua decisione di stabilire a Venezia la sua nuova attività.

Tuttavia per trasformarsi in stampatore egli necessitava di altro ancora: soprattutto di capitali. E Venezia appariva il luogo adatto per trovarli. Il rigoglio della stampa aveva, come si è detto, attirato investimenti da molte parti d'Europa. E poi vi era a Venezia una classe dirigente dotata di particolari qualità: da un lato una cultura diffusa, di cui Barbaro, Bembo, Donà erano gli esponenti di punta, ma di cui molti altri erano partecipi; dall'altro uno spirito imprenditoriale ad essa abituale da secoli. Vi erano, come si è detto, numerosi patrizi che avevano un interesse diretto alla prosperità della stampa: qualcuno finanziava la stampa di un singolo libro, altri forniva mezzi liquidi a uno stampatore operando in veste di banchiere, altri entrava in società con stampatori, altri infine produceva una preziosa materia prima, la carta. E sarà proprio uno di questi gentiluomini proprietari di cartiere, come si dirà, il maggior finanziatore di Aldo: Piero Francesco Barbarigo.

I capitali dunque esistevano, e la propensione ad investirli nella tipografia anche: ma la difficoltà maggiore era, per Aldo come per qualsiasi altro stampatore, acquistare credibilità agli occhi dei potenziali finanziatori, convincerli della bontà del progetto. Nel caso di Aldo vi era un ostacolo in più: il suo programma di edizioni greche in greco poteva difficilmente apparire una fonte di guadagni sicuri e immediati. A Venezia - dove si trasferisce alla fine del 1489 o al principio del 1490 - egli era poi uno sconosciuto, o quasi: benché circa quarantenne (era nato, ma il dato non è certo, nel 1452) non aveva compiuto ancora nulla di memorabile. Gli esordi veneziani sono dunque difficili per lui: nel 1493 i suoi grandi progetti non avevano neppure avuto un principio di attuazione. Lo dice egli stesso nella prefazione alla sua grammatica latina, uscita nel marzo del 1493. E lo dice in un tono dolente, amaro: non era certo per sete di gloria che aveva composto quei "rudimenta gramatices", ma per vivere: "nam quae esse potest gloria in re tam tenui?". Egli aveva tentato di percorrere altre vie, ma invano: le mani dei ricchi, egli scrive, sono affette da chiragra, da artrite, quando devono aprirsi a dare, mentre si mostrano sanissime quando hanno da ricevere: non vi è in tal caso nulla di più celere, di più veloce. Non si potrebbe più eloquentemente esprimere lo stato d'animo esasperato di chi ha battuto invano a molte porte, di chi - profondamente conscio della grandezza del proprio progetto - ha ottenuto solo dinieghi (294).

Ma poco dopo si verifica la svolta decisiva: le mani rapaci dei "divites" si aprono, Aldo ottiene i mezzi per realizzare il suo sogno. Il merito anzitutto è di Alberto Pio, principe di Carpi, di cui Aldo era stato precettore: egli continuava a fornirgli aiuti sostanziosi, senza i quali ben difficilmente Aldo avrebbe potuto disporre di capitali sufficienti per entrare in una società editoriale. Anche se la sua partecipazione fu, come si accennerà, modesta (appena il 10%), essa corrispondeva pur sempre ad un impegno finanziario di una certa entità e l'attività di precettore di giovani - tale fu nei primi anni veneziani la fonte dei suoi guadagni - non poteva fornirgli molto più che i mezzi per sostentarsi decorosamente. Ma certamente vi fu da parte di Aldo un abile gioco diplomatico: egli seppe servirsi del nome di Alberto Pio, lasciò intendere che vi era alle sue spalle un potente, un principe, che gli elargiva il suo sostegno. Nella realtà si trattava di un potentato assai modesto, del signore di una cittadina provinciale, il cui dominio era per di più non incontrastato; ma Aldo ne farà con la sua nobile prosa latina un sovrano, un mecenate, un augusto protettore degli studi, degno nipote di Pico della Mirandola: con le sue prefazioni egli costruirà la figura di Alberto, dandogli un rilievo e un prestigio superiori ai suoi meriti, che pur esistevano, e alla sua effettiva potenza: più autorevole era il protettore, più solida appariva la posizione di chi si richiamava alla sua autorità. Le prefazioni si succederanno nel corso degli anni, ma è assai probabile che sin dall'inizio il nome del principe, usato sapientemente, facesse breccia nel cuore dei biasimati ricchi. I due personaggi che finalmente forniscono ad Aldo i mezzi per realizzare il suo programma sono un patrizio situato in altissima posizione, Piero Francesco Barbarigo, che Aldo ebbe forse modo di avvicinare grazie alla sua attività di precettore di giovani gentiluomini (fra i quali appunto un figlio del Barbarigo, Santo), e uno dei maggiori stampatori veneziani, Andrea Torresani. Nel 1495 la società editoriale è formata: tre sono i soci, il Barbarigo, sembra, per il 50%, il Torresani per il 40%, Aldo per il 10% appena; ma di Aldo è il programma, sue sono le scelte editoriali. Il grande sogno si può ormai realizzare.

L'importanza del Barbarigo nell'impresa aldina è posta nel giusto rilievo dal Balsamo e dal Lowry, sulla scorta dei documenti pubblicati da Ester Pastorello. Il Barbarigo non era un protettore dell'arte tipografica o un mecenate, era un socio vero e proprio, sembra nella misura del 50%. Una quota notevole, che ne faceva il maggior socio di capitale; e la sua presenza nella società doveva rivestire un'importanza anche maggiore di quanto comportasse il mero apporto economico. Piero Francesco non era un patrizio qualsiasi: era il figlio di Marco, uno dei più eminenti fra i nobili, che sale al ducato nel 1485. Il suo governo dura poco; nel 1486 muore, ma gli succede il fratello Agostino, che regna sino al 1501. E non si trattava di un principe che si accontentasse delle parvenze del potere; il suo fu un governo autoritario, tanto da suscitare un diffuso malcontento, che trovò espressione in un'inchiesta promossa a suo carico, ma dopo la morte. Finché fu in vita, nessuno osò sfidarne l'autorità. È dunque ben possibile che le potenti relazioni di Piero Francesco aprissero molte porte, mettessero in difficoltà concorrenti, favorissero in vario modo l'impresa di Aldo.

Perché di un'impresa si trattava, da attuare nella concretezza della vita economica, con tutti i problemi pratici, le difficoltà, i rischi relativi. Per investirvi del denaro occorreva una mentalità imprenditoriale e i Barbarigo certamente la possedevano. Per un patrizio la partecipazione ad imprese di rischio era l'attività prevalente, da secoli, nella sua classe, sin dai tempi in cui i primi Veneti si erano lanciati nel grande commercio internazionale sulle rotte di Levante.

Ma nemmeno l'apporto finanziario e la protezione di Barbarigo bastavano; ci voleva qualcuno che fosse ben addentro nel mestiere di tipografo, che ne conoscesse i segreti, che potesse aiutare Aldo a districarsi nel ginepraio delle difficoltà materiali. Difficilmente un professore di greco, per quanto geniale, poteva improvvisarsi esperto nell'acquisto di risme di carta, nella sorveglianza dei torcolieri, nell'assunzione dei lavoranti, nel compimento insomma di tutte le infinite operazioni pratiche necessarie al funzionamento di un'azienda. Ci voleva qualcuno che si assumesse l'onere organizzativo, lasciando ad Aldo le grandi scelte intellettuali. E Aldo, come si è detto, ebbe la fortuna di trovare un socio di grande qualità: Andrea Torresani.

Nato ad Asola, trasferitosi a Venezia attorno al 1470, il Torresani era divenuto uno dei maggiori stampatori veneziani (295). Poco dopo il 1487 aveva compiuto un'operazione brillante: si era assicurato l'attrezzatura tipografica, caratteri compresi, che era appartenuta al grande stampatore Nicholas Jenson. Per ricostruire la vicenda bisogna riandare ai tempi in cui Jenson cercava soci di capitale e li trovava nelle persone di Rauchfass e Ugleheimer. Quest'ultimo sopravvisse ai due soci; dettò il suo testamento a Milano, nel 1487, lasciando alla moglie Margherita i libri che gli erano rimasti in magazzino, un credito nei confronti degli eredi Jenson e l'attrezzatura della tipografia. Quei "punzones, madios, litteras, torchulos, ordines, artificia et alia necessaria circha stampationem librorum" che Margherita eredita non sono cosa da poco: sono quelli stessi di Jenson, che Ugleheimer aveva ereditato da lui. Con quel prezioso bagaglio Margherita torna a Venezia, si stabilisce a S. Bartolamio, zona prediletta dai Tedeschi, si fa liquidare i crediti dagli eredi di Jenson concordando una cifra di 1.000 ducati (all'accordo si giunge anche grazie all'intervento di un patrizio, Marco Zulian) e decide di tornare all'attività tipografica: per questo fine si associa al Torresani. Per quest'ultimo l'utilità dell'associazione con Margherita andava al di là dell'acquisizione, pur preziosa, dei caratteri di Jenson; con essa il Torresani si assicurava le importanti relazioni della cerchia di Ugleheimer, che comprendevano stampatori e mercanti tedeschi e anche una casa bancaria veneziana, quella degli Agostini, che erano stati fra i primi a finanziare la stampa a Venezia, in particolare la casa editrice di Jenson. Il Torresani appare così un epigono della Grande Compagnia. Vende attraverso il libraio Pietro Benzoni, che un tempo aveva diretto il negozio veneziano della Compagnia sito come tanti altri nelle Mercerie. Altri affari realizza con Giordano di Dinslaken, congiunto di quel Kaspar von Dinslaken che appare tra i soci fondatori della Compagnia. Margherita rimane legata alla casa editrice anche dopo l'ingresso di Aldo: è lei a far da tramite per il prestito di tre manoscritti di s. Caterina da Siena che Antonio Condulmer fornisce ad Aldo per la stampa della sua edizione delle Epistole della santa.

Con questa attrezzatura e queste alleanze, Torresani si afferma in un'ottima posizione nella tipografia veneziana: è a lui ad esempio che Marc'Antonio Coccio Sabellico, l'umanista più popolare tra i nobili veneziani, assegna, come si è detto, la stampa della sua fortunata opera storica. Inoltre il Torresani ha un'altra virtù, che certo gli rende più facile capire l'animo di Aldo: l'intraprendenza, il desiderio di sperimentare, di tentare il nuovo. Lo vediamo così stampare nel 1493 un breviario glagolitico, scritto cioè con i caratteri propri degli Slavi di Dalmazia: impresa certo costosissima, per la difficoltà di creare serie nuove di caratteri tutt'altro che usuali, e di incerto esito. Se il produrre per l'esportazione rientrava nei suoi disegni, Torresani avrà potuto pensare di vendere i libri greci che Aldo si proponeva di stampare non solo ai membri della colonia greca di Venezia, ma anche sul mercato del Levante. La produzione di classici gli sarà stata presentata da Aldo come un affare: rischioso, ma forse alla fine redditizio. Ed egli decise di tentare l'impresa. Nel contempo peraltro egli non abbandonava i campi che gli avevano dato la ricchezza: le edizioni di massicce opere giuridiche e di testi religiosi (breviari, messali) di sicuro smercio, nonché di opere teologiche di consacrata ortodossia (Alberto Magno, Tommaso). La società con Aldo e Barbarigo era un'impresa a sé stante, affidata ad Aldo per ciò che riguardava la scelta delle opere da pubblicare, i curatori di esse, i collaboratori, il carattere, il formato; a sé il Torresani avrà peraltro riservato il controllo tecnico ed economico.

Nello stesso anno che vede la formazione della società, il 1495, esce la prima edizione datata di Aldo, pubblicata "litteris ac impensis Aldi Manuci Romani". Essa reca la data del febbraio 1494, ma la datazione è certo more veneto, sicché l'anno è appunto il 1495. I caratteri sono dunque di Aldo, e suo almeno in parte il capitale. L'opera prescelta è la fortunata grammatica di Costantino Lascaris, gli Erotemata. È questa la prima di una serie di opere grammaticali e di dizionari: Aldo era stato per molti anni insegnante e rimaneva un grammatico e un cultore di studi linguistici. È naturale che, per facilitare l'attuazione del suo grande sogno, la diffusione a stampa delle opere greche nella lingua originale, egli predisponesse gli strumenti di sussidio: grammatiche e dizionari, tanto più in quanto le sue edizioni non contenevano di solito note e chiarimenti del testo. Si trattava di una scelta precisa; il testo antico doveva parlare da solo, senza intermediari. Attorno al 1497 egli pubblica anche un salterio greco: stampare libri religiosi in greco per i Greci di Venezia e del Levante poteva costituire un grande affare (e lo diventerà quando vi si dedicherà, dopo il 1520, Andrea Kounadis), ma non era quello un campo che potesse coinvolgere profondamente Aldo. Altro è il suo obiettivo centrale: l'edizione del più monumentale corpus filosofico e scientifico dell'antichità, quello costituito dalle opere di Aristotele. A tale scopo, tutt'altro che facile, per mole e per complessità dei testi, egli dedica le energie migliori: e i risultati sono adeguati. Già nel novembre 1495 esce il primo volume: un in folio di 234 carte. Ad esso ne seguiranno altri quattro: in tutto circa 3.800 pagine in greco, uno sforzo editoriale cospicuo non solo dal punto di vista della preparazione dei testi ma anche delle operazioni pratiche della stampa, che richiedevano l'uso di più torchi contemporaneamente. Con la stampa dell'intero Aristotele, con la sola sorprendente eccezione della Retorica e della Poetica, Aldo realizzava così il progetto che Ermolao Barbaro aveva esposto nel 1484: il corpus aristotelicum veniva offerto agli studi nella sua integrità senza mutilazioni non di rado fuorvianti.

Nella dedica del secondo volume, contenente la Fisica, Aldo ricorda gli sforzi fatti per procurarsi buoni manoscritti da cui trarre l'edizione, e cita a testimoni delle sue ricerche l'erudito inglese Thomas Linacre, Gabriele Braccio di Brisighella, futuro rivale, del resto presto sconfitto, Giustino Decadio di Corfù e in particolare il ben noto medico e umanista Nicolò Leoniceno e il colto medico genovese Lorenzo Maioli: il Leoniceno aveva messo a disposizione i suoi codici, il Maioli aveva eseguito impegnativi confronti. Come noto, Aldo si basava sui manoscritti che gli riusciva di trovare presso amici e corrispondenti: buoni codici da passare in stampa gli erano essenziali, e per procurarseli egli estese le sue ricerche alla Francia e alla Germania, contribuendo così a dare nuovo impulso alla scoperta di manoscritti. In Francia in particolare gli sarà preziosa la collaborazione di fra Giocondo, geniale architetto e filologo, avvicinato forse tramite Giano Lascaris, che gli farà pervenire manoscritti importanti. Eppure a pochi passi dall'officina egli avrebbe avuto a disposizione i codici migliori, i più completi, i più antichi e autorevoli: quelli che Bessarione aveva raccolto e donato alla Repubblica veneta. Ma per motivi non del tutto chiari egli non se ne avvalse: forse influì la gelosia dei procuratori di S. Marco, che temevano una perdita di valore del lascito se lo si fosse divulgato per mezzo della stampa; forse pesò il loro timore che l'uso talvolta disinvolto che si faceva in tipografia dei manoscritti potesse danneggiare quei beni affidati alla pubblica custodia. Fatto sta che, salvo qualche caso dubbio, i codici bessarionei non furono mai la fonte cui Aldo attinse per le sue edizioni (296).

Terminata nel giugno 1498 la grande fatica dell'edizione aristotelica, Aldo non si arresta nel suo programma: già il 15 luglio 1498 esce la sua editio princeps di Aristofane, curata dal grande erudito cretese, Marco Musuro, che fu il maggiore fra i collaboratori di Aldo. Con questo importante gruppo di edizioni al suo attivo, Aldo si era ormai inserito con grande prestigio nel mondo dell'editoria e fra gli stampatori in greco era di gran lunga il maggiore. Nel contempo aveva pubblicato anche alcuni libri in latino; ma si trattava di opere che non rientravano nel programma principale e venivano inserite nel catalogo per particolari, specifiche ragioni: l'amicizia di Aldo verso l'autore, o un debito di gratitudine per una collaborazione editoriale.

Con tutt'altro animo nel luglio 1498 Aldo pubblica le opere latine del Poliziano: un massiccio volume in folio che riunisce il complesso degli scritti eruditi inediti del grande fiorentino. La prefazione di Aldo esalta il sommo ingegno e la straordinaria dottrina dell'umanista, la cui opera entra quindi non come eccezione ma a pieno titolo nel catalogo.

L'anno dopo, il 1499, si verifica invece un fatto nuovo: Aldo pubblica un'opera di erudizione tutta latina, la Cornucopia di Niccolò Perotti, che non è inedita, e nemmeno nuova per Venezia, dato che era stata molte volte ristampata anche di recente. Non vi era dunque una ragione di ordine culturale per pubblicare un'opera così lontana dal programma greco di Aldo; ma vi era certamente una ragione economica. Forse alla base della svolta vi era un fatto che aveva scosso la compagine della società editoriale: Piero Francesco Barbarigo era morto nello stesso anno. Forse gli eredi non erano più propensi a sostenere le edizioni greche del socio, che evidentemente si vendevano poco (nel 1513 i prezzi sono inferiori del 30% circa a quelli originari, segno che vi erano depositi invenduti); o forse fu il Torresani a far presente al socio e futuro genero che la situazione delle vendite non gli consentiva di impegnarsi oltre nel programma greco; o piuttosto che, se si voleva continuare, le edizioni greche dovevano finanziarsi con altre più redditizie pubblicazioni. Una di queste era certo la Cornucopia, ritenuta strumento indispensabile per l'apprendimento del latino, che venne venduta assai bene, ristorando le finanze della casa editrice.

Sono in sostanza i soci di maggioranza che impongono il nuovo indirizzo, a cui Aldo deve piegarsi. Ma la grandezza di Aldo si manifesta nella sua capacità di trasformare una scelta dettata dalla necessità economica in un nuovo, diverso programma culturale, di alta dignità e di elevato contenuto, tale da assicurare la sua fama al di là dei confini della grecità. Alla definizione di esso egli non giunge subito: il 1499 e il 1500 sono due anni di attesa, di esperimento.

Grazie al buon risultato economico della stampa del Perotti egli può anzitutto continuare nella stampa delle opere greche: a tale scopo essenziale della sua attività di stampatore egli non rinunzierà mai. Nel 1499 escono due libri in greco: la silloge degli Epistolographi e l'opera medica di Dioscoride. A metà strada tra gli interessi greci e quelli latini di Aldo si colloca la raccolta degli Astronomici veteres: una scelta di scritti scientifici parte latini e parte greci, tra i più rari e introvabili, da riportare nel circuito erudito.

Quell'anno 1499 offre la sorpresa più singolare del catalogo di Aldo: la Hypnerotomachia Poliphili. Questo libro straordinario, un romanzo d'amore allegorico, scritto in un linguaggio ibrido tra italiano e latino, irto di simbolismi, di allusioni erudite, di riferimenti antiquari, rappresenta un fatto unico nella carriera di Aldo e nella storia della cultura. L'eccezionalità dell'opera risiede non soltanto nel testo, ma anche nelle raffinate xilografie che l'adornano. Si discute ancora sulla vera identità dell'autore dell'uno e delle altre (297). Aldo si indusse a stampare il libro, così diverso da tutti quelli da lui pubblicati prima e dopo, probabilmente per compiacere amici autorevoli; la spesa venne sostenuta interamente da un gentiluomo veronese, Leonardo Grassi, e Aldo non vi premise una sua prefazione. È tuttavia probabile che l'opera, sia per le sperimentazioni linguistiche sia per l'intensa atmosfera umanistica che la pervade, gli apparisse, pur nella sua originalità talvolta sconcertante, non indegna di essere stampata da lui.

L'anno dopo, il 1500, vede l'uscita di soli due libri: uno latino, il poema di Lucrezio, l'altro in volgare, le citate Epistole di s. Caterina da Siena: quest'ultima forse una riparazione sul piano morale e religioso alle concessioni allo spirito pagano del Polifilo. Un anno dunque poco produttivo, il 1500, per Aldo. Ma se ne comprenderà la ragione l'anno successivo, in cui si verifica una svolta decisiva nella storia della tipografia aldina, e della stampa in generale. Nel 1501 escono uno dopo l'altro classici latini e italiani, in serie, quasi in collana: nell'aprile Virgilio, nel maggio Orazio, nel luglio Petrarca, nell'agosto Giovenale e Persio, nel dicembre Marziale. Tutti sono in un formato mai prima usato dai tipografi, l'ottavo; e anche il carattere è nuovo, il corsivo.

Gli anni 1499-1500 erano stati dunque, come si è detto, una fase di ripensamento, di esperimento: ora Aldo ne offriva il frutto. Non più testi greci, ma latini e italiani; non più opere rare, difficili, inedite, ma capolavori noti a tutti. Ma vi erano le due grandi novità cui si è accennato: il carattere, disegnato da Aldo stesso e inciso da un valente artigiano bolognese, Francesco Griffo, e il formato, l'ottavo: un formato nuovo per la stampa, non in assoluto, perché quei "libelli portatiles", così adatti a una lettura distesa e aristocratica, già circolavano, manoscritti, negli ambienti dell'élite intellettuale: codicetti agili, maneggevoli, squisiti nella scrittura e nella disposizione della pagina, come quelli dovuti alla penna raffinata di Bartolomeo Sanvito (298). Ad essi probabilmente si ispirò Aldo nella creazione dei suoi classici "tascabili". Anche la novità del carattere era tale solo per la stampa: Aldo si ispirò nel disegnarlo a modelli umanistici. Ma il sapiente dosaggio tra le varie componenti del libro dava origine ad una formula editoriale nuova, di straordinario successo: quelle eleganti edizioni divennero un momento fondamentale nella storia della stampa e della cultura. La raffinatezza di esse incontrava il gusto dei lettori aristocratici, la loro qualità soddisfaceva gli eruditi, la maneggevolezza attirava gli amanti della lettura non professionisti. Non si trattava di prodotti a basso costo; le edizioni, ben curate e in carta buona, avevano prezzi non inferiori a quelle correnti: l'Ovidio in ottavo, ad esempio, costava, nel 1513, 4 lire e 10 soldi, come l'Ovidio in folio venduto nel 1484 dal Maggi (299). Ciononostante essi furono accolti con entusiasmo dal pubblico colto, cui veniva offerta una lettura comoda, agevole, familiare e altresì filologicamente corretta. Il successo è testimoniato anche dalle tirature: già alte nelle opere greche di Aldo, in cui mille copie sono la regola, per i classici in ottavo si superano, come è testimoniato per il Catullo, le tremila.

Il principio cui Aldo si attiene costantemente, quello di offrire testi il più possibile corretti dal punto di vista filologico, viene rispettato nei nuovi ottavi, con un'ulteriore innovazione: le opere vengono offerte nella loro integrità e nudità, senza l'apparato tradizionale di note e commenti che le appesantiva e le appannava. Aldo presenta il solo testo, vuole che parli da sé; il suo messaggio personale suona, "squillante", nelle lettere proemiali, ma non interferisce nella pagina cui l'opera è affidata. E anche questa scelta concorre al successo delle edizioni, contribuendo a creare nei lettori degli enchiridi aldini una comune cultura aristocratica, insofferente di ogni pedanteria scolastica. Tuttavia un intervento dell'editore nella pagina c'era, e molto visibile agli occhi dei contemporanei: l'uso della punteggiatura e dei segni diacritici è così ampio nell'edizione del Petrarca del 1501 - frutto del paziente e puntiglioso lavoro filologico del Bembo - che un anziano lettore, un gentiluomo di casa Canal, Antonio, non fa mistero della sua irritazione, e la confida ai fogli di un manoscritto oggi marciano. In quel "volume picoleto" (neppure il formato piace al patrizio) vi sono "tanti tituli" (gli apostrofi), "tante corecione" (gli altri segni) "che basteria al Dotrinale overo a Polifilo". Il poeta non si era sognato di scrivere a quel modo! Il malumore del Canal ci fa intravedere un mondo di conservatori, cui le innovazioni di Aldo parevano inutili, anzi sgradevoli (300). Ma si trattava di un mondo retrogrado, la cui voce si perdeva nel coro europeo delle lodi ad Aldo e alle sue edizioni: è documentata la diffusione e l'influenza di esse in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, in Polonia. Aldo stesso corrispondeva con principi e sovrani, con vescovi, ambasciatori, gentiluomini d'ogni paese. Egli concorreva così a unificare il mondo europeo della cultura e a creare un'unità spirituale che resisterà anche oltre le lacerazioni della Riforma.

La felice formula ricavata dalla combinazione dell'ottavo e del raffinato corsivo venne applicata da Aldo via via ai maggiori capolavori della letteratura latina, e anche ai testi fondamentali di quella italiana: il già citato Petrarca (1501) e Dante (1502). Ai due grandi classici della letteratura in volgare seguirono due autori contemporanei di aristocratica eccellenza: il Bembo (1505) e il Sannazzaro (1515). E seguirono anche i grandi poeti greci: Sofocle, Euripide, l'Antologia, Omero. Così operando Aldo faceva sua - come nota il Dionisotti - l'idea del Poliziano, che la poesia vada letta e coltivata nelle tre lingue, greca, latina e volgare, e rivolgeva la sua proposta a un pubblico che non si restringeva ai soli filologi e specialisti, ma si estendeva a comprendere tutta l'Europa colta. Con la pubblicazione dei maggiori autori antichi e moderni, il catalogo di Aldo andava sempre più assumendo il carattere di canone delle letture dell'uomo di aristocratica cultura: le sue edizioni venivano a costituire una biblioteca di ideale compiutezza, comprensiva di quei testi "che tutti potevano e dovevano conoscere come loro nutrimento spirituale" (301).

Benché egli possedesse una straordinaria serie di qualità: un appassionato amore per l'antico, una preparazione filologica di prim'ordine, una sottile capacità di intuire le esigenze del suo pubblico e nel contempo di orientarlo nella scelta e nell'uso del libro, Aldo non sarebbe riuscito a lasciare una simile impronta nella storia dell'editoria e della cultura se non avesse avuto in aggiunta il genio di trovarsi dei collaboratori di altissimo rango. Per le edizioni greche egli si avvalse del grande erudito Marco Musuro, di Arsenio, figlio di Michele Apostolis, di Demetrio Ducas, che poi collaborerà in Spagna alla famosa Bibbia poliglotta del cardinale Ximenez, di Giovanni Gregoropoulos, di Giovanni Rhosos, legato un tempo alla cerchia di Bessarione, e di altri dotti fornitigli dalla prospera e colta colonia greca di Venezia. Tale era il prestigio del gruppo di eruditi greci che circondavano Aldo, il quale li aveva anche riuniti idealmente assieme agli altri amici cultori del greco in un'Accademia (302), che il grande Erasmo, non ancora al culmine della gloria, ma già famoso, volle soggiornare a Venezia proprio per entrare in contatto con Aldo e con il suo entourage (303). Egli trascorse a Venezia nove mesi, dal gennaio al settembre 1508: fu ospite di Aldo, collaborò con lui e mise a punto una nuova edizione dei suoi Adagia, che affidò ai torchi dell'amico. Si trattava di un testo arricchito grandemente soprattutto nella parte greca: egli doveva l'allargamento delle sue conoscenze proprio agli amici greco-veneti, che gli mettevano a disposizione la loro dottrina, gli fornivano codici contenenti autori a lui ignoti, lo assistevano in ogni modo; Aldo dal canto suo lo inseriva nella rete dei suoi amici, lo metteva a parte della sua corrispondenza erudita. Grazie agli Adagia di Erasmo, un best-seller, l'eredità greca penetrava in profondità nella cultura di vasti strati della popolazione colta dell'Europa, in particolare al Nord.

Più tardi (nel 1531) Erasmo, trascinato dal suo gusto per la polemica letteraria, si indurrà a fare un ritratto della tipografia aldina in chiave satirica nel famoso dialogo Opulentia sordida; un capolavoro nel genere, che ha inoltre il pregio di fornire un'immagine vivace, anche se malevola, e di prima mano della vita della casa editrice. Vittima della spiritosa penna di Erasmo è non tanto Aldo, quanto il Torresani, il ricco avaro cui allude il titolo: ma è giusto rammentare che difficilmente Aldo sarebbe riuscito a superare i rischi e le difficoltà pratiche insite nella gestione dell'azienda senza la collaudata capacità tecnica e commerciale del suocero.

Erasmo caricava le tinte per i suoi fini letterari; ma certo nella tipografia il lavoro affannoso e la convivenza forzata di molti lavoranti e persino dei dotti ospiti (Erasmo condivideva la camera con Girolamo Aleandro) aveva lati spiacevoli. Il ritmo con cui Aldo lavorava produceva talvolta conseguenze negative: alcune edizioni erano affrettate, altre basate su codici che erano non i migliori, bensì quelli che Aldo riusciva a reperire nella biblioteca sua o degli amici; ma anche la fretta, il lavorare febbrile traeva origine dalla nobile volontà di Aldo di adempiere la sua missione, di condurre il più avanti possibile il suo grande, generoso disegno.

In quel ventennio veneziano - che tanto, o poco più era durata la sua attività di stampatore - Aldo aveva lasciato un'orma incancellabile nel mondo della tipografia e della cultura. Le opere maggiori della classicità greca erano uscite dai suoi torchi in centinaia di esemplari, e una trentina di esse in edizioni princpes: la loro sopravvivenza era quindi ormai certa. Il generoso programma del cardinale Bessarione, volto a salvare i frutti più alti della sapienza greca dal naufragio incombente per l'avanzata dei Turchi, aveva trovato un continuatore capace di avvalersi di mezzi tecnici nuovi, con risultati straordinari; di quei mezzi Bessarione stesso si era servito per la difesa del suo Platone, e certo se ne sarebbe avvalso a vantaggio delle opere maggiori della sua nazione se una morte prematura non l'avesse strappato alla sua missione terrena. Ma Aldo non aveva solo garantito la sopravvivenza di quei capolavori, ne aveva anche assicurato la più ampia diffusione, al di fuori del mondo degli eruditi e degli specialisti. Conquistati dalla grazia maneggevole dell'ottavo e incoraggiati dal prezzo, che per quanto elevato non eguagliava quello proibitivo per i più del codice prodotto dalla lunga fatica dell'amanuense, nuovi ceti si accostavano ad un mondo di bellezza che prima era loro precluso.

Non solo: quella tecnica che consentiva la riproduzione su larga scala dei capolavori antichi era stata usata da Aldo per assicurare il successo di alcune, scelte opere moderne.

Grazie alla felice combinazione del formato e del carattere, nobili testi moderni erano riusciti, al pari dei capolavori antichi, a reggere la concorrenza dei libriccini devoti e dei manuali pratici che dominavano il mercato. Un bilancio quindi felice, quello dell'impresa aldina, con oltre centotrenta edizioni al suo attivo: un successo durevole, sul piano della fama e del prestigio editoriale, si accompagnava ad un risultato economicamente positivo, che garantiva ad Aldo e ai suoi eredi una posizione sociale di tutto rispetto.

È naturale che una attività così meritatamente fortunata suscitasse competitori e imitatori di ogni genere. Nel 1499 due Greci di Creta, Zaccaria Callierges (o venezianamente Calergi) e Niccolò Vlastos, inauguravano una loro attività tipografica in greco: l'8 luglio usciva un elegante Etymologicum Magnum; il 27 ottobre l'editio princeps di Simplicio; l'anno successivo, 1500, era la volta di Ammonio e della Terapeutica di Galeno.

Si trattava di opere che Aldo aveva già annunciato di voler stampare nella prefazione del suo dizionario greco nel 1497, sicché vi poteva essere l'intenzione di battere Aldo sul tempo. Va peraltro osservato che la preparazione di un libro così complesso come l'Etymologicum aveva richiesto sei anni di impegno e di studi; né si potevano del pari improvvisare le altre edizioni. I titoli pubblicati erano di evidente importanza per gli studi, e l'urgenza di stamparli sarà emersa più volte nelle conversazioni tra i membri della futura Accademia aldina. I due Greci agivano grazie ai mezzi messi a loro disposizione da Anna Notarà, la figlia del megaduca ucciso dal Sultano nel 1453. Anna, membro influente e venerato della comunità greca di Venezia, non perdeva occasione per difendere l'eredità morale della grecità: un fine che Aldo pienamente condivideva. Non vi doveva essere quindi contrasto tra le due iniziative, quella di Aldo e quella dei due Greci; esse in qualche modo si integravano nel perseguire il fine comune della diffusione a stampa delle opere maggiori della cultura greca; né vi fu d'altro canto attrito fra Aldo e il più illustre dei consulenti dei due Greci, Marco Musuro: questi rimase, anche dopo la sua partecipazione all'iniziativa dei due Cretesi, il maggior consigliere di Aldo.

L'attività tipografica di Callierges e Vlastos ebbe comunque breve vita: dopo la stampa del Galeno, nel 1500, si arrestò. Callierges ritentò poi l'impresa da solo, nel 1509. La fine dell'attività dei due Cretesi dipese forse dalla momentanea crisi dell'economia veneziana; forse si inaridì la fonte dei finanziamenti; o forse la complessa gestione di un'impresa industriale come una casa editrice richiedeva una tempra diversa da quella dei due gentiluomini cretesi fattisi stampatori. Le edizioni che essi avevano realizzato erano comunque di raffinata qualità, e occupano un posto glorioso nella storia della stampa in greco.

Diverso il caso di un altro concorrente, Gabriele Braccio di Brisighella. Nel 1497 Aldo ne parla con stima nella sua prefazione al secondo volume di Aristotele. Nel 1498 Gabriele pubblica in proprio, con caratteri greci, le lettere di Bruto e di Falaride (nel giugno) e le favole di Esopo. Dopo questo tentativo, Gabriele sparisce dalla tipografia. Con lui erano associati Giovanni Bissolo e Benedetto Dolcibello (detto del Manzo perché proprietario di una macelleria a Carpi), che poi continuerà a operare a Milano e nel principato di Alberto Pio. È probabile che l'iniziativa di Braccio si arrestasse bruscamente per un'azione legale di Aldo, che avrà chiesto l'intervento dello Stato a tutela dei suoi caratteri greci, protetti da privilegio; era chiaro infatti che Braccio li aveva bellamente copiati. Non sempre a Venezia si otteneva facilmente vittoria in simili cause; ma forse non mancò un intervento di Piero Francesco Barbarigo, a stimolare l'azione degli organi giudiziari veneziani. Quando poi si delineò la grandezza del successo dei classici in ottavo cominciarono le contraffazioni, ad opera soprattutto di stampatori lionesi (304). Contro di essi Aldo tentò di difendersi pubblicando nel 1503 una lista di errori da questi commessi, che rendevano riconoscibile il plagio. Se da un lato l'avviso di Aldo giovò ai contraffattori, che si guardarono dal ripetere gli errori da lui segnalati, esso servì certo a pubblicizzare le qualità delle edizioni aldine.

Più temibile concorrente poteva essere la grande casa editoriale dei Giunta, il cui ramo fiorentino operava sullo stesso terreno di Aldo: Filippo Giunta stampava edizioni di classici molto simili a quelle aldine. Ma fra i Giunta e la società di Torresani e Manuzio non vi fu guerra, ma piuttosto spartizione di aree commerciali, sicché i due complessi editoriali poterono coesistere senza logorarsi in una concorrenza che, data la dimensione delle aziende, sarebbe stata assai dura (305).

Aldo fu sempre uno sperimentatore, un innovatore; e altri lo seguirono su questa via. In particolare due stampatori veneziani attuarono, come si dirà, innovazioni nel carattere e nel formato: Lazzaro Soardi e Alessandro Paganino. Al loro ardire arrise il successo; ma chi aveva aperto la via era stato ancora una volta Aldo, che unendo in sé cultura e creatività, amore appassionato per l'antico e ardimento nel concepire e sperimentare il nuovo, rimane, a buon diritto, insuperato modello nella storia della stampa.

L'apogeo dell'editoria veneziana

(dal 1515 alla metà del secolo)

Dopo la morte di Aldo (1515), Andrea Torresani rimase solo padrone dell'azienda: lo assisteva il figlio Gianfrancesco, buon conoscitore delle lettere, mentre la vedova di Aldo, con i figli non ancora usciti dall'infanzia, si trasferiva ad Asola. Il Torresani non lasciò cadere il programma di Aldo e produsse varie edizioni di classici greci e latini. Fra tutte la più importante, quella dell'intera opera di Galeno, che uscì in cinque torni in folio nel 1525.

Con la scelta di pubblicare l'intero corpus galenico, il Torresani mostrava il consueto talento per gli affari. L'opera usciva al momento giusto: vi era grande aspettazione nel mondo scientifico, in cui si faceva strada la convinzione che nei grandi autori dell'antichità, se conosciuti nella loro autenticità e completezza, si sarebbe trovata ogni risposta. D'altro canto la medicina andava acquistando un'importanza crescente nell'attività editoriale, non solo a Venezia ma in tutta l'Europa, in armonia con l'aumento generale dell'editoria di argomento scientifico. È stato osservato che una quota rilevante dei titoli editi nel Quattrocento è di argomento scientifico (forse il 12-13%); e i valori in assoluto e in proporzione aumentano enormemente nel Cinquecento. In buona parte si trattava di testi classici, riportati alla luce o liberati dalle sovrapposizioni medioevali. Una massa enorme di conoscenze nuove, o dimenticate, veniva così posta in circolazione, grazie alla stampa: l'umanità non era mai stata sottoposta "ad un simile processo di assimilazione" (306). In tale flusso di opere scientifiche la medicina aveva una parte dominante; e il numero e l'importanza delle opere mediche pubblicate cresce a Venezia nel Cinquecento, in particolare dopo la ripresa nell'attività editoriale che si registra a partire dal 1515. Si direbbe quasi che nell'editoria la scienza medica tenda a prendere il posto di quella giuridica, che aveva rappresentato uno dei filoni più redditizi per le stamperie del Quattrocento e che registra invece un calo nel nuovo secolo: forse un riflesso del diminuito prestigio delle facoltà giuridiche italiane, da cui era uscita una classe dirigente che non aveva saputo scongiurare l'invasione straniera (307). E anche nel campo dell'editoria scientifica la posizione di Venezia è dominante: circa un quarto delle edizioni principes di opere di contenuto scientifico uscite in Europa sino al 1550 - circa novecento, di cui oltre la metà di argomento medico - è stampato nelle lagune (308).

L'edizione di Galeno, predisposta da un'équipe diretta dall'illustre medico Giovanni Battista Opizzoni e composta da quattro giovani dotti inglesi e dal sassone Giorgio Agricola, fu accolta con entusiasmo della classe medica, che vedeva finalmente in circolazione opere spesso ignorate del grande maestro antico. Il giudizio di Erasmo fu invece severo: il testo era corrotto, pieno di errori. Il Torresani non si scoraggiò e a Galeno fece seguire le edizioni greche di Ippocrate nel 1526 e di Paolo di Egina, che uscì nel 1529, quando il grande editore si era ormai spento (il 21 ottobre 1528). Per circa quattro anni l'attività della casa si interruppe. I figli di Aldo, usciti dalla minore età e ritornati da Asola, chiesero una maggiore partecipazione nell'azienda: da ciò una serie di controversie giudiziarie che si chiusero solo nel 1533. Da allora in poi la direzione editoriale sarà soprattutto nelle mani del figlio terzogenito di Aldo, Paolo, che dedicherà le sue energie a far rivivere il programma paterno, curando una serie di edizioni di alto prestigio filologico, soprattutto latine (309).

All'opposto, rispetto ad Aldo, si colloca un altro grande editore e tipografo attivo negli anni di Aldo e anche successivamente: Lucantonio Giunta (310). Di nobile famiglia fiorentina, si trasferì a Venezia, come si è accennato, nel 1477. Nel 1489 incominciò l'attività tipografica, che andò crescendo di dimensioni e importanza sino alla morte di lui, avvenuta nel 1538, e continuò poi con i figli e i nipoti.

Egli sceglie Venezia per un evidente calcolo economico: Venezia è il maggiore centro tipografico del mondo, è là che si possono fare gli affari migliori: ed è questo il suo scopo, non altro. E il mezzo più sicuro per ottenere guadagni cospicui è quello di mettersi al servizio del maggior committente possibile, dell'istituzione che per sua natura usa e consuma più libri di ogni altra: la Chiesa. E Lucantonio diviene il maggiore produttore e fornitore di libri religiosi del mondo. Dal 1489 al 1499 incluso pubblica 47 libri: i classici sono 5 in tutto, due i libri di astronomia e medicina; vi è un libro di diritto, vi è un Doctrinale. Tutti gli altri libri sono di argomento religioso: Bibbie, messali, salteri, breviari, libri liturgici. L'attenzione al mercato si rivela sin dalla scelta della prima opera pubblicata, l'Imitazione di Cristo di Giovanni Gerson, in volgare: un'opera diffusissima, offerta nella lingua accessibile alla moltitudine dei devoti. Si punta al numero, non alla raffinatezza intellettuale. Segue un Ovidio: un classico che non presenta sorprese, di sicuro gradimento, per di più accompagnato da abbondante commento. E altrettanto scontati gli altri classici che seguiranno: un Livio col commento dell'umanista più popolare a Venezia, Sabellico, un Plutarco, poi un Livio tradotto in volgare. L'attenzione al grande pubblico si rivela anche nella decisione di stampare ben tre edizioni in volgare della Bibbia, tre edizioni in volgare delle vite dei Padri della Chiesa, varie opere di edificazione anch'esse in volgare.

Nel 1497 Lucantonio fa uno dei suoi colpi da maestro: stampa le Metamorfosi di Ovidio (ricorrendo ai torchi di Giovanni Rosso, o Rubeo, Vercellense), nel rifacimento trecentesco di Giovanni Bonsignori, con ulteriori modifiche per adattare il testo alle esigenze del pubblico; e correda l'opera di un nutrito apparato di vivaci illustrazioni. Un'edizione fatta apposta per piacere a gente di gusti semplici: che tuttavia, proprio per l'efficacia del linguaggio figurativo delle xilografie, fa incorrere l'editore nelle ire del patriarca di Venezia Tommaso Donà, il quale decreta che "omnes ille figure que iam impresse sunt in dicto opere, scilicet mulierum nudarum, priapum et aliarum inhonestarum" vadano distrutte, pena la scomunica. Proprio all'editore prediletto della Chiesa toccava un simile infortunio! Era troppo tardi per ritoccare i legni, sicché Lucantonio si affrettò a velare d'inchiostro le parti impudiche (e tanto bastò al patriarca), provvedendo a sistemare le matrici per le future ristampe, che non mancarono di giungere, certamente redditizie (311).

A partire dall'anno 1500 Lucantonio pubblica, sino al 1538, altre trecentosessantatré edizioni: dieci Bibbie, sessantatré breviari, sessanta messali, tredici offici, undici salteri, quindici libri liturgici di vario tipo, trentacinque libri di edificazione religiosa. Sono dunque strettamente legati alla religione duecentosette libri, il 55%; ma degli altri, trentotto sono di filosofia soprattutto aristotelica e tomistica, quindi sempre nell'ambito della più tranquilla ortodossia, quattro sono libri di canto relativi al culto. Degli altri, otto sono di diritto, sedici di astronomia, ben cinquantatré di medicina: un filone scoperto dai Giunta poco dopo il 1515 e sempre più coltivato. Naturalmente sono edizioni rivolte alla massa dei pratici, non all'élite dei filologi: gli eredi di Aldo pubblicano gli originali greci, Lucantonio le più accessibili traduzioni latine, fra cui nel 1522 la grandiosa edizione di Galeno. Un'altra iniziativa di grande impegno fu, nel 1523, la stampa di tutto Avicenna, con il corredo dei commenti più noti, in cinque volumi. Si trattava di un'impresa non da poco; eppure ad essa seguiva, appena quattro anni dopo, una nuova e diversa edizione del solo testo di Avicenna, questa volta nella recentissima traduzione dell'arabista bellunese Andrea Alpago. Operazione insieme erudita e intelligente: il mercato poteva avere difficoltà ad assorbire un nuovo Avicenna a così breve distanza dal precedente, ma Lucantonio comprese il pregio della nuova versione e non esitò a lanciarla, con il consueto felice esito economico. Se ne fecero nove ristampe, di cui due ad opera della concorrenza e sette giuntine. Vi sono poi nel catalogo un Dottrinale, un Vocabulista in più lingue, un Donato: opere tutte di facile smercio, dirette al pubblico tradizionale degli studenti. I classici sono in tutto ventuno, tutti testi largamente diffusi. Appena quattro le edizioni in greco, solo quattro i libri di carattere erudito. Due di questi contengono la celebre polemica tra Erasmo e Alberto Pio di Carpi: eccezione questa nelle regole della casa dei Giunta (312). Lucantonio, proteso al successo commerciale, evita di regola ogni motivo di potenziale disturbo nel funzionamento della oleata macchina della sua azienda: così un'opera polemica come l'Apologia di Niccolò Leoniceno, pubblicata nel 1522, figura come edizione del figlio Tommaso; forse, come congettura il Camerini, per evitare un coinvolgimento diretto nelle polemiche suscitate dal libro.

La determinazione con cui Lucantonio continua sulla sua via, ignorando l'attività del contemporaneo Aldo, mentre invece il fratello rimasto a Firenze, Filippo Giunta, si ispirava ad Aldo e addirittura lo imitava, induce a ritenere che vi sia stato un accordo di famiglia e che i due "di proposito seguissero indirizzi editoriali diversi e complementari" (313). Così operando la grande azienda famigliare copriva quasi per intero il campo dei potenziali acquirenti, che potevano trovare ciò che desideravano nell'uno o nell'altro catalogo.

La produzione di Lucantonio non conosce soste: nemmeno nel 1509, l'anno di Agnadello, in cui escono undici libri, di cui ben otto successivamente alla data della disfatta. Quando la situazione si fa più tranquilla, la produzione aumenta: nel 1515 escono sedici libri, sei nel 1516, diciassette nel 1517, nove nel 1519. Escono trecentosessantatré libri in trentotto anni: nove all'anno. Lucantonio si serve di torchi propri, ma anche di altri: sette tipografi lavorano per lui nel Quattrocento, fra cui quel Johann Emeric di Spira da cui Lucantonio eredita il materiale tipografico; ancora una volta la tecnologia tedesca è all'origine della tipografia italiana.

Impressionante poi l'ampiezza dell'area geografica servita dalle edizioni giuntine. Vi sono messali per Aquileia, Messina, Vallombrosa, Valenza, Augsburg, Würzburg, Maiorca, Gran; breviari per l'uso di ogni possibile ordine religioso e per tutte le possibili congregazioni; e per Mantova, Passau, Piacenza, Salisburgo, Zagabria, Maiorca, Gran, Augsburg. Lucantonio è il fornitore del mondo cattolico, al di là di ogni confine.

Tommaso gli succede nell'azienda e nel tipo di produzione. Su duecentottantasei opere da lui stampate, centoventiquattro riguardano la religione, sessantasette la medicina, tredici la legge, otto l'astronomia, quarantacinque la filosofia e la teologia nell'ambito dell'ortodossia più stretta. Appena undici i classici. La grande collezione di opere relative alle scoperte e alle esplorazioni di ogni tempo, la Raccolta di Navigazioni e Viaggi curata dall'erudito segretario del senato Gianbattista Ramusio e pubblicata tra il 1550 e il 1559, rappresenta una felice eccezione all'impianto rigidamente confessionale e utilitario della casa editrice.

Nonostante tanta oculatezza, i Giunta non si sottraggono ad un rovescio finanziario: nel 1553 Sebastiano Priuli pretende l'immediato pagamento dei suoi crediti, e ciò determina una situazione di insolvenza della ditta per la somma di 100.000 ducati: una cifra enorme, che peraltro i Giunta riescono a pagare interamente negli anni successivi, recuperando in pieno il buon nome dell'azienda. Poco dopo, nel 1557, un altro incidente: un incendio distrugge il magazzino, con perdite ingenti. Ma anche questo rovescio viene superato e l'attività continua sotto la direzione di Tommaso. Questi muore nel 1566, lasciando l'azienda nelle mani di Lucantonio II, figlio del fratello di Tommaso, Giovan Maria, che si era occupato prevalentemente dell'amministrazione lasciando a Tommaso le scelte editoriali. Lucantonio II continua sulla via tracciata dall'avo e dallo zio, pubblicando ben trecentosettantatré edizioni sino al 1601; ma nel contempo, ammaestrato forse dall'esperienza di Tommaso e dai rovesci finanziari da questi subiti, sia pure brillantemente superati, differenzia al massimo i suoi investimenti, operando da grande capitalista nei settori più disparati (314); certo non è estranea alle sue scelte la considerazione del difficile momento attraversato dall'editoria veneziana, stretta nella morsa della Controriforma. L'azienda continuerà poi con gli eredi di lui sino ad una data straordinariamente tarda: il 1657, in tempi affatto mutati, quando il predominio veneziano nella stampa mondiale era da gran tempo tramontato.

Fra questi due poli, l'editore idealista, umanista e filologo come Aldo e l'editore che si può definire commerciale come Lucantonio, si colloca un firmamento di editori e tipografi d'ogni genere e dimensione. Alcuni si avvicinano allo spirito di Aldo, sia pure senza raggiungere il modello di creativa dedizione alla cultura e di perfezione tipografica da lui offerto, altri propendono verso le scelte dei Giunta. Così Bernardino Stagnino, il capostipite di una illustre dinastia di editori, i de Ferrari di Trino, non sembra tendere ad una precisa politica culturale, né a scegliere i titoli in base ad un criterio che non sia quello dell'utile. Sino al 1500 incluso si dedica alla stampa di testi giuridici: su novantatré titoli, settantotto sono di diritto, il resto è rappresentato da opere di medicina o di filosofia ortodossa. Dal 1501 al 1538 pubblica cento edizioni circa: per il 53% si tratta di libri religiosi, per il resto di medicina (15%) e di varia letteratura (315). Non sembra esservi alcun tentativo sistematico di cogliere titoli nuovi, di fare dei propri torchi il veicolo di nuove idee: eppure è proprio Bernardino a pubblicare nello stesso anno in cui esce, il 1518, l'Appellatio ad Concilium di Lutero (316), un fascicolo di quattro carte appena che reca sul frontespizio, senza mascheramento alcuno, il nome dell'autore. Il fatto rimase peraltro isolato: poco dopo i fulmini della Curia si abbattevano sul riformatore tedesco, e nessuno, tantomeno lo Stagnino, osò più stamparne o commerciarne l'opera se non nella clandestinità. La prontezza con cui Bernardino pubblicava lo scritto di Lutero appena uscito in Germania è peraltro un fatto indicativo dell'attenzione con cui gli stampatori veneziani seguivano i fatti culturali del mondo e cercavano di accaparrarsi le novità. Alla sete di informazioni circa fatti di attualità rispondeva la diffusione di "avvisi" manoscritti e a stampa, come "le belle istorie" che Furfante reclamizza a gran voce nella Cortigiana dell'Aretino: un genere assai in voga per tutto il secolo (317).

Avvicinabili per taluni aspetti ad Aldo (l'originalità, il desiderio di sperimentare, di trovare vie nuove nella formazione e nella diffusione del libro) appaiono due editori ai quali - come si è accennato - sono dovute singolari innovazioni da essi introdotte nei caratteri e nel formato delle loro stampe: Lazzaro Soardi e Alessandro Paganino. Il primo, un piemontese stabilitosi a Venezia, che stampa il suo primo libro nel 1490, è seguace di fra Girolamo Savonarola, di cui pubblica ripetutamente tutte le opere. Spirito originale, inserisce nelle sue edizioni rime bizzarre e curiosi colophon (318). Tra il 1511 e il 1513 egli sperimenta per primo un nuovo formato: quello in dodicesimo, ch'egli applica a testi ben noti é consacrati: Petrarca, Cicerone, Terenzio, Quintiliano, di cui evidentemente propone una portabilità ancora più agevole di quella degli ottavi aldini. Si tratta, egli stesso dice, di libri pugillares, da tenere in pugno, come le antiche tavolette. Non solo; egli inventa un nuovo carattere, la "lettera galante", adatta a quel particolare formato (319).

Sullo stesso terreno procede ancora più radicalmente e coraggiosamente Alessandro Paganino, che inventa un nuovo formato ancor più inusitato: il ventiquattresimo. Se il formato in ottavo di Aldo trovava il suo modello nei raffinati piccoli codici umanistici che circolavano nell'ambiente di Bernardo Bembo e di Marcantonio Morosini, il ventiquattresimo di Paganino non poteva richiamarsi ad alcun precedente, salvo i piccoli libri d'ore francesi, peraltro espressione di una cultura e di una società molto diverse. L'invenzione di Paganino era dunque del tutto nuova: e ad essa egli giunse in base a considerazioni editoriali e di mercato, creando nel contempo un nuovo carattere, misto di romano e di corsivo, specificamente adatto per il nuovo formato. Altrettanto significativa la scelta dei titoli: Petrarca, Sannazzaro, Bembo sono i primi tre autori pubblicati, cui seguiranno Dante e una delle opere meno note del Boccaccio, il Corbaccio. Il campo riservato alla raccolta degli eleganti libriccini era dunque la letteratura in volgare; il pubblico cui essa si dirigeva era quello delle corti, dei palazzi gentilizi, dei gentiluomini e delle gentildonne che si lasciavano dolcemente coinvolgere nella moda del petrarchismo (320). Alessandro Paganino non concepiva i suoi libri in ventiquattresimo come entità isolate; li vedeva come elementi di un tutto, di una vera e propria collana. Anche se l'invenzione del termine "collana" si deve a un altro grande editore, Gabriele Giolito, l'idea di collegare in un'unità ideale i libri aventi determinate caratteristiche contenutistiche e grafiche risale ad Alessandro e alla sua serie di opere in ventiquattresimo; ma l'illustre precedente è pur sempre offerto da Aldo con i suoi enchiridi in ottavo.

Alessandro Paganino appartiene ad un'azienda tipografica il cui fondatore e titolare, prima esclusivo poi in associazione con lui, è il padre, Paganino: uno stampatore stabilitosi a Venezia attorno al 1483, legato al mantovano Giorgio Arrivabene, anch'egli giunto a Venezia negli stessi anni. Paganino esordisce nel 1487 con un'opera religiosa, continua poi con una serie imponente di opere giuridiche, naturalmente in folio, e di testi liturgici e religiosi, fra cui l'impegnativa stampa della Bibbia con la glossa di Niccolò da Lira, del 1494, cui si è accennato. Paganino sembra uno dei tanti stampatori al servizio dell'Università e della Chiesa, senza una spiccata individualità: ma nel 1494 egli stringe un legame con Luca Pacioli, che gli affida la stampa della sua Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità.

L'evento è rilevante nella storia della scienza; ma di risonanza ben maggiore, nel 1509, sarà la stampa, sempre a cura di Paganino, del trattato sulla Divina proportione, preceduto di pochi giorni da un'edizione critica di Euclide. L'incontro tra l'ingegno matematico del frate e quello tecnico ed editoriale del Paganino produce un capolavoro tipografico, il cui successo era stato preparato dalla grandiosa presentazione delle teorie del Pacioli nella chiesa di S. Bartolomeo a Rialto, l'anno prima, l' 11 agosto 1508, alla presenza della migliore società veneziana. All'opera concorse anche l'ingegno di Alessandro Paganino, spirito più irrequieto, intraprendente, geniale del padre (321).

Quel 1509 è un anno fatale nella storia veneziana: è l'anno della disfatta di Agnadello con i profondi cambiamenti che ne conseguono nella politica della Repubblica, nei disegni e nella mentalità della classe dirigente. Per alcuni anni la situazione della città è drammatica, la sua stessa sopravvivenza sembra in pericolo, la guerra assorbe ogni energia. Poi, finalmente, la fine dell'incubo: nel 1515 la Terraferma è ormai ricuperata, con la vittoria di Marignano la fiducia ritorna. E le stamperie, che avevano ridotto il loro ritmo produttivo (non del tutto peraltro: non i Giunta, non lo Stagnino, mentre Aldo aveva addirittura lasciato Venezia) riprendono con entusiasmo il loro lavoro. Ha inizio un nuovo periodo di espansione, che caratterizzerà in un crescendo continuo tutta la prima metà del Cinquecento.

L'editoria in pieno slancio accentua gli indirizzi che aveva preso nei primi anni del secolo. Il calo delle opere giuridiche, i voluminosi in folio che assorbivano buona parte degli investimenti e delle energie dei tipografi assicurando loro sicuri guadagni, è compensato dal formidabile aumento delle opere mediche, legato, come si è detto, al progredire della scienza medica e all'entusiasmo suscitato dalla riscoperta dei classici della medicina, rimessi in circolazione dagli umanisti e diffusi dalla stampa. La diminuzione delle opere latine è ampiamente controbilanciata dall'aumento esponenziale dei testi in volgare.

L'ascesa del volgare è continua dalle origini della stampa; secondo le rilevazioni di Amedeo Quondam si passa da una percentuale del 21% per gli anni 1469-1480 (computata sul totale dei libri stampati in Italia) al 29% per il tratto 1481-1490 e al 48,3% per il periodo 1491-1500; in quest'ultimo viene prodotto il 10% di tutti gli incunaboli in volgare (322). Fra di essi il posto più importante spettava alle opere di carattere religioso e ai romanzi cavallereschi, vecchia passione dei Veneziani: Neil Harris ha contato sessantuno titoli di romanzi editi nel Quattrocento, dal Libro di Attila del 1472 alla Istoria della Regina Oliva del 1500 circa (323). Ma certo erano molti di più. La maggior parte dei libri destinati al consumo sparisce senza lasciar traccia: del Guerin Meschino stampato da Alessandro Bindoni nel 1508 rimane un solo esemplare noto, e di molti altri libri analoghi non resta più alcuna copia. L'aumento delle edizioni in volgare prosegue nel Cinquecento, accentuandosi con la ripresa posteriore al 1515, negli anni in cui il Bembo teorizza la dignità della lingua italiana. Dopo il 1530 il trionfo del volgare sarà completo anche nell'editoria veneziana.

Fra gli stampatori di libri in volgare si distinguono i Bindoni, originari di Isola Bella sul Lago Maggiore (324). Alessandro, il primo a trasferirsi a Venezia, esordisce nel 1506, con un classico della letteratura popolaresca, La vita del beato patriarchi Iosaphat convertito da Barlaam. Prosegue poi in quel filone, coltivando anche un altro settore che certamente rivestiva un'importanza grandissima nella vita quotidiana dei Veneziani, ma del quale poco rimane: la stampa di fogli volanti contenenti notizie di attualità, come La obsidione de Padoa: un réportage sulla vittoria di Padova contro gli Imperiali nel 1515. Accanto a questa sorta di giornali dell'epoca si vendevano altri foglietti popolareschi destinati ai cantambanchi: e anche questi erano prodotti in buon numero dal Bindoni. I fratelli Agostino e Bernardino e il figlio Francesco ne continuano l'opera affiancando al repertorio tradizionale della casa autori illustri, dal Boccaccio all'Ariosto, dal Petrarca all'Aretino.

Attivissimi nella letteratura volgare anche gli Arrivabene (325). A Giorgio, attivo dal 1487 e interessato soprattutto al diritto, succede nel 1517 Cesare, che pubblica, in volgare, autori religiosi ma anche il Corbaccio del Boccaccio. La sua attenzione alla letteratura contemporanea si rivela nella stampa dell'opera di Teofilo Folengo, col suo singolare linguaggio ibridato. Ma la personalità di maggior rilievo nella dinastia è quella di Andrea, che subentra nel 1534. Con lui l'azienda si dedica interamente alla produzione in volgare: alla letteratura italiana ma anche a quella straniera in traduzione italiana. Escono dalla sua stamperia molte opere spagnole tradotte e nel 1547, come si accennerà, il Corano.

Nel 1507 inizia l'opera di Niccolò di Aristotele de' Rossi detto lo Zoppino, attivo fino al 1543. Editore intelligente, attento a quanto di nuovo si produce nel mondo della letteratura, egli stampa per lo più opuscoli di largo consumo ma pubblica anche testi letterari di alto livello: non solo i testi ormai consacrati del Tre e Quattrocento, ma anche opere di autori contemporanei, accolti nel catalogo "spesso con sicura tempestività" (326). Domina la poesia (il 26% del totale); vi sono tutti i nomi più interessanti della generazione del Bembo e della successiva, con l'Ariosto in grande rilievo. Ma vi è anche un altro aspetto della sua attività editoriale che merita una particolare considerazione: come si accennerà, lo Zoppino è uno dei principali propagandisti a Venezia della teologia della Riforma.

Alla letteratura italiana si converte un altro grande editore, Gregorio de Gregori (327). Originario di Forlì, Gregorio aveva fondato la sua azienda veneziana nel 1482, assieme al fratello Giovanni, pubblicando tra quella data e il 1520 oltre duecento titoli. Il grosso della sua produzione era costituito dal repertorio più usuale: opere religiose, classici, testi di diritto, filosofia, medicina; ma sua è la prima edizione illustrata del Decameron (1492), sua è l'edizione critica del Boccaccio curata dal dotto patrizio Niccolò Doifin (1516). Dal 1523 il suo catalogo accoglie sempre più numerose traduzioni in italiano dei classici, in particolare degli storici. Sensibile a quanto di nuovo si viene elaborando oltralpe, Gregorio pubblica per primo in traduzione italiana anche alcune opere di Erasmo. La sua genialità si manifesta in particolare nell'illustrazione xilografica dei suoi libri, di alta qualità; la eseguiva, sembra, egli stesso. Animato com'era da viva curiosità intellettuale, fu Gregorio a tentare il primo esperimento di stampa in caratteri arabi: l'Horologium breve, stampato non a Venezia, ma a Fano, nel 1514. La scelta di Fano come luogo di edizione era peraltro solo un espediente per sfuggire al privilegio per la stampa di "opere in lingua arabica, morescha, soriana, armenicha, et barbarescha" che la Repubblica aveva concesso nel 1498 a Democrito Terracina, rinnovandolo ai nipoti nel 1513: privilegio peraltro mai utilizzato. A Fano il de Gregori dovette restare assai poco, se nello stesso 1514 uscirono a Venezia quattro sue edizioni, di cui tre in folio.

All'italiano si volge anche Giovan Battista Sessa, originario dell'omonima località nei pressi di Lugano (328). Egli esordisce nel 1489 con Seneca; continua poi con classici e opere latine di consolidata reputazione; ma già dal 1501 si dedica di preferenza a opere in volgare, di gusto spesso popolaresco. Romanzi cavallereschi della tradizione medioevale si affiancano alle opere del Boiardo e al Milione di Marco Polo, racconto anch'esso di sapore romanzesco. Ma ciò che vi è di più originale nel catalogo sono le edizioni scientifiche: matematica, geometria, astrologia, geografia (fra cui Pomponio Mela emendato da Ermolao Barbaro) e anche musica. Nel 1506 a Giovan Battista succede nella direzione dell'azienda Melchiorre Sessa, venezianamente Marchiò, che continua nel filone paterno, pubblicando soprattutto in volgare. Nel 1516 Marchiò si associa al bresciano Pietro de Ravani e stampa con lui un dizionario greco, un salterio, molti classici. Nel 1526, sciolta la società, torna al campo ormai tradizionale della sua ditta: la letteratura italiana. Commedie, novelle, opere di carattere didascalico escono numerose dalla sua tipografia, stampate in ottavo e in corsivo.

Da quanto si è detto risulta evidente che gli stampatori veneziani del Cinquecento non erano meri tecnici al servizio di idee altrui; partecipavano attivamente alla vita culturale della città e dell'Europa, promuovevano scelte culturali da essi stessi condivise, coglievano vigili le novità del mercato, suggerivano titoli, indirizzi, idee. È la loro scelta di privilegiare la lingua volgare che contribuisce in maniera determinante al trionfo della letteratura italiana e all'affermazione stessa dell'italiano come lingua letteraria. Un'opera accolta nei cataloghi degli editori veneziani giungeva ovunque, attraverso collaudati canali; la sapienza tecnica, l'intuizione commerciale, il gusto sicuro nell'allestimento della pagina, nella scelta del formato, del carattere, della decorazione contribuivano ad assicurare il successo dell'opera negli ambienti più disparati. E naturalmente gli autori più noti, al pari di quelli meno noti, affidavano volentieri le loro opere ai torchi veneziani nella certezza di assicurare ad esse la migliore diffusione. Indicativa è la vicenda editoriale del Furioso: sino al 1565 se ne fanno novantasette edizioni in tutto, di cui ottantadue a Venezia, quattro a Lione e undici nel resto d'Italia: l'editoria veneziana si faceva strumento della fortuna ineguagliata del poema (329). Istruttivo anche l'esame dei caratteri tipografici usati nelle edizioni dell'Ariosto sino alla metà del secolo: domina il romano per le edizioni in quarto, più costose e destinate a un pubblico più elevato, e il gotico per le edizioni in ottavo, rivolte alle classi più modeste. Successivamente il gotico ormai obsoleto sparisce, il romano prevale nelle edizioni in ottavo e il suo posto nelle edizioni in quarto viene preso dal corsivo (330): segno dell'attenzione con cui gli editori calibravano ogni elemento tipografico in rapporto al gusto e alle abitudini del loro pubblico.

Le scelte degli editori veneziani si rivelavano costantemente paganti dal punto di vista economico e commerciale: negli anni 1526-1550 la quota dei libri stampati a Venezia raggiunge, secondo i calcoli del Quondam, addirittura il 74% dei libri stampati in Italia (331). Un predominio assoluto, che viene confermato da rilevazioni relative a settori particolari: i manuali per i confessori stampati a Venezia rappresentano ad esempio, nel periodo 1541-1550, il 63% di quelli stampati nell'intera Italia, e nel 1551-1560 l'89% (332).

A persone così attente a quanto accadeva nel mondo non poteva sfuggire l'enorme ricchezza di energie intellettuali e morali liberata dall'esplosione di un fenomeno di immensa portata: la Riforma. Verso di essa non pochi editori e stampatori mostrarono un profondo interesse; per alcuni la motivazione era forse solo commerciale, ma altri erano spinti da una propensione sincera verso un movimento spirituale che sembrava poter condurre ad un rinnovamento profondo della cristianità. È difficile oggi valutare le reali dimensioni dell'editoria veneziana simpatizzante per la Riforma, o addirittura protestante: troppo in profondità ha operato la repressione, non solo attraverso i roghi di libri, ma anche capillarmente, con i processi, le minacce, le delazioni, la pressione esercitata sulle coscienze. Tuttavia il fenomeno era certamente assai vasto. Si pensi che dell'ingente numero di copie che furono tratte del Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i christiani, "il più noto scritto della Riforma italiana", un numero che Pier Paolo Vergerio stima, sia pure con probabile esagerazione, in quarantamila, sopravvivono oggi in tutto, forse, quattro o cinque (333); da ciò si può dedurre quanto poco rimanga di una produzione editoriale certo a larga diffusione, che coinvolgeva e appassionava le coscienze non solo negli ambienti colti ma anche nelle classi meno abbienti e istruite. Ne restano solo isolati lacerti, frammenti di un continente sommerso.

Il primo a stampare, e con straordinaria tempestività, un testo protestante, anzi il manifesto dei protestanti, e per di più col nome dell'autore, fu, come si è detto, lo Stagnino. Nel 1525 lo Zoppino - vicinissimo alla Riforma - stampò una miscellanea di scritti dei maestri della Riforma, tradotti in italiano: Uno libretto volgare con la dechiarazione de li dieci comandamenti del Credo, del Pater Noster, con una breve annotatione del vivere christiano. Fu un successo. Il libro giunse anche a Lutero, che esclamò: "Benedette le mani che l'hanno scritto, gli occhi che l'hanno visto, i cuori che crederanno quanto è scritto in questo libro, e allora loderanno Dio" (334).

Tra il 1530 e il 1534 uscì la traduzione italiana dei Loci communes theologici di Melantone col titolo "estroso" I Principii de la Theologia di Ippofilo da Terra Negra. Si trattava della "prima summa della Riforma", scritta con persuasiva chiarezza. La traduzione era opera dell'illustre erudito Ludovico Castelvetro; e l'editore anonimo era, sembra, Paolo Manuzio (335). La qualità del testo e l'eleganza della traduzione erano pienamente all'altezza della grande tradizione della casa editrice; e il successo fu pieno, l'opera circolò in tutta l'Italia, e influenzò profondamente studiosi, letterati, spiriti eletti, come Teofilo Folengo, Marcantonio Flaminio, Aonio Paleario.

Nel 1534 Bernardino Bindoni pubblicò il Trattato utilissimo sopra ricordato. La profonda spiritualità del "dolce libriccino", come lo definisce il Vergerio, penetrò in innumerevoli coscienze prima che ne venisse decretata e sistematicamente eseguita la totale distruzione (336). Si trattò di uno straordinario successo editoriale. Altre cinque edizioni seguirono, sino al 1549, mettendo in circolazione molte migliaia di copie. Analoghi testi venivano pubblicati, di solito, senza note tipografiche: ventiquattro traduzioni in italiano di scritti di maestri della Riforma, uscite a Venezia tra il 1525 e il 1556, sono sopravvissute sino ad oggi (337).

Uno di questi trattati in traduzione, il Libro de la emendatione et correctione dil stato christiano, recante solo l'indicazione dell'anno, 1533 (opera di Bartolomeo Fonzio), aveva ampia circolazione. Una "persona da ben" ne procurò senza difficoltà due copie al nunzio Girolamo Aleandro, cui una "pizzochera" dichiarava che il volume "si leggeva come cosa di Orlando, con applauso degli ascoltatori". La gente semplice ascoltava e applaudiva come ai racconti dei cantastorie.

Di solito il libro protestante era edito in volgare, per giungere più facilmente al popolo dei fedeli, ma talvolta si stampavano, o ristampavano, testi in latino, come l'Unio dissidentium, un libretto pubblicato per la prima volta nel 1532 ad Augusta; esso circolava a Venezia, in quanto era "stato da nuovo stampato in questa terra" nel 1533. Il nunzio Aleandro tentava vanamente di ottenerne la distruzione negli anni 1533-1534 (338).

La generazione degli stampatori che si fa avanti tra il 1530 e il 1540 è profondamente coinvolta nella questione religiosa: Andrea Arrivabene, l'editore del Corano in italiano, è, sembra, conquistato segretamente alla Riforma; lo è quasi certamente Vincenzo Valgrisi, il francese Vaugris (339). Simpatizzano per la Riforma Comin da Trino, un fecondo tipografo dalla cui officina escono tra il 1539 e il 1574 circa trecento edizioni; Bartolomeo Zanetti; Michele Tramezzino, noto per le volgarizzazioni di opere latine e spagnole, fra cui l'Amadigi di Gaula, per le opere storiche e per quelle dedicate alla riscoperta archeologica di Roma (340). A Venezia escono non solo traduzioni di opere protestanti stampate oltralpe, ma anche edizioni originali di personalità italiane vicine alla Riforma: Bernardino Ochino, Celio Secondo Curione, Juan de Valdés, Francesco Negri. "Intorno al 1540 l'editoria veneziana teneva saldamente il primato in Italia, anche nel campo della letteratura religiosa in volgare" (341).

Se l'editoria filoprotestante poteva prosperare a Venezia, lo si doveva alla libertà di cui gli intellettuali godevano in città. Personaggi geniali e insofferenti d'ogni costrizione, come Anton Francesco Doni, Niccolò Franco, Ortensio Lando, vi eleggevano la loro dimora e fornivano alla tipografia veneziana prezioso materiale, originalissimo e di successo; e gli stampatori veneziani a loro volta li ricambiavano, offrendo loro occasioni di lavoro e di guadagno (342). Il principe di questi letterati ribelli, spregiudicati, incuranti della moralità ma traboccanti d'ingegno, di vitalità, Pietro Aretino, trova il suo editore favorito in Francesco Marcolini, una delle figure maggiori del periodo tra il 1530 e il 1560 (343).

I titoli dell'Aretino dominano nel catalogo del Marcolini tra il 1534 e il 1545; poi prevale il Doni, tra il 1550 e il 1559. Mentre l'altro grande editore di quegli anni, Gabriele Giolito, spazia nell'intera letteratura italiana, il Marcolini appare l'editore di un ben definito gruppo letterario: quello che si riunisce appunto attorno all'Aretino includendo Niccolò Franco prima della rottura con il temibile letterato, Agostino Ricchi, Francesco Alunno, Sebastiano Serlio, di cui il Marcolini pubblica più edizioni del celebre trattato sull'architettura, Antonio Mezzabarba, Daniele Barbaro, e altri spiriti liberi e intelligenti (344).

Gabriele Giolito, il maggiore tra gli editori della sua generazione, appartiene ad una dinastia di stampatori: Bernardino Stagnino e forse anche Comin da Trino erano suoi parenti; il padre, Giovanni, si dedicava principalmente al commercio librario. Il suo catalogo comprende un numero veramente ingente di opere in ogni disciplina; ma il campo in cui egli eccelle è la letteratura italiana contemporanea. Dieci sono le sue edizioni delle opere dell'Aretino, cinque di Tullia d'Aragona, sette di Giulio Camillo Delminio, sedici di Girolamo Muzio, sei di Paolo Giovio, sette di Giambattista Giraldi Cinzio, ventuno di Girolamo Parabosco, sette di Bernardo Tasso, quattordici di Laura Terracina, otto di Claudio Tolomei, dieci di Orazio Toscanella e così via. "Praticamente tutta l'esperienza letteraria cinquecentesca passa attraverso l'officina dei Giolito, in persona e in testo", scrive il Quondam (345): anche in persona, perché Gabriele si avvale di una schiera di collaboratori appartenenti al mondo della cultura e della letteratura, li attira nella propria orbita facendone dei consulenti rispettati, ascoltati e remunerati; egli contribuisce ad una nuova dignità della professione di letterato e di studioso, affrancando chi vi si consacra dalla necessità di farsi cortigiano o cliente di un potente. Uomini come Lodovico Domenichi, Ludovico Dolce, Anton Francesco Doni, Ortensio Lando, Niccolò Franco hanno rapporti costanti con lui; i primi due lavorano per lui a tempo pieno. Si tratta di autori che godono di vasta notorietà: pubblicano le loro opere nelle collane del Giolito e per di più collaborano nella redazione. Molti altri scrittori gli danno il loro apporto in modo meno costante: Antonio Brucioli, Tommaso Porcacchi, Francesco Sansovino... Il meglio della cultura cinquecentesca fattasi veneziana d'adozione gravita attorno all'officina dei Giolito, nella stagione d'oro della matura Rinascenza. L'azienda ha lunga vita: dal 1536 al 1606, con una produzione di cinquecentoventisette titoli originali e quattrocentonovantadue ristampe, per un totale di millediciannove edizioni, con opere di duecentonovanta autori (346). Ma l'età più felice è quella che si chiude nel 1560, con la stampa dell'ultimo Furioso e dell'ultimo Petrarca: del primo erano uscite trenta edizioni, del secondo ventidue, cinque del Decameron, tredici del Sannazzaro. Poi, col trionfo della Controriforma, altri saranno i titoli che prevarranno nel catalogo.

Gli anni 1525-1550 rappresentano un periodo di piena felicità per l'arte tipografica, di riflesso alla creatività e alla libertà della società veneziana, a cui la stampa a sua volta dà un apporto di prim'ordine, in termini intellettuali ed economici. Tale è la fama di libertà e di apertura di cui Venezia gode nel mondo che un gentiluomo fiammingo, Daniele Bomberg, decide di stabilirvisi per realizzare il suo sogno generoso e geniale: dar vita a una tipografia ebraica al fine di pubblicare i sublimi frutti di quella civiltà nei loro propri caratteri (347). Forse la decisione maturò grazie ad un incontro avvenuto proprio a Venezia: quello con frate Felice da Prato, dell'ordine degli Eremitani, un dottissimo ebreo convertito, che già aveva considerato la possibilità di aprire una tipografia ebraica a Roma, ove la tolleranza e l'apertura di Leone X offrivano favorevoli opportunità, ma che poi aveva preferito Venezia. Nel 1515 il Bomberg chiede un privilegio per dieci anni per la stampa di varie opere ebraiche, precisando che gli necessitava l'opera di almeno quattro dotti ebrei compositori; per essi egli chiede la concessione di portare "bereta nera", in luogo della "bereta zala" che contrassegnava gli Ebrei. Il senato gli accorda quanto richiesto: è l'inizio di una meravigliosa attività tipografica. Fra i suoi lavoranti vi sono eruditi di prim'ordine: Cornelio Adelkind e il figlio Daniele, cui il Bomberg onestamente riconosce la paternità di varie edizioni; Meir Parenzo, che dal 1547 al 1549 si metterà a stampare in proprio. Il risultato dell'incontro fra l'entusiasmo generoso del Bomberg e la cultura e sapienza tecnica dei suoi collaboratori sono circa duecento edizioni di straordinaria qualità: capolavori dell'arte, usciti fra il 1515 e il 1549. Non tutto era facile per quel gruppo di spiriti illuminati: l'ostilità di molti, la diffidenza inintelligente di personaggi anche culturalmente eminenti, il peso della secolare propaganda antiebraica della Chiesa erano altrettanti ostacoli sul cammino della casa editrice; ma nonostante tutto i risultati furono straordinari. Uscirono opere imponenti come la Bibbia Rabbinica in 4 volumi, il Talmud Babilonese in dodici volumi e il Talmud Palestinese, nonché vari libri di preghiere destinati alle comunità della diaspora.

Si trattava di un'operazione di alto livello culturale, ma anche redditizia economicamente: le ricche comunità ebraiche di tutta l'Europa e dell'Oriente erano clienti attuali o potenziali della stamperia. Il successo fu tale che vari altri tipografi decisero di cimentarsi nella stampa di libri ebraici. Persino due patrizi nel 1545 si lanciarono nell'impresa: Alvise Bragadin e Marc'Antonio Giustinian, operando cosa quasi mai prima avvenuta - in prima persona, come titolari delle rispettive aziende. La loro iniziativa ebbe dopo qualche anno le più funeste conseguenze, come si dirà, ma produsse subito un triste effetto, l'abbandono di Venezia da parte del Bomberg. Già nel 1546 egli tornava ad Anversa e decideva di porre l'impresa in liquidazione: operazione complessa, che si protrasse sino al 1554. Di essa il generoso fondatore dell'azienda non vide la conclusione; si era spento l'anno prima ad Anversa.

Solo in una città come la Venezia di allora, in cui la stampa prosperava in un continuo fervore di attività e di sperimentazione nell'ambito di una società cosmopolita, in cui l'Oriente era familiare per i continui contatti commerciali e diplomatici, in cui si potevano incontrare facilmente mercanti greci, armeni, turchi, in cui non vi era patrizio che non avesse viaggiato in Europa e soprattutto in Levante per commerciare o per rappresentarvi gli interessi della Repubblica, solo in una città così singolare e in una congiuntura così felice poteva venir concepito e realizzato un disegno di straordinario ardire: la pubblicazione del Corano in arabo (348). L'interesse per la stampa in arabo a Venezia era nell'aria: si è detto dell'Horologium breve del de Gregori; e Aldo Manuzio, anche in questo precursore, aveva inserito tre parole e tre eulogie in arabo nella sua Hypnerotomachia. L'alfabeto arabo figura nel celebre manuale di calligrafia di Giovanni Antonio Tagliente, edito a Venezia nel 1524. Ma fu Alessandro Paganino, l'editore intraprendente e geniale di cui abbiamo già incontrato le nuovissime edizioni in ventiquattresimo, il figlio dell'editore di Luca Pacioli, che attorno al 1537 pubblicò in arabo, e interamente in arabo, il testo sacro dell'Islam. L'idea era coraggiosa, quasi temeraria: chi poteva prevedere le reazioni della società musulmana? Ma quale trionfo per l'editore se l'immenso mercato del mondo islamico, esteso su di un territorio che andava dalla Persia al Marocco, si fosse aperto ad accogliere il Corano a stampa! Quali possibilità di guadagno si sarebbero aperte, quale gloria sarebbe toccata a chi avesse adattato per primo alla parola del Profeta la scoperta di Gutenberg! Solo a Venezia si poteva trovare uno stampatore per il quale il successo della stampa nelle lingue e nei caratteri più diversi, dal greco allo slavo, dall'ebraico all'armeno, un successo facile a constatare nelle aziende site nella stessa città e magari nello stesso sestiere o contrada, potesse costituire un motivo concreto di fiducia, un precedente incoraggiante; solo da Venezia si poteva pensare ad una distribuzione dell'opera in tutto il territorio dell'Islam, attraverso i canali commerciali familiari ai Veneziani. Purtroppo il grande disegno fallì. Forse l'opera fu rifiutata dai musulmani, cui pareva sacrilegio copiare in via meccanica la parola rivelata; o forse la scorrettezza dell'edizione, inesplicabilmente affidata a consulenti non abbastanza competenti nella scrittura araba, rese il prodotto invendibile. E l'edizione sparì. Sparì a tal punto che si dubitava della sua stessa esistenza, non essendosene mai ritrovato, per secoli, alcun esemplare: sinché per una di quelle singolari coincidenze che si verificano quasi miracolosamente nella vita e nella cultura, l'unica copia superstite della straordinaria avventura editoriale è apparsa di recente alla persona che più di ogni altra meritava di ritrovarla. Angela Nuovo, la miglior conoscitrice della casa editrice dei Paganino, ha ritrovato il Corano nella biblioteca di S. Michele in Isola, a Venezia. Si tratta di una copia scampata alla distruzione decretata non già dal fanatismo inquisitoriale, come per lungo tempo creduto, ma dall'editore stesso; o forse della prova finale di stampa, poi abbandonata dal Paganino, una volta resosi conto, con la costernazione che è facile immaginare, dell'irreparabilità degli errori.

L'impresa di Alessandro Paganino finì dunque tristemente; provato dall'insuccesso, che dovette avere pesanti implicazioni finanziarie (si pensi allo sforzo economico e materiale di predisporre gli infiniti caratteri necessari), Alessandro lasciò per sempre nel 1538 l'attività tipografica. Ma rimase il ricordo della generosa impresa, testimonianza dell'ardimento, della capacità di sperimentazione, della vitalità della tipografia veneziana e altresì della società che ne consentiva l'attività e lo straordinario sviluppo.

Un altro spirito libero e intelligente, Andrea Arrivabene, mise ad effetto qualche anno dopo, nel 1547, un'operazione coraggiosa, sebbene di gran lunga meno temeraria di quella di Paganino: la stampa del Corano in traduzione, uscita nel 1547. Il pubblico cui l'edizione si indirizzava era totalmente differente: le persone colte, curiose di conoscere società e mondi diversi, in un momento in cui le scoperte geografiche aumentavano generalmente l'interesse per le civiltà nuove e sconosciute. Si trattava comunque di un'impresa non priva di rischi, dato che la censura ecclesiastica cominciava ad affilare le sue armi; ma Venezia era ancora libera in paragone ad altre città italiane, e Andrea era abituato al pericoloso mestiere di mercante clandestino di libri protestanti: un'attività redditizia, che affiancava a quella principale di stampatore (fra il 1537 e il 1570 pubblicò un'ottantina di edizioni) (349).

La copia del Corano di Paganino, rinvenuta da Angela Nuovo, apparteneva a Teseo Ambrogio degli Albonesi; uno straordinario linguista ed erudito, padrone delle lingue più ardue, dall'arabo allo slavo, dal greco all'aramaico. Ed egli parlava del Corano ad un altro spirito geniale e bizzarro, di conoscenze linguistiche vastissime e di erudizione filologica altrettanto vasta, Guillaume Postel, profeta di nuovi mondi e di nuove fedi. In nessun altro luogo questi due spiriti liberi e originali potevano meglio incontrarsi che a Venezia, ove la loro sete di conoscenza poteva essere soddisfatta non solo da incontri stimolanti con gente d'ogni dove, ma anche da un mercato librario di vivacità senza pari in Europa. E a Venezia nel 1544 uno spirito altrettanto libero e geniale, il fiorentino Antonio Brucioli, stampatore, studioso delle lingue orientali, traduttore della Bibbia e futura vittima del Santo Uffizio, pensava ad una ripresa della stampa in arabo e otteneva un privilegio per un alfabeto arabo di sua invenzione. Ma la cosa non ebbe seguito (350).

Al grande mercato veneziano del libro partecipavano anche le attive e prospere comunità straniere ospiti della città, in particolare quelle la cui patria era soggetta al Turco e quindi impossibilitata ad esprimere una libera attività tipografica, mentre Venezia offriva le più ampie possibilità. Così gli Armeni pubblicano a Venezia, nel 1512, il loro primo libro a stampa: una sorta di zibaldone intitolato Urbat'agirk, "libro del venerdì", contenente vite di santi, preghiere per i malati, brani di Vangeli. Ne è editore Yakob, un armeno residente nella città; lo stampatore, ancora ignoto, si cela sotto la sigla D.I.Z.A. Eleganti incisioni ornano l'edizione, cui faranno seguito altre quattro, uscite nello stesso anno o nel successivo. A Yakob succederà molto tempo dopo un altro connazionale, Abgar, che nel 1565 produce un libro di salmi (351).

La stampa in lingue e caratteri slavi trova anch'essa a Venezia la sua sede ideale: nel corso del secolo escono almeno centotrentotto edizioni in slavo, presso cinquantasette tipografie. Continua la stampa in caratteri glagolitici, incominciata con il breviario di ignoto tipografo del 1491-1492 e con quello di Andrea Torresani, del 1493; vi si cimentano Gian Francesco Torresani, figlio di Andrea, Francesco Bindoni e altri. Nel 1512 Giorgio Rusconi stampa per primo un libro religioso, un officio di s. Brigitta, in "bukvica", vale a dire con i caratteri cirillici usati in Bosnia; altri poi lo imiteranno, soprattutto nel Seicento. Nello stesso 1512 incomincia la stampa in caratteri cirillici ecclesiastici: il tipografo è anonimo, ma il correttore è lo stesso che rivede il testo dell'officio in "bukvica" già ricordato. Nel 1519 esordisce nel campo della stampa in cirillico il serbo Bozidar Vukovic'. La sua stamperia godrà di una posizione dominante sino al 1540; gli succederà nell'azienda e nel predominio il figlio Vikentije, operoso sino al 1561. Altri stampatori si cimenteranno nello stesso campo, tutti slavi ad eccezione di Giovanni Antonio Rampazzetto, che stamperà in cirillico un libro religioso nel 1597. Nel caso della stampa in cirillico non sussistevano le ragioni politiche che impedivano a Greci e Armeni di stampare nei loro paesi; vi erano terre slave indipendenti (la Russia, la Transilvania) dove fu di fatto possibile impiantare tipografie in cirillico; ma Venezia rimaneva pur sempre un luogo privilegiato per la stampa, sicché non poche tipografie continuarono a prosperarvi stampando in slavo (352).

Continuava la stampa in greco, non solo ad opera della casa editrice di Aldo e dei suoi successori, ma anche di altri editori non greci: Bartolomeo Zanetti, Marchiò Sessa, Girolamo Scotto. Molto importante era peraltro l'attività dei membri della colonia greca: Andrea Kounadis, un mercante di Patrasso divenuto membro della confraternita dei Greci nel 1516, pubblica opere religiose, rivolgendosi non solo al mercato cittadino, ma anche a quello ben più vasto del Levante (353). Egli si avvale della tipografia dei Niccolini da Sabbio, stampatori assai noti, originari della zona di Brescia. Nel 1524 un altro Kounadis, Pietro, stampa un'opera in lingua neogreca, Lutto di morte: è la seconda nella storia della letteratura della grecità moderna, preceduta nel 1319 da un poema didascalico, Apocopos, edito da Niccolò Calliergi (o Calergi), forse congiunto dei più noti Zaccaria e Antonio. A questi due testi in volgare greco seguiranno molti altri, che godranno vasta diffusione in tutto il Levante greco, fra cui la prima versione dell'Iliade in demotico, opera di Nicola Lucanis, stampata nel 1526 da Stefano Niccolini da Sabbio (354). Ma la maggior fonte di guadagno per le tipografie che stampavano in greco erano i libri liturgici. Si approvvigionavano a Venezia tutte le Chiese orientali: greca, russa, ucraina, serba, bulgara, romena, melchita.

Prosperava anche la stampa musicale, in cui si cimentavano con successo Giolito, Marcolini, Tramezzino, Scotto. Per tali edizioni vi era una forte domanda locale, data la passione musicale che dominava nei più diversi ambienti della città; ma certo una buona parte della produzione si dirigeva all'estero. Il campo della musica polifonica era dominato da Ottaviano Petrucci che, come si è accennato, aveva ottenuto un privilegio nel 1498 per la sua invenzione, che consentiva la stampa di tali composizioni in tre momenti successivi; il primo riguardante il rigo musicale, il secondo le note, il terzo il testo letterario. Nel 1501 esce il primo libro pubblicato con tale metodo, Harmonices Musices Odhecaton, contenente novantasette composizioni di maestri fiamminghi; molti altri seguono sino al 1509, anno in cui egli rientra nella natia Fossombrone, per poi tornare a Venezia nel 1536 (qui morirà nel 1539). Ma poco dopo il 1520 viene inventata in Francia una nuova tecnica che consente l'impressione non in tre tempi, ma in uno. Ciò conferisce a chi la possiede un notevole vantaggio, di cui si avvale un francese, Antonio Gardane (o Gardano) (355). Questi, dopo aver svolto, sembra, l'attività di musicista, si trasferisce a Venezia attorno al 1537, forte di buone entrature: è amico di Niccolò Franco, di cui pubblica le Pistole Vulgari (ma - a sentir l'Aretino - con poco successo); e sposa nel 1538 la figlia del noto stampatore Agostino Bindoni. Già nel 1538 escono quattro sue edizioni musicali eseguite con la nuova tecnica; molte ne seguiranno, per un totale di trecentosettantuno, sino alla sua morte, nel 1569. La qualità delle edizioni e la correttezza di esse, lo scrupolo con cui veniva rispettata la volontà dell'autore, il maneggevole formato (l'ottavo oblungo), tutto ciò rese la stamperia dei Gardane rispettata in tutta l'Europa: fiduciosi nella casa editrice molti musicisti inviavano a Venezia per la stampa le loro composizioni da tutta l'Italia. Si trattava quasi sempre di opere profane, dato che ad esse andò la preferenza non solo del fondatore, ma anche dei successori, che continuarono ad operare sino al 1611.

Un altro settore della tipografia che prosperava era quello delle carte geografiche, cui si dedicarono con successo in particolare Giunta e Tramezzino. Ad esso giovava l'interesse per i nuovi mondi suscitato dalle scoperte geografiche (356).

Non tutti gli stampatori veneziani erano, ovviamente, del livello intellettuale ed economico di quelli che si sono ricordati. Vi era una massa ingente di editori e di tipografi, professionisti od occasionali, che si orientavano secondo le mode e le tendenze create da quelli più importanti e intraprendenti. I nomi sono moltissimi: i tipografi attivi nel secolo sono almeno cinquecentotrentatré, secondo i conteggi di Tiziana Pesenti, fondati principalmente sul censimento del Borsa, e gli editori, molti dei quali anche tipografi, centocinquantasette. Secondo i calcoli di Ugo Rozzo, i torchi attivi nella laguna erano almeno seicentoquaranta (contro i cinquecentoquarantadue del resto della penisola). Si tratta di cifre che, quantunque cospicue e di molto superiori a quelle un tempo correnti, non corrispondono all'effettivo numero delle persone coinvolte nella stampa come partecipanti all'impresa: mancano infatti nel conteggio i finanziatori, i soci di capitale, i cui nomi sono di rado inseriti nel libro stampato col loro apporto economico (357). Ma anche fra gli stampatori che si dichiarano nel colophon o altrove emergono continuamente nomi nuovi, col progredire degli studi (358). I dati sono relativi all'intero secolo; per cui, considerando il calo che l'industria tipografica subisce dopo il 1560, il numero delle aziende operanti nella prima metà del Cinquecento è certo di molto superiore alla metà del totale.

Dai torchi veneziani escono quindi libri innumerevoli: forse quindici-diciassettemila, forse trentamila titoli nel secolo; vi è chi pensa addirittura a 50-60.000 nuove edizioni (359): un libro nuovo ogni giorno, o addirittura due! La differenza nelle stime si spiega col fatto che una massa ingente di libri popolari destinati a un rapido consumo è sparita senza lasciar traccia. Si pensa che circa nove decimi di questi libri, scritti in volgare, su carta di qualità inferiore, siano scomparsi: quel che ne resta sarebbe appena un decimo del totale (360). Quella veneziana era dunque una produzione imponente, che culmina, come si è detto, negli anni compresi tra il 1526 e il 1550 all'incirca. Se corrisponde al vero la cifra di quattrocentomila titoli circa pubblicati in tutta l'Europa nel Cinquecento, la percentuale veneziana è davvero considerevole (361). E ancora più imponenti appaiono le cifre che si possono ipotizzare per il numero dei libri posti in circolazione: se è vero che la tiratura media non è inferiore, ma se mai superiore alle mille copie, assumendo prudenzialmente per buona quest'ultima cifra e moltiplicandola per la cifra minima delle edizioni (quindicimila) si ottiene un totale di quindici milioni di volumi stampati a Venezia nel secolo. Ma se si prendono le valutazioni massime (sessantamila edizioni, due-tremila copie) si arriva a cifre da capogiro: un libro e più a testa per gli abitanti di tutta l'Europa (che allora sembra non ospitasse più di settanta milioni di persone) (362).

Si pubblicavano libri d'ogni genere: alcuni destinati a scarsa circolazione e limitato successo, altri all'opposto veri best-sellers. Si è ricordato il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo, venduto, secondo il Vergerio, in quarantamila copie in sei anni. In trentamila copie furono venduti, nel corso di ventidue anni, i Commentarii a Dioscoride di Pier Andrea Mattioli, usciti a Venezia per la prima volta nel 1544. Questa volta il successo fu abilmente orchestrato dallo stesso autore, divenuto una sorta di temuto dittatore del mondo scientifico. Chi fra i medici contemporanei veniva menzionato in una delle continue ristampe dell'opera aveva fama assicurata, le sue eventuali scoperte circolavano; per gli esclusi, per coloro che non si fossero in qualche modo inchinati all'autorità del Mattioli, non rimaneva che l'anonimato e l'oblio. E il mezzo per tanto potere era il Dioscoride commentato: un in folio la cui ampia tiratura appare particolarmente degna di nota, dato che non ci si trova davanti a un libriccino devoto, ma ad un volume costoso e riccamente illustrato (363).

Si può facilmente immaginare quale apporto economico le tipografie dessero alla città. Aldo impiegava, in base alla testimonianza di Erasmo, una ventina di lavoranti (364); Gabriele Giolito dava lavoro addirittura a una settantina di persone, tra collaboratori e dipendenti, contando anche i redattori, traduttori, curatori delle edizioni (365). I Sessa avevano alle loro dipendenze tra il 1560 e il 1582 quattordici lavoranti, ma non più di otto sembrano aver operato contemporaneamente (366). La dimensione più usuale era quella delle ditte che si servivano di due o tre torchi: calcolando circa tre lavoranti a torchio, esse impiegavano da sei a nove persone. Se si considerano quindi non solo gli appartenenti all'arte, vale a dire i "patroni di stampa e di bottega" che si costituiranno in confraternita, come si accennerà, nel 1567, ma anche tutti coloro che gravitavano attorno al mondo della stampa, non solo come salariati ma anche come collaboratori, consulenti, correttori, traduttori, curatori di edizioni, si vede che la tipografia occupava un posto di prim'ordine tra le fonti di ricchezza della città. Alla fine del secolo, nel 1596, secondo un osservatore attento come Leonardo Donà l'arte dava da vivere a quattro/cinquecento persone (367). I torchi erano allora ridotti a quaranta; in media dunque un torchio assicurava i mezzi di sussistenza a una decina di persone. Se nell'età d'oro i torchi contemporaneamente attivi erano almeno centocinquanta (368), è facile concludere che circa millecinquecento persone vivevano grazie alla stampa. Vi erano poi i librai: molti di essi erano tipografi, ma molti altri si dedicavano al puro commercio. Una lista del 1567 ne elenca sessantaquattro; un'altra, degli stessi anni, trenta (369); ma certo erano molti di più, sparsi in tutta la città, ma concentrati in particolare nelle Mercerie. Anch'essi e le loro famiglie traevano dal libro i mezzi per vivere.

Alcuni stampatori erano ricchi, o ricchissimi, come i Giunta e i Giolito. Tommaso Giunta nel 1564 lasciava centottanta campi, "una volta in Rialto" (un'arcata, "posta sopra la Drapparia", era dunque sua) e 2.000 ducati investiti in un negozio di stoffe; oltre naturalmente alla casa editrice (370). Lucantonio muoveva migliaia di ducati nel commercio internazionale. Giovanni Giolito lascia ottantacinque ettari di terreno tra Pavia, Treville e Trino. Gabriele Giolito valuta il suo magazzino, nel 1545-1546, 10.575 ducati e, nel 1551, 661 ducati l'attrezzatura. Aldo Manuzio il giovane risulta in possesso, dopo il trasferimento a Roma, di cinquantotto campi a Carpi e di cento ad Asola. Giovanni Varisco compra una tenuta di centotrentaquattro campi in Friuli, nel 1575, pagandola 5.000 ducati. Marchiò Sessa aveva terreni nel Padovano, nel Trevigiano e a Concordia. Vincenzo Valgrisi poté assegnare alla figlia una dote di 1.000 ducati (371).

I più erano peraltro di media condizione. Bartolomeo da Salò pagava, nel 1514, ad Andrea Barbarigo 17 ducati di affitto per una "chasa da stazio" sita "in contrà de S. Trinità"; nel 1517 Battista de Tortis ne pagava 25 a Girolamo Contarini per una casa nella "calle del Traghetto che va a San Tornado". Si trattava evidentemente di case dignitose, ma meno belle di quella per cui Federico Torresani pagava, nel 1533, un affitto di 90 ducati. "Zuan Antonio mantovan, stampador" ne pagava invece solo 5 per una "chaseta a pe pian soto la vite" in contrada di S. Stae, e 9 ne dava a ser Marin Corner "mastro Pasin liberer" (uno della famiglia dei tipografi e librai Pasini) per una casa a S. Trinita. Vi erano anche tipografi che non avevano guadagnato abbastanza per dotare le figlie: una "donzella" e una "novizza" (promessa sposa) graziate, ossia dotate a spese della Scuola di S. Maria della Valverde, nel periodo 1513-1557, erano figlie di stampatori (372). Ma il caso era certo eccezionale.

La produzione delle stamperie veniva venduta per la gran parte all'estero. Si è ricordata la diffusione europea delle edizioni di Aldo e l'immensa area servita dai Giunta, coincidente quasi col mondo cattolico. Ma anche stampatori meno illustri non erano da meno. Dal testamento di Lazzaro Soardi apprendiamo che vi erano librai a Salamanca, Lisbona, Lione, Pavia, Bologna, Rimini, Napoli, Ferrara, Roma, Lanciano, Recanati che avevano in deposito libri da vendere per suo conto (373). Sappiamo che molti stampatori esportavano con profitto nel Regno di Napoli: alcuni tenevano depositi propri, altri si associavano a residenti, altri vi nominavano dei rappresentanti. Le forniture avvenivano a credito; il pagamento era usualmente dilazionato (374).

Nonostante questa apertura internazionale, le aziende mantenevano un carattere famigliare. Vi operava usualmente il titolare, assistito dai parenti; lavoravano anche le donne, che spesso davano prova di capacità e ingegno, come si rileva dal testamento di Bernardino Benali, stampatore attivo dal 1483 al 1517 (375). Bernardino produceva libri (ne stampò una ventina nel Cinquecento), ma anche incisioni sciolte. Nel suo testamento egli ricorda con gratitudine le nipoti di sua moglie Elisabetta: Angela, che - egli scrive - "cum summa diligentia mihi servavit per annos quatuor continuos in pingendo figuras, ligando libros et aptando cartas ex causa stampandi"; e Laura, che aveva mostrato altrettanta dedizione nelle stesse attività "ac etiam in regendo et gubernando quasi totum traficum stampe figurarum". Non solo dunque le due fanciulle avevano dipinto, rilegato, immerso le carte nei bagni necessari al processo dell'incisione, ma avevano anche curato l'attività commerciale relativa alle stampe uscite dalle loro mani.

Spesso i maggiori stampatori non solo operavano in proprio con i loro torchi, ma anche affidavano ad altri tipografi la parte materiale della stampa; così facevano in grande stile i Giunta. Alcuni, come gli Scotto, divennero solo editori e lasciarono interamente il lavoro in tipografia. Molti poi si consociavano ad altri tipografi, creando società per la stampa di un singolo libro, o di più libri, o per un periodo più o meno lungo (376); naturalmente matrimoni e testamenti rafforzavano queste associazioni o le creavano.

Alla grande avventura della stampa la partecipazione, a Venezia, era dunque corale. Come nei tempi antichi non solo nobili e facoltosi cittadini, ma anche donne, preti, gente modesta partecipava al grande commercio oltremare, magari comperando un carato d'ancora, trasformando così quel commercio in una sorta di impresa collettiva della città, così nel Cinquecento patrizi e cittadini, persone colte e speculatori, scrittori, poeti, geografi, musicisti e semplici investitori, uomini e donne, tutti erano coinvolti a vario titolo, intellettuale, materiale, economico nella stampa. Vi partecipavano anche i conventi: continuava a stampare libri il monastero di S. Andrea della Certosa, attivo sin dai primordi della stampa, pubblicava opere devote il convento delle Convertite alla Giudecca (377). I forestieri poi erano legione: e facevano presto ad acclimatarsi, non solo gli Italiani, ma anche gli stranieri, come il Valgrisi o il Gardano. A sottolineare il trionfo veneziano, scelse di stampare a Venezia, nel 1541, Peter Schoeffer, il figlio dell'omonimo socio di Gutenberg e di Fust a Magonza: quasi una simbolica translatio della tipografia dalla culla della stampa alla nuova patria dell'arte.

La legislazione repressiva e l'inizio del declino

Come si è ripetutamente accennato, una simile felicitas temporum era il risultato di una serie di fattori, fra cui non ultimo il tollerante atteggiamento del governo veneziano e la conseguente fama di libertà che Venezia si era guadagnata in tutta l'Europa. E in realtà gli interventi della Repubblica in materia di stampa erano stati, sino alla svolta fatale della metà del secolo, molto modesti e limitati. Lo Stato interveniva concedendo ai tipografi che lo chiedevano il privilegio di stampare questa o quell'opera, in generale per dieci anni, in via esclusiva; si è già accennato ai primi privilegi, concessi nel 1494 (378). Nel 1517 ci si accorse che i privilegi elargiti erano troppi, dato che gli stampatori tendevano ad accaparrarsene in gran numero, anche se poi non riuscivano a stampare i titoli che avevano programmati e per i quali avevano chiesto la protezione della legge; il senato decise perciò di revocare, con parte del 1º agosto, tutti i privilegi emessi sino ad allora e dispose che per l'avvenire si potessero concedere simili benefici solo pro libris et operibus novis, per opere mai prima stampate e non per altre (379).

Il 29 gennaio 1526 m.v. (= 1527) viene introdotto un istituto nuovo, potenzialmente pericoloso per la libertà di stampa: la licenza di stampa. Constatata "la licentia che facilmente ognun ha de stampar libri" nella città, dal che discende la conseguenza che "se vede qualche volta ussir in stampa opere disoneste et de mala natura", il consiglio dei dieci dispone che non si possa né stampare né vendere opera alcuna senza il permesso dei capi del consiglio, "per termination de man loro sottoscripta". L'occasione della nuova norma era stata la pubblicazione da parte del medico Alvise Cinzio de Fabrizi di un'opera che i frati di S. Francesco della Vigna avevano ritenuto offensiva per la reputazione dei religiosi. Ne era nata una controversia, da cui i Francescani avevano ricavato scarsa soddisfazione: il libro in un primo tempo era stato sequestrato, ma poi restituito al tipografo. Un risultato, tuttavia, l'avevano ottenuto: l'istituzione della licenza di stampa, che peraltro ebbe scarsa applicazione, almeno sino al 1543; pochissimi stampatori si ricordarono di chiedere la licenza, né fu organizzato un sistema per renderla effettivamente obbligatoria (380).

Il 3 gennaio 1533 m.v. (= 1534) lo Stato tornò sull'argomento dei privilegi, rilevando che definire un'opera come nuova, e degna quindi di privilegio, non era cosa agevole, dato che bastava qualche modesta modificazione del testo perché lo stampatore potesse asserire che l'opera per cui si chiedeva il privilegio era nuova. La legge andava perciò modificata e il senato disponeva che tutti i tipografi dovessero stampare entro un anno le opere protette dal privilegio, sotto pena di perderlo. Speciali deroghe erano previste per le opere di grande mole. Si prevedeva inoltre che ogni nuova edizione dovesse essere sottoposta ai provveditori di comun, che ne dovevano esaminare il prezzo al fine di valutarne la congruità. Quest'ultima disposizione, la cui applicazione era praticamente impossibile, venne totalmente ignorata. La legge, cosa invero singolare, partiva dalla constatazione che l'arte della stampa era "andata totalmente in ruina". Come si potesse asserire una cosa simile in un momento in cui l'arte era al culmine della sua prosperità è difficile dire: probabilmente si riteneva che l'inevitabile calo nella qualità media delle edizioni, in coincidenza con l'enorme diffusione del libro a stampa, fosse un male e non una conseguenza dell'estensione e differenziazione del mercato; ciò partendo dall'antiquato principio che si dovesse tendere alla produzione di oggetti sempre e dovunque di alto livello e perfetti sotto ogni aspetto (381).

Nel 1537, il 4 giugno, il consiglio dei dieci torna a legiferare sulla stampa, preoccupandosi della qualità della carta: i libri, rileva il consiglio, "non retengono l'inchiostro de chi vuoi notar et scriver alcuna cosa in essi, come necessariamente si fa in ciascheduno, et per il più scompissano". In conseguenza vengono disposte severe sanzioni per chi stampi "libri che habbiano carte che scompissino": 100 ducati di multa, e l'abbruciamento dei volumi (382). Appare strano che l'augusto consesso si preoccupi della carta che assorbe l'inchiostro delle note e degli appunti marginali, producendo sbavature. La norma prova comunque l'importanza assunta dalla stampa nella vita della città: un calo nella qualità del libro poteva favorire la concorrenza straniera, dato che, constata la parte, "di fuori vengono libri stampati bellissimi, et di ottima carta"; e il consiglio interviene per prevenire il pericolo. La parte non ebbe comunque effetti; come molte altre che non rispondevano a una reale necessità sociale, venne tranquillamente disattesa, anche perché non era previsto alcun meccanismo per accertare le violazioni e quindi renderla cogente.

Altrettanto blandi erano stati i provvedimenti in materia censoria. Nel 1503 Marco Musuro era stato nominato revisore alle stampe greche; nel 1515 Andrea Navagero era stato incaricato di rivedere "opere de humanità" in genere. Ma si trattava di incarichi più che altro onorifici, in particolare nel caso del giovane e colto patrizio, cui il senato si preoccupava di trovare una sistemazione decorosa e adatta alle sue attitudini, abbinando la carica di revisore a quella di bibliotecario di S. Marco. Non sembra comunque che vi sia stato alcun intervento dei due revisori, che dovevano operare, nelle intenzioni di chi li aveva eletti, come il censore preventivo sognato da Niccolò Perotti, cui si è accennato: dovevano esaminare il pregio filologico del testo, la sua qualità, evitare edizioni fallaci o scorrette. Alla base dell'intervento dello Stato ai fini della correttezza delle edizioni vi era pur sempre una preoccupazione economica; il timore che lo scadere della qualità testuale potesse influenzare negativamente il prestigio della stampa veneziana, e quindi ripercuotersi sfavorevolmente, al pari della carta scadente o dei prezzi eccessivi, sull'andamento di un'arte così importante nella vita cittadina. Si trattava, naturalmente, di un'attività di controllo impossibile ad eseguirsi praticamente in una città che produceva un libro nuovo ogni due o tre giorni (383).

Altra cosa erano gli interventi dell'autorità a tutela della morale o della fede. Qualche tentativo di imporre una censura di questo tipo vi era stato. Il legato pontificio Niccolò Franco aveva disposto nel 1491 che venissero bruciati il Tractatus de monarchia di Antonio Roselli e le tesi di Pico; ma non sembra che il braccio secolare l'abbia assecondato (384). Due patriarchi di Venezia si preoccuparono della morale: Tommaso Donà, che - come si è detto - minacciò di scomunica, nel 1497, Lucantonio Giunta per le impudiche illustrazioni delle Metamorfosi di Ovidio (e Lucantonio lo accontentò ritoccando le xilografie), e Antonio Contarini, che nel 1510 proibì in generale le illustrazioni immorali e dispose che gli venissero sottoposti prima della pubblicazione i libri di argomento religioso (385). Ma non vi fu alcun provvedimento che organizzasse in concreto il controllo, sicché la disposizione rimase nel limbo delle pie intenzioni.

La tolleranza del governo non venne meno neppure dopo l'esplosione della Riforma. I libri protestanti circolavano largamente senza che vi fossero controlli se non sporadici. Nel 1520 il patriarca chiese l'intervento dello Stato contro "Zordan todesco mercadante de libri", che vendeva opere luterane in casa sua a S. Maurizio (si trattava forse di Giordano von Dinslaken, che si è più volte incontrato) (386). Il governo intervenne e confiscò i libri, ma il Sanudo, a cui dobbiamo il racconto, riuscì a salvarne uno per la biblioteca: cosa ch'egli annota con soddisfazione nei suoi Diarii, a conferma del fatto che un atteggiamento mentale di tolleranza e di interesse verso nuove forme di spiritualità cristiana era diffuso anche fra i patrizi più ortodossi (come certo Marino era). Da un siffatto modo di vedere i consigli sovrani non si discostarono per lungo tempo, nonostante talune pressioni dei nunzi.

Nel 1527 venne introdotto l'obbligo di richiedere la licenza, come si è detto, per la stampa di ogni nuovo libro; ma anche questa disposizione rimase per parecchi anni scarsamente applicata. Venezia poteva permettersi questa politica di benevolo equilibrio non solo perché essa rispondeva alla convinzione di gran parte del patriziato, ma anche perché la rottura del mondo cristiano non appariva ancora definitiva e insanabile. Vi era chi lavorava alacremente per mantenere l'unità della Chiesa; e non mancavano le speranze di successo. In tale direzione si adoperava il cardinale Gasparo Contarini, personaggio fra i più rappresentativi della classe di governo della Repubblica, di cui incarnava la serenità, la comprensione, il desiderio di pace: e il fallimento della sua missione di conciliazione al Colloquio di Ratisbona segna veramente una data tragica nella storia della Chiesa e dell'Europa (387). Le conseguenze anche immediate furono drammatiche: il 22 maggio il convegno si chiude con una definitiva rottura; il 4 luglio del 1542 Paolo III, ormai sempre più vicino alla fazione più intransigente della Curia, crea l'Inquisizione romana; il 24 agosto Contarini, logorato dal fallimento della sua missione e consapevole dell'abisso in cui la cristianità sta precipitando, muore a Bologna; alla fine di quello stesso agosto Bernardino Ochino, generale dei Cappuccini e predicatore di grande fama, Celio Secondo Curione e Pietro Martire Vermigli, eminenti personalità della cultura, lasciano per sempre l'Italia e riparano in terra protestante. L'atmosfera dell'Europa si incupisce; anche a Venezia il cielo sereno di una terra sino ad allora privilegiata è oscurato dalle prime nubi.

Il 12 febbraio 1542 m.v. (= 1543) il consiglio dei dieci decide che la repressione dei reati di stampa spetti agli esecutori contro la biastema, o bestemmia, e prevede pene severe per chi stampi libri senza la licenza dei tre capi dei dieci o per chi li venda (388). La revisione delle opere da stampare verrà poi demandata dai dieci ai riformatori dello Studio di Padova (30 dicembre 1544 e 7 febbraio 1545). L'istituto della licenza di stampa, introdotto sedici anni prima, viene così messo in funzione, al fine di colpire chi stampi opere "contra l'honor del Signor Dio et della fede christiana" o comunque "inhonestissime". In ciò la Repubblica è seconda solo a Milano e precede di qualche mese lo stesso Stato della Chiesa, Siena e Napoli. Tuttavia non vi è ancora una volontà decisa di azione: gli interventi sono assai pochi, e blandi. Nel 1544 vengono multati Bernardino Bindoni, editore dell'opera di Ortensio Lando, Paradossi, e il libraio che l'aveva venduta, entrambi sprovvisti di licenza. L'opera viene sequestrata ma non bruciata, benché vi sia la proposta in tale senso di uno dei tre esecutori; l'anno dopo anzi viene ristampata tal quale, anche se Lutero vi viene presentato in buona luce, mentre sconfigge gli scolastici armato solo delle Sacre Scritture. Nel 1545 gli esecutori intervengono per far bruciare un'opera oscena, Il Dio Priapo; l'anno dopo vietano la ristampa e la vendita delle rime del Berni (389). Poca cosa invero rispetto alla imponente produzione libraria di quegli anni, che certo non consisteva solo di libri edificanti e ortodossi. Il fatto è che da un lato si tendeva a continuare nella tradizionale linea di tolleranza, dall'altro si sperava in una riconciliazione, o quanto meno in una pacifica convivenza tra cattolici e protestanti. Ma furono speranze destinate a non durare a lungo. Il 27 gennaio 1547 moriva Enrico VIII, il 31 marzo Francesco I lo seguiva nella tomba: due grandi antagonisti di Carlo V scomparivano dalla scena. L'equilibrio europeo andava cambiando, e a favore dell'imperatore e del papa. Venezia, che aveva cercato di mantenere una certa equidistanza tra le confessioni in lotta, doveva prendere atto della nuova realtà, che trovava conferma nella folgorante vittoria riportata da Carlo V sui prìncipi riformati, il 24 aprile, a Mühlberg. Ormai i protestanti tedeschi apparivano confinati ad una posizione di difesa e non sembrava esservi più speranza per chi in Italia volesse cercare in loro un sostegno contro la preponderanza curiale, sorretta dalla trionfante potenza imperiale. E gli effetti non tardarono a prodursi, anche a Venezia. Il 22 aprile 1547, prima ancora della giornata di Mühlberg, era stata istituita una nuova magistratura, i tre deputati sopra gli eretici, destinati ad affiancare l'inquisitore nella persecuzione dell'eresia. Il 17 maggio il consiglio dei dieci attribuiva ai deputati competenza in materia di stampa e vendita di libri "contra l'honor del Signor Dio et della fede christiana", in concorso con gli esecutori sopra la bestemmia. Le gravi pene previste dal decreto del 1542 erano confermate e si prevedeva anche un controllo alle dogane per impedire l'introduzione nello Stato di libri che avessero le predette caratteristiche, che sarebbero stati bruciati pubblicamente (390).

Dopo qualche mese la legge cominciò ad avere esecuzione. Un ignoto libraio che si era messo in salvo con la fuga, subì, nel luglio 1548, la confisca di varie balle di libri, che vennero bruciati a S. Marco e a Rialto. Poco dopo si vide un altro rogo a Rialto: si trattava di libri trovati a casa di Febo Cappello, segretario, allora in missione diplomatica a Milano. Il 12 luglio arsero tre balle di libri appartenenti a un libraio editore assai noto, Antonio Brucioli, traduttore in italiano della Bibbia, consulente dei Giolito, intellettuale di rilievo (391). Il Brucioli, assente da Venezia, se la cavò con una multa di 50 ducati e con l'esilio per due anni. Ma il sinistro spettacolo del rogo dei libri, cui Venezia non era abituata, incominciava ormai a farsi frequente. Il 18 luglio la parte del consiglio dei dieci dell'anno prima venne solennemente promulgata: chi fosse in possesso di libri nei quali fosse scritta "alcuna cosa contra la fede catholica" doveva presentarli entro otto giorni ai deputati sopra gli eretici, sotto pena di "severissimo castigo" (392).

Vi era chi giubilava: il nunzio pontificio, monsignor Giovanni della Casa, giunto a Venezia nel 1544 con l'intento di piegare, con tutte le armi della diplomazia, il riluttante governo veneto all'applicazione delle direttive diramate dalla Curia per la repressione del dissenso religioso. Non che egli fosse per sua intima convinzione un fanatico; uomo di mondo, fine letterato e cortigiano, autore di rime licenziose, non aveva altra mira che il proprio personale successo. Una missione riuscita poteva portare grandi frutti: magari il cappello cardinalizio, un premio da lui perseguito, ma vanamente, per tutta la vita. Una nunziatura ben condotta significava dissenzienti arrestati e inquisiti con le orribili procedure previste, libri confiscati e bruciati, aziende dissestate, famiglie impoverite: ma all'amabile monsignore ciò appariva un prezzo ben lieve per la conservazione della fede e per la coincidente propria ascesa nella gerarchia (393). Vivissima, invece, la preoccupazione degli stampatori e dei librai. Il 24 luglio, pochi giorni dopo la pubblicazione del decreto dei dieci, essi presentavano ai deputati sopra gli eretici, per il tramite di Tommaso Giunta, una supplica, con la quale si chiedeva che si chiarisse "il thema de le sorte de' libri" dai quali essi dovevano per l'avvenire guardarsi. Un divieto generico come quello contenuto nel decreto del 1542, ribadito in quello del 1547, non appariva comprensibile: nella massa dei libri "composta da authori antiqui et moderni" poteva esservi "qualche cosa contra la fede christiana" di cui i librai non potevano, anche volendolo, essere consapevoli. Vi erano libri di "authori gentili", altri di "macomethani": gente che scriveva "secondo il lor ritto, i quali, non conoscendo questa verità, potriano in qualche luoco de lor compositioni, con cuoda de scorpione, non haver avuto rispetto alcuno a la nostra fede catholica" (394). Sembra quasi che i supplicanti, persone colte, mettano un pizzico di umorismo nelle loro argomentazioni, tanto assurda pare loro questa nuova politica censoria.

I librai speravano evidentemente di ottenere la sospensione o la revoca del decreto. Ma ottennero invece solo un effetto del tutto opposto a quello che desideravano. Il solerte monsignor della Casa si mise all'opera e a fine anno un indice dei libri proibiti era pronto; con esso, sperava monsignore, non vi sarebbero stati più dubbi. Il 16 gennaio dell'anno successivo (1549) il consiglio dei dieci dava atto che era stato fatto dall'inquisitore "di ordine del reverendo legato" e con l'intervento e il consiglio dei deputati sopra gli eretici "et di molti maestri in theologia, un cathalogo o sommario de tutti li libri heretici et de altri suspetti et de altri etiam nelli quali se contengono cose contra li boni costumi", e disponeva che esso venisse stampato e diffuso presso tutti gli stampatori e i librai nella città e, tramite i rettori, nel dominio. Nel maggio del 1549 il Catalogo a stampa era pronto, per i tipi di Vincenzo Valgrisi: il primo indice di libri proibiti che comparisse in Italia, con cinque anni di anticipo rispetto al primo emanato dalla Curia romana (395). Esso contiene centoquarantanove voci, assai difformi peraltro l'una dall'altra. Vi si condannano infatti opere singole; ovvero tutta l'opera di un autore; o, genericamente, "tutte le opere, nelle quali si ritrovano alcune cose espressamente contra i santi, contra la chiesa catholica, ovunque saranno stampate", e altresì "tutte le opere senza il nome dell'auttore o dello stampatore, del luogo, dove sono stampate, et in che tempo, da anni 24 in qua", per le quali sussisteva la presunzione che si trattasse di scritti protestanti.

La nuova iniziativa del nunzio assestava un altro fiero colpo agli stampatori e ai librai. Per meglio controllarli, il consiglio dei dieci aveva anche disposto - il 18 gennaio 1549 - che essi si organizzassero in corporazione o scuola: ciò perché non vi era alcuno "che rappresenti la ditta arte, né chi risponda per quella, onde avviene che tutti fano a modo loro, con estremo disordine et confusione". A ciò bisognava porre rimedio, "prima per l'honore de Dio e della religione, da poi per l'honor de la nostra città" (396). Vi era anche lo scopo di ottenere le contribuzioni per il reclutamento di rematori, necessari alla flotta: il sistema di tassazione organizzato a questo fine nel 1530 si fondava sulle scuole, di cui si incoraggiava la formazione per quelle attività che ne fossero sprovviste (397). I tipografi non si erano mai riuniti in corporazione, né prima né allora: la vivace, selvaggia e talvolta sleale concorrenza che sin dall'origine metteva gli stampatori uno contro l'altro poteva male coesistere con le regole calmieratrici di un'arte. Ora provvedeva, d'autorità, il governo. Ma senza gran risultati: i provveditori de comun, che erano incaricati di stendere "quelli capitoli che li parerano convenir et esser espedienti", non si affannarono. Trascorsero infatti quasi vent'anni prima che dessero esecuzione alla deliberazione del consiglio: il loro decreto, che espressamente si richiama alla parte del 1549, reca la data del 14 maggio 1567. Solo nel 1571 incominciò una sia pur limitata attività sociale.

All'Indice di monsignor della Casa i librai non risposero direttamente: trovarono invece un portavoce, e di considerevole peso. Niccolò da Ponte, uomo politico e diplomatico di grande prestigio, dottissimo, futuro doge, di libri si intendeva assai: aveva anche insegnato per qualche anno filosofia alla Scuola di Rialto. Il Catalogo non poteva piacergli: geloso assertore dell'indipendenza della Repubblica contro l'invadenza curiale e sensibile agli argomenti dei protestanti (il fratello di lui, Andrea, aderì alla Riforma e nel 1560 dovette fuggire a Ginevra), prese le redini dell'opposizione antiromana. Gli fu facile dimostrare che a Roma non era applicato alcun indice di libri proibiti, sicché era assurdo pretendere a Venezia ciò che non si richiedeva nella città del papa. Molti patrizi gli prestavano orecchio compiacente: un senatore eminente si era adontato perché il Catalogo includeva l'opera di un suo amico (forse Bernardino Tomitano, molto apprezzato dal patriziato); altri rilevavano nell'Indice imprecisioni ed esagerazioni. Alla fine di giugno la partita era perduta per monsignore: il Catalogo non avrebbe avuto applicazione (398).

Per il momento l'arte tipografica era salva. Ma nuove nubi si addensavano all'orizzonte. Questa volta l'oscurantismo romano colpì un raffinato settore dell'arte, in cui si erano raggiunti a Venezia risultati eccellenti: la stampa ebraica. Nel 1548 monsignor della Casa cominciò ad occuparsi dei libri ebraici, sollecitato da Roma, e suggerì - nel novembre - che venissero espurgati dalle parti pericolose. Il 19 dicembre di quell'anno il senato dava principio ad una legislazione restrittiva, disponendo che nessun ebreo potesse "lavorare de stampa, né far stampar libri". Nel 1551 il collegio invitava gli esecutori contro la bestemmia a esaminare il Talmud. Poi le cose precipitarono: la causa fu la feroce controversia sorta tra i due editori patrizi di libri ebraici, Marc'Antonio Giustinian e Alvise Bragadin. La lite, originata da rivalità commerciali, si complicò per le calunnie incrociate degli Ebrei rinnegati assunti dai contendenti, che per screditare ciascuno le edizioni dell'altro infangavano la stessa letteratura ebraica. La cosa venne portata a conoscenza della Curia romana, e il fanatismo del cardinale Carafa e degli inquisitori domenicani trovò una soluzione di adeguata brutalità. Con un'incredibile, funesta decisione il papa disponeva, con bolla del 12 agosto 1553, che il Talmud venisse distrutto in tutta la cristianità. Già il 12 settembre la bolla veniva eseguita in Roma: un grande rogo distruggeva tesori di bellezza e di cultura in Campo de' Fiori, tra il giubilo del popolaccio. Venezia si adeguava con singolare prontezza: il 21 ottobre un analogo rogo si accendeva in piazza S. Marco. Per la tipografia ebraica di Venezia il colpo era mortale; altrove, dopo che nel 1554 i decreti papali vennero modificati nel senso di consentire la conservazione e la pubblicazione di libri ebraici purché espurgati, la stampa in ebraico poté continuare, ma a Venezia si arrestò per dieci anni. Giustinian aveva subìto danni ingenti (secondo i figli di Marc'Antonio, le perdite da lui sofferte ammontavano a 24.000 ducati) e non osò ritentare; Bragadin riprese a pubblicare solo nel 1564. Anche qualche altro vi si cimentò: ma nuove persecuzioni nel 1567 ridussero di nuovo la stampa ebraica a mal partito. Essa sopravvisse, ma senza più neppur lontanamente eguagliare il rigoglio dell'epoca del Bomberg (399).

Erano passati pochi mesi dal rogo del Talmud quando una nuova sventura si abbatteva sul mondo dei libri. Roma, ammaestrata dall'insuccesso dell'Indice veneziano del 1549, ne aveva predisposto uno suo: esso venne pubblicato a Milano nell'estate del 1554, nell'inverno uscì a Venezia, per i tipi di Gabriele Giolito (400). Esso conta cinquecentonovantasei voci, più un'appendice con novantatré voci che richiamano per comodità condanne precedenti. Oltre ai più noti eretici vi si trovano nomi antichi, che il rancore curiale non aveva dimenticato: Dante, di cui è condannato il De Monarchia, Valla per il De libero arbitrio e per la dimostrazione della falsità della donazione costantiniana, e persino Guglielmo di Occam, fulminato in toto. Erasmo è condannato in parte, Conrad Gesner del tutto; una condanna totale colpisce anche, cosa invero singolare, Luciano di Samosata. Il 9 febbraio 1555 l'Inquisizione veneziana, visto il nuovo Indice, ordinava ai librai di consegnare le opere interdette la cui stampa e vendita, e persino il possesso, erano ormai proibiti.

Gli stampatori e i librai cercarono di prendere tempo. Chiesero una dilazione, poi un'altra. Finalmente, il 7 marzo, presentarono al Santo Uffizio veneziano una lunga, intelligente memoria (401). Dopo un'eloquente premessa, in cui sottolineavano come fosse in gioco la sopravvivenza stessa delle loro aziende e della loro arte, essi introducevano una distinzione tra i libri stampati a Venezia e quelli importati. Per quel che riguardava i primi, essi rilevavano che opere come quella di Luciano erano state tollerate dalla Chiesa per millequattrocento anni; e che altri libri erano stati stampati con l'approvazione dell'autorità religiosa e altresì con la licenza dei capi del consiglio dei dieci e i privilegi del senato, per cui non si comprendeva la smentita di tante precedenti autorizzazioni. Abilmente facevano notare come il nuovo Indice venisse a rappresentare un sovrapporsi dell'autorità ecclesiastica alle disposizioni degli organi dello Stato veneto: argomento a cui certo i consigli della Repubblica non restavano indifferenti.

Quanto ai libri stampati all'estero, gli autori della memoria non solo facevano rilevare come i libri da essi importati avessero già superato il vaglio degli inquisitori al passaggio delle dogane, dato che senza la licenza di questi non si poteva sdoganare la merce, ma entravano anche nel merito delle scelte dell'Indice. Perché, essi domandavano, condannare tutti gli scritti di Sebastian Münster, Conrad Gesner, Janus Cornarius, Joannes Velcurio e molti altri, quando almeno alcune delle opere di questi dotti erano "buone et fuori d'ogni sospitione"? Notavano poi che nei recenti provvedimenti contro i libri ebraici la Curia aveva consentito "a questi infedeli" la possibilità di "tenere i detti libri loro acconci e scancellati nel modo che si sono offerti", vale a dire con l'abrasione delle parti anticristiane. Se dunque una simile via di uscita era stata offerta agli Ebrei, non era equo che fosse negata ai librai cristiani. Essi poi rilevavano nell'Indice una serie di imprecisioni e di incongruenze e concludevano richiamando il precedente dell'Indice del 1549, che era stato sospeso e non pubblicato: provvedimento ch'essi evidentemente si auguravano venisse adottato anche in quest'occasione.

La perorazione fece presa sui tre deputati, ai quali apparve necessario un riesame della questione. Nel frattempo i librai, per mostrare la loro buona volontà, consegnarono qualche libro proibito al Santo Uffizio: quaranta ne diede Tommaso Giunta, trentanove Marchiò Sessa. Il 22 giugno diciannove librai presentavano, a nome di tutti, una nuova supplica al tribunale veneziano dell'Inquisizione, chiedendo che l'ambasciatore veneziano a Roma accertasse se l'Indice era stato applicato a Roma o se invece, come essi credevano, ai librai di Roma non era stato ancora "intimato" (402). Nel qual caso essi non comprendevano perché la loro condizione dovesse essere peggiore di quella dei colleghi romani. L'Inquisizione trasmise immediatamente la richiesta a Domenico Morosini, ambasciatore a Roma. Questi rispose subito, il 2 luglio: effettivamente l'Indice a Roma non era stato ancora promulgato. Egli aveva parlato della cosa con fra Michele Ghislieri, commissario generale del Santo Uffizio, che si era mostrato perfettamente al corrente delle argomentazioni dei librai veneziani. Qualche mese dopo, il 29 settembre 1555, l'Inquisizione veneziana sospendeva l'Indice, certo con il consenso di Roma. Per il momento almeno il libro veneziano era salvo (403). I tipografi potevano continuare a stampare, i librai a vendere, anche le opere prima proibite. Le aziende prosperavano, i libri si vendevano e si esportavano come prima. Solo lo zelo dell'inquisitore, frate Felice Peretti di Montalto, destinato a salire sulla cattedra di Pietro col nome di Sisto V, non disarmava; egli tentava di ottenere ora la condanna di singoli libri, ora il divieto d'ingresso nella Repubblica di altri dall'estero, ma senza conseguire grandi risultati. Sembrava che la tempesta fosse passata: ma si trattava solo di un rinvio. Il 23 aprile 1555 era salito al soglio pontificio il cardinale Gian Pietro Carafa, che aveva assunto il nome di Paolo IV. Il fanatismo più ottuso e feroce si era così insediato sul trono di Pietro. Se i suoi inquisitori avevano acconsentito alla sospensione dell'Indice era solo perché essi ne stavano curando un'edizione che si voleva più ampia, tecnicamente inattaccabile, definitiva.

Il 30 dicembre 1558 il nuovo Indice veniva promulgato in Roma e stampato nel gennaio successivo (404). Più di seicento autori vi erano condannati totalmente, oltre quattrocento opere venivano specificamente proibite. L'intera produzione di sessantuno editori veniva bandita: si trattava dei migliori di tutta l'Europa. Solo uno stampatore italiano, Francesco Brucioli, fratello di Antonio, condivideva con loro il triste onore. Tutte le Bibbie in volgare erano proibite; per quarantacinque edizioni della Bibbia e dei Vangeli vi era una specifica condanna. Fra gli autori banditi in toto, Erasmo, "cum universis commentariis, annotationibus, scholiis, dialogis, epistolis, censuris, versionibus, libris et scriptis suis, etiam si nil penitus contra religionem vel de religione contineant"; Niccolò Machiavelli; Pietro Aretino; Rabelais. La cultura veniva mutilata in modo irreparabile: l'Italia si tagliava fuori dall'Europa moderna (405).

Nel gennaio 1559 una copia ancora manoscritta dell'Indice giungeva a Venezia. Gli stampatori atterriti cercarono di organizzare una difesa comune, sotto la guida dei priori dell'arte, Tommaso Giunti, Marchiò Sessa e Michele Tramezzino. Lo zelante inquisitore, frate Peretti, premeva perché l'Indice venisse promulgato. La cosa irritava molti patrizi: un gentiluomo di casa Donà il 16 marzo, imbattutosi nell'inquisitore in palazzo Ducale, gli sputò in faccia. Il collegio chiese a Roma che almeno i librai venissero rimborsati dei libri confiscati; nello stesso tempo dispose che i libri stampati a Venezia con il privilegio dello Stato fossero eccettuati dalla confisca. Ma non vi fu verso di arrestare l'azione inquisitoriale. Il 18 marzo 1559 furono bruciati dieci o dodicimila volumi senza che si parlasse di indennizzo (406); nel contempo la Curia minacciava i librai che non si fossero sottomessi di confiscare tutte le loro merci nello Stato papale; e non era minaccia da poco, dati i vasti depositi di libri che direttamente o tramite corrispondenti i librai veneziani mantenevano nei territorio della Chiesa. Via via i maggiori stampatori si piegarono, e gli altri seguirono. L'8 luglio 1559 il consiglio dei dieci autorizzava la pubblicazione dell'Indice (407). Esso sarà applicato sino all'entrata in vigore dell'Indice promulgato nel 1564 da Pio IV, detto Indice Tridentino, in cui si attenuano alcuni eccessi del precedente e si introduce il principio che scritti non del tutto ortodossi possano essere, anziché distrutti del tutto, "expurgati" dall'autorità ecclesiastica. Mancava ormai nello Stato stesso una ferma volontà di difendere le proprie prerogative giurisdizionali: un'abdicazione contro cui insorgeranno vigorosamente i "giovani" alla fine del secolo. La circolazione dei libri proibiti rimase affidata al coraggio individuale, all'interesse o alla fede dei librai che con personale altissimo rischio accettavano di smerciarli (408). La grande stagione della stampa veneziana era finita.

Certo molti stampatori continuarono la loro attività, cercando di compensare la perdita di tanti buoni titoli con la pubblicazione di testi più sicuri: soprattutto opere religiose in gran numero, per le quali non sussisteva il pericolo di un auto-da fé che vanificasse anni di lavoro e di investimenti. Gabriele Giolito reagì da par suo: non solo diede grande impulso alla produzione religiosa, che del resto coltivava già prima, dato che si trattava pur sempre di una fonte sicura di reddito, di una sorta di assicurazione, ma la organizzò dal punto di vista editoriale in una vera e propria collana, che chiamò "ghirlanda": qui ospitò testi di grande popolarità, come le prediche del francescano Cornelio Musso e i trattati ascetici di Luis de Grenada. Contemporaneamente lanciò un'altra raccolta, tutta di opere storiche, in prevalenza di autori greci tradotti in italiano e la chiamò "collana istorica". Il termine "collana" faceva così il suo ingresso nel mondo dell'editoria. A scritti di edificazione religiosa era destinata una terza collana, denominata "albero spirituale": ma, a differenza delle altre, ebbe breve vita (409). Con simili accorgimenti egli sopravvisse alla crisi, e i suoi eredi continuarono a lungo, sino al 1606, la loro attività: ma culturalmente essa era altra cosa da quella di un tempo.

La gloriosa dinastia dei Bindoni, che non solo aveva accolto nei suoi cataloghi un gran numero di romanzi popolari in versi, dando così un contributo di rilievo all'affermazione del volgare, ma aveva anche mostrato un'attenta sensibilità verso i movimenti spirituali della Riforma, ripiega ormai, con Gasparo, su opere della più tranquilla ortodossia. I Tramezzino moltiplicano i titoli devoti. Lucantonio Giunta continua nel solco tradizionale della sua azienda, che sin dal principio aveva puntato sulle opere di carattere religioso; ma, ammaestrato dalla constatazione degli enormi rischi che si correvano in un'attività economica i cui risultati potevano venire vanificati in pochi istanti dallo zelo fanatico e ottuso di un inquisitore, differenzia gli investimenti, affiancando all'attività editoriale una grandiosa rete di traffici con tutta l'Europa, avente ad oggetto le merci più disparate: tessuti, metalli, zucchero (410). Anche gli altri stampatori investono parte almeno dei loro guadagni in beni sicuri: si sono già ricordati gli investimenti immobiliari di Giovanni Varisco, Marchiò Sessa, Vincenzo Valgrisi.

Altri preferiscono invece lasciare Venezia. Francesco Marcolini nel 1559 si trasferisce a Verona e non pubblica più nulla. Paolo Manuzio nel 1561 si stabilisce a Roma. Il fascino di Venezia si ottunde, Roma, la capitale trionfante del mondo cattolico, offre di più. Continuano ad affluire a Venezia tipografi da molte parti d'Italia: essi vi trovano ancora un'atmosfera più libera rispetto a quella di altre parti della penisola (411). Ma la città non è più la stessa; non vi si trovano più gli spiriti vivaci, insofferenti di costrizioni confessionali che si erano riuniti attorno al Giolito e al Marcolini. Ortensio Lando era morto poco dopo aver sofferto il dolore di vedere le sue opere incluse nell'Indice del 1554, Niccolò Franco vagava per l'Italia, per approdare a Roma ove finirà impiccato per le sue pasquinate nel 1570; Giovan Francesco Doni si ritirava a Monselice; nel 1556 era morto l'Aretino. Ormai l'incanto della città libera, felice, prospera e intraprendente, era rotto per sempre; l'atmosfera di appassionata vivacità intellettuale che dava slancio a un fervore produttivo che - nel caso di un'arte così particolare come la tipografia - non era solo un fatto economico ma si sostanziava di cultura, intelligenza, commercio di idee, non esisteva più.

La crisi intellettuale e morale si rifletteva immediatamente nella stampa. Il prestigio della tipografia veneziana declinava. Troppi titoli erano cancellati dai cataloghi, troppi autori uscivano in edizioni espurgate che ne riducevano il pregio filologico e l'interesse culturale. E gli editori stranieri non perdevano tempo ad approfittare delle difficoltà veneziane. La "Compagnie Plantin" acquistava i caratteri di Bomberg (412) mentre a Venezia gli eredi di lui si vedevano bruciare i libri rimasti in magazzino: un fatto di valore emblematico. Venezia non era più il libero luogo ove idee nobili e geniali potevano essere realizzate: altrove la stampa trovava ormai un terreno più propizio. È Christophe Plantin a ottenere il monopolio per la vendita di breviari e messali nella Spagna e nelle immense colonie; lo concede, il 1º febbraio 1571, Filippo II, per intercessione del cardinale di Granvelle, autorevolissimo protettore della casa editrice di Anversa. Ed è segno che Venezia va perdendo aree di mercato a beneficio di altri centri (413). La filologia e la scienza trovano editori valenti nel mondo germanico, ove non giungono i decreti che impongono arbitrariamente l'espurgazione di questo o quel passo, avvilendo la dignità dell'opera e svuotandone il contenuto, o addirittura la completa distruzione del libro. Gli effetti non tardano a prodursi, disastrosi. Nel 1588 i torchi attivi sono ridotti a settanta; nel 1596 sono scesi a quaranta, nel 1598 sono ormai trentaquattro (4'4). Nel Seicento la prosperità dell'arte è ormai solo un ricordo.

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(*) Ringrazio di tutto cuore Susy Marcon, Dorit Raines, Stefania Rossi Minutelli per i preziosi, indispensabili consigli; e mia moglie Rosella Mamoli per l'aiuto intelligente, affettuoso e paziente. Un cordiale ringraziamento va anche a Rita Pasquali.

1. Alfredo Stussi, Il mercante veneziano, in Id., Lingua, dialetto e letteratura, Torino 1993, pp. 107-128; Gherardo Ortalli, Scuole, maestri e istruzione di base tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Vicenza 1993, pp. 67-70.

2. Armando Petrucci, Pouvoir de l'écriture, pouvoir sur l'écriture dans la Renaissance italienne, "Annales ESC", 43, 1988, nr. 4, p. 832 (pp. 823-847); Antonio Carile, Aspetti della cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, p. 80 (pp. 75-126); Susy Marcon, I codici della liturgia di San Marco, in Giulio Cattin - Giordana Mariani Canova - Susy Marcon, Musica e liturgia a San Marco, I, Descrizione delle fonti, Venezia 1990, p. 215 (pp. 189-272); Dorit Raines, Office Seeking, "Broglio", and the Pocket Political Guidebooks in "Cinquecento" and "Seicento" Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1991, p. 141 (pp. 137-194).

3. Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1991, p. 36; G. Ortalli, Scuole, maestri, pp. 41-46.

4. Manlio Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 102-105 (pp. 93-121).

5. Manlio Cortelazzo, La cultura mercantile e marinaresca, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 1, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 671-691; Carlo Maccagni, La stampa, le scienze e le tecniche a Venezia e nel Veneto tra Quattrocento e Cinquecento, in AA.VV., Cultura, scienza e tecniche nella Venezia del Cinquecento. Atti del Convegno internazionale di studio Giovan Battista Benedetti e il suo tempo, Venezia 1987, pp. 483-494.

6. Piero Lucchi, La Santacroce, il Salterio e il Babuino. Libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, "Quaderni Storici", 38, 1978, pp. 593-639; Id., Leggere, scrivere e abbaco: l'istruzione elementare agli inizi dell'età moderna, in AA.VV., Scienze, credenze occulte, livelli di cultura. Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 26-30 giugno 1980) , Firenze 1982, pp. 101-119.

7. M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica, p. 100; P. F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, pp. 123-126, 156-171.

8. Vittorino Meneghin, S. Michele in isola di Venezia, Venezia 1962, p. 112; Gaudenz Freuler, Presenze artistiche toscane a Venezia alla fine del Trecento: lo "scriptorium" dei camaldolesi e dei domenicani, in La pittura veneta. Il Trecento, a cura di Mauro Lucco, Milano 1992, pp. 480, 501 (pp. 480-502).

9. V. Meneghin, S. Michele in isola, pp. 121-136; Piero Falchetta, Il dotto marinaio: Andrea Bianco e l'Atlante nautico marciano del 1436 (introduzione alla riproduzione in facsimile del manoscritto), Venezia 1993, pp. 7-25.

10. Gabriella Severino Polica, Libro, lettura, "lezione" negli "studia" degli ordini mendicanti (sec. XIII), in AA.VV., Le scuole degli ordini mendicanti (secoli XIII-XIV), Rimini 1978, pp. 383-385 (pp. 373-413); Guglielmo Cavallo, Dallo "scriptorium" senza biblioteca alla biblioteca senza "scriptorium", in AA.VV., Dall'eremo al cenobio, Milano 1987, pp. 329-422.

11. Tommaso Kaeppeli, Antiche biblioteche domenicane in Italia, "Archivum Fratrum Praedicatorum", 36, 1966, p. 70 (pp. 5-80).

12. V. Meneghin, S. Michele in isola, p. 112; G. Freuler, Presenze artistiche, p. 481.

13. Luciano Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, Padova 1978, pp. 66-67.

14. T. Kaeppeli, Antiche biblioteche domenicane, p. 72.

15. Susan Connell, Books and Their Owners in Venice. 1345-1480, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 35, 1972, p. 165 (pp. 163-186).

16. Paolo Cherubini, Note sul commercio librario a Roma nel 1400, "Studi Romani", 33, 1983, pp. 212-221. I cartularii veneziani si riuniranno, probabilmente nel primo Cinquecento, in una scuola, quella dei "Libreri da conti e carta bianca". La data di costituzione dell'arte è anteriore al 1552: A.S.V., Arti, b. 65. Ringrazio vivamente Michela Dal Borgo per la cortese comunicazione.

17. Silvia Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973, pp. 80-86; L. Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, pp. 66-68.

18. Bartolomeo Cecchetti, Libri, scuole, maestri, sussidi allo studio in Venezia nei secoli XIV e XV, "Archivio Veneto", 32, 1886, p. 351 (pp. 329-363).

19. Enrico Bertanza - Giuseppe Dalla Santa, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500, Venezia 1907, ora disponibile in ristampa anastatica, a cura di Gherardo Ortalli, e con ampli indici di Alessio Dalla Pietà, Vicenza 1993.

20. S. Connell, Books and Their Owners, p. 164.

21. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189. Per le successive disposizioni v. A.S.V., Procuratori di San Marco de supra, b. "i", fasc. 1, anno 1521. Prima dell'intervento di Eugenio IV era invece prescritto che i notai fossero non laici, ma preti: A.S.V., Libro d'oro delle leggi del Maggior Consiglio, VI, c. 19, 25 novembre 1399. Per i maestri-notai G. Ortalli, Scuole, maestri, pp. 84-90.

22. Elisabetta Barile, Michele Salvatico a Venezia, copista e notaio dei Capi sestiere, in Gilda P. Mantovani - Lavinia Prosdocimi - Elisabetta Barile, L'umanesimo librario tra Venezia e Napoli. Contributi su Michele Salvatico e su Andrea Contrario, Venezia 1993, pp. 92-101 (pp. 43-103).

23. Il codice era nella biblioteca settecentesca del senatore Jacopo Soranzo, come si evince dal catalogo di essa, conservato a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. IX. 138 (= 6569), vol. II, c. 11v; recava il nr. 812.

24. D. Raines, Office Seeking, pp. 148-149.

25. Rinaldo Fulin, I codici veneti della Divina Commedia, in AA.VV., I codici di Dante Alighieri in Venezia. Illustrazioni storico-letterarie, Venezia 1865, pp. 47-51 (pp. 1-122); sui carcerati copisti v. D. Raines, Office Seeking, p. 145; A. Petrucci, Pouvoir de l'écriture, p. 826.

26. Albert Derolez, Codicologie des manuscrits en écriture humanistique sur parchemin, I, Turnhout 1984, p. 142, nr. 194.

27. Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 111; cf. Nicholas Mann, Petrarch Manuscripts in the British Isles, Padova 1975, p. 199.

28. A.S.V., Giudici di Petizion, b. 955, cc. 106-115, 161v-164.

29. Giordana Mariani Canova, La miniatura veneta nel Rinascimento, 1450-1500, Venezia 1969, pp. 103-140.

30. Anthony R. Hobson, Humanists and Bookbinders. The Origin and Diffusion of the Humanistic Bookbinding, 1459-1559, Cambridge 1989; Piccarda Quilici, La legatura aldina, in La stampa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno. Roma, 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma 1992, pp. 377-397.

31. Per le cartiere del Veneto v. Michela Dal Borgo, Cinque secoli di produzione cartacea nei territori della Repubblica Veneta, in Charta. Dal papiro al computer, a cura di Giorgio R. Cardona, Milano 1988, pp. 180-181. Sui Barbarigo, Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984, pp. 113-116. Un ramo Barbarigo aveva proprietà a Carpi: Piergiovanni Mometto, L'azienda agricola Barbarigo a Carpi, Venezia 1992. Ciò potrebbe costituire un legame tra i Barbarigo e Aldo Manuzio, precettore del principe di Carpi, che dai Barbarigo venne finanziato per la sua attività editoriale veneziana.

32. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 380.

33. L. Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, p. 68.

34. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 166-168, 175-182, 185-186. Sulla presenza del Tiptoft a Padova e a Venezia v. Rosamond J. Mitchell, John Tiptoft (1427-1470), London 1938, pp. 47-66.

35. Remigio Sabbadini, Andrea Contrario, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 31, 1916, p. 385 (pp. 378-433).

36. Giuseppe Dalla Santa, Uomini e fatti dell'ultimo Trecento e del primo Quattrocento. Da lettere a Giovanni Contarini, patrizio veneziano studente a Oxford e a Parigi, poi Patriarca di Costantinopoli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 32, 1916, pp. 5-105; Ugo Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, p. 17 (pp. 15-41).

37. Paolo Sambin, La biblioteca di Pietro Donato (1380-1447), "Bollettino del Museo Civico di Padova", 48, 1959, pp. 57-58 (pp. 53-98); A. Derolez, Codicologie, p. 139, nr. 152.

38. Giuseppe Billanovich, Un esercizio di scrittura umanistica in casa Barzizza, in AA.VV., Forme e vicende per Giovanni Pozzi, Padova 1988, pp. 67-73.

39. Rispettivamente in Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5087, a Parigi e a Venezia (v. oltre, n. 185).

40. Oxford, Bodleian Library, Canonici Lat. 232; cf. Henry O. Coxe, Catalogi codicum manuscriptorum Bibliothecae Bodleianae, pars tertia, codices graecos et latinos Canonicianos complectens, Oxford 1854, col. 209.

41. Oxford, Bodleian Library, Canonici Lat. 135; cf. H.O. Coxe, Catalogi, col. 167.

42. Susy Marcon, La silloge dell'anonimo Marucelliano: un episodio di calligrafia epigrafica, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 24, 1991, pp. 35-36 (pp. 31-56).

43. Il primo codice da lui trascritto (nel 1450-1451) è conservato a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. II. 55 (= 2922); V. Nella Giannetto, Bernardo Bembo, umanista e politico veneziano, Firenze 1985, pp. 313-314.

44. A. Petrucci, Pouvoir de l'écriture, p. 828.

45. Oxford, Bodleian Library, Canonici Misc. 485; cf. H.O. Coxe, Catalogi, II, fasc. I, coll. 349-350.

46. Gianfranco Folena, Il primo imitatore veneto di Dante, in Dante e la cultura veneta, a cura di Vittore Branca - Giorgio Padoan, Firenze 1986, p. 395 (pp. 395-421).

47. Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 116; cf. Alessandro Mortara, Catalogo dei manoscritti italiani che sotto la denominazione di Codici Canoniciani Italici si conservano nella Biblioteca Bodleiana a Oxford, Oxford 1864, col. 132.

48. R. Fulin, I codici veneti, pp. 44-45; Nicolò Barozzi, Dello amore dei veneziani per lo studio di Dante. Commentario, in AA.VV., I codici di Dante Alighieri in Venezia: Illustrazioni storico-letterarie, Venezia 1865, p. XVII (pp. VII-XXXVIII).

49. Sul poema del Nadal, Emilio Lappi, Un capitolo della fortuna della "Commedia" a Venezia: la "Leandreride" del Nadal, "Quaderni Veneti", 12, 1990, pp. 153-189 (il Lippi preferisce la forma Leandreride). Sul Gradenigo, la voce di Emilio Pasquini in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, pp. 256-257; sull'acquisto all'asta Corner, S. Connell, Books and Their Owners, p. 167. Sul Gradenigo miniatore, Giordana Mariani Canova, Miniatura e pittura in età tardogotica (1400-1440), in La pittura veneta. Il Quattrocento, a cura di Mauro Lucco, Milano 1989, p. 198 (pp. 193-222); dal codice da lui trascritto e miniato copia il suo Marin Sanudo (ibid., cf. supra n. 47).

50. Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 64; ivi, Canonici Misc. 308; cf. N. Mann, Petrarch Manuscripts, pp. 385-386, 434-435.

51. Firenze, Biblioteca Laurenziana, Redi 118; cf. Armando Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 275-276 (pp. 265-367).

52. Susy Marcon, Venezia-Veneto, in Boccaccio visualizzato, a cura di Vittore Branca, in corso di stampa.

53. Antonio Medin, Il "Detto della Vergine" e la "Lauda di S. Giovanni Battista", poesie venete del secolo XIV, con una notizia dei codici trascritti da Nicolò, Andrea e Antonio Vitturi, "Bullettino Critico di Cose Francescane", 3, 1909, pp. 35-78; Gianfranco Folena, La cultura volgare e l'"umanesimo cavalleresco" nel Veneto, in AA.VV., Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, Firenze 1964, pp. 155-156 (pp. 141-158). Sulla diffusione del Fior di Virtù, "primo esempio di libro popolare" in Italia, v. Paul F. Grendler, La stampa popolare a Venezia, in La stampa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno. Roma, 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma 1992, pp. 211-236.

54. Armando Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di Giorgio Padoan, Firenze 1976, pp. 243-247 (pp. 243-270); Massimo Castoldi, Laura Brenzoni Schioppo e il Codice Marciano it. cl. IX 163, "Studi e Problemi di Critica Testuale", 46, 1993, pp. 69-101.

55. Angelo Cicchetti - Raul Mordenti, I libri di famiglia in Italia, I, Filologia e storiografia letteraria, Roma 1985, p. 3; Alberto Asor Rosa, Introduzione, ibid., p. XXI.

56. Annalisa Conterio, L'"Arte del Navegar": cultura, formazione personale ed esperienze dell'uomo di mare veneziano nel XV secolo, in AA.VV., L'uomo e il mare nella civiltà occidentale: da Ulisse a Cristoforo Colombo. Atti del Convegno. Genova 1-4 giugno 1992, Genova 1992, pp. 189-198 (pp. 187-225); Ugo Tucci, La pratica della navigazione, in Storia di Venezia, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 527-559.

57. Zibaldone da Canal. Manoscritto mercantile del secolo XIV, a cura di Alfredo Stussi, con saggi di Frederic C. Lane e altri, Venezia 1967; Ugo Tucci, Tariffe veneziane e libri toscani di mercatura, "Studi Veneziani", 10, 1968, p. 96 (pp. 65-108).

58. Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 263; cf. A. Mortara, Catalogo, col. 238.

59. Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 96; A. Mortara, Catalogo, col. 346; B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 338.

60. M. Cortelazzo, La cultura mercantile, pp. 689-691; Ada Rossebastiano Bart, Vocabolari Veneto-Tedeschi del secolo XV, Savigliano 1983; A. Stussi, Il mercante veneziano, p. 116.

61. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 335; Pio Cenci, L'archivio della Cancelleria della Nunziatura Veneta, in AA.VV., Miscellanea Francesco Ehrle. Scritti di storia e paleografia, III, Roma 1924, p. 313 (pp. 273-330).

62. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 167, 180.

63. E. Bertanza - G. Dalla Santa, Maestri, scuole, pp. 298, 322, 323.

64. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 166-168.

65. Ibid., pp. 177-183.

66. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, pp. 346-349; Caterina Tristano, Economia del libro in Italia tra XV e XVI secolo: il costo del libro "nuovo", "Bulletin du Bibliophile", 2, 1991, pp. 276-278 (pp. 273-296).

67. Caterina Tristano, Economia del libro in Italia tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo: il prezzo del libro "vecchio", "Scrittura e Civiltà", 14, 1990, pp. 199-279; Giancarlo Alessio, Il manoscritto e il suo pubblico. Circolazione del libro e domanda di lettura nel Quattrocento, "Biblioteche Oggi", 3, 1985, nr. 1, p. 20 (pp. 15-33).

68. Bartolomeo Cecchetti, La vita dei veneziani nel 1300, Venezia 1885, pp. 103-115, 189-190.

69. Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Venezia 1980, pp. 20-23. Le notizie sulle schiave in E. Bertanza - G. Dalla Santa, Maestri, scuole, p. 207; B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 358.

70. G. Dalla Santa, Uomini e fatti dell'ultimo Trecento, p. 17. I Contarini erano molto legati al predicatore: v. Anthony Luttrell, Giovanni Contarini, a Venetian at Oxford: 1392-1399, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 29, 1966, pp. 424-432; Giorgio Fedalto, Contarini, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 200-201; Daniel Bornstein, Giovanni Dominici, the Bianchi, and Venice: Symbolic Action and Interpretive Grids, "Journal of Medieval and Renaissance Studies", 23, 1993, p. 162 (pp. 143-171).

71. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 333 (testamento Capello); A.S.V., Cancelleria Inferiore, Miscellanea Notai Diversi, b. 267, nr. 2227 (testamento Corner).

72. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Miscellanea Notai Diversi, libb. 26, 27, 28, contenenti rispettivamente 385 testamenti (nrr. 2004-2388), 309 testamenti (nrr. 2389-2697), 193 testamenti (nrr. 2698-2890).

73. Ibid., lib. 26, testamento 2306, 22 agosto 1468.

74. A. Carile, Aspetti della cronachistica veneziana, p. 80.

75. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 351.

76. Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 90 (pp. 1-91).

77. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 351.

78. Raimondo Morozzo Della Rocca, Codici danteschi veneziani del '300, in AA.VV., Studi in onore di Riccardo Filangieri, Napoli 1959, p. 420 (pp. 419-421).

79. Ibid., p. 419.

80. Vittorio Lazzarini, I più antichi codici di Dante in Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", 41, 1921, p.173 (pp. 171-174).

81. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 345; R. Morozzo Della Rocca, Codici danteschi, p. 421.

82. Ibid., pp. 420-421.

83. Oggi a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. IX. 276 (= 6902).

84. R. Fulin, I codici veneti, pp. 47-51.

85. S. Connell, Books and Their Owners, p. 167.

86. Ibid., p. 163; R. Fulin, I codici veneti, p. 41; N. Barozzi, Dell'amore dei veneziani, p. XIX. Altri casi di donne in possesso di libri in Tiziana Plebani, Nascita e caratteristiche del pubblico di lettrici tra Medioevo e prima età moderna, in Donna, disciplina e creanza cristiana, a cura di Gabriella Zarri (in corso di stampa). Tipico libro femminile, il libro d'ore (ibid.).

87. Holckam Hall, Collezione Earl of Leicester; cf. N. Mann, Petrarch Manuscripts, pp. 198-199.

88. London, British Library, Harley 3442; Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 81; cf. N. Mann, Petrarch Manuscripts, pp. 287-289, 415-416.

89. New York, Pierpont Morgan Library, M. 502; cf. Dennis Dutschke, Census of Petrarch Manuscripts in the United States, Padova 1986, pp. 226-228.

90. Chicago, University of Chicago Library, Special Collection, 706-V; cf. D. Dutschke, Census, pp. 109-112.

91. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Palat. Lat. 895; cf. Elisabeth Pellegrin, Manuscrits de Petrarque à la Bibliothèque Vaticane. Supplément au catalogue de Vattasso, "Italia Medioevale e Umanistica ", 19, 1976, p. 494 (pp. 493-497).

92. È il codice trascritto da Giovanni Nani: cf. supra, n. 50.

93. Wellesley, University Library, Plimton 485; Cf. D. Dutschke, Census, p. 274.

94. Heinrich Morf, Note pour servir à l'histoire de la légende de Troie en Italie et en Espagne, "Romania", 21, 1892, pp. 18-38; 24, 1895, pp. 174-196; Hugo Buchtal, Historia Troiana. Studies in the History of Mediaeval Secular Illustration, London-Leiden 1971, pp. 1-2.

95. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 164, 168.

96. Il codice era nel Settecento nella biblioteca del senatore Jacopo Soranzo, come si evince dal catalogo manoscritto di essa: Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. IX. 137 (= 6568), vol. I, c. 355v.

97. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 362.

98. Neil Harris, Marin Sanudo, Forerunner of Melzi, "La Bibliofilia", 95, 1993, pp. 1-38.

99. Luciano Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso, Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 160 (pp. 142-170); M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, p. 114.

100. S. Connell, Books and Their Owners, p. 167.

101. L. Gargan, Il preumanesimo, pp. 150-164; Id., Per la biblioteca di Giovanni Conversini, in AA.VV., Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, I, Roma 1984, pp. 365-385.

102. Bruno Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in AA.VV., La cultura veneziana del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 102-116 (pp. 99-145); Fernando Lepori, La scuola di Rialto dalla fondazione alla metà del Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 539-540 (pp. 539-605).

103. Menzionato nel catalogo della Biblioteca Soranzo, oggi a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. IX. 138 (= 6569), vol. II, c. 84v, ove recava il numero 1028.

104. Ivi, ms. lat. cl. VI. 59 (= 2548).

105. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, pp. 334, 359-360; S. Connell, Books and Their Owners, p. 182.

106. Per le esequie di Aldo v. i Diarii manoscritti di Marin Sanudo, vol. XX (dal 1º settembre 1515 al 28 febbraio 1516), Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 247 (= 9234), c. 259; per Lodovico de la Fontana v. E. Bertanza - G. Dalla Santa, Maestri, scuole, p. 113.

107. Ibid., pp. 287, 297, 316. Dei maestri veneziani, dei loro metodi, salari, ambiente culturale e sociale tratta ampiamente G. Ortalli, Scuole, maestri.

108. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, pp. 362-363.

109. S. Marcon, I codici della liturgia di San Marco, pp. 191-195.

110. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 351. Sui codici analoghi di età carrarese v. Giordana Mariani Canova, La miniatura veneta del Trecento tra Padova e Venezia, in La pittura veneta. Il Trecento, a cura di Mauro Lucco, II, Milano 1992, pp. 313-408.

111. S. Marcon, I codici della liturgia di San Marco, pp. 191-194.

112. V. Meneghin, S. Michele in isola, pp. 115-121.

113. G. Freuler, Presenze artistiche, p. 485; in Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 11287, cc. 161-193, è conservato l'inventario della biblioteca di S. Mattia, redatto poco dopo il 1599 per ordine della Congregazione dell'Indice; esso elenca numerosi manoscritti di cui il monastero era in possesso certamente sin da epoca di molto anteriore. Sulla biblioteca di S. Mattia sono in corso di stampa due documentati studi di Edoardo Barbieri, nella rivista "Aevum" e negli atti del convegno Il luogo dei libri. Lo studiolo - la biblioteca (Viterbo 10-11 novembre 1994).

114. Giorgio Ravegnani, Le biblioteche del monastero di S. Giorgio Maggiore, Firenze 1976, pp. 11-13.

115. Antonio Foscari, Introduzione a una ricerca sulla costruzione della Libreria Medicea nel convento di San Giorgio Maggiore, a Venezia, in Studi per Pietro Zampetti, a cura di Ranieri Varese, Ancona 1993, pp. 226-236; cf. Reinhold C. Mueller, Mercanti e imprenditori fiorentini a Venezia nel tardo Medioevo, "Società e Storia", 15, 1992, p. 37 (pp. 29-60). In quegli stessi anni il monastero, evidentemente molto interessato alla propria biblioteca, commissionava sontuosi antifonari, pagati nel 1470 dall'abate Cipriano Rinaldini: G. Mariani Canova, Miniatura e pittura in età tardogotica, p. 217.

116. Per S. Cipriano, Susy Marcon, I codici medievali di San Cipriano di Murano, in Il codice miniato. Rapporti tra codici, testo e figurazione. Atti del III Congresso di Storia della Miniatura, a cura di Melania Ceccanti - Maria Cristina Castelli, Firenze 1992, pp. 229-246. Un graduale in due tomi e un volume contenente le costituzioni dell'Ordine provenienti da S. Andrea della Certosa sono conservati a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. III. 18 (= 2283-2284) e ms. lat. cl. IV. 103 (= 2419): cf. Gabriele Mazzucco, Monasteri benedettini, nella laguna veneziana, Venezia 1983, pp. 104-105. Per l'importanza del monastero in relazione alla diffusione della stampa a Venezia v. Martin Lowry, Humanism and Anti-Semitism in Renaissance Venice: the Strange Story of "Decor puellarum", "La Bibliofilia", 87, 1986, pp. 39-54. Per S. Maria della Carità v. Antonio Fabris, Esperienze di vita comunitaria: i Canonici regolari, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, p. 79 (pp. 73-107). Per S. Giorgio in Alga, P. Cenci, L'archivio della cancelleria della Nunziatura, pp. 318-320. Un codice di S. Daniele, contenente "lo dialogo di sancto Gregorio papa", è oggi a Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 246. Ivi è anche (Canonici It. 119) una traduzione in volgare dell'opera di Giovanni Cassiano, appartenuta a S. Salvador. A Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, è una miscellanea in volgare appartenuta a quest'ultimo monastero, ms. it. cl. I. 30 (= 5023), contenente anche opere di Jacopone da Todi, leggende, laudi, orazioni, nonché il c.d. Credo di Dante e un sonetto di sapore dantesco. I Gesuati avevano opere di s. Gregorio e Jacopone, oggi ivi, ms. it. cl. I. 42 (= 4971), e la biblioteca del senatore Jacopo Soranzo conteneva un "codice cartaceo a due colonne assai bello" degli Evangeli "con la loro esposizione" (così descritto nel codice marciano ms. it. cl. IX. 138, c. 64). Il colophon era il seguente: "Questo libro si è delli poveri heremiti de santo Rafaele, scritto in 1441 per li dicti heremiti".

117. Per S. Servilio e S. Zaccaria, G. Mazzucco, Monasteri benedettini, pp. 35-36, 39-40. Per il monastero agostiniano di S. Alvise, Bénédictins du Bouveret, Colophons des manuscrits occidentaux, VI, Fribourg 1982, p. 106: le monache avevano un S. Girolamo, Vitae SS. Patrum, miniato, oggi a Napoli, Biblioteca degli Oratoriani, Pil. IV. 4. Il monastero di S. Girolamo aveva un S. Bonaventura, oggi a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciata, ms. it. cl. Z. 7 (= 4739), e S. Maria degli Angeli i Dialoghi di s. Gregorio, in latino (oggi a Oxford, Bodleian Library, Canonici Lat. 65). Per il convento di S. Croce della Giudecca, Margaret L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari 1991, p. 205. Il Barbaro accompagna la traduzione con una lettera alle suore: Ermolao Barbaro il Vecchio, Orationes contra poetas. Epistolae, a cura di Giorgio Ronconi, Firenze 1972, pp. 74-76, 157-159. Il convento aveva anche i Moralia di s. Gregorio e lo Specchio di Croce di Domenico Cavalca, oggi a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. Z. 10 (= 4741).

118. S. Benedicti Regula. Introduzione, testo, apparati, traduzione e commento, a cura di Gregorio Penco, Firenze 1958, pp. 135-139; Birger Munk Olsen, I classici nel canone scolastico altomedievale, Spoleto 1991, pp. 104-106.

119. Keith W. Humphreys, The Book Provisions of the Mediaeval Friars. 1215-1400, Amsterdam 1964, pp. 34, 64.

120. Giulio Coggiola, Due inventari trecenteschi della biblioteca del convento di S. Domenico di Castello a Venezia, "Rivista delle Biblioteche e degli Archivi", 23, 1912, pp. 85-122; cf. Luciano Gargan, Lo studio teologico e la biblioteca dei Domenicani a Padova nel Tre e Quattrocento, Padova 1971, p. 184, per la dimensione delle biblioteche patavine.

121. Susy Marcon, I libri del generale domenicano Gioachino Torriano (1500) nel convento veneziano di S. Zanipolo, "Miscellanea Marciana", 2-4, 1987-1989, pp. 81-116.

122. Remigio Sabbadini, Sugli studi volgari di Leonardo Giustiniani, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 10, 1887, p. 365 (pp. 363-371).

123. V. ad esempio, in Biblioteca Marciana. Venezia, a cura di Marino Zorzi, Firenze 1987, pp. 97, 173, un antifonario della Scuola grande della Carità e la Matricola della Scuola dei Caldereri.

124. Per la biografia dei patrizi umanisti si fa rinvio a Margaret L. King (nella traduzione di Saverio Ricci), Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, Roma 1989. Per l'umanesimo patrizio della prima generazione v. Lino Lazzarini, Il patriziato veneziano e la cultura umanistica dell'ultimo Trecento, "Archivio Veneto", 150, 1980, pp. 179-219.

125. Vittore Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 123 (pp. 123-175).

126. R. Sabbadini, Sugli scritti volgari di Leonardo Giustiniani, pp. 363-365.

127. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 338.

128. Mario D'Angelo, Le epistole di Lodovico Foscarini a Guarnerio, in Laura Casarsa - Mario D'Angelo - Cesare Scalon, La libreria di Guarnerio d'Artegna, Udine 1991, pp. 109-110, 116-121 (pp. 107-121).

129. Agostino Pertusi, L'umanesimo greco dalla fine del secolo XIV agli inizi del secolo XVI, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 190-200 (pp. 177-264).

130. Elisabetta Barile, Littera antiqua e scritture alla greca. Notai e cancellieri copisti a Venezia nei primi decenni del Quattrocento, Venezia 1994; Claudio Griggio, Il Codice Berlinese Lat. Fol. 667. Nuove lettere di Francesco Barbaro, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, 3/I, Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze 1983, pp. 151-152, 171-173 (pp. 133-175). Sulle vicende dell'alfabeto greco in Italia nel sec. XV e in particolare sulla finale prevalenza delle maiuscole di tipo monumentale (fatto collegato alla diffusione della cultura epigrafica e antiquaria), v. Anna Pontani, Le maiuscole greche antiquarie di Giano Lascaris. Per la storia dell'alfabeto greco in Italia nel '400, "Scrittura e civiltà", 16, 1992, pp. 77-227.

131. Il Catullo, copiato nel 1412 dal patrizio Girolamo Donà, nipote di Pietro vescovo di Padova, è oggi a Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 1372 (2621). Al Corradini il Catullo era stato donato dal vescovo Pietro.

132. Remigio Sabbadini, Antonio da Romagno e Pietro Marcello, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 30, 1915, pp. 207-246; Id., Ancora Pietro Marcello, ibid., 31, 1916, pp. 260-262.

133. Id., Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, riprod. anast. con nuove aggiunte e correzioni dell'autore a cura di Eugenio Garin, Firenze 1967, p. 63; Aubrey Diller, The Library of Francesco and Ermolao Barbaro, "Italia Medioevale e Umanistica", 6, 1963, pp. 252-262.

134. R. Sabbadini, Le scoperte, p. 64.

135. Id., Sugli studi volgari di Leonardo Giustiniani, p. 368.

136. Ambrogio Traversari, Latinae Epistolae, a cura di Pietro Canneto (con la biografia del Traversari di Lorenzo Mehus), Firenze 1759, coll. 314-316 (VI, 31 e 32).

137. Ibid., coll. 317-318 (VI, 32 e 34); cf. A. Petrucci, Pouvoir de l'écriture, p. 827. Sulla rarità delle Bibbie in volgare, Edoardo Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, Trento 1992, p. 9.

138. G. Folena, La cultura volgare e l'"umanesimo cavalleresco", p. 157.

139. A. Traversari, Latinae Epistolae, col. 318 (VI, 34).

140. Remigio Sabbadini, Epistolario di Guarino Veronese, I-III, Venezia 1915-1919: I, p. 138 (nr. 67).

141. Id., Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro precedute dall'ordinamento critico cronologico dell'intero suo epistolario, Salerno 1884, p. 71.

142. M.L. King, Umanesimo e patriziato, p. 26; Aldo Onorato, Introduzione a Gregorio Correr, Opere, I, Messina 1994, p. 20.

143. R. Sabbadini, Le scoperte, p. 119.

144. Il Lippomano conosceva anche l'ebraico: una sua traduzione dall'ebraico è conservata alla Biblioteca Queriniana di Brescia: Angelo Brumana, Per Domenico Bragadin e Marco Lippomano, "Commentarii dell'Ateneo di Brescia", 188, 1989, pp. 85-103. Un codice trascritto per lui dal Simeonachis è a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. gr. cl. IV. 57 (= 1928).

145. R. Sabbadini, Le scoperte, pp. 63-64.

146. Ibid., p. 64.

147. A. Traversari, Latinae Epistolae, coll. 411-417 (VIII, 35-39); Ambrogio Traversari, Hodoeporicon, in Alessandro Dini Traversari, Ambrogio Traversari e i suoi tempi, Firenze 1912, pp. 65-66 (pp. 1-139); Eugène Müntz, Les arts à la cour des Papes pendant le XVe et le XVIe siècle, I-II, Paris 1878-1882: II, pp. 171-172; Armand Colin, Cyriaque d'Ancone, Paris 1981, p. 430. Su Fantino Dandolo (figlio di Leonardo e nipote del doge Andrea) v. la voce del Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 460-464, dovuta a Giuseppe Gullino, e ora Cecilia Passarin, Sull'autografo dei "Sermones" di Fantino Dandolo vescovo di Padova (1459), "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere e Arti", 106, 1993-1994, pt. III, pp. 27-42.

148. A. Traversari, Latinae Epistolae, col. 417 (VIII, 48).

149. Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990, pp. 49-55. Sulle raccolte librarie di Paolo II, R. Sabbadini, Le scoperte, p. 65; Robert Weiss, Un umanista veneziano: papa Paolo II, Venezia-Roma 1958, pp. 30-32.

150. Robert Weiss, Un umanista antiquario: Cristoforo Buondelmonti, "Lettere Italiane", 16, 1964, nr. 2, pp. 113-114 (pp. 105-116).

151. B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana nel Quattrocento, p. 113; U. Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista, p. 23.

152. "Come ammoniva Gasparino Barzizza tracciando il ritratto ideale del patrizio veneziano": ibid.

153. Patricia H. Labalme, Bernardo Giustiniani, a Venetian of the Quattrocento, Roma 1969, pp. 54-56, 237.

154. U. Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista, p. 25; Giuseppe Dalla Santa, Di un patrizio mercante veneziano del Quattrocento e di Francesco Filelfo suo debitore, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 11, 1906, pp. 63-88.

155. Vittore Branca, Lauro Quirini e il commercio librario a Venezia e Firenze, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans Georg Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, I, Venezia 1977, pp. 372-373, 376 (pp. 369-377); Lauro Quirini umanista, a cura di Vittore Branca, Firenze 1977, pp. 11-18; Hans-Veit Beyer, Lauro Quirini, ein Venezianer unter dem Einfluss Plethons, "Jahrbuch der Osterreichischen Byzantinistik", 44, 1994, pp. 1-19.

156. R. Sabbadini, Le scoperte, p. 119; P. Sambin, La biblioteca di Pietro Donato, pp. 53-98; Luciano Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Le biblioteche del mondo antico e medioevale, a cura di Guglielmo Cavallo, Bari 19892, p. 178 (pp. 163-186).

157. Eugenia Govi, La biblioteca di Jacopo Zeno, "Bollettino dell'Istituto di Patologia del Libro", 10, 1951, pp. 34-118.

158. L. Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, pp. 168-179; Vincenzo Fera, Problemi e percorsi della ricezione umanistica, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica, III, La ricezione del testo, Roma 1990, p. 521 (pp. 513-543).

159. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 182-183. Non si è potuto identificare la città di Ognento.

160. Vittore Branca, Poliziano e l'umanesimo della parola, Torino 1983, p. 145; Robert Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford 1973, pp. 125, 163, 189. Una silloge di iscrizioni conservata a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. X. 167 (= 3612), probabilmente gli apparteneva.

161. M.L. King, Umanesimo e patriziato, pp. 600-603.

162. Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant. 1204-1571, I-IV, Philadelphia 1976-1984: II, pp. 302-305; Martin Lowry, Nicholas Jenson and the Rise of Venetian Publishing in Renaissance Europe, Cambridge, Mass. 1991, p. 13.

163. Millard Meiss, Andrea Mantegna as Illuminator, New York 1957, pp. 1-29; Sebastiano Gentile, Firenze e la scoperta dell'America. Umanesimo e geografia nel '400 fiorentino, Firenze 1992, pp. 85-88; Margaret L. King, The Death of the Child Valerio Marcello, Chicago 1994, pp. 120-135.

164. P. Labalme, Bernardo Giustiniani, p. 239. L'opera venne stampata da Enrico da Colonia e Stazio Gallo (IGI 4800).

165. B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, p. 338.

166. Panagiótis D. Mastrodimítris, ΝιϰόλαοϚ ΣεϰουνδινόϚ (1402-1464). ΒίοϚ ϰαὶ ἔϱγον, Atene 1970, pp. 61-65, 81.

167. Claudia Villa, Brixiensia, "Italia Medioevale e Umanistica", 20, 1977, p. 248 (pp. 243-275). Lo studio individua e descrive trentacinque codici un tempo appartenuti al Domenichi. Per le abitudini di lettura nel secolo XV v. Roger Chartier, Le pratiche della scrittura, in AA.VV., La vita privata dal Rinascimento all'Illuminismo, Bari 1987, p. 90 (pp. 77-117).

168. M.L. King, Umanesimo e patriziato, p. 574; Rino Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, in AA.VV., Verona e il suo Territorio, IV, 2, Verona 1984, pp. 113-144; Susy Marcon, Vale feliciter, "Lettere Italiane", 40, 1988, pp. 536-556.

169. P. Cenci, L'archivio della cancelleria della Nunziatura, p. 319.

170. L. Gargan, Il preumanesimo, p. 160; M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica, p. 114.

171. R. Sabbadini, Epistolario di Guarino, I, p. 306 (nr. 192); M.L. King, Umanesimo e patriziato, p. 26.

172. Concetta Bianca, La formazione della biblioteca latina del Bessarione, in AA.VV., Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi. Atti del Seminario 1-2 giugno 1979, Città del Vaticano 1980, pp. 136-137 (pp. 103-165).

173. A. Traversari, Latinae Epistolae, col. 313 (VI, 30).

174. R. Sabbadini, Epistolario di Guarino, I, p. 138 (nr. 67), p. 306 (nr. 192).

175. P. Sambin, La biblioteca di Pietro Donato, p. 69. Sul Tolomeo di Palla Strozzi v. Sebastiano Gentile, Emanuele Crisolara e la "Geografia" di Tolomeo, in Dotti bizantini e libri greci nell'Italia del secolo XV. Atti del Convegno internazionale. Trento 22-23 ottobre 1990, a cura di Mariarosa Cortesi-Enrico V. Maltese, Napoli 1992, pp. 291-308; per i possibili rapporti con Andrea Bianco in P. Falchetta, Il dotto marinaio, p. 11.

176. R. Sabbadini, Epistolario di Guarino, I, p. 138 (nr. 67), p. 306 (nr. 192).

177. A. Traversari, Latinae Epistolae, col. 304 (VI, 22).

178. Ibid., col. 316 (VI, 32).

179. Geoffrey D. Hobson, Et amicorum, "The Library", ser. V, 4, 1949-1950, pp. 87-99; L. Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, p. 185.

180. A. Traversari, Latinae Epistolae, col. 413 (VIII, 46)

181. Baccio Ziliotto, Raffaele Zovenzoni. La vita, i carmi, Trieste 1950, p. 111.

182. Laura Casarsa, Come in uno specchio. La cultura umanistica nella "libreria" di Guarnerio d'Artegna, in Ead. - Mario D'Angelo - Cesare Scalon, La libreria di Guarnerio d'Artegna, Udine 1991, p. 100 (pp. 89-106); Mario D'Angelo, Le epistole di Lodovico Foscarini a Guarnerio, ibid., pp. 109-110 (pp. 107-121).

183. Giovanni Ciappelli, Libri e lettori a Firenze nel XV secolo. Le "ricordanze" e la ricostruzione delle biblioteche private, "Rinascimento", 29, 1989, p. 277 (pp. 267-291); Vittore Branca, Mercanti scrittori, Milano 1986, pp. IX-LXXXIII.

184. Il registro è segnalato da M.L. King, Umanesimo veneziano, II, p. 635 (su indicazione di Reinhold Mueller) e discusso da Martin Lowry, Nicholas Jenson, pp. 29-35. Esso è conservato in A.S.V., Giudici di Petizion, b. 955 (cf. supra, n. 28).

185. Il Virgilio è oggi a Paris, Bibliothèque Nationale, Lat. 7939A; il Lattanzio è a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. II 75 (= 2198); cf. The Painted Page. Italian Renaissance Book Illumination, 1450-1550, a cura di Jonathan J.G. Alexander, London-New York 1994, p. 109 (scheda di Giordana Mariani Canova). È incerto se il Sanudo impiegasse anche Marco Zoppo, artista che lavorava sicuramente per Marcantonio Morosini: Ead., Marco Zoppo e la miniatura, in AA.VV., Marco Zoppo. Atti del Convegno Internazionale di Studi sulla pittura del Quattrocento Padano. Cento, 8-9 ottobre 1993, a cura di Berenice Giovannucci Vigi, Bologna 1993, pp. 121-135.

186. S. Connell, Books and Their Owners, pp. 173-175.

187. G. Dalla Santa, Di un patrizio mercante veneziano del Quattrocento e di Francesco Filelfo, pp. 75-78.

188. Oxford, Bodleian Library, Canonici Lat. 308; cf. H.O. Coxe, Catalogi, col. 245.

189. Bartolomeo Cecchetti, Una libreria circolante a Venezia nel secolo XV, "Archivio Veneto", 32, 1866, pp. 161-168; Donatella Nebbiai-Dalla Guarda, Les livres et les amis de Gerolamo Molin (1450-1458), "La Bibliofilia", 93, 1991, pp. 153-174.

190. Certo il cardinale camerlengo Lodovico Trevisan, patrizio veneziano, che viene quasi sempre chiamato erroneamente Scarampo perché lasciò eredi due gentiluomini di quella famiglia: K.M. Setton, The Papacy and the Levant, p. 55.

191. Felix Gilbert, Biondo, Sabellico, and the Beginning of Venetian Official Historiography, in AA.VV., Florilegium Historiale, Toronto 1971, pp. 776-793.

192. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 1-25.

193. I vari aspetti della personalità e dell'azione del Bessarione sono trattati nel catalogo della mostra Bessarione e l'Umanesimo (Venezia, Biblioteca Marciana), a cura di Gianfranco Fiaccadori, Napoli 1994. Per la donazione a S. Marco cf. anche Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei dogi, Milano 1987, pp. 23-119, 415-438.

194. Sulla Venezia del tempo, crogiolo di influssi, creatrice di miti, ispiratrice di speranza anche religiosa v. Gino Benzoni, Venezia come città ulteriore, in Ferrara e il Concilio. 1438-1439, Atti del Convegno di Studi, Ferrara 23-24 novembre 1989, a cura di Patrizia Castelli, Ferrara 1989, pp. 153-180.

195. Dante Balboni, Beacqui, Galeotto, in Dizionario Biografico degli Italiani, VII, Roma 1965, pp. 339-340; Benedetto Luchini, Cronica della vera origine et attioni della illustrissima et famosissima contessa Matilda, Mantova 1592, pp. 127-130.

196. I testamenti di Franceschina, abitante in contrada S. Geminiano e madre di due monaci, Placido e Matteo, sono due: nel primo, A.S.V., Cancelleria Inferiore, Miscellanea Notai Diversi, b. 26, testamento nr. 2171, 23 settembre 1462, lascia due sue case, del valore complessivo di 600 ducati, al monastero; se si fossero dovute vendere, il ricavato di una delle case, quella sita a S. Gervasio, valutata 400 ducati, doveva essere speso nell'acquisto di "tanti libri per la libreria del monastero San Zorzi Maior". Nel secondo testamento, del 22 aprile 1469, ivi, San Giorgio Maggiore, b. 48, proc. 59, c. 11, destina all'acquisto di libri la metà del valore delle due case, valutate 700 ducati, sempreché se ne fosse decisa la vendita: il che non avvenne, dato che i due immobili (di S. Gervasio e S. Agnese) erano ancora in proprietà del monastero nel 1804 e 1802 rispettivamente (ibid., proc. 59a-60a).

197. A. Foscari, Introduzione a una ricerca sulla costruzione della Libreria Medicea, pp. 185-188.

198. Maury D. Feld, Sweynheym and Pannartz, Cardinal Bessarion, Neoplatonism: Renaissance Humanism and Two Early Printers' Choice of Texts, "Harvard Library Bulletin", 30, 1982, nr. 3, pp. 282-335.

199. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 16-18.

200. Manfredo Tafuri, La "nuova Costantinopoli". La rappresentazione della "renovatio" nella Venezia dell'Umanesimo (1450-1509), "Rassegna", 4, 1982, nr. 9, pp. 25-38.

201. Tiziana Pesenti, La Biblioteca Marciana nella sua storiografia più recente, "Il Bibliotecario", 1990, nr. 25, p. 147 (pp. 143-159).

202. La lettera esiste in copia di mano di Apostolo Zeno: M. Zorzi, La Libreria di S. Marco, pp. 94, 442. Il competitore di Zaccaria Barbaro, Agostino Barbarigo, non menziona alcun libro nel suo testamento: Bernd Roeck, Arte per l'anima, arte per lo Stato. Un doge nel tardo Quattrocento ed i segni delle immagini, Venezia 1991, pp. 99-127.

203. Sul Navagero v. Claudio Griggio, Il frammento della "Storia Veneta" di Andrea Navagero. Appunti di storiografia veneziana nell'età del Rinascimento, in AA.VV., Tra storia e simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi, Firenze 1994, pp. 81-98.

204. Henry D. Saffrey, ϒmago de facili multiplicabilis in cartis. Un document méconnu, daté de l'année 1412, sur l'origine de la Bravure sur bois à Venise, "Nouvelle de l'Estampe", 1984, nr. 74, pp. 4-7.

205. Giordana Mariani Canova, Di alcuni corali superstiti a S. Giustina in Padova. Cristoforo Cortese e altri miniatori del Quattrocento, "Arte Veneta", 24, 1970, pp. 37-39 (pp. 35-46); Flora Bellini, scheda nr. 3 del catalogo Xilografie italiane del Quattrocento da Ravenna e da altri luoghi, Ravenna 1988, p. 42.

206. Bartolomeo Cecchetti, La stampa tabellare in Venezia nel 1447 e l'esenzione del dazio di libri nel 1433, "Archivio Veneto", 29, 1885, pp. 87-91.

207. G. Mariani Canova, Di alcuni corali, p. 43; Gianvittorio Dillon, Sul libro illustrato del Quattrocento: Venezia e Verona, in AA.VV., La stampa degli incunaboli nel Veneto, Venezia 1983, p. 82 (pp. 81-96).

208. B. Cecchetti, La stampa tabellare, p. 90; Lucia Nadin Bassani, Le carte da gioco a Venezia, Venezia 1989, pp. 12-14.

209. L. Nadin Bassani, Le carte da gioco, p. 13.

210. Victor Scholderer, Printing at Venice to the End of 1481, in Id., Fifty Essays in Fifteenth and Sixteenth Century Bibliography, a cura di Dennis E. Rhodes, Amsterdam 1966, p. 74 (pp. 74-89).

211. Gustav Ludwig, Contratti fra lo stampador Zuan da Colonia ed i suoi soci e inventario di una parte del loro magazzino, "Miscellanea di Storia Veneta. R. Deputazione di Storia Patria", ser. II, 8, 1902, p. 53 (pp. 45-88); Giulio Coggiola, Il Breviario Grimani della Biblioteca Marciana di Venezia, Leiden 1910, p. 60, dimostra che Antonio da Messina e il pittore Antonello non sono la stessa persona.

212. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 56-57.

213. Emilio Motta, Pamfilo Castaldi, Antonio Planella, Pietro Ugleimer ed il vescovo d'Aleria, "Rivista Storica Italiana", 1, 1884, pp. 266-267 (pp. 252-272); Paolo Veneziani, Castaldi, Panfilo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXI, Roma 1978, pp. 558-561.

214. E. Motta, Pamfilo Castaldi, pp. 254-255.

215. A.S.V., Notatorio del Collegio, reg. 19, c. 55v, pubblicato per la prima volta in un foglio volante da Jacopo Morelli, Monumenti del principio della stampa in Venezia, Venezia 1794; ripubblicato da Carlo Castellani, La stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio seniore, Venezia 1888, pp. 68-69.

216. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, pp. 158-159.

217. M.D. Feld, Sweynheym and Pannartz, pp. 282-335.

218. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 50-54.

219. E. Barbieri, Le Bibbie italiane, pp. 1, 187; Martin Lowry, "Nel Beretin Convento": the Franciscans and the Venetian Press (1474-78), "La Bibliofilia", 85, 1983, pp. 32-34 (pp. 27-40).

220. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 61-70. Sull'accusa di spionaggio al cardinale Zeno e ai suoi famigliari, v. Giovanni Soranzo, Giovanni Battista Zeno, nipote di Paolo II, cardinale di S. Maria in Portico (1468-1501), "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 16, 1962, pp. 249-274. Su Valdarfer, v. Martin Lowry, Cristoforo Valdarfer tra politici veneziani e cortigiani estensi, in Il libro a corte, a cura di Amedeo Quondam, Roma 1994, pp. 273-284.

221. Brian Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice, Oxford 1971 (trad. it. La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, Roma 1982), pp. 454-455; M. Lowry, Humanism and Anti-Semitism in Renaissance Venice, pp. 39-54.

222. Lilian Armstrong, The Agostini Plutarch: an Illuminated Venetian Incunable, in AA.VV., Treasures of the Library of Trinity College, Dublin, Dublin 1986, pp. 86-96.

223. Edler De Roover, Per la storia dell'arte della stampa in Italia. Come furono stampati a Venezia tre dei primi libri in volgare, "La Bibliofilia", 60, 1953, p. 110 (pp. 107-117). Del Plinio furono tratte 1.023 copie, una delle quali, miniata, è alla Bodleiana: Kristian Jensen, The Bodleian Library and Its Incunabula, in AA.VV., Incunabula in the Bodleian Library, Berlin-Köln 1993, pp. 19-20 (pp. 9-29). Il Landino fu compensato dagli Strozzi, per la sua traduzione, con 50 fiorini.

224. Per limitarci alla British Library, opere edite da Vindelino recano armi Pasqualigo, Badoer, Lion; da Jenson, Priuli e Malipiero; da Clemente Patavino, Calbo; da Jacobus Rubeus Vercellensis, Pisani; da Antonino, Minotto; da Antonio della Paglia, Zancariol; da Hamman, Vitturi (Catalogue of Books Printed in the XVth Century Now in the British Museum, pt. V, Venice, London 1924, pp. 161, 163, 164, 167, 179, 186, 213, 229, 297, 356).

225. Jonathan J.G. Alexander, Venetian Illumination in the Fifteenth Century, "Arte Veneta", 24, 1970, p. 275 (pp. 272-275).

226. Sulla edizione del Mesue e sulla parte avuta nelle prime stampe mediche da Niccolò Gupalatino, v. Mary A. Rouse - Richard H. Rouse, Nicolaus Gupalatinus and the Arrival of Print in Italy, "La Bibliofilia", 88, 1986, pp. 221-251.

227. B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana nel Quattrocento, p. 140.

228. M. Lowry, Nicholas Jenson, p. 58.

229. V. Scholderer, Printing at Venice, p. 88; Leonardas Gerulaitis, Printing and Publishing in Fifteenth Century Venice, Chicago-London 1976, p. 70.

230. Maury D. Feld, A Theory on the Italian Printing Firm. Part II: the Political Economy and Patronage, "Harvard Library Bulletin", 34, 1966, pp. 294-332.

231. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 106-110.

232. Anna Modigliani, Tipografia a Roma prima della stampa. Due società per fare libri con le forme, Roma 1989.

233. Konrad Haebler, Das Testament der Johann Manthen von Gerresheim, "La Bibliofilia", 26, 1924, pp. 1-19.

234. Su Le Rouge, Tullia Gasparini Leporace, Nuovi documenti sulla tipografia veneziana del Quattrocento, in AA.VV., Studi bibliografici. Atti del Convegno dedicato alla storia del libro italiano nel Vº centenario dell'introduzione dell'arte della tipografia in Italia, Firenze 1967, pp. 25-46; Agostino Contò, Sulla tipografia veneziana del XV secolo (due nuovi documenti relativi all'attività veneziana di Jacques Le Rouge), "Copyright", 1984-1985, pp. 75-80; M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 124-130. Su Rauchfass e Ugleheimer, ibid., pp. 113-114. Su Maufer, Agostino Contò, La società Maufer-Confalonieri e la stampa quattrocentesca di Virgilio, "Verona Illustrata. Rivista del Museo di Castelvecchio", 3, 1990, pp. 23-33.

235. V. Scholderer, Printing at Venice, p. 82.

236. Luigi Balsamo, Tecnologia e capitali nella storia del libro, in AA.VV., Studi offerti a Roberto Ridolfi, direttore de "La Bibliofilia", Firenze 1973, p. 93 (pp. 77-94); A. Petrucci, Pouvoir de l'écriture, p. 831.

237. G. Ludwig, Contratti, pp. 20-23; M. Lowry, Nicholas Jenson, p. 165.

238. V. Scholderer, Printing at Venice, p. 86.

239. Andrea F. Gasparinetti, Un documento inedito della società "Giovanni da Colonia. Niccolò Jenson e Compagni", in AA.VV., Studi e ricerche sulla storia della stampa nel Quattrocento, Milano 1942, pp. 185-190.

240. Emilio Motta, Di Filippo di Lavagna e di alcuni altri tipografi editori milanesi del Quattrocento, "Archivio Storico Lombardo", ser. III, 9, 1888, nr. 25, pp. 42-43, 65 (pp. 28-72).

241. I calcoli sono di Martin Lowry, Venetian Capital, German Technology and Renaissance Culture in the Later Fifteenth Century, "Renaissance Studies", 2, 1988, p. 5.

242. Id., "Nel Beretin Convento", pp. 27-40.

243. Id., Nicholas Jenson, pp. 97, 114.

244. Sul Ratdolt, Maury D. Feld, Constructed Letters and Illuminated Texts: Regiomontano, Leon Battista Alberti, and the Origin of Roman Type, "Harvard Library Bulletin", 28, 198o, pp. 337-379; Dennis E. Rhodes, Il lunario del 1481 dell'Archivio Capitolare di Brescia: particolari bibliografici e biografici, "Commentari dell'Ateneo di Brescia", 183, 1984, pp. 77-82; Armando Petrucci, Il libro illustrato italiano del Quattrocento, in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, a cura di Id., Bari 1979, pp. 83-84 (pp. 79-97).

245. Susy Marcon, Esempi di xilominiatura nella Biblioteca di S. Marco, "Ateneo Veneto", 173, 1986, pp. 173-193.

246. Ivo Mattozzi, Il polo cartario dello stato veneziano. Lavoro e produzione nella Valle del Toscolano dal XIV al XVII secolo, in corso di stampa. Le cartiere che riuscirono a produrre la carta migliore e a soddisfare la crescente domanda degli stampatori veneziani furono quelle di S. Martino Bonalbergo nel Veronese e quella della valle del Toscolano. Qui si formò un addensamento di fabbriche senza eguale in Italia, la cui prosperità durò sino alla fine del Settecento (ibid.).

247. Victor Scholderer, Printers and Readers in Italy in the Fifteenth Century, in Id., Fifty Essays in Fifteenth and Sixteenth-Century Bibliography, a cura di Dennis E. Rhodes, Milano 1966, p. 205 (pp. 202-214); Gedeon Borsa, Clavis typographorum librariorumque Italiae, 1463-1600, II, Aureliae Aquensis 1980, pp. 386-405. La stima formulata anni or sono da K. Dachs e W. Schmidt per la produzione di incunaboli nel Quattrocento europeo (27-30.000 titoli) è giudicata attendibile da N. Harris, Marin Sanudo, Forerunner of Melzi, p. 32. Ennio Sandal, Dal libro antico al libro moderno. Premesse e materiali per una indagine, in AA.VV., I primordi della stampa a Brescia, 1472-1511, Padova 1986, p. 252 (pp. 227-307), valuta la produzione veneziana in 5.000 edizioni, pari al 42% del totale italiano, contro il 16% di Roma e il 10% di Milano. L'Italia, secondo il Sandal, concorrerebbe alla complessiva produzione europea per il 45% circa.

248. M. Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio, p. 335; Rudolph Hirsch, Printing, Selling and Reading, 1450-1550, Wiesbaden 1967, p. 67.

249. A.S.V., Cancelleria Inferiore, Miscellanea Notai Diversi, Testamenti, b. 28, testamento 12 agosto 1491. Sul Capcasa v. la voce Capcasa, Matteo, di Alfredo Cioni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 401-403.

250. Carla Bozzolo - Dominique Coq - Ezio Ornato, La production du livre en quelques pays d'Europe Occidentale aux XIVe et XVe siècle, "Scrittura e Civiltà", 8, 1984, p. 156 (pp. 129-160).

251. Rinaldo Fulin, Documenti per servire alla storia della tipografia veneziana, "Archivio Veneto", 23, 1882, pp. 101-103 (pp. 84-212); Ruth Chavasse, The First Known Author's Copyright, September 1486, in the Context of a Humanist Career, "Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester", 69, 1985, pp. 11-37.

252. Hartmann Schedel, Briefwechsel (1452-1478), a cura di Paul Joachimson, Tübingen 1893, p. 186 (lettera 85); R. Hirsch, Printing, Selling and Reading, p. 74.

253. R. Fulin, Documenti per servire, pp. 104-105.

254. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 178-202. Per utili osservazioni sul prezzo dei libri a stampa a Venezia e nel Veneto v. Angelo Colla, Tipografi, editori e libri a Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Trento, in AA.VV., La stampa degli incunaboli nel Veneto, Venezia 1983, pp. 2-47.

255. Emblematico il caso di Gerardo da Lisa, che fu maestro di scuola, scriba, cantore e tipografo: v. Agostino Contò, Notes on the History of Printing in Treviso in the 15th Century, in The Italian Book 1465-1800. Studies Presented to Dennis E. Rhodes on His 70th Birthday, London 1993, pp. 21-29. Molti tipografi erano maestri di scuola: v. Tiziana Plebani, Omaggio ad Aldo grammatico: origine e tradizione degli insegnanti-stampatori, in Aldo Manuzio e l'ambiente veneziano. 1494-1515, a cura di Susy Marcon - Marino Zorzi, Venezia 1994, pp. 73-102. Raro il caso di stampatori patrizi: nel 1516 Antonio Cappello, banchiere e futuro procuratore di San Marco, gestisce anche una stamperia assieme al fratello Silvano (Ugo Tucci, Cappello, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 743-748).

256. R. Fulin, Documenti per servire, pp. 100-101; Carlo Volpati, Gli Scotti di Monza tipografi-editori in Venezia, "Archivio Storico Lombardo", 58, 1931, pp. 365-382.

257. David Rogers, Johann Hamman at Venice: a Survey of His Career. With a Note on the Sarum "Horae" of 1494, in AA.VV., Essays in Honour of Victor Scholderer, Mainz 1970, pp. 349-368.

258. V. Scholderer, Printing at Venice, p. 86.

259. C. Volpati, Gli Scotti, p. 367.

260. John Monfasani, The First Cali for Press Censorship: Niccolò Perotti, Giovanni Andrea Bussi, Antonio Moreto, and the Editing of Pliny's "Natural History", "Renaissance Quarterly", 41, 1988, pp. 1-31; Martin Lowry, La produzione del libro, in Produzione e commercio della carta e del libro. Secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1992, pp. 384-385 (pp. 365-387).

261. B. Roeck, Arte per l'anima, p. 25.

262. D. Rogers, Johann Hamman, p. 349.

263. Secondo la felice espressione di Vittore Branca, L'umanesimo veneziano e l'arte del libro, "Revue des Études Italiennes", 27, 1981, p. 327 (pp. 325-333).

264. E. Barbieri, Le Bibbie, pp. 155-184.

265. Sulle tipografie greche a Venezia prima di Aldo, Nicolas Barker, Aldus Manutius and the Development of Greek Script and Type in the Fifteenth Century, Sandy Hook, Conn. 1985; Constantinos Staikos, Χάϱτα τῆϚ ᾿ΕλληνιϰῆϚ τυπογϱαφίαϚ, I, Atene 1989, pp. 198-202, 375-430; Despina Vlassi Sponza, I greci e Venezia: una presenza costante nell'editoria (secc. XV-XX), in AA.VV., Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, catalogo della mostra (Venezia, Biblioteca Marciana), Venezia 1989, pp. 71-99; Marco Fantuzzi, La coscienza del medium tipografico negli editori greci di classici dagli esordi della stampa alla morte di Kallierges, in Dotti bizantini e libri greci nell'Italia del secolo XV. Atti del Convegno internazionale, Trento 22-23 ottobre 1990, a cura di Mariarosa Cortesi-Enrico V. Maltese, Napoli 1992, pp. 37-60; Manoussos Manoussacas-Constantinos Staikos, "Venetiae quasi alterum Byzantium". Le edizioni di testi greci da Aldo Manuzio e le prime tipografie greche di Venezia, catalogo, Atene 1993; Evro Layton, The Sixteenth Century Greek Book in Italy. Printers and Publishers for the Greek World, Venice 1994, pp. 3-55.

266. Simonetta Pelusi, La stampa in caratteri glagolitici e cirillici, in AA.VV., Armeni, ebrei, greci stampatori e Venezia, catalogo della mostra (Venezia, Biblioteca Marciana), Venezia 1989, pp. 101-113; Giorgio Montecchi, Dalla pagina manoscritta alla pagina stampata nei breviari in caratteri glagolitici, in Il libro nel bacino adriatico (secc. XV-XVIII), a cura di Sante Graciotti, Firenze 1992, pp. 3-30.

267. Paola Rigo, Donà, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, p. 747 (pp. 741-753).

268. A. Petrucci, Il libro illustrato, pp. 82-84; Sergio Samek Lodovici, Arte del libro. Tre secoli di storia del libro illustrato dal Quattrocento al Seicento, Milano 1974, pp. 88-90.

269. Lilian Armstrong, The Impact of Printing on Miniaturists in Venice after 1469, in Printing the Written World. The Social History of Books, circa 1450-1520, a cura di Sandra Hindmann, Ithaca-London, 1991, pp. 174-202; Ead., The Hand-Illumination of Printed Books in Italy 1465-1515, in The Painted Page, a cura di Jonathan J.G. Alexander, London 1994, pp. 35-47. L'umanista pistoiese Girolamo Rossi, amico di Marsilio Ficino e di Ermolao Barbaro, si fece a Venezia, ove soggiornò tra il 1480 e il 1495, una biblioteca di incunaboli miniati: Angela Dillon Bussi, I libri decorati di Girolamo Rossi. Illustrazione libraria a Venezia nella seconda metà del Quattrocento, "Verona Illustrata. Rivista del Museo di Castelvecchio", 2, 1989, pp. 29-51.

270. Victor Massena Prince d'Essling, Les livres à figures vénitiens de la fin du XVe siècle et du commencément du XVIe, I-IV, Paris-Florence 1907-1914; S. Samek Lodovici, Arte del libro, pp. 92-93.

271. Feliciano Benvenuti, Tiziano nella lente delle stampe. Stampe di e da Tiziano, "Eidos", 10, 1992, p. 5 (pp. 4-15); Carlo Ginzburg, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica nel '500, in AA.VV., Tiziano e Venezia. Convegno internazionale di studi (Venezia 1976), Vicenza 1980, pp. 125-135.

272. Bodo Guthmüller, Ovidio Metamorphoseos vulgare, Boppard am Rheim 1981, pp. 173-236 (su cui v. la recensione di Paola Rigo, "Lettere Italiane", 34, 1982, pp. 291-298); Id., Nota su Giovanni Antonio Rusconi illustratore delle "Trasformazioni" del Dolce, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, 3/II, Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze 1983, pp. 771-779; Id., Studien zur antiken Mythologie in der italienischen Renaissance, Weinheim 1986, pp. 101-141.

273. Vittore Branca, Boccaccio visualizzato: amore sublimante, amore tragico, amore festoso dalla novella alla figuratività narrativa, in AA.VV., La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola, 19-24 settembre 1988, Roma 1989, pp. 283-302. Sulle ascendenze romane della ninfa contemplata dal satiro nel Polifilo, Lamberto Donati, Polifilo a Roma: le rovine romane, "La Bibliofilia", 77, 1975, p. 48 (pp. 37-64). Sul tema della bella dormiente, Vittore Branca, Interespressività narrativa figurativa: Efigenia, Venere e il tema della "nuda", fra Boccaccio e Botticelli e la pittura veneziana del Rinascimento, in AA.VV., "Il se rendit en Italie". Études offerts à André Chastel, Paris 1987, pp. 57-68.

274. AA.VV., L'Istoriato. Libri a stampa e maioliche italiane del Cinquecento. Salone Sistino, 12 giugno - 26 settembre '93, Faenza 1993.

275. A. Colla, Tipografi, editori e libri, pp. 37-54; Lorenzo Baldacchini, La parola e la cassa. Per una storia del compositore nella tipografia italiana, "Quaderni Storici", 24, 1989, nr. 72, pp. 679-698. Per gli stipendi dei professori v. James Bruce Ross, Venetian Schools and Teachers Fourteenth to Early Sixteenth Century: a Survey and a Study of Giovanni Battista Egnazio, "Renaissance Quarterly", 29, 1976, pp. 521-566.

276. Marc'Antonio Coccio Sabellico, Opera, III, Basilea 1570, p. 321.

277. Armando Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino 1987, pp. 31-32, 62-63.

278. Per gli Estensi v. Luigi Balsamo, L'industria tipografico-editoriale nel ducato estense all'epoca dell'Ariosto, in AA.VV., Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari 1977, pp. 280, 284 (pp. 277-298); Ernesto Milano, Biblioteca Estense, Modena, Firenze 1987, p. 22. Per Federico da Montefeltro, v. Luigi Michelini Tocci, Agapito, bibliotecario "docto, acorto et diligente" della Biblioteca Urbinate alla fine del Quattrocento, in AA.VV., Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. Card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, Città del Vaticano 1962, p. 259 (pp. 245-280). Nella biblioteca di apparato i libri erano tutti "belli in superlativo grado" e scritti "a penna"; ma "in alia bibliotheca" vi era una trentina di libri a stampa, "per la maggior parte opere edite prima della morte di Federico"; cf. Elisabeth L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, Bologna 1986, p. 70.

279. M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 192-195.

280. Dulia Haig Gasser, Catullus and His Renaissance Readers, Oxford 1993, pp. 25-28.

281. J. Monfasani, The First Call for Press-Censorship, pp. 1-31. È in fondo lo stesso bisogno di un'autorità filologica che spingeva i primi umanisti a desiderare il formarsi di depositi ufficiali di libri, le biblioteche pubbliche: V. Fera, Problemi e percorsi, p. 521.

282. Giovanni Pozzi, Hermolai Barbari Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, I-IV, Padova 1973-1979: I, Introduzione, p. XIX; V. Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento, p. 151.

283. Paul Lawrence Rose, Humanist Culture and Renaissance Mathematics: the Italian Libraries of the Quattrocento, "Studies in the Renaissance", 20, 1973, pp. 99-101.

284. V. Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento, pp. 155-169. Su Marco Dandolo e sul figlio Matteo v. le voci di Giuseppe Gullino in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 487-495. La ricca biblioteca greca di Marco e Matteo Dandolo è oggi all'Escorial. Sul Dandolo in Francia, Margaret L. King, Umanesimo cristiano nella Venezia del Quattrocento, in La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vian, Venezia 1989, p. 43 (pp. 15-54). Sul Donà, P. Rigo, Donà, Girolamo, pp. 741-753.

285. Luciano Gargan, Un umanista ritrovato: Galeazzo Facino e la sua biblioteca, "Italia Medioevale e Umanistica", 26, 1983, pp. 257-305; P.L. Rose, Humanist Culture, pp. 94-99. Fu grazie a Giorgio Valla e alla sua biblioteca che Nicolò Copernico poté accostarsi alle opere scientifiche della grecità antica: Guido Avezzù, Le fonti greche di Copernico,

Dispense per la Giornata Copernicana, Università di Padova, 10 dicembre 1993 (in corso di stampa). Per l'importanza dell'opera enciclopedica del Valla e la sua scarsa fortuna v. Alfredo Serrai, Storia della bibliografia, I, Bibliografia e cabala. Le Enciclopedie rinascimentali (I), Roma 1988, pp. 272-275.

286. Per la biblioteca del Bembo, v. N. Giannetto, Bernardo Bembo umanista e politico veneziano, pp. 259-358. Per quella del Morosini, M.L. King, Umanesimo e patriziato, p. 606; Luigi Piacente, Sette lettere inedite di Battista Guarini, "Invigilata Lucernis. Rivista dell'Istituto di Latino, Università di Bari", 10, 1988, p. 235 (pp. 233-251) M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 39, 42, 80; Lilian Armstrong, scheda nr. 72 in The Painted Page, a cura di Jonathan J.G. Alexander, London 1994, p. 155. Su Daniele Renier, M.L. King, Umanesimo e patriziato, pp. 626-628. Sulla biblioteca di Marin Sanudo v. ora Agostino Contò, Ancora sui libri di Marin Sanudo, "La Bibliofilia", 96, 1994, pp. 195-199. Bernardo Bembo possedeva anche un altro prezioso Terenzio, del secolo X; e molti altri codici importanti di Terenzio appartenevano a varie casate patrizie: v. Claudia Villa, La "Lectura Terentii", I, Padova 1984, pp. 274-277.

287. Marsilio Ficino, Epistolae, [Norimberga>, per Antonium Koberger, 1497 (IGI 3864), c. 195.

288. Eugenia Govi, Patavinae Cathedralis Ecclesiae Capitularis Bibliotheca. Librorum XV Saec. Impressorum Index, Patavii 1958, pp. 143-169; Raffaella Zaccaria, Dolfin, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 565-571. Sui conventi e il teatro, v. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia "regolare", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 387, 410 (pp. 377-465).

289. A. Pertusi, L'umanesimo greco, p. 251.

290. Susy Marcon, I libri del generale domenicano Gioachino Torriano, pp. 81-116; cf. supra n. 121.

291. V. Branca, Poliziano e l'umanesimo della parola, pp. 140-152.

292. Si tratta di libri già visti dal Lascaris: Karl Konrad Müller, Neue Mitteilungen über Janos Laskaris und die Mediceische Bibliothek, I, 1884, p. 385 (pp. 333-412). Il Torriano possedeva anche "Angeli Politiani missellanea non ligato" (S. Marcon, I libri del generale domenicano, p. 94 n. 63), indizio forse di un rapporto fra i due dotti.

293. Per quanto riguarda Aldo Manuzio ci siamo basati soprattutto su: M. Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio; Carlo Dionisotti, Introduzione a Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi. Testo latino con traduzione e note di Giovanni Orlandi, Milano 1975; Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore Branca, III, Torino 1986, pp. 42-44; Luigi Balsamo, Alberto Pio e Aldo Manuzio: editoria a Venezia e Carpi fra '400 e '500, in AA.VV., Società politica e cultura a Carpi ai tempi di Alberto III Pio. Atti del Convegno Internazionale (Carpi, 19-21 maggio 1978), I, Padova 1981, pp. 133-166. Di grande importanza lo studio di Ester Pastorello, Di Aldo Pio Manuzio: testimonianze e documenti, "La Bibliofilia", 67, 1965, pp. 163-220, e della stessa, Epistolario Manuziano. Inventario cronologico analitico, Firenze 1957. Per la produzione greca in particolare, Nigel Wilson, From Byzantium to Italy. Greek Studies in the Italian Renaissance, London 1992, pp. 127-162. Per i caratteri greci di Aldo, N. Barker, Greek Script and Type, pp. 43-63; A. Pontani, Le maiuscole greche antiquarie, pp. 174-175. Per l'armonia della pagina di Aldo v. Giorgio Montecchi, Perfezione tecnica ed equilibrio grafico nell'imposizione e nell'impaginazione dei libri in ottavo di Aldo Manuzio, in Id., Il libro nel Rinascimento, Milano 1994, pp. 215-236. Ad Aldo sono state dedicate tre mostre nel 1994: a Firenze (Biblioteca Laurenziana), Aldo Manuzio tipografo (1494-1515), a Poppi, Aldo Manuzio, i suoi libri, i suoi amici, tra XV e XVI secolo, a cura di Piero Scapecchi, e a Venezia (Biblioteca Marciana), Aldo Manuzio e l'ambiente veneziano, con relativi cataloghi. Negli Stati Uniti si è avuta la mostra Learning from the Greeks, alla Beinecke Library, New Haven, e nel 1995 la mostra In Praise of Aldus Manutius. A Quincentenary Exhibition, alla Pierpont Morgan Library, New York. Una aggiornata sintesi in Martin Davies, Aldus Manutius, Printer and Publisher of Renaissance Venice, London 1995.

294. L. Balsamo, Alberto Pio e Aldo Manuzio, pp. 137-139. Un'inedita opera giovanile di Aldo di argomento grammaticale è descritta da Piero Scapecchi, Un'opera manoscritta di Aldo Manuzio nella biblioteca della Fondazione Querini Stampalia, "Ateneo Veneto", n. ser., 31, 1993, pp. 111-113.

295. Sul Torresani, v. E. Motta, Pamfilo Castaldi, p. 262; E. Pastorello, Di Aldo Pio Manuzio, pp. 189-192; M. Lowry, Nicholas Jenson, p. 207; Id., Il mondo di Aldo Manuzio, passim. In particolare sull'edizione di s. Caterina, Marie Hyacinthe Laurent, Alde Manuzio l'ancien, éditeur de S. Cathérine de Sienne (1500), "Traditio", 6, 1948, pp. 357-363; Paolo Trovato, Per un censimento dei manoscritti di tipografia in volgare (1470-1600), in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di Mario Santagata - Amedeo Quondam, Ferrara 1989, pp. 43-82.

296. Martin Lowry, Two Great Venetian Libraries in the Age of Aldus Manutius, "Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester", 58, 1976, pp. 378-420; N. Wilson, From Byzantium to Italy, pp. 127-162. Per le ricerche di codici v. Carlo Vecce, Aldo Manuce et les découvertes de manuscrits: une hypothèse sur le développement de l'édition aldine, in AA.VV., Les humanistes et l'antiquité grecque, Paris 1989, pp. 147-156. Le ricerche di fra Giocondo procurarono ad Aldo i codici su cui si basarono le edizioni aldine di Plinio il giovane (1508), Sallustio (1509) e, probabilmente, Nonio Marcello (1513) e Cesare (1513) v. Carlo Vecce, Iacopo Sannazzaro in Francia. Scoperte di codici all'inizio del XVI secolo, Padova 1988, pp. 8-13.

297. Alle due ipotesi sinora dominanti, quella di Maria Teresa Casella e Giovanni Pozzi (l'autore sarebbe il domenicano Francesco Colonna di S. Zanipolo) e quella di Maurizio Calvesi (si tratterebbe dell'omonimo principe di Palestrina), si aggiunge ora quella di Piero Scapecchi, L'"Hypnerotomachia Poliphili" e il suo autore, "Accademie e Biblioteche d'Italia", 51, 1983, pp. 286-298, e Giunte e considerazioni per la bibliografia sul Polifilo, ibid., 53, 1985, pp. 68-73, che propone la figura del frate servita Eliseo. Per le xilografie si è parlato di un artista della cerchia di Benedetto Bordon; Alessandro Parronchi propone il nome di Pietro Paolo Agabiti. La questione è riassunta da Emilio Lippi, nella recensione all'opera dello Scapecchi, "Studi Trevisani", 4, 1985, pp. 159-162. Alessandro Parronchi, Il vero autore del "Polifilo", "Rara Volumina", 1, 1994, pp. 7-12, porta nuovi argomenti a favore della tesi "servita".

298. Armando Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, a cura di Id., Bari 1979, pp. 137-156; Susy Marcon, Umanesimo veneto e calligrafia monumentale: codici nella Biblioteca di S. Marco, "Lettere italiane", 39, 1987, pp. 252-281. Albinia de la Mare sta ultimando il completo censimento dei codici del Sanvito.

299. Pier Silverio Leicht, I prezzi delle edizioni aldine al principio del '500, "Il libro e la stampa", 6, 1912, fasc. III, p. 83 (pp. 77-84); Martin Lowry, Magni nominis umbra? L'editoria classica da Aldo Manuzio vecchio ad Aldo giovane, in La stampa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno. Roma, 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma 1992, pp. 237-253.

300. Gino Belloni, Il commento petrarchesco di Antonio da Canal e annesse questioncelle tipografiche e filologiche sull'aldina del 1501, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca, Firenze 1983, pp. 459-478, ora in Id., Laura tra Petrarca e Bembo, Padova 1992, pp. 96-119. Sull'influenza delle scelte di Aldo in materia di punteggiatura, v. Malcom B. Parkes, Pause and Effect. Punctuation in the West, Aldershot 1992, p. 51. Il messaggio di Aldo è detto "squillante" da C. Dionisotti, Aldo Manuzio, p. 43.

301. V. Branca, L'umanesimo veneziano e l'arte del libro, pp. 331-332.

302. Deno J. Geanakoplos, Greek Scholars in Venice, Cambridge, Mass., 1962, pp. 167-301; Martin Lowry, The "New Academy" of Aldus Manutius: a Renaissance Dream, "Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester", 58, 1976, pp. 378-420; N. Wilson, From Byzantium to Italy, pp. 127-133.

303. Deno J. Geanakoplos, Erasmus and the Aldine Academy of Venice, "Greek, Roman and Byzantine Studies", 3, 1960, pp. 107-134; Manlio Dazzi, Aldo Manuzio e il dialogo veneziano di Erasmo, Vicenza 1969, pp. 131-145. Attraverso Aldo, Erasmo entrò in contatto con Paolo Canal, il Musuro e l'Egnazio, partecipi degli appassionati interessi religiosi di Tommaso Giustinian e del gruppo di patrizi e di eruditi che si riuniva intorno a lui: v. Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della Cristianità, Firenze 1988, pp. 146-151. Su Erasmo a Venezia v. ora Erasmo, Venezia e la cultura padana nel 1500, a cura di Achille Olivieri, Rovigo 1995, in particolare i contributi di Jean Claude Margolin (pp. 11-28) e Gino Benzoni (pp. 29-47).

304. Aldo cercò di difendersi dai Lionesi anche pubblicando un foglio, in cui si denunziavano gli errori da costoro commessi, che rendevano riconoscibile il falso: il foglio, datato 16 marzo 1503, è riprodotto (nr. 2) nella raccolta di facsimili curata da Henri Omont, Catalogues des livres grecs et latins imprimés par Alde Manuce à Venise (1498-1503-1513) reproduits en phototypie, Paris 1892.

305. Paolo Camerini, In difesa di Lucantonio Giunta dall'accusa di contraffattore delle edizioni di Aldo Romano, "Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti in Padova", n. ser., 50, 1933-1934, pp. 165-194; Piero Scapecchi, Tra il giglio e l'ancora: Uomini, idee e libri nella bottega di Aldo, in corso di stampa negli Atti del Convegno Aldus Manutius and Renaissance Culture, Venezia - Firenze, 14-16 giugno 1994, promosso da Villa I Tatti - The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies.

306. Carlo Maccagni, Filologia e storiografia della scienza. Il ricupero delle fonti scientifiche classiche all'origine della scienza moderna, in AA.VV., Atti del Convegno sui problemi metodologici di storia della scienza, Torino, 29-31 marzo 1967, Firenze 1967, p. 108 (pp. 96-115).

307. Carlo Dionisotti, Filologia umanistica e testi giuridici fra Quattro e Cinquecento, in AA.VV., La critica del testo. Atti del secondo Congresso internazionale della Società Italiana del Diritto, Firenze 1971, pp. 194-195 (pp. 189-204); Angela Nuovo, Alessandro Paganino (1509-1538), Padova 1990, pp. 6-7.

308. Margaret B. Stillwell, The Awakening Interest in Science during the First Century of Printing. An Annotated Checklist of First Editions, New York 1970, pp. 300-302; C. Maccagni, La stampa, le scienze, le tecniche, p. 488.

309. Fernanda Ascarelli - Marco Menato, La tipografia del '500 in Italia, Firenze 1989, pp. 325-326. Per i dissensi tra gli eredi alla morte di Andrea Torresani, v. Corrado Marciani, Il testamento, e altre notizie, di Federico Torresani, "La Bibliofilia", 72, 1971, pp. 165-178. Sull'edizione di Galeno, Vivian Nutton, John Caius and the Manuscript of Galen, Cambridge 1987, pp. 38-49. Sulla ripresa dell'attività editoriale dopo il 1533, Martin Lowry, Aristotle's Poetic and the Rise of Vernacular Literary Theory, "Viator", 25, 1994, pp. 411-425. Per le biografie dei figli di Aldo (Antonio, Manuzio e Paolo) e di Andrea Torresani (Federico e Gianfrancesco), v. le voci, dovute a Martin Lowry, in AA.VV., Contemporaries of Erasmus, I-III, Toronto 1985-1987: II, pp. 380-381, e III, pp. 333-334 (su Andrea, ibid., pp. 332-333).

310. Paolo Camerini, Annali dei Giunti, I-II, Firenze 1962-1963; v. anche Paolo Veneziani, Lucantonio ritrovato, in AA.VV., Biblioteca Nazionale Centrale. Roma. I fondi, le procedure, le storie, Roma 1993, pp. 195-203.

311. L'Imitazione, tipico libro di diffusione popolare, era stato stampato a Venezia in latino nel 1483 e in volgare nel 1488: Paul F. Grendler, Form and Function in Italian Renaissance Books, "Renaissance Quarterly", 46, 1993, nr. 3, pp. 461-467 (pp. 451-485). Sulle Metamorfosi v. Antonio Niero, Decreti pretridentini di due patriarchi di Venezia su stampa di libri, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 14, 1960, pp. 450-452; B. Guthmüller, Ovidio Metamorphoseos vulgare, pp. 183-185. Forse il Polifilo di Aldo, ancorché vi abbondassero le nudità, non attirò l'attenzione del patriarca proprio per il suo carattere erudito e antiquario, che lo destinava a una limitata circolazione.

312. Per l'edizione di Avicenna, Giorgio Vercellin, Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento, Torino 1991, pp. 7-13. Per la polemica tra Erasmo e Alberto Pio, Myron P. Gilmore, Erasmus and Alberto Pio, Prince of Carpi, in Action and Conviction in Early Modern Europe. Essays in Memory of E.H. Harbison, a cura di Theodor R. Rabb - Jerrold E. Seigel, Princeton 1969, pp. 299-318.

313. L'ipotesi è di Carlo Dionisotti, Stampe Giuntine, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, p. 182 (pp. 177-192). Su Filippo Giunta, v. Claudia Di Filippo Bareggi, Giunta, Doni, Torrentino: tre tipografie fiorentine fra repubblica e principato, "Nuova Rivista Storica", 43, 1974, pp. 318-348.

314. Alberto Tenenti, Luc'Antonio Giunti il Giovane stampatore e mercante, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, Milano 1957, pp. 1023-1061.

315. Stefano Pillinini, Bernardino Stagnino. Un editore a Venezia tra Quattro e Cinquecento, Roma 1989.

316. Silvana Seidel Menchi, Le traduzioni di Lutero nella prima metà del Cinquecento, "Rinascimento", n. ser., 17, 1977, p. 32 (pp. 31-108). Il nome di Lutero, e i suoi scritti, compaiono talvolta, ma solo perché oggetto di confutazione.

317. Giuseppina Monaco, La stampa periodica nel Cinquecento, in La stampa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno. Roma, 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma 1992, pp. 641-651. Furfante, venditore di "historie", appare nell'atto I, scena IV, della commedia.

318. Dennis H. Rhodes, Annali tipografici di Lazzaro de' Soardi, Firenze 1978.

319. A. Nuovo, Alessandro Paganino, pp. 40-41.

320. Ibid., pp. 45-51, 61-62.

321. Ibid., pp. 15-21; M. Lowry, Nicholas Jenson, pp. 217-218.

322. Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in AA.VV., Letteratura italiana, II, Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 588-589 (pp. 555-686).

323. Neil Harris, L'avventura editoriale dell'"Orlando Innamorato", in AA.VV., I libri di "Orlando Innamorato", Modena 1987, pp. 69-72 (pp. 35-100).

324. Ibid., pp. 95-97; Alfredo Cioni, Bindoni, Agostino; Bindoni, Alessandro; Bindoni, Benedetto; Bindoni, Bernardino; Bindoni, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 496-503.

325. F. Ascarelli - M. Menato, La tipografia, pp. 338-339.

326. A. Quondam, La letteratura in tipografia, pp. 639-641; N. Harris, L'avventura editoriale, pp. 88-94.

327. Tiziana Pesenti, Le edizioni veneziane dell'umanista tedesco Friedrich Nausea (Per gli annali tipografici di Gregorio De Gregori), in AA.VV., Viridarium Floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, p. 303 (pp. 295-316); F. Ascarelli - M. Menato, La tipografia, p. 339. Per la stampa dell'Horologium breve v. Dennis E. Rhodes, Carolus Paganus, "De Passione Christi", et son imprimeur, "Bulletin du Bibliophile", 1, 1986, pp. 47-52; Angelo M. Piemontese, Venezia e la diffusione dell'alfabeto arabo nell'Italia del Cinquecento, "Quaderni di Studi Arabi", 5-6, 1987-1988, p. 644 (pp. 641-652).

328. Nereo Vianello, Per gli "annali" dei Sessa, tipografi ed editori in Venezia nei secoli XV-XVII, "Accademie e Biblioteche d'Italia", 38, 1970, pp. 262-285.

329. Enrica Pace, Aspetti tipografici-editoriali di un best-seller del secolo XVI: l'Orlando Furioso, "Schifanoia", 3, 1987, pp. 103-114.

330. Ibid., p. 109.

331. A. Quondam, La letteratura in tipografia, pp. 584-587.

332. Miriam Turrini, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Bologna 1991, p. 502.

333. Ugo Rozzo, Linee per una storia dell'editoria religiosa in Italia (1476-1600), Udine 1993, p. 23.

334. S. Seidel Menchi, Le traduzioni di Lutero, p. 40. La testimonianza è di Johann Mathesius. Il libretto viene ristampato nel 1556 da Agostino Bindoni e, attorno al 1530, da un editore anonimo (ibid.). Per l'importanza dello Zoppino come diffusore della nuova teologia v. Ugo Rozzo - Silvana Seidel Menchi, Livre et Réforme en Italie, in La Réforme et le livre, a cura di Jean-François Gilmont, Paris 1990, p. 336 (pp. 327-374).

335. Salvatore Caponetto, La riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Torino 1992, pp. 33-34.

336. Ibid., pp. 95-101.

337. S. Seidel Menchi, Le traduzioni di Lutero, pp. 31-108; U. Rozzo, Linee per una storia, p. 54.

338. Franco Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Venezia-Roma 1960, pp. 131-137.

339. U. Rozzo, Linee per una storia, p. 54; Paul F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian Printing Press, 1540-1605, Princeton 1977 (trad. it. L'Inquisizione romana e l'editoria a Venezia 1540-1605, Roma 1983), pp. 191-193.

340. Su Comin da Trino v. la voce del Dizionario Biografico degli Italiani, dovuta a Dennis E. Rhodes, XXVII, Roma 1982, pp. 576-578. Sul Tramezzino, Alberto Tinto, Annali tipografici del Tramezzino, Venezia-Roma 1968. Su Bartolomeo Zanetti, v. Giordano Castellani, Da Tolomeo Janiculo a Bartolomeo Zanetti via Giovangiorgio Trissino, "La Bibliofilia", 94, 1992, pp. 171-185.

341. Silvano Cavazza, Libri in volgare e propaganda eterodossa: Venezia 1543-1547, in AA.VV., Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Modena 1987, p. 11 (pp. 9-28).

342. Paul F. Grendler, Critics of the Italian World (1530-1560), Madison-London 1969; Giovanni Aquilecchia, Pietro Aretino e altri poligrafi a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Rinascimento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 61-98 (ora in Id., Nuove schede di italianistica, Roma 1994, pp. 77-138); Claudia Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma 1988; Gino Benzoni, Venezia ai tempi dei Caboto, in Venezia e i Caboto, a cura di Rosella Mamoli Zorzi - Ugo Tucci, Venezia 1992, pp. 11-24.

343. A. Quondam, La letteratura in tipografia, pp. 647-648.

344. Ibid., p. 648; Id., Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, "Giornale Storico della Letteratura Italiana" 97, 1980, pp. 75-116; Augusto Gentili, Il problema delle immagini nell'attività di Francesco Marcolini, ibid., pp. 117-125.

345. A. Quondam, La letteratura in tipografia, p. 645; Id., "Mercanzia d'onore", "Mercanzia d'utile". Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico nell'Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Bari 1977, pp. 51-104.

346. A. Quondam, La letteratura in tipografia, p. 641.

347. Sulla stampa ebraica a Venezia, David Amram, The Makers of Hebrew Books in Italy, London 1963, pp. 146-190, 252-276; Benjamin Ravid, The Prohibition Against Jewish Printing and Publishing in Venice and the Difficulties of Leone Modena, in Studies in Mediaeval Jewish History and Literature, a cura di Isadore Twersky, Cambridge, Mass. 1979, pp. 135-153; Riccardo Calimani, Gli editori di libri ebraici a Venezia, in AA.VV., Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, Venezia 1989, pp. 55-62; Nello Pavoncello, Le tipografie ebraiche minori a Venezia, Roma 1990. Importante il catalogo della mostra tenuta alla Pierpont Morgan Library di New York (15 febbraio-7 maggio 1989), Hebraica. Manuscripts and Early Printed Books from the Library of the Valmadonna Trust, a cura di Brad Sabin Hill, Oxford 1989.

348. A. Nuovo, Alessandro Paganino, pp. 107-131; Maurice Borrmans, Présentation de la première édition imprimée du Coran à Venise, "Quaderni di Studi Arabi", 9, 1991, pp. 93-126.

349. Sulla traduzione del Corano, v. Carlo De Frede, Cristianità e Islam nel Cinquecento. A proposito della prima traduzione italiana del Corano, "Atti dell'Accademia Pontaniana", n. ser., 15, 1966, pp. 155-165. Sulla probabile adesione dell'Arrivabene alla Riforma, in particolare all'evangelismo di Valdés, ibid., pp. 161-163; P.F. Grendler, The Roman Inquisition, pp. 105-111.

350. A. Nuovo, Alessandro Paganino, pp. 126-131. Su Postel v. Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di Marion L. Kuntz, Firenze 1988; Marion L. Kuntz, Marcantonio Giustiniani, Venetian Patrician and Printer of Hebrew Books, and His Gift to Guillaume Postel: Quid pro quo?, "Studi Veneziani", n. ser., 17, 1989, pp. 51-63. Su Teseo Ambrogio degli Albonesi, A. Nuovo, Alessandro Paganino, pp. 109-110. Specialista delle lingue orientali, l'Albonesi si interessava anche alle lingue slave: Emilio Teza legò alla Marciana un breviario glagolitico da lui annotato; v. Antonio Cronia - Luigi Cini, Rivalutazione di una scoperta di Emilio Teza: l'"editio princeps" dei breviari glagolitici, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti", 113, 1954-1955, pp. 72-117. Sul Brucioli stampatore in arabo v. Edoardo Barbieri, La tipografia araba a Venezia nel XVI secolo. Una testimonianza d'archivio dimenticata, "Quaderni di Studi Arabi", 9, 1991, pp. 127-131.

351. Baykar Sivazlijan, Venezia per l'Oriente: la nascita del libro armeno, in AA.VV., Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, Venezia 1989, pp. 23-38; AA.VV., Le livre arménien à travers les âges, Marseille 1985, pp. 74-76.

352. Tiziana Pesenti, Stampatori e letterati nell'industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, p. 105 (pp. 93-129); S. Pelusi, La stampa in caratteri glagolitici e cirillici, pp. 102-106.

353. D. Vlassi Sponza, I Greci a Venezia, pp. 80-81; C. Staikos, Χάϱτα, pp. 375-430; Ecaterine Koumarianou - Loukia Droulia - Evro Layton, Τό ῾Ελληνιϰό βιβλίο 1476-1830, Atene 1986, pp. 54-113; E. Layton, The Sixteenth Century Greek Book, pp. 131-222.

354. Enrica Follieri, Su alcuni libri greci stampati a Venezia nella prima metà del Cinquecento, in AA.VV., Contributi alla storia del libro italiano. Miscellanea in onore di Lamberto Donati, Firenze 1969, pp. 119-164.

355. Elisa Bonaldi, La famiglia Gardano e l'editoria musicale veneziana (1538-1611), "Studi Veneziani", n. ser., 20, 1990, pp. 272-302.

356. T. Pesenti, Stampatori e letterati, p. 94; U. Rozzo, Linee per una storia, p. 22.

357. U. Rozzo, Linee per una storia, p. 94; L. Balsamo, Tecnologia e capitali, pp. 85-86, 93-94.

358. Dennis E. Rhodes, Some Rare Florentine and Venetian Printers and Booksellers, 16th Century, "La Bibliofilia", 95, 1993, pp. 42-44.

359. La prima ipotesi è di P.F. Grendler, The Roman Inquisition, pp. 8-9; la seconda di Conor Fahy, The "Index Librorum Prohibitorum" and the Venetian Printing Industry in the Sixteenth Century, "Italian Studies", 35, 1980, p. 61 (pp. 52-61); la terza di Henri-Jean Martin, in AA.VV., Produzione e commercio della carta e del libro. Secc. XIII-XVIII. Atti della ventiduesima settimana di studio (Istituto di Storia Francesco Datini di Prato), Firenze 1992, p. 1004 (Tavola Rotonda, pp. 993-1008). Lorenzo Baldacchini, I centri di produzione del libro nell'Italia del Cinquecento, in Il linguaggio della biblioteca. Scritti in onore di Mauro Guerrini, Firenze 1994, p. 126 (pp. 121-133), giunge ad una cifra di 29.500 edizioni veneziane nel Cinquecento, partendo dai dati sinora raccolti dal censimento delle cinquecentine italiane attualmente in corso: cf. Marco Santoro, Storia del libro italiano, Milano 1994, pp. 106-110.

360. Roger Chartier, Le livre XIIIe-XVIIIe siècle: périodisation, production, letture, in Marco Santoro, Storia del libro italiano, Milano 1994, p. 980 (pp. 975-986); Albert Labarre, Survie et disparition des livres, "Revue de la Bibliothèque Nationale", 30, 1988, pp. 61-66; U. Rozzo, Linee per una storia, p. 13.

361. J.F. Gilmont, Les centres de la production imprimée, p. 348

362. Ruggiero Romano, L'Europa fra due crisi (XIV-XVII secolo), Torino 1980, p. 8; U. Rozzo, Linee per una storia, p. 22.

363. Richard Palmer, La botanica medica dell'Italia del Nord durante il Rinascimento, in AA.VV., Di sana pianta. Erbari e taccuini di sanità, Modena 1988, pp. 55-60.

364. Nel dialogo Opulentia sordida Erasmo parla di trentatré persone mantenute (malamente) da Antronio (Andrea Torresani). Se togliamo Andrea e la moglie, i due figli di Andrea, Aldo e la moglie, i cinque figli di Aldo, una domestica, cui accenna Erasmo, e i due ospiti (Verpio e Stratego), rimane una differenza di diciannove, che dovrebbe corrispondere al numero degli operai dipendenti dalla stamperia, che pranzavano e cenavano a parte, al pari delle donne di famiglia e dei bambini.

365. T. Pesenti, Stampatori e letterati, p. 97.

366. Corrado Marciani, Editori, tipografi, librai veneti nel Regno di Napoli nel Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 9, 1968, p. 469 (pp. 457-555).

367. Ivo Mattozzi, "Mondo del libro" e decadenza a Venezia (1570-1730), "Quaderni Storici", n. ser., 72, 1989, p. 747 (pp. 743-786).

368. Ibid.

369. Paolo Veneziani, Introduzione a AA.VV., Il libro italiano del Cinquecento: produzione e commercio, catalogo della mostra, Roma 1989, pp. 15-23; Giacomo Moro, Insegne librarie e marche tipografiche in un registro veneziano del '500, "La Bibliofilia", 91, 1989, pp. 51-80.

370. A. Tenenti, Luc'Antonio Giunti, p. 1024.

371. C. Marciani, Editori, tipografi, librai veneti, pp. 468-469. Sui Giolito, v. Giuseppe Dondi, Una famiglia di editori a mezzo il secolo XVI: i Giolito, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 102, 1967-1968, fasc. 2, pp. 604-606 (pp. 583-709).

372. A.S.V., b. Duca di Rivoli. Per l'affitto pagato dal Torresani v. C. Marciani, Il testamento di Federico Torresani, p. 169. Circa la busta Duca di Rivoli e la singolare origine di essa v. Mario Infelise, Note per una ricerca sull'editoria veneziana del '500, in La stampa italiana nel Cinquecento. Atti del Convegno. Roma 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma 1992, p. 635 (pp. 633-640).

373. D.E. Rhodes, Annali di Lazzaro de' Soardi, pp. 84-85.

374. C. Marciani, Editori, tipografi, librai veneti, p. 469.

375. Sul Benali v. la voce di Alfredo Cioni in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 165-167. Il testamento è pubblicato da Bartolomeo Cecchetti, Le pitture nelle stampe di B. Benalio, "Archivio Veneto", 37, 1987, pp. 538-539; cf. Francesco Novati, Donne tipografe nel Cinquecento, "Il libro e la stampa", 1, 1907, pp. 41-42 (pp. 41-49).

376. V., ad esempio, quella studiata da Silvia Curi Nicolardi, Una società tipografica editoriale a Venezia nel secolo XVI. Melchiorre Sessa e Pietro di Ravani (1516-1525), Firenze 1984.

377. F. Ascarelli - M. Menato, La tipografia del Cinquecento, p. 400.

378. I privilegi concessi prima del 1527 sono pubblicati da R. Fulin, Documenti per servire, pp. 84-212.

379. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 207.

380. Ibid., pp. 67-71, 207; Giuliano Pesenti, Libri censurati a Venezia nei secoli XVI-XVII, "La Bibliofilia", 58-59, 1956-1957, p. 15 (pp. 15-30). Le licenze di stampa successive al 1527 sono state trascritte da Horatio Brown e sono oggi conservate a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2500-2502 (= 12077-12079). Sull'interesse delle licenze di stampa per la storia dell'editoria v. M. Infelise, Note per una ricerca, pp. 636-637.

381. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 208; T. Pesenti, Stampatori e letterati, p. 99.

382. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 209.

383. R. Fulin, Documenti per servire, pp. 95-96; Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991, p. 30.

384. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 72.

385. A. Niero, Decreti pretridentini di due patriarchi di Venezia su stampa di libri, pp. 450-452.

386. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 73; M. Sanuto, I diarii, XXIX, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1890, coll. 492, 522, 615.

387. Sul cardinale v. G. Fragnito, Gasparo Contarini; Elisabeth G. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome and Reform, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1993.

388. Il provvedimento fu preso a seguito delle pressioni del nunzio Fabio Mignanelli. Questi si doleva perché si vendevano liberamente le Prediche dell'Ochino e il Pasquino in estasi del Curione, oltre a vari altri scritti "impii et vituperosi": v. S. Cavazza, Libri in volgare, pp. 10-11. Sulle repressioni nel periodo 1542-1570 v. Giovanni Sforza, Riflessi della controriforma a Venezia, "Archivio Storico Italiano", 93, 1935, nr. 1, pp. 5-34 (I-II), 189-216 (III-IV) e nr. 2, pp. 25-52 (V-VI), 173-186 (VII-VIII). Per il decreto del 1543, v. nr. 1, p. 17. Sull'inesorabile avanzata dell'Inquisizione anche a Venezia v. John Martin, Venice's Hidden Enemies. Italian Heretics in a Renaissance City, Berkeley - Los Angeles - London 1993, pp. 49-146.

389. G. Pesenti, Libri censurati, pp. 16-18.

390. H. Brown, The Venetian Printing Press, pp. 211-212.

391. Andrea Del Col, Il controllo della stampa a Venezia e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), "Critica Storica", 17, 1980, nr. 3, pp. 457-510.

392. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 212; A. Del Col, Il controllo della stampa, p. 458.

393. Seguiamo qui R. Romano, Tra due crisi, pp. 169-186. Più benevolo il ritratto dato da Antonio Santosuosso, The Moderate Inquisitor. Giovanni Della Casa's Venetian Nunciature. 1544-1549, "Studi Veneziani", n. ser., 2, 1978, pp. 119-210. Ma v. in G. Sforza, Riflessi della controriforma a Venezia, nr. 2, p. 39, l'atroce richiesta al Papa di poter "procedere ad ogni pena di sangue et mutilation di membri et di ultimo supplicio etiam di foco" verso gli infelici sospetti.

394. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 295.

395. Pubblicato in facsimile nell'opera Index de Venise, 1549, Venise et Milan, 1554, Sherbrooke-Genève 1987, III volume della serie Index des livres interdits, a cura di Jesús Martinez De Bujanda, pp. 383-393, e commentato ivi, pp. 149-209.

396. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 213.

397. Frederic C. Lane, Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 195.

398. Paul F. Grendler, Introduction historique a Index de Venise, pp. 48-49.

399. R. Calimani, Gli editori di libri ebraici, pp. 58-62. Il decreto del senato del 19 dicembre 1548 è pubblicato da B. Ravid, The Prohibition, p. 147.

400. L'indice del 1554 è pubblicato in facsimile nell'opera Index de Venise, pp. 395-438, e commentato e analizzato alle pp. 310-376.

401. Pubblicato da A. Del Col, Il controllo della stampa, pp. 490-498; cf. P.F. Grendler, Introduction historique, pp. 58-61.

402. Pubblicato da G. Sforza, Riflessi della Controriforma a Venezia, ser. 2, II, pp. 51-52, e ripubblicato da Michele Jacoviello, Proteste di editori e librai veneziani contro l'introduzione della censura sulla stampa a Venezia (1543-1555), "Archivio Storico Italiano", 151, 1993, pp. 54-55 (pp. 27-56).

403. P.F. Grendler, Introduction historique, pp. 54-65.

404. L'Indice del 1559 è in Heinrich Reusch, Die Indices Librorum Prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen 1886, pp. 177-242 e ora in Index de Rome, a cura di Jesús Martinez De Bujanda, VIII volume della serie Index des livres interdits, Genève 1990.

405. Era questo un fine lucidamente perseguito dalle menti organizzatrici della Controriforma: Antonio Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in AA.VV., Storia d'Italia, V/2, I documenti, Torino 1973, pp. 1399-1423 (pp. 1399-1492).

406. Si trattò di uno dei roghi "più nutriti" dell'epoca: Carlo De Frede, Roghi di libri ereticali nel Cinquecento, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, a cura di Luigi De Rosa, II, Napoli 1970, p. 325 (pp. 314-328); P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 120.

407. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 122.

408. Sul commercio clandestino dei libri, ibid., pp. 182-200. Circa le conseguenze della repressione per le biblioteche v. Ugo Rozzo, Biblioteche italiane del Cinquecento tra Riforma e Controriforma, Udine 1994.

409. A. Quondam, La letteratura in tipografia, p. 643; Ruggero Bonghi, Annali di Gabriele Giolito, II, Roma 1890, p. 276.

410. A. Tenenti, Luc'Antonio Giunti, pp. 1027-1059.

411. T. Pesenti, Stampatori e letterati, pp. 103-104; Lorenzo Baldacchini, Il mercato e la corte: Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano, in Il libro a corte, a cura di Amedeo Quondam, Roma 1994, pp. 285-294.

412. Leon Voet, The Golden Compasses, I, Amsterdam-London-New York 1969, p. 45. Cornelis van Bomberghen aveva acquistato i celebri caratteri dal cugino Karel, figlio di Daniele, e nel 1536 li aveva conferiti alla Compagnie Plantin di cui egli era socio. Nel 1567 Plantin divenne unico proprietario dell'azienda.

413. Ibid., p. 68.

414. I. Mattozzi, "Mondo del libro", p. 747.