Dal socialcattolicesimo al clerico-moderatismo: esperienze politiche

Cristiani d'Italia (2011)

Dal socialcattolicesimo al clerico-moderatismo: esperienze politiche

Stefano Trinchese

Da Gioberti a Cavour

Il fallimento del tentativo neoguelfo nel 1848, che aveva invano tentato di conciliare le aperture sociali e politiche del liberalismo col mantenimento dei tradizionali assetti della società religiosa, aveva denunciato una divaricazione della distanza tra Chiesa e società liberale. Quello che ad alcuni era potuto verosimilmente apparire come un tentativo da parte del sovrano pontefice di farsi maître – come piacque definire a Cavour – della situazione complessiva o per meglio dire l’illusione neoguelfa di un papa politico, benché Pio IX abbia potuto avere, nei confronti di quelle ipotesi azzardate e coraggiose, non diremo delle tentazioni1, ma almeno delle esitazioni, era durato appena lo spazio d’un mattino: secondo Gioberti «caso degno d’eterne lacrime, ma imputabile a quei soli che con arte infernale convertirono in lutto tanta gioia e tante speranze»2.

Nessuna futura proposta ideale nella storia d’Italia, scriveva Giorgio Rumi, sarebbe rimasta estranea all’inquieta tentazione giobertiana: stava precisamente nel Primato degli Italiani quella ricorrente ricerca di una terza via tra modelli politici spesso acutamente contrapposti, quella «edificazione di fantasiosi ponti tra disparati punti cardinali», spesso evasivi delle opzioni concordate, «vocazione duratura e irrinunciabile» e diremmo noi senza tempo per gli italiani3.

In realtà Pio IX non deludeva nessuno, se non alcuni illusi, e non tornava, ma continuava a esercitare come prima il ruolo del papa-re. Del resto la decisa scelta di Pio IX per il secondo aspetto della «doppia antitesi», come pretendeva Luigi Salvatorelli, vale a dire tra il pontefice universale e il sovrano nazionale, segnava «il divorzio definitivo fra Italia e papato temporale», retrodatando per lo storico di Pensiero e azione la data di quella soluzione dal 1870 al 18494. In particolare, la decisa accentuazione dell’opzione intransigente si era manifestata con l’emanazione dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo. Tali documenti rappresentavano una forte sottolineatura della già manifesta avversione di Pio IX verso le moderne teorie politiche. Del resto, il ritorno del pontefice all’assolutismo non poteva che favorire e accentuare l’impronta antiecclesiale dei liberali5.

Persino ambienti mediani tra liberalismo cavouriano e simpatie neoguelfe, soprattutto attraverso la diffusione di un giornalismo ricco e motivato che era stato il principale veicolo del giobertismo6, come nel caso del più diffuso giornale risorgimentale, la piemontese «Gazzetta del popolo», punto d’incontro tra personaggi di rilievo del moto unitario, esitavano dinanzi al palese fallimento del mito neoguelfo, evolvendo verso forme anticlericali, venate da presenze evangeliche e democratiche, ormai lontane da residui temporalisti o clericali e propendendo decisamente per un appoggio alla politica unitaria cavouriana7.

Da parte liberale, invece, quella fu l’occasione per accentuare i toni già fortemente anticlericali della polemica antiecclesiale, contribuendo a determinare in più sedi, soprattutto nel Regno di Sardegna, ma anche altrove, una legislazione che tendeva a un deciso ridimensionamento, se non all’annichilimento dell’elemento ecclesiale e della stessa figura del pontefice, secondo la regolamentazione del diritto comune. Vero è che non proprio tutti i liberali intendevano annullare completamente la presenza ecclesiale nella società civile e ce n’era che cercavano, se non argomenti concilianti, temi o possibilità di un incontro almeno parziale; tuttavia la tendenza prevalente, se non debordante, risultò o continuò in ogni modo a risultare quella di un radicale anticlericalismo, spesso rozzamente astorico, solitamente incapace di una lettura non prevenuta dei fatti e delle tendenze che accompagnavano il mutamento dei tempi8. Così da un lato la tutela della cosiddetta libertà del pontificato, dall’altra l’affermazione dei diritti della nazione portavano a confliggere violentemente le due parti, incapaci di accordare l’una all’altra nemmeno una minima attendibilità sul piano politico. Dunque l’insorgere della questione romana inquinava e complicava oltre misura i già difficili rapporti tra Chiesa e Stato, chiudendo definitivamente ogni ancor precaria occasione di dialogo tra cattolici e liberali9.

L’impresa garibaldina, realizzata grazie alla prodezza del Generale, con il concorso antipodico ma coincidente della irresolutezza napoletana con il disinteresse internazionale, aveva intanto realizzato una insperabile unità sotto la corona di Savoia. Tale avvenimento, che fino a pochi mesi prima era potuto ancora apparire come altamente improbabile, era stato accompagnato dall’indifferenza, se non in molte evenienze dalla sorda ostilità della popolazione meridionale, che avrebbe trasformato il suo atavico sentimento in risentimento che avrebbe ispirato schiere di scrittori meridionalisti. L’obiettivo ultimo restava per tanti (per tutti?) il ricongiungimento di Roma papalina col resto dell’Italia unificata: motivati da diversi sentimenti e raziocini ma uniti nell’agognare la meta finale (a parte la fervida mente di unMazzini10 ormai allo stremo) in molti erano stati soprattutto orientati da Cavour, che aveva a suo tempo riaffermato essere «Roma e Roma sola», l’unica capitale possibile; ma anche le più diverse intelligenze, si erano esercitate nel reclamare quell’obiettivo che, nel giudizio dei più, comprendeva e sublimava al tempo stesso l’intera epopea risorgimentale, identificando nella maggior parte dei casi il recupero di Roma alla causa nazionale con la fine dello Stato temporale e dunque della tirannide ‘pretesca’, secondo un’allora riattualizzata massima guicciardiniana.

Secondo la maggior parte degli esponenti liberali occorreva rapidamente condurre a termine l’impresa unitaria, dando luogo a una stagione inedita, in cui la nuova Italia crescesse in una nuova cultura, nella quale non avrebbero trovato spazio gli epigoni della reazione cattolica e papalina, destinati a inevitabile estinzione, forse persino violenta.

Ma anche in casa liberale, lentamente, qualcosa stava cambiando: mentre da una parte continuava la lotta contro la Chiesa, sotto la patina di un anticlericalismo spesso feroce se non spietato, da un’altra iniziava a manifestarsi un amalgama conservatore ancora informe, che agli obiettivi dell’anticlericalismo anteponeva finalità più serie e immediate, quali la tutela della monarchia costituzionale e dell’unità statale, e delle aspirazioni e le avvenute conquiste di una borghesia ormai economicamente evoluta e socialmente più allargata, da salvaguardare anzitutto contro i sovversivi, ma anche contro eventuali reazioni legittimiste. Era inevitabile che a un tale amalgama conservatore, ascrivibile a una lata appartenenza liberale solo in virtù dell’identica matrice d’origine, andassero saldandosi lembi di cattolicesimo, soprattutto fra quanti non si riconoscevano ed erano addirittura estranei, in molti casi, all’intransigenza dei papalini. Per costoro, non sempre ascrivibili semplicemente a un partito o a un’appartenenza cattolica, la rivoluzione si era arrestata col raggiungimento dell’unità e il mantenimento dell’ordine, mentre il recupero di corretti rapporti sociali all’insegna della conservazione era un obiettivo più attuale rispetto a quello di una superata, se non anacronistica, avversione antipapale, giustificabile nei fatti solo in ragione dell’ostilità del pontefice a riconoscere l’avvenuto mutamento dei tempi.

La destra storica e il non expedit

L’approccio liberale alla questione romana era dunque, anche in conformità a queste premesse, molto variegato e diversamente impostato. La sinistra, più verbosa che operativa, ma più radicale e violenta nei giudizi e nelle esternazioni, era tutta, o in gran parte, votata allo scopo supremo del completamento dell’Unità nazionale, da realizzare attraverso l’annullamento del potere temporale e la separazione tra Chiesa e Stato. Vero era che tale posizione, nel suo complesso, accomunava uomini e scuole le più diverse: essa ammantava posizioni anche fra loro differenti, e seppur minoritarie presenze di parziale dissenso, ma, in generale, tale avversione anticlericale non avrebbe impedito l’adesione liberale anche da sinistra alla regolamentazione unilaterale della questione romana, attraverso la legge delle guarentigie. Anzi, da qualcuno il provvedimento legislativo era letto quale atto riparatorio per una definitiva chiusura dei conti aperti, da qualcun altro come parziale e momentanea moratoria di una querelle, destinata a essere riaperta in qualsiasi circostanza, in quanto non impegnativa per lo Stato a soluzioni men che provvisorie.

La destra poi, più realista e legata ai fatti, nell’animo come nelle intenzioni, non meno anticlericale della sinistra, solo più attenta a che certe formulazioni non risultassero grossolanamente o gratuitamente offensive, promosse e aderì all’iniziativa solo apparentemente conciliativa, in realtà, come detto, unilaterale e pretenziosa, per una serie di ragioni, che riflettevano anche in questo caso posizioni differenziate e talora persino distanti: si passava, infatti, da vecchie, forse perfino superate, idee di rinnovamento dell’istituto ecclesiastico stesso, una volta entrato in contatto col vento redentore delle moderne libertà, al segreto convincimento dell’opportunità di mantenere alla Chiesa l’antico ruolo di contenimento di pulsioni e passioni popolari, attraverso la pratica religiosa e la rappresentazione celebrativa.

All’interno della destra moderata non pochi e peraltro autorevoli epigoni del dettato cavouriano si riconoscevano ancora nella già classica formula di libera Chiesa in libero Stato, dichiarandosi i più fra questi incompetenti circa una risoluzione della questione papale, altri trincerandosi dietro le più nette barriere di un separatismo di matrice d’Oltralpe. La formulazione del Minghetti compendiava al meglio un mondo di incertezza giuridica e di possibilismo politico: «Noi vogliamo la Chiesa libera ma nei limiti che lo Stato le traccia». Ma anche in queste espressioni, come in altre più severe e meno moderate, come nel caso di Ruggero Bonghi, o più misurate ma ugualmente convinte della necessità del compimento della rivoluzione liberale col ridimensionamento dell’attuale realtà ecclesiale, come in Quintino Sella o Bertrando Spaventa, o decisi a un annichilimento della sede pontificia come in Michele Amari, faceva da comun denominatore la passione nazionale: la dimensione etica dello Stato, il culto della libertà di pensiero, l’esaltazione dell’unità raggiunta attraverso il sacrificio e il sangue, motivavano in genere i moderati della destra, non ultimi gli esponenti dell’ala napoletana11.

Dunque la politica ecclesiastica del nuovo Stato unitario, se risarciva almeno in parte e di sicuro solo temporaneamente la questione papale, non si rivelava, né poteva essere, la risultante coerente di un pensiero univoco, ma una soluzione di compromesso che preannunciava una modalità di procedimento tipica dell’Italia liberale, riflettendo una necessaria via di prudente possibilità tra posizioni distanti, tali da compromettere qualsiasi soluzione di stabilizzazione della questione.

Insomma lo Stato liberale intese piegare l’avversione, prima istituzionale poi ideologica e morale, del romano pontefice e del suo residuo Stato, attraverso la costrizione ad accettare i fatti compiuti, raccattando all’estero uno stentato riconoscimento della situazione de facto e convogliando la coscienza popolare verso un’accettazione anche forzata degli avvenimenti, attraverso una legislazione ecclesiastica tutt’altro che coerente, basti pensare alle leggi eversive dell’assetto ecclesiastico del 1866-1867, con l’obiettivo di fiaccare la resistenza pontificia e la malriposta speranza di un acchetamento delle coscienze, in nome della sublimazione spirituale delle energie temporali. Da parte vaticana non solo non ci fu cedimento, ma nemmeno il pontefice accondiscese a gesti conciliativi in politica, per esempio in campo elettorale, inasprendo nel tempo l’avversione intransigente alla moderna realtà liberale.

In verità avevano capito in pochi che la questione romana si era collocata su un piano superiore rispetto alle normali attese: a quanti ritenevano di aver risolto il problema attraverso l’annullamento della potestà temporale e l’occupazione di Roma nel 1870, sfuggiva che la partita si giocava su un altro piano: se cioè dovesse prevalere l’aspetto politico dell’unità nazionale e dei valori patrii, ovvero il primato della dimensione universale della Chiesa.

Ma è da considerare come fatto centrale che mentre nei secondi anni Sessanta non si giunse a una seria compromissione dei rapporti politici tra Stato liberale e Chiesa, fu la presa di Porta Pia nel 1870 a segnare anche nel comportamento politico ed elettorale una profonda, netta e duratura frattura nei rapporti tra Stato e Chiesa, al punto da giustificare il richiamo all’astensionismo politico come insorgenza cattolica contro la politica ecclesiastica piemontese, in seguito estesa agli Stati padani annessi nel 1859 e alle Province Napoletane nel 1860: sancita da don Margotti sulla «Unità cattolica» nel 1863 con la celebre formula «né eletti né elettori», infine determinata nel 1874 col non expedit e nel 1883 dalla Sacra penitenzieria col distico prohibitionem importat, l’astensione, tuttavia, non toccava le elezioni amministrative.

Quanto alla portata del provvedimento e del conseguente duraturo astensionismo elettorale, esso è stato variamente giudicato dalla storiografia: effetto di una palese incapacità d’espressione da parte del laicato cattolico, impotente dinanzi alle svolte della politica nazionale e incapace di autonomia, davanti a una gerarchia arroccata su posizioni superate (Scoppola, Brezzi), rimedio quasi necessario per scongiurare pesanti posizioni reazionarie e temporaliste (De Rosa, Fonzi), il non expedit rappresentava, secondo la critica di derivazione gramsciana, l’espressione di un piatto opportunismo di comodo e insieme una scoraggiante incapacità di coscienza critica (Candeloro).

La questione romana, oltre che sul piano dei rapporti internazionali, assumeva anche un profilo di natura morale. Le implicazioni teologiche e morali della questione influenzarono profondamente il dibattito ideologico e politico in Italia. Lo Stato si avviò a un precoce e forse non completamente preventivato o studiato processo di radicale secolarizzazione, dotandosi di un codice civile completamente laico nel 1865, considerando l’elemento clericale come potenzialmente eversivo. La questione romana avrebbe continuato a influire sui mancati processi d’integrazione dello Stato unitario ancora fino a Novecento inoltrato12.

«Cattolici col papa, liberali con lo statuto»

Se la maggioranza dei cattolici si era accodata dietro la scelta astensionista, pochi coraggiosi si erano avviati su una linea alternativa di partecipazione alla cosa pubblica, tralasciando quella cosiddetta teoria della catastrofe, in altre parole dell’attesa di un sicuro tracollo dell’empio e dissacrante esperimento liberale, che era stata ufficialmente proclamata dalla Curia romana per bocca del Segretario di Stato Antonelli, il quale aveva reclamato vistosamente, anche presso le corti cristiane europee, la restituzione del maltolto.

Da un lato c’era chi respingeva dunque lo spossessamento del potere temporale e con esso il regime liberale anticristiano e anticlericale; dall’altro chi tendeva all’accettazione dello stato di fatto e al riconoscimento implicito del potere esistente, riprendendo fra l’altro un’antica consuetudine ecclesiastica, che nel passato aveva in taluni casi portato alla legittimazione di esperimenti rivoluzionari, come in alcune diocesi all’indomani del 1799.

I primi si asserragliarono, confondendo la loro causa col clero legittimista e con la reazione di marca ultramontana, attorno al Sillabo e alla posizione infallibilista del romano pontefice, reclamandone la restaurazione quale papa re, ritenendo impossibile e ingiusto l’esercizio dell’autorità pontificale se scissa dalla sovranità temporale. I secondi intendevano seguire le esperienze già praticate dai cattolici belgi e francesi, per molti versi anche da tedeschi e austriaci, tentando l’inserimento nella partecipazione politica con gli strumenti elettorali concessi dalle rispettive entità nazionali.

L’alternativa possibile all’astensionismo di matrice intransigente era giunta dal congresso cattolico celebrato a Malines nel 1863, quando il Montalembert aveva proposto l’accettazione delle moderne libertà: i cattolici italiani presenti si erano allora attestati su posizioni intransigenti se non reazionarie, proclamando come Casoni l’opportunità di un rigido astensionismo elettorale e di una forte opposizione cattolica, a prescindere dalle logiche parlamentari. Altri, più illuminati ed aperti, determinati ad affrontare in modo moderno la questione cattolica, quali Guglielmo Audisio,Cesare Cantù, Augusto Conti, Manfredi da Passano, raccolti dal 1866 attorno alla genovese «Rivista universale», incoraggiavano alla partecipazione politica nelle occasioni elettorali proposte dallo Stato nazionale: trattavasi, nei fatti, di una piena e implicita accettazione della società secolarizzata. Queste posizioni, isolate e coraggiose, erano sintetizzate dal motto «cattolici col papa, liberali con lo statuto», un po’ sulle postazioni di quanti negli anni immediatamente successivi all’Unità si erano proclamati, con Augusto Conti, cattolici e liberali. Nulla, infatti, o poco costoro avevano a che fare sia col cattolicesimo liberale manzoniano e rosminiano, le cui esperienze soprattutto intellettuali si erano esaurite attorno alla presa di porta Pia, sia con quel clero patriottico che con Carlo Passaglia aveva chiesto al papa di tendere pacifica la mano ai regnanti esistenti13.

Prevalse tuttavia la logica intransigente, più conforme alla volontà della corte pontificia e allo stesso Pio IX, di collegare ancora e rinnovatamente il trono e l’altare in unica rivendicazione politica e morale. La politica anticlericale liberale, le misure discriminanti degli ordini religiosi, l’arresto e la condanna di alcuni vescovi, motivarono e spinsero la Curia romana e la massa cattolica a mobilitarsi come un sol uomo contro l’empio edificio politico liberale, avviando una serie di esperimenti per la realizzazione di un grande apparato unitario, schierato quasi militarmente contro lo Stato unitario.

Veniva così definito per tappe successive il grande movimento integralista dell’intransigentismo, che trovò l’epigrafe nella dichiarazione di principii di Vito D’Ondes Reggio, successivamente letta in apertura di ogni assise, secondo la quale il congresso si definiva «cattolico, non altro che cattolico», respingendo qualunque aggettivazione aggiuntiva. Operavano in tale fase organizzativa del laicato cattolico, tenuto rigorosamente lontano dalle elezioni politiche ma non – si badi bene – da quelle amministrative, uomini integri e vicini alle curie, quali lo stesso Casoni, Giovanni Acquaderni, Alfonso Malvezzi, Giuseppe Sacchetti, uomini fedeli al non expedit, ma socialmente assai impegnati, laddove lo Stato liberale mostrava il suo limite più consistente, lontano e al riparo da anacronistiche tentazioni legittimiste o restaurative14, ma consapevoli di rimarcare una decisiva distanza dalle ingiuste politiche liberali.

Leone XIII e la sinistra

SecondoArturo Carlo Jemolo nella fondamentale storia su Chiesa e Stato negli ultimi cento anni15, il passaggio alla sinistra storica nel 1876 aveva prodotto solamente alcuni non sostanziali inasprimenti, specialmente del linguaggio politico anticlericale, ma non un reale incremento della politica antiecclesiastica. Nella realtà a un effettivo inasprimento del contrasto coi cattolici da parte dei ministeri liberal-democratici (da Cairoli a Zanardelli) succedette durante il lungo ministero Depretis un netto e fattuale miglioramento delle relazioni stato-ecclesiastiche, culminate nel tentativo conciliatorista del 1878-1879, col mancato tentativo di fondazione di un partito conservatore nazionale, capace di convogliare il voto cattolico a sostegno del sistema liberale moderato. Ulteriori propaggini di tale politica ecclesiastica avrebbero prodotto le aperture conciliatoriste emerse sotto il governo Crispi nel 1887.

Tale precoce e forse prematura forma aggregativa, al tempo stesso certamente intonata con le attese politiche del tempo, ma certamente in anticipo sulla mentalità e sui tempi, avrebbe assunto inediti connotati non confessionali o clericali, arrivando a separare le sfere distanti della politica ecclesiale da quella religiosa. Altri invece erano i parametri e soprattutto i modelli di riferimento sui quali il neoeletto pontefice Leone XIII, assurto nel 1878 sul trono di Pietro, andava impostando l’impegno politico dei cattolici nella società: si trattava, in effetti, di un mezzo, indiretto ma controllato e guidato da mano ecclesiastica, per ristabilire un nesso e una presenza ecclesiale nella società utile, se non essenziale, al ristabilimento di un controllo, ormai indiretto, ma sicuramente influente e ascoltato, da parte dell’ente ecclesiastico sulla moderna società secolarizzata.

Si trattava in buona sostanza di uno degli strumenti sui quali papa Pecci avrebbe impostato la sua ‘grande politica’ volta a mondializzare la presenza della Santa Sede per un recupero della moderna società all’orbe cattolico e ai suoi ammaestramenti: gli altri canali utilizzati erano le nunziature, attraverso una dinamicizzazione della loro sfera d’azione; la stampa e la pubblicistica cattolica, che accoglievano le nuove forme della propaganda comunicativa; l’educazione scolastica e l’ammaestramento della gioventù, attraverso dinamiche pedagogiche al passo coi tempi e criteri aggregativi in linea con la vasta emancipazione di nuovi soggetti sociali.

Si trattava, insomma di fondare un moderno, e affatto inedito, partito clericale, ma aperto alla considerazione delle nuove tematiche sociali, suscitate dalla società industrializzata e alle esigenze recenti dell’emancipazione nazionale dei popoli. Quanto al modello o ai modelli di riferimento, ci si riferiva essenzialmente all’esperienza dura e simbolicamente esemplare dei cattolici tedeschi nell’Impero bismarckiano.

Il modello germanico del Zentrum

La vicenda del Kulturkampf andrebbe studiata non solo per gli effetti riscontrabili sui rapporti tra Chiesa e Stato, ma anche per le evidenti simpatie, da parte dei differenti ambienti politici italiani, per l’una o l’altra delle fazioni in lotta. Per esempio, non solo in campo cattolico, si registrò un’evidente empatia con le sorti del cattolicesimo politico germanico, ma anche in campo laico si seguirono con interesse, talora con entusiasmo, i provvedimenti antiecclesiali assunti dalla Prussia protestante e bismarckiana. Nelle fila della destra storica, che pure manteneva una certa distanza dalla politica del Bismarck, anche per evitare un’esasperazione degli effetti della questione romana, Sella si rivelava appassionato lettore della cultura luterana e ammiratore, con molti altri, della scienza tecnica tedesca, mentre il Bonghi, come altri esponenti liberali meridionali, nutrì vive simpatie per l’azione dello Stato centrale nel Kulturkampf. Mentre «L’Osservatore romano» diffondeva una lettura apocalittica della politica antireligiosa tedesca, la stampa laica soprattutto milanese ammirava nel cancelliere di ferro l’artefice dell’affermazione di una mo;dernità anzitutto ideologica.

L’ammirazione italiana per la Germania del pluralismo confessionale e delle coraggiose scelte storiche antiromane, da Martin Lutero a Ignaz Döllinger, un personaggio quest’ultimo straordinariamente in voga in ambiente liberale, si esprimeva in ambito scolastico con l’adozione del modello pedagogico tedesco; ma il modello prussiano ispirava in parte anche la politica della sinistra, da Depretis16 a Crispi, adombrando nell’emulazione dello Stato garantista e sociale l’adozione di una coscienza giuridica positivista, che ispirava o rafforzava l’opzione triplicista: esso peraltro animava parallelamente, in casa liberale, la riforma del culto di Pasquale Stanislao Mancini tra il 1877 e il 1878, ma anche, in campo cattolico, la polemica di padre Carlo M. Curci a imitazione di monsignor Immanuel Ketteler e in dialettica polemica col Lassalle, mentre il Döllinger assurgeva a simbolo della piena autonomia della ragione dinanzi alle catene della religione, suscitando nel Cantù un conato di ribellione contro i vincoli del dogma nella valutazione religiosa. In campo giuridico si guardava al modello positivo tedesco e soprattutto in diritto ecclesiastico si erano formati alla scuola tedesca il giurisdizionalista Francesco Scaduto e l’ecclesiasticista Francesco Ruffini. Alla scuola economica storicistica tedesca si ispirava Giuseppe Toniolo, il cui principale riferimento era il modello giurisprudenziale germanico, assieme al socialismo della cattedra17.

Perfino la discussa figura del nuovo imperatore del Reich, il luterano Guglielmo II, usciva rivalutata agli occhi dell’opinione cattolica italiana: il cattolico sindaco di Rapallo, Lorenzo Ricci, componeva versi per la visita resa dall’«imperator Guglielmo» a Leone XIII nel 1887, mentre nel maggio 1903 il chierico Angelo Roncalli si univa agli applausi della Roma cattolica che faceva ala al sovrano tedesco in visita a Leone XIII ormai vicino alla morte, salutando in lui chi «se non fosse eretico sarebbe il Carlo Magno dei tempi moderni».

Proprio nel 1887 il fallimento del tentativo conciliatorista aveva rappresentato la pietra miliare per il movimento cattolico italiano, determinandone un destino tutto diverso rispetto all’analoga esperienza tedesca.

Il motto Germania docet!, propagato dal cardinale Andrea C. Ferrari al 50° congresso cattolico di Colonia, era allora largamente condiviso dai cattolici italiani, per esprimere l’ammirazione che il modello tedesco del Centro suscitava. Sin dalle prime riunioni dell’Opera dei congressi gli intransigenti, arroccati in posizione astensionista e nell’attesa messianica dell’inevitabile tracollo dell’empio Stato unitario, avevano guardato al modello organizzativo del Volksverein, unitamente all’esempio del cattolicesimo sociale belga: al secondo congresso dell’Opera a Firenze nel 1875, Francesco Nardi aveva esaltato le gesta eroiche di ‘quegli uomini meravigliosi’ impegnati contro il Kulturkampf18.

La cultura dei cattolici a cavallo tra i due secoli appariva dunque intrisa del mondo cattolico germanico: inMeda e Vercesi, in Toniolo e Soderini ne troviamo un’eco inequivoca19. Il giovane Sturzo fu introdotto alla riflessione sui modelli tedeschi dalla coabitazione in Gregoriana con Carl Sonnenschein, al quale fu legato da amicizia e ammirazione. Anche esponenti di secondo piano come Franco Berra propagarono dalla stampa cattolica le imprese del Centro germanico. L’autorevole «Rassegna nazionale»20, indicava nel Centro una forza come allora si diceva ‘collaborazionista’, nel senso dell’apertura al compromesso politico con correnti di segno diverso, a fine di partecipazione al governo della cosa pubblica. Il partito tedesco appariva il «campione di tutte le classi», vale a dire partito riformatore e interclassista, ma anche moderato rispetto alle parallele intemperanze dei giovani della democrazia cristiana murrina21.

Il partito conservatore nazionale

Anche se tali caratteristiche di connotazione schiettamente confessionale divergevano anche vistosamente dalle opinioni ideali di diversi e autorevoli suoi componenti, il progettato partito cattolico nasceva su una piattaforma sociale e politica marcatamente conservativa, in linea con gli evidenti propositi politici del novello pontefice: lo manifestavano i discorsi e i documenti pastorali dei primi anni di pontificato, la multiforme azione pubblicistica da lui incoraggiata in quei primi anni di regno e infine una ricognizione dei suoi confidenti e consiglieri più stretti. Dunque fu la divergente distanza tra ispirazione centrale e realizzazione periferica, prima che una certa insensibilità sociale dei suoi rappresentanti, come preteso allora da Edoardo Soderini, a vanificare prima e ad annullare poi la possibile forza d’urto dell’inedita compagine elettorale cattolica.

Occorre aggiungere che la spinta decisiva alla realizzazione di un’ipotesi di esperimento conservatore cattolico fu tuttavia la controspinta degli avvenimenti internazionali. Abbiamo già accennato fugacemente alla temperie bismarckiana; bisogna tuttavia considerare nel dovuto modo avvenimenti-choc quali la caduta dell’Impero in Francia, l’avvento della Comune e infine l’esperienza ‘laicista’ della Terza Repubblica, eventi cronologicamente antecedenti ed esterni alla rivoluzione parlamentare italiana del 1876, ma riletti all’epoca come possibili prodromi di analoga deriva repubblicana e laicista anche per il caso italiano22. Se si aggiunge alla prevenuta lettura degli eventi internazionali e francesi in primis, la dichiarata militanza massonica di tanta parte della nomenclatura liberale di sinistra liberale, da Nicotera a Mancini, da Crispi aZanardelli, e l’accentuazione, forse non solo nei toni, di una politica sempre più apertamente antiecclesiastica, si completa il quadro generale dell’evenienza e del fallimento quasi subitaneo di un immaturo, ma al tempo stesso necessario esperimento politico.

L’amalgama conservatore cattolico raccolto attorno all’esperienza di Casa Campello non si rivelava dunque espressione monocorde di una frazione clericale propensa a un incontro con lo Stato liberale sul piano della politica elettorale, ma di uno schieramento anche se non ampio, sicuramente variegato ed eterogeneo, che racchiudeva manifestazioni d’ordine politico e ispirazioni religiose e culturali differenti e talora distanti: cattolico-liberali, giobertiani, ascendenze manzoniane o rosminiane, lontani influssi giansenisti e ascendenze protestanti, conservatori papali, come gli uomini dell’Unione romana raccordati da monsignor Domenico Jacobini. Anche un’imbarazzante ed elitaria presenza legittimista, almeno inizialmente affatto convergente con gruppi conservatori cattolici, era presto abbandonata e in qualche caso sconfessata sia da intransigenti che transigenti e in particolare dai futuri cattolici conciliatoristi, sia in quanto i fatti compiuti fossero da considerare come storicamente tali, sia in considerazione del carattere non solo definitivo, ma auspicabilmente letto come positivo e foriero di migliori condizioni politiche, del nuovo ordinamento statale.

I cosiddetti cattolici deputati, a mala pena una dozzina di coraggiosi interpreti di un allora negletto e oggi dimenticato patriottismo cattolico, i quali aderirono al nuovo ordinamento statale e alle prime disposizioni legislative «fatte salve le leggi di Dio e della Chiesa», ma che furono convinti e fervidi sostenitori e interpreti delle istanze risorgimentali, sedendo nel Parlamento unitario dal 1861 al 1870, quali Enrico Amari, Paolo Campello, Cesare Cantù, Augusto Conti, in più di un’occasione vicini alle posizioni diMinghetti e fedeli o prossimi all’ideale cavouriano in termini di libera Chiesa in libero Stato, non riuscivano, anche per esiguità numerica, a esprimere una linea politica distinta, riducendosi nei fatti a supporto interno alla maggioranza della destra storica, qualificandosi tuttavia come una sorta di frazione parlamentare clerical-conservativa. Diversi fra loro, ispirati in larga parte dalle acute analisi di Stefano Jacini e alla precoce definizione di una forbice apertasi tra paese reale e paese legale, presero parte alle discussioni di Casa Campello nel 1878, oltre che a successive iniziative parlamentari negli anni seguenti, prefigurando, in qualche maniera, alcune delle istanze conciliatoriste del periodo leonino e crispino.

Altre soluzioni politiche: transigenti

La matrice ideologica del cattolicesimo transigentista e conciliatorista restava tuttavia, a differenza di quanto a lungo argomentato dai fautori di una netta e quasi manichea distinzione tra i due movimenti, quella originaria di completa aderenza alla politica pontificia: non bisogna dimenticare che transigenti e intransigenti erano due anime di un unico movimento cattolico, le cui sfumature e correnti erano troppo labili e perfino indistinte, per consentire differenziazioni marcate tra le varie posizioni individuali, spesso intersecate fra loro o cangianti. Tutti costoro credevano inevitabilmente alla giustezza, quasi naturale e scontata, della questione pontificia, distinguendosi e smarcandosi semmai a motivo delle soluzioni e dei metodi, non mai per le finalità ultime. Tutti perseguivano, in maniera differenziata, lo stesso scopo della soluzione della questione romana; in particolare, i transigenti abbracciavano interamente la posizione pontificia, proponendo una cauta accettazione dei mezzi che la modernità proponeva, ma allo scopo di servirsene per la riaffermazione di una società integralmente cristiana, che tenesse conto, per utilizzarli, degli strumenti anche politici offerti dalle nuove circostanze storiche. Ne conseguiva l’opportunità di un riavvicinamento allo stato di fatto post-risorgimentale: attraverso l’accettazione dei fatti compiuti e una partecipazione meditata alle politiche liberali dello Stato unitario, si sarebbe potuto perseguire il proposito di Leone XIII di un recupero della società moderna al cattolicesimo e di una soluzione alla questione pontificia23.

Quanto alle posizioni personali, occorre registrare la più grande varietà di provenienze e identità: papalini e intransigenti come i vescovi Bonomelli e Scalabrini, fedeli alla causa del romano pontefice, ma disposti a perseguire, sul piano della politica, le soluzioni possibili, un po’ sulla linea proclamata da Henry Manning; cattolici liberali come Curci, alla ricerca di una conciliazione difficile tra cattolicesimo e novazione, come tra fedeltà alla Chiesa e fiducia nelle moderne libertà; conservatori cattolici provenienti da una linea vicina alla tradizione, disposti a negare qualsiasi separatezza tra Stato e Chiesa, in nome dell’unicità della religione e della confessione, fautori, col Cenni, di una difficile concezione di distinzione senza separazione, tra due enti egualmente sovrani.

Fiorì in quegli anni in cui qualsiasi soluzione conciliatorista parve possibile, tutta una generazione coraggiosa e suggestiva di vescovi, nel Nord come nel Sud del paese, gli Alimonda, i Sanfelice, i Sarto, oltre ai più famosi, nello specifico, e già citati Scalabrini eBonomelli: per costoro la soluzione della spinosa questione sociale si legava a quella politica, ma per conseguire i più elevati risultati la Chiesa doveva abbandonare i toni e gli apparati della tenzone per fede e collocarsi sulla nuova frontiera, di quanti manifestavano apertura e comprensione verso il nuovo tempo24. Non si doveva insomma respingere la cultura del moderno in quanto tale e, sulla scia suggestiva del Dupanloup, occorreva collocarsi sul terreno inedito del confronto coi tempi, abbandonando la mentalità della crociata e accettando il superamento delle vecchie questioni religiose, superate dagli avvenimenti della politica e dalle affermazioni delle ideologie del secolo. Padre Curci riusciva a distinguere tra dottrine ideali e indirizzi politici, lanciando un motto epocale: «in necessariis unitas, in dubiis libertas». Nello scritto Il moderno dissidio (1878) il Curci inaugurava, infatti, una breve ma intensa stagione di possibile collaborazione tra cattolici e liberali sulla base dell’accettazione dei fatti compiuti.

L’apertura di un vasto e tutto sommato poliforme fronte conservatore cattolico era affermata da una vera fioritura di pamphlet e opuscoli di vario valore e tenore, fra i quali si ricordano interventi di cattolici integrali, ma politicamente transigenti, anche personalmente vicini al pontefice, come Giancarlo Conestabile della Staffa, Soderini, o di puri liberali come Bonghi, ovvero di conservatori e tradizionalisti quali il marchese di Baviera, direttore de «L’Osservatore romano», Fedele Lampertico, un giovaneAngelo Mauri, o di moderati come Giuseppe Massari e Federico Sclopis. Molti di costoro sarebbero confluiti nell’immediato tentativo di un partito conservatore nazionale, più o meno apertamente incoraggiato dal pontefice e incoraggiato con ordine presso ambienti curiali, da monsignor Jacobini a monsignor Galimberti, fino al Segretario di Stato monsignor Lorenzo Nina.

La nascita di questa destra cattolico-conservatrice, già dapprincipio osservata con simpatia dalla Curia romana sotto il fugace ma fervido segretariato di monsignor Alessandro Franchi nel 1878, avrebbe dovuto raccogliere nelle intenzioni, che riflettevano più alte e non palesate aspettative, quei cattolici attaccati alla causa pontificia, ma ormai convintamente unitari e monarchici, tali da convogliare in un partito conservatore nazionale, al contempo cattolico e unitario, il grande portato politico del voto cattolico, come sostenuto dal Curci e argomentato da Stefano Jacini, quale vettore di una futura e sicura conciliazione. Sostenuto dalla stampa cattolica di segno nuovo, incoraggiata direttamente dal pontefice, il tentativo conciliatorista e conservatore andò tuttavia incontro a una rapida eclissi.

Il fallimento di Casa Campello

Dalle ragioni del fallito tentativo di raccordare l’elettorato cattolico attorno a una piattaforma politica conservatrice, potrebbe derivare un’analisi meglio calibrata della vicenda di Casa Campello, riletta come cartina di tornasole delle velleità movimentiste cattoliche. Intanto i motivi del fallimento di quel forse prematuro e certamente precoce esperimento dovettero essere molteplici, come appariva chiaro ai suoi stessi interpreti, dal Campello stesso al Santucci25. Innanzitutto l’eclissi del segretariatoNina, che comportò di fatto il venir meno del principale sostegno in curia, per quello che non dimentichiamo essere stato appena un inizio di movimento: evento, quello della caduta delNina, letto dal Campello ed accoliti come una gran jattura. Di poi la dichiarazione di progressismo messa in bocca a reUmberto, che faceva venir meno, con quella del tutto indiretta del pontefice, la seconda sponda d’appoggio dell’embrionale movimento. Che tale parto prematuro fosse dovuto alle «nefaste influenze estere», come leggeva allora il Santucci26, o che esso rimanesse impantanato «nelle acque malariche di un’eccessiva titubanza», come commentava poco dopo il Soderini27, in fondo a conti fatti poco importava: fatto sta che l’eccessiva prudenza si tradusse in inazione e l’eccesso di timori collegati ai segnali provenienti dal Vaticano produsse una paralisi politica.

Secondo l’analisi del Soderini, biografo designato di papa Leone, e interessato ma non sempre obiettivo testimone degli eventi, il partito dei conservatori nazionali avrebbe dovuto configurarsi, sulla scorta dell’esempio germanico, come una sorta di Centro italico, in pratica di un’esperienza politica di segno confessionale, giudizio questo già in modo acuto espresso da Giorgio Candeloro28. Ma forse proprio questa, a parere anche di Giuseppe Ignesti, fu la discriminante negativa, in quanto tutto i conservatori di Casa Campello potevano concepire, sempre nel pieno e quasi timorato rispetto delle volontà vaticane, ma non certo una sudditanza di matrice vescovile e confessionale29.

Tale virtuale difetto, in realtà una notevole qualità, anche se troppo in anticipo sui tempi, risulterebbe probabilmente una motivazione politicamente più credibile, rispetto a quelle meramente contingenti e forse accessorie delle pressioni e degli esempi di movimenti confessionali stranieri, il francese per primo, ovvero da parte degli intransigenti nostrani. Né valgono in tema l’eco dell’incipiente accettazione dei fatti compiuti, ovvero eventuali, improbabili connubi di segno liberalconservatore. Insomma, il carattere laico e precocemente aconfessionale del nascente partito avrebbe meritato e giustificato l’abbandono da parte del pontefice.

La storiografia ha evidenziato il carattere di timidezza e la mancanza di coraggio propositivo da parte dei rappresentanti del movimento conservatore30, e inoltre, la labilità del programma e la sua scarsa incisività31, e ancora quei caratteri di autonomia, di aconfessionalità e di disposizione alla collaborazione32, che alienavano le già pacate simpatie da parte dell’alta e altissima gerarchia ecclesiastica.

La visione politica leoniana

Ma più di ogni altra considerazione vale la pena ricordare la lezione di Ettore Passerin d’Entrèves, il quale leggeva, in quei lontani e tutto sommato opachi avvenimenti, una dimostrazione della politica di riconquista dell’orbe cattolico tentata da papa Leone, il quale traghettava per suo dire la Chiesa dal piccolo temporalismo al pensare in grande, collocando in termini finalmente universali la questione papale33. In quest’ottica le forze cattoliche organizzate erano funzionali a un recupero alla cristianità della società civile, attraverso la potestà indiretta del papa sulle materie temporali. In questo senso, il tentativo politico del 1878 nel segno della conciliazione e della costruzione di un consenso politico anche in termini elettorali, collocava uno spartiacque efficace tra il periodo dell’intransigenza legittimista e retrograda e quello di un movimentismo moderno, dedito alla soluzione attiva dei temi sociali d’attualità, ma votato all’organizzazione sul terreno della modernità degli elettori cattolici34. In questo senso risiedeva il carattere fortemente innovativo del movimento conservatore, ma anche la forza politica dell’interpretazione leoniana35.

L’esperimento conservatore avrebbe brevemente e illusoriamente proposto una rappresentanza non clericale e moderata del voto cattolico, esprimendo istanze separatiste, decentratrici e favorevoli all’allargamento del suffragio. Tale opzione era giustificata dalle scelte anticlericali seguite all’avvento della sinistra nel 1878, col varo di provvedimenti legislativi fortemente innovatori in campo scolastico (legge Coppino).

In realtà, la caduta delle speranze conciliatoriste e la fine dell’esperimento conservatore in Italia, che coincidevano con l’avvento di Mariano Rampolla del Tindaro alla Segreteria di Stato rivelavano, nel decennio 1878-1887, col fallimento dell’esperimento conservatore e la rapida eclissi del tentativo di una conciliazione, una dimensione europea: col nuovo corso vaticano, che in parte contrastava con la retriva curia papale rappresentata dal Boccali, usciva in realtà rafforzata l’ala democratica cristiana dei movimenti cattolici, segnatamente in Austria col partito cristiano sociale, ma presto anche in Belgio, Francia e nella stessa Italia36. Favorevole a un riavvicinamento alla Francia repubblicana, chiudendo vecchi contenziosi che si trascinavano dall’età delle rivoluzioni,Rampolla conduceva una politica dinamica e duttile, ricercando nel tradizionale strumento dell’alleanza diretta col popolo, il mezzo per recuperare terreno, rispetto alla tracotanza dei regimi liberali che avevano sgominato il temporalismo.

Questo dinamismo impresso dal Rampolla alla politica della Santa Sede in tema di organizzazione politica delle masse cattoliche non doveva tuttavia configurarsi come una scelta unitaria e cogente: in realtà tale politica fu assai più sfumata e si espresse in maniera diversa e finanche divergente a seconda delle relazioni internazionali e delle scelte di politica interna dei vari regimi europei. Inoltre sulla politica di Rampolla pesava – e quanto – la personale opzione sostanzialmente conservatrice e intransigente del pontefice, il quale non avrebbe tardato a squalificare, non solo in Italia nel 1887, un’azione prettamente autonoma dei partiti cattolici, scongiurando così l’allontanamento delle masse dal controllo diretto delle curie vescovili.

Nel 1885 Leone XIII aveva sconfessato, condannandolo al fallimento, il sorgere di un partito dichiaratamente cattolico animato da Albert de Mun, mentre nello stesso torno di tempo abortiva, sempre a causa della diffidenza curiale, l’analogo tentativo di una Union catòlica, tentato da Pidal y Mon in Spagna, sul modello del Centro germanico.

Insomma la politica della Santa Sede, con Rampolla, tendeva a adattarsi alle circostanze contingenti, favorendo in Belgio e in Spagna il connubio dei cattolici col liberalismo moderato, nell’intesa di una difesa dei valori, ma anche del patrimonio della Chiesa, in Italia avviando e lanciando tentativi conciliatoristi e scoraggiando in buona sostanza, al di là dello sperimentalismo laboratoriale, un impegno diretto dei cattolici nella vita elettorale attiva, in Germania e per alcun tempo in Francia e anche in Belgio, più continuatamente in Austria, appoggiando e talora frenando o sconfessando le tendenze politiche di partiti cattolici già fortemente radicati.

L’elemento veramente innovativo e qualificante, per lo meno sotto il profilo della partecipazione politica dei cattolici, del pontificato leonino, raggiunto sotto l’accorta regia delRampolla, fu proprio il riconoscimento e quindi l’accettazione, con le realtà politiche storicamente realizzate, dello Stato moderno sic et simpliciter, al punto da riconoscere a quest’ultimo il compito della realizzazione attraverso la politica del benessere sociale diffuso.

Questo era davvero in anticipo sui tempi e in questo devesi apprezzare maggiormente la lungimiranza e l’ampiezza della visione leonina, piuttosto che nella leggenda del papa sociale, autore di documenti pontifici in tema in realtà appena al passo coi tempi. Aver capito e affermato nelle sue encicliche che era all’interno del percorso proposto dallo Stato moderno che andavano realizzate le finalità del bene comune e proposti i diritti e i valori dei cattolici e della Chiesa, marcava davvero una sostanziale differenza rispetto all’impostazione del suo predecessore Pio IX, ancora fermo alla rivendicazione del perduto potere temporale.

Senza per questo essere un papa minimamente liberale, ma anzi del tutto intransigente e tradizionalista, educato com’era alle dottrine e alle impostazioni culturali del secolo a lui precedente,Leone XIII riusciva a prendere le distanze dai legittimisti e dai reazionari in Francia come in Spagna, nostalgici di improbabili ritorni borbonici e carlisti, e in Italia da quella non ampia ma ancora rumorosa falange dei sostenitori delle vecchie dinastie regionali.

Per il resto, papa Pecci non si discostava da Pio IX, verso il quale la continuità, più che la discontinuità, era segnalata dalla fedeltà alla linea intransigente verso lo Stato liberale in Italia e in sostanza da rigorismo dottrinario e fedeltà alle scelte dogmatiche. La novità vera della troppo celebrata (Jemolo) Rerum novarum, infatti, non risiedeva nel portato, non esaltante né d’avanguardia, delle sue affermazioni, che rispecchiavano decenni di lavorio del cattolicesimo sociale europeo, di gran lunga più avanzato rispetto a un’enciclica che non faceva che riassumerne i tratti principali, e nemmeno nel rumore o nella sorpresa che seppe produrre nei diversi ambienti – religiosi o laici – di accoglienza, ma nella fondamentale proposta di un riavvicinamento al popolo sofferente e alle masse di nuovi disperati, condannate dal sistema industriale: il fine del pontefice era quello di un loro recupero al salvifico magistero pontificio e nel contempo di una loro utilizzazione quale strumento d’azione, per un diretto controllo di quella società civile ormai strappata alla potestà ecclesiale, all’interno delle moderne dimensioni nazionali in Europa e nel mondo intero. Questa era la vera grande prospettiva espressa dalla Rerum novarum, che svelava altrimenti nella formulazione sociale, persino inadeguata ai tempi mutati, l’ampiezza della visione politica diLeone XIII37.

Era d’altro canto la complessa e difficile situazione internazionale della Chiesa cattolica a suggerire aLeone XIII un cambiamento di strategia per l’immediato avvenire e cioè un recupero di posizioni all’interno delle società civili delle principali compagini nazionali europee, mediato non già attraverso l’impegnativa funzione di forze partitiche elettorali, ma attraverso il ricorso diretto a rapporti di vertice con gli Stati: Chiesa e Stati dunque piuttosto che Chiese nelle società nazionali. E benché non fossero trascurati, soprattutto inizialmente, i mezzi efficaci della mediazione culturale attraverso la stampa cattolica ovvero l’associazionismo privato, oltre che per mezzo di partiti o forze politiche di segno dichiaratamente cattolico, il ritorno a una politica di vertice veniva sancito dalla decisa sottolineatura della valenza anche politica di nunziature e delegazioni apostoliche; inoltre il rafforzamento dell’istituto concordatario riusciva a conferire alla Chiesa cattolica, nel giro di pochi anni, una solidità internazionale e un’autorità in senso politico, quali la corte pontificia non ricordava da secoli e che sicuramente le vicende nostrane della questione romana avevano notevolmente contribuito a delimitare.

Ulteriori tentativi transigenti

La riforma elettorale del 1882, con un significativo aumento del suffragio, aveva spaventato l’opinione borghese, che ricorse ai vescovi per reclamare il sostegno del voto cattolico alla proprietà e all’ordine costituito. Il timore della piazza e le agitazioni dei sovversivi ebbero l’effetto di preoccupare i cattolici raccolti attorno all’Unione romana e alla «Rassegna nazionale», mentre la massa degli intransigenti non si risolse dalla posizione astensionista. Nuovamente nel 1887, dopo un infelice tentativo di Scalabrini dell’anno prima, papa Leone tentava la carta della conciliazione, esprimendo in un sermone un netto richiamo alla questione papale. Il padre benedettino Luigi Tosti pubblicò allora un pamphlet intitolato La Conciliazione, favorito dall’illusoria atmosfera di dialogo inaugurata dal pontefice, per esserne però subito sconfessato. Nonostante gli appelli del pontefice all’indipendenza del papato, avanzati per bocca del Segretario di Stato monsignor Rampolla, il governo non ritenne di procedere sulla via che era per poco sembrata dischiudersi.

Al mutato clima politico corrispose una rinnovata ondata di anticlericalismo perfino smaccato, riverberato da una letteratura retorica e tracotante e accompagnato da rinnovati provvedimenti repressivi, fra i quali spiccò nel 1887 la legge abrogativa delle decime e quella per la secolarizzazione delle opere pie nel 1890, che aveva avuto culmine con l’elevazione del monumento a Giordano Bruno nel 1889 a Campo de’ fiori: si pensi in particolar modo al linguaggio violento delle epigrafi apposte per le piazze italiane, apertamente rivolto contro l’oscurantismo cattolico.

Quello stesso anno, l’opuscolo conciliatorista di mons. Bonomelli, Roma e l’Italia, fu ufficialmente sconfessato dal pontefice, palesando il prevalere di una linea d’intransigente rifiuto della politica liberale.

Tuttavia, rispetto alla precedente rigidità di una linea rigoristica sotto il profilo ideologico-morale e intransigente sotto quello politico, il pontificato di Leone XIII si distingueva fra l’altro per un’interpretazione di fatto maggiormente possibilista del fenomeno elettorale, tendente a rimarcare l’opportunità di una presenza dei cattolici nelle amministrazioni pubbliche periferiche, dato in realtà mai del tutto venuto meno, e sicuramente impegnata nel sociale: il tutto avrebbe potuto, nel tempo, dar luogo a una moderna forma partecipativa, se non alla prefigurazione di un autentico partito dei cattolici italiani.

A ben vedere una tale scelta presagiva non solamente una nuova interpretazione meno rigida del non expedit, con talune sue attenuazioni in periferia, ma arrivava a configurare quasi una posizione intermedia rispetto alle due principali di transigenti e intransigenti. Tale linea politica, indubbiamente intelligente e più aperta rispetto al passato verso una forma, se non d’incontro, almeno di comprensione della modernità, condivisa dalle alte sfere vaticane, ma avversata da molti importanti circoli governativi o filogovernativi rispondenti a logiche e logge massoniche, venne tuttavia presto tralasciata dalla Curia romana. Prevalse, infatti, il decisivo timore di un inasprimento del già teso clima politico, in una casta liberale già propensa ad accelerare l’impulso alla laicizzazione della cosa pubblica, mediante un deciso giro di vite in senso anticlericale della legislazione amministrativa ed educativa38.

Dunque l’abbandono di tale, seppur momentanea, linea mediana, lungi dal rappresentare un passivo adeguamento o ritorno alla tradizionale linea astensionista del non expedit, dichiarava piuttosto l’abbandono della linea politica iniziale del pontificato leonino, consistente nella ricerca strategica di una partecipazione di massa dei cattolici alla politica italiana: l’abbandono di un embrionale partito cattolico, infatti, se rappresentava la fine di un esperimento conservatore che avrebbe potuto opporsi in maniera frontale agli scempi del liberalismo laicista, rappresentando col superamento del legittimismo la vera bandiera unitaria del mondo cattolico italiano, evitava il pericolo consistente di una radicalizzazione da ambo le parti dello scontro politico.

Tornava utile, in quei mutati frangenti, la precoce meditazione di un giovane sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, il quale sin da prima degli esordi amministrativi a Caltagirone aveva individuato lucidamente nell’astensionismo elettorale una formula difensiva contro una degenerazione reazionaria del voto cattolico, spesso non a tutela dei deboli o in difesa di forme di tutela sociale per il popolo, ma a sostegno delle classi privilegiate al potere. Tale eventuale deriva socialconservativa avrebbe comportato poi, inevitabilmente, secondo il sacerdote calatino, un inasprimento della difficoltosa situazione giuridica e politica della stessa Santa Sede, con limitazioni di non poco rilievo della sua indipendenza.

La democrazia cristiana di Murri

Per il movimento cattolico uscito dalla crisi di fine secolo restava preclusa una partecipazione alla vita politica attiva: lo stesso concetto cristiano di democrazia, com’era elaborato da Toniolo, non prevedeva uno sbocco organizzato in politica ed escludeva la partecipazione alla competizione elettorale. Il primo e principale interprete di una nuova concezione dell’impegno dei cattolici in politica era stato il sacerdote marchigiano Romolo Murri, fondatore della Fuci e di giornali e riviste come «Vita nuova», in seguito ridenominata «Cultura sociale». Dopo la repressione seguita ai moti sociali del 1898, che aveva visto coinvolti anche i cattolici, Murri aveva preso posizione sia contro gli intransigenti e la loro ostinazione antistatalista, sia contro i clericali che si erano prestati alla strumentalizzazione dei liberali moderati. La nuova idea murrina che si articolava dietro l’egida della democrazia cristiana, tentava una riconciliazione in campo culturale con la modernità, non solo nel sociale ma anche in politica, successivamente riproposta dai giovani della Lega democratica, conGiuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari.

Nell’ampio e suggestivo programma della nuova formazione politica, punto centrale era il raggiungimento del suffragio universale, confortato dal sistema a scrutinio proporzionale. Probabilmente troppo in anticipo sui tempi, il movimento, per lo più composto da giovani e giovanissimi esponenti provenienti dall’ala avanzata degli intransigenti, andò incontro alla sconfessione vaticana mentre il suo fondatore incorse nei rigori della Curia romana. Era troppo pretendere di utilizzare a fine politico l’organizzazione gerarchica della Chiesa, mentre d’altro canto l’anima integralista del Murri pretendeva di riformare l’irreformabile e soprattutto di promuovere la democrazia sotto la regia del clero.

Nella posizione integrista del Murri si manifestava insomma l’utopia della trasposizione di istanze morali indubbiamente sentite dal credente, sul piano della loro applicazione e realizzazione pratica nella logica di partito, nel presupposto che i valori religiosi potessero proporre direttamente soluzioni ai problemi storici, non mediate dalla politica.

Lo scioglimento da parte di Pio X di un’ormai incontrollabile Opera dei congressi e la crisi del murrismo, rientrava nel nuovo assetto rigoristico impresso dal nuovo pontefice alla Chiesa italiana, che all’esigenza della concentrazione religiosa con la riforma dei seminari, e la riduzione delle sedi diocesane, coniugava un’esigenza di purificazione, che pretendeva il più rigoroso programma di formazione del clero e la repressione senza scampo della devianza dottrinale, a cominciare dal riformismo religioso.

Don Sturzo riprendeva o pareva ripercorrere un cammino già negli anni di fine secolo tracciato da don Romolo Murri, il quale aveva sconfessato con nettezza l’opzione temporalista della parte più retriva del cattolicesimo papalino, che avrebbe rinchiuso l’evenienza di un voto cattolico nella gabbia di un’oscura e retriva opposizione, decisamente estranea alle moderne dinamiche parlamentari: ma mentre il sacerdote marchigiano era poi sconfinato in una formulazione di partito cristiano confessionale, per sua definizione e natura destinato a una visione integralista della società e appesantito da una missione di cristianità, don Sturzo non intravedeva ancora l’opportunità né la maturazione di tempi certi per consentire un ingresso dei cattolici nell’agone elettorale nel segno dell’accettazione democratica, sia pure in chiave liberale, del sistema parlamentare, rinviando a un ipotetico domani tale eventualità e recuperando al momento una valenza positiva del non expedit39.

La scomparsa dell’Opera dei congressi lasciava aperto il problema del rapporto religione-politica, vale a dire il problema dell’autonomia politica dei cattolici dinanzi alle mutate esigenze del tempo. Variamente giudicata dalla storiografia specialistica, l’Opera dei congressi, esaltata dalla storiografia laica (Spadolini), era apparsa ad alcuni l’espressione palese dell’incapacità di espressione ideologica dei cattolici (Scoppola), da altri veniva ridimensionata nella sua reale portata politica (Martina).

Pio X articolò la nuova organizzazione del movimento cattolico in tre unioni, quella popolare, quella economica e sociale, quella elettorale: si trattava di un evidente passo per superare l’astensionismo cattolico. Presto, la sconfessione della democrazia cristiana si accompagnò con la repressione del movimento di rinnovamento culturale e biblico40, da allora definito modernismo41, sanzionata dall’enciclica Pascendi dominici gregis del 1907, e con l’imposizione al clero del giuramento antimodernista, nel 1910. La sconfessione di democratici cristiani e modernisti si allargò subito anche ad ambienti laici del mondo letterario, con le condanne di Antonio Fogazzaro e della rivista «Il Rinnovamento», fondata da Tommaso Gallarati Scotti42. Le direttive di Pio X per i cattolici in politica escludevano categoricamente il ricorso a partiti ufficialmente cattolici, così che Meda e i cattolici deputati cercarono alleanze coi moderati, mentre Murri si batteva per l’autonomia della partecipazione politica, auspicando la separazione tra Stato e Chiesa e la promozione di una sfera di indipendenza politica per i cattolici.

L’opzione murrina di una forza autonoma organizzata elettoralmente, fu in ultimo raccolta da Sturzo, il quale andò oltre la precoce concezione del Murri, proponendo sin dal 1905 la nascita di un autentico partito di massa moderno, disposto a competere sul terreno politico per la ricerca d’intese parlamentari con altre forze democratiche.

Forse, proprio la frustrata esigenza di una sfera autonoma di responsabilità, costituiva l’eredità più importante del murrismo43, evidenziando la necessità non più eludibile di una presa di distanza dalla gerarchia ecclesiastica sul piano delle scelte politiche.

Il Centro di Filippo Meda

Fu lo scioglimento del movimento intransigente a marcare il passaggio da un’entusiastica fase di adesione alle vicende dei cattolici tedeschi centristi a un momento di assimilazione critica: la «Civiltà cattolica» pubblicò diverse aperture in tale direzione, per lo più del padre Antonio Pavissich o di padre Angelo De Santi, sulla scorta del testamento politico del Windthorst44.

Mentre in GermaniaJulius Bachem trascinava i cattolici tedeschi fuori dalla torre, con la quale espressione si rendeva merito alla ripulsa di qualsiasi arroccamento dei cattolici centristi, in Italia abortiva sul nascere il tentativo di Filippo Meda e di Ernesto Vercesi di un partito politico di centro, capace di disincagliare il voto cattolico dalle secche ormai putrescenti di un anacronistico astensionismo elettorale, a causa della sconfessione pontificia espressa con l’enciclica Il fermo proposito, nel giugno 190545. L’enciclica sanzionava così uno stemperamento parziale del non expedit anche per le elezioni politiche: si parlò di una sua ‘attenuazione’, «il papa tacerà», avrebbe detto Pio X a chi proponeva forme di partecipazione alle liste elettorali liberali.

Meda aveva colto nell’impostazione anticentralista di Windthorst una decisa alternativa allo statalismo prussiano, auspicando anche per i cattolici italiani l’avvento di un simile leader carismatico. Anche Ernesto Vercesi aveva confrontato la condizione del cattolicesimo italiano col modello tedesco, considerando, similmente e insieme al Meda, anche altri esempi europei, quali quello fiammingo della Ligue démocratique di Arthur Verhaegen, a quelli irlandese di Daniel O’Connell o svizzero di Gaspard Decurtins46.

Realizzando un soggetto politico sulla scia del Centro germanico, Vercesi auspicava «un fiotto di vita nuova»47 per la vita politica italiana, capace di derivare dall’esempio tedesco quel programma riformista in campo sociale e autonomo sul piano delle opzioni elettorali, tale da scongiurare qualunque assestamento di tipo moderato, ben alla larga dalle velleità conservatrici del gruppo milanese, legato a Gaetano Cornaggia Medici.

In dissenso dal gruppo conservatore e fortemente avversato dal leader storico degli intransigenti Stanislao Medolago Albani, la linea diFilippo Meda, invece, mirava chiaramente al partito autonomo e aconfessionale, sul modello del Centro di Windthorst, riformatore e progressista, dall’ispirazione non confessionale e politicamente aperto ad alleanze con forze spurie. Il futuro partito di centro, ispirandosi all’esperienza dei cattolici tedeschi nel Reichstag, pur con tradizioni e rappresentanti diversi, si proponeva –così Meda nel celebre discorso di Rho del dicembre 190448 – propugnatore di ideali «di pace religiosa, libertà politica e giustizia sociale»49.

La proposta di Meda, specialmente in confronto al coevo programma dei gruppi cattolico-conservatori, si distingueva, oltre che per l’opzione nel senso dell’autonomia, anche per andare oltre, ricordava il De Rosa, «quella concezione asfittica dell’ordine», che invece continuava a caratterizzare il versante clericale del movimento cattolico, riflettendo l’avversione antisocialista e la chiusura verso qualsiasi piano di riforme50.

Si trattava, in sostanza, di un’ipotesi interclassista e aconfessionale, aperta a tutte le tendenze politiche concorrenti, tale da superare, nella mente del Meda, tutte le residue e ormai stantie prevenzioni verso lo Stato unitario, con una fondamentale precisazione: i cattolici eletti al Parlamento, «come tutti i deputati», avrebbero ricevuto il mandato non dalla Santa Sede, ma dai loro elettori. In questo modo, Meda lasciava dietro di sé decenni d’astensionismo e immobilismo sul piano dell’impegno politico dei cattolici, superando definitivamente le posizioni che furono dell’Albertario ed esprimendo inoltre il proprio personale distacco dalle più rigide e integraliste proposte dello stesso Murri. Giovanni Mercati, vicino a Meda nella realizzazione del partito per i rapporti col Vaticano, ricordava l’adesione o l’impegno di personalità come Filippo Crispolti, Giuseppe Micheli, Paolo Pericoli, Carlo Zucchini, mentre Dino Secco Suardo avrebbe in seguito insistito sul cauto appoggio del padre Pavissich e dei gesuiti della «Civiltà cattolica» al fine però della formazione delle rappresentanze dirigenti cattoliche, prima dell’impegno in politica51.

Clerico-moderatismo

L’attenuazione del non expedit da parte di Pio X e la pratica diffusa degli accordi clerico-moderati dei cattolici entrati in politica, come allora si disse, ‘alla chetichella’, posizione per molti aspetti già anticipata e sperimentata a livello di elezioni amministrative sin dagli estremi anni del secolo da poco conchiuso, segnarono la parola fine per i progetti di un autonomo partito di centro.

Secondo gli ultimi eredi dei conservatori nazionali arroccati nella «Rassegna nazionale», i cattolici non dovevano formare un gruppo alla Camera, a pena di essere inquadrati come clericali. La pattuglia della Lega lombarda squalificava l’esperienza di Meda, non ravvedendovi le condizioni né la ragione d’essere, in un paese cattolico, di un partito autonomo di centro e Giuseppe Serralunga Langhi e il gruppo più schiettamente clericale insistevano per il carattere univocamente confessionale di un partito cattolico nazionale52.

Con l’accantonamento di un progetto di partito autonomo, tramontava in Italia anche l’attenzione per le vicende del cattolicesimo germanico, mentre ci si avviava a una diversa soluzione del problema della rappresentanza politica dei cattolici, codificata infine col patto Gentiloni alle elezioni del 1913: secondo Luigi Sturzo, un’operazione di retroguardia, che riguardava, ha ricordato Durand, solo quei collegi elettorali ove si fosse raggiunto un accordo fra voto cattolico e candidato giolittiano, in funzione di un tacito patto antisocialista53.

In effetti, a dispetto delle intenzioni dei leader e delle politiche di programma, l’elettorato del partito tedesco poggiava saldamente su base cattolica, al punto che la rappresentanza parlamentare coincideva con la divisione regionale confessionale della Germania54. Erano i contadini e i ceti medi cattolici, erano gli operai della Ruhr e della Saar oltre che della Slesia, tutte province cattoliche, a sostenere un partito che amava definirsi interclassista, ma che rifletteva un compromesso permanente tra aristocrazia fondiaria e piccoli ceti agrari, tra industriali illuminati e sindacati cristiani, tra proprietà agraria e ceti borghesi urbani55.

Anche il padre Pavissich si accostava a una nuova definizione del Centro germanico come partito ultramontano e romano56, contribuendo a sconfessare qualsiasi ipotesi nel senso dell’autonomia dalla gerarchia ecclesiale. Per parte liberale lo stesso «Corriere della Sera» discuteva l’eventuale estensibilità del modello centrista tedesco all’esperienza italiana, laddove avrebbe prevedibilmente configurato un partito clericale alle dipendenze dalla gerarchia57.

L’esempio del Centro germanico era recepito dunque in modo diverso dai gruppi organizzativi dell’impegno cattolico in Italia, quasi si trattasse di un archetipo onnivalente, estensibile a misura di ogni progetto: per l’Unione di centro di Meda e, al suo interno, per Vercesi, in funzione riformista e anticonservativa; per il cauto connubio integrista-moderato del padre Pavissich, il quale guardava al Centro come istituzione cattolica in Parlamento per la tutela degli interessi religiosi; ma anche per le mene conservatrici di Cornaggia, in definitiva, e precedentemente, secondo un giovane Giovanbattista Paganuzzi, persino la denominazione dell’Opera dei congressi58 era scaturita dal pensiero del Mallinckrodt e del primo Windthorst59.

Ben altro livello presentava, dunque, la nitida visione delMeda60, il quale aveva appoggiato la polemica progressista dei cattolici di Colonia contro l’integralismo della linea curiale di Berlino, in occasione delle elezioni d’inizio secolo. Lo stesso saggio di Alcide De Gasperi su Filippo Meda e sul primo inserimento dei cattolici nello Stato liberale, avrebbe reso merito alla dimensione europea del personaggio61.

Era stata la svolta impressa da Giolitti al quadro politico italiano, a rendere possibile un nuovo clima d’incontro tra cattolici e liberali62. Il leader piemontese aveva intuito che la partecipazione dei cattolici alle vicende dello Stato fosse un indispensabile contrappeso all’emergenza della sinistra, al punto da meritare un’attenuazione dei consueti toni anticlericali e un’inedita disposizione positiva verso i rappresentanti della Chiesa. La visita del cardinale Svampa ai reali nel 1904 e l’esecuzione dell’inno sabaudo al congresso di Bergamo nel 1911, rappresentavano indubbi segnali di un clima mutato.

Ormai lo Stato liberale e la Chiesa cattolica erano accomunati dall’identificazione dell’unico avversario nel movimento socialista, insieme alle intemperanze radicali dei democratici cristiani. Il collante comune era dato da un rischio, avvertito come drammaticamente imminente, da Pio X: non replicare in Italia l’alleanza socialista tra ceti medi e popolo, come era avvenuto nella Terza Repubblica di Combes, che aveva comportato una profonda spaccatura tra Stato e Chiesa.

Così fin dalle elezioni del 1904, i parlamentari moderati del centro liberale avevano ottenuto il voto dei cattolici per frenare la minaccia radicale e socialista, contro pallidi impegni a sostegno dei più vieti privilegi clericali, percepiti come diritti dei cattolici. I cattolici Cameroni e Cornaggia erano stati eletti al parlamento tra le schiere moderate. Alle elezioni del 1909, oltre cinquanta cattolici deputati incassarono il voto dei moderati liberali.

Infine, alle elezioni del 1913, dopo l’adozione del suffragio universale maschile, Giolitti ricomponeva a destra l’equilibrio del suo ministero col patto Gentiloni con i cattolici, rivolto a contrastare la prevedibile crescita dei socialisti, mentre Pio X scongiurava il rischio di un partito organizzato e inoltre eludeva le residue istanze democratico-cristiane, costrette ad appoggiarsi alla sinistra: sospeso a divinis nel 1907, Murri fu scomunicato nel 1909, finendo più tardi eletto nelle fila radicali della sinistra, «cappellano dell’estrema» come fu definito dalle parti dei liberali.

Sulle proposte ancora acerbe, ma aperte e coraggiose dei democratici cristiani, prevaleva dunque la linea dell’ordine e della stabilità sociale, minacciata dal socialismo. La diffidenza della gerarchia ecclesiastica e della maggioranza intransigente verso la democrazia cristiana, dimostrava un’incapacità di lettura della questione sociale, affrontata sul piano morale e caritativo, senza comprendere come l’emancipazione delle masse andasse invece risolta nel quadro più ampio delle libertà civili e dei diritti politici.

L’ottenimento di alcune garanzie da parte liberale era costata alla Chiesa un’irriducibile distanza dai ceti popolari, sempre più distaccati dalla funzione e fruizione religiosa, e di contro una crescente e formalista adesione da parte delle classi dominanti abbienti: tuttavia il nuovo sostegno borghese all’autorità ecclesiastica si manifestava soltanto contro la trasformazione sociale innescata proprio dal sistema liberale giolittiano, ed inoltre in una scambievole simpatia col movimento nazionalista, culminata in occasione della campagna di Libia, salutata da alcuni esponenti della gerarchia come una crociata cristiana.

Il prezzo più alto da pagare era intanto la rinuncia consapevole ai fermenti di rinnovamento provenienti da democratici cristiani e ambienti riformatori, ma anche la mancata attuazione di un partito politico rappresentato in Parlamento, come ormai esisteva in Austria o in Germania. Sul lungo periodo tutto questo avrebbe gravemente pesato sull’evidente ritardo italiano, anche in comparazione europea, tanto sul piano politico, con la mancata formazione di una coscienza elettorale tra i cattolici, che su quello culturale, con un grave e duraturo vuoto negli studi di ambito religioso.

Note

1 L. Cafagna, Cavour, Bologna 1999, p. 156.

2 V. Gioberti, Di Pio IX, in Pensiero e azione nel Risorgimento, Novara 1974, p. 248; F. Traniello, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990.

3 G. Rumi, Gioberti, Bologna 1999, p. 15.

4 L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino 1950, pp. 176 segg.

5 A. Scirocco, In difesa del Risorgimento, Bologna 1998, p. 116.

6 E. Passamonti, Il giornalismo giobertiano in Torino nel 1847-48, Milano 1914, p. 13.

7 B. Gariglio, Stampa e opinione pubblica nel Risorgimento. La Gazzetta del popolo (1848-1861), Milano 1987, pp. 9 segg.

8 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1977.

9 Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzocchi, Roma 2002, pp. 175 segg.; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, Torino 2000.

10 G. Mazzini, Lettere slave e altri scritti, saggio critico e cura di G. Brancaccio, Milano 2007, pp. 9 segg.

11 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1977, p. 13.

12 G. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea 1770-1922, a cura di R. Balzani, Milano 1999, p. 233.

13 G. Ignesti, Il tentativo conciliatorista del 1878-79. Le riunioni romane di Casa Campello, Roma 1988, pp. 17 segg.

14 P. Calà Ulloa, Unione non unità d’Italia, Lecce 1998, pp. 95 segg.

15 A.C. Jemolo, Chiesa e stato negli ultimi cento anni, Torino 1963.

16 G. Talamo, La formazione politica di Agostino Depretis, Milano 1970, pp. 184 segg.

17 Ketteler e Toniolo. Tipologie sociali del movimento cattolico in Europa, a cura di P. Pecorari, Roma 1977, pp. 12 segg.

18 G. Vecchio, Il mito del Centro e i progetti di F. Meda, in Cultura e società in Italia nel primo Novecento (1900-1915), Atti del II Convegno (Milano 1981), a cura del Centro di ricerca Letteratura e cultura dell’Italia unita, Milano 1984, p. 147 n.

19 G. Vecchio, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Brescia 1987, pp. 7 segg.

20 G. Licata, La «Rassegna nazionale». Conservatori e cattolici liberali italiani attraverso la loro rivista (1879-1915), Roma 1968, passim.

21 S. Trinchese, Governare dal Centro. Il modello tedesco nel “cattolicesimo politico” italiano del ’900, Roma 1994, pp. 3 segg.

22 G. Ignesti, Francia e Santa Sede tra Pio IX e Leone XIII, Roma 1988, il quale ripropone un’avveduta rilettura delle tesi di E. Lecanuet, L’Église de France sous la IIIe République, Paris 1930, pp. 9 segg.

23 C. Prudhomme, Stratégie missionnaire du Saint-Siège sous Léon XIII(1878-1903). Centralisation romaine et défis culturels, Roma 1994, pp. 1 segg.

24 Cfr. F. Fonzi, I cattolici e la società, cit., pp. 21 segg.; M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Roma 1977.

25 G. Ignesti, Il tentativo conciliatorista, cit., pp. 183 segg.

26 G. De Rosa, I conservatori nazionali. Biografia di C. Santucci, Brescia 1962, p. 225.

27 E. Soderini, Il pontificato di Leone XIII, II, Milano 1933, p. 20.

28 G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1955, p. 152.

29 G. Ignesti, Il tentativo conciliatorista, cit., p. 186.

30 F. Malgeri, Le riunioni del 1879 in Casa Campello, «Rassegna di politica e di storia», 6, 1960, 65, p. 23.

31 G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1970, p. 134.

32 F. Fonzi, I conservatori nazionali, in E. Clerici La partecipazione dei cattolici alla vita dello Stato italiano, Roma 1958, p. 57

33 E. Passerin D’Entrèves, Riflessioni sul problema del potere temporale a cent’anni da Porta Pia, «Il Mulino», 20, 1970, 6, p. 397.

34 F. Traniello, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Atti del Convegno (Bologna 1960), a cura di G. Rossini, Roma 1961, pp. 315 segg.

35 J.M. Mayeur, Catholicisme social et démocratie chrétienne. Principes romains, expériences françaises, Paris 1986, pp. 15 segg.

36 M. Vaussard, Histoire de la démocratie chrétienne. France, Belgique Italie, Paris 1956, pp. 12 segg.

37 M.-D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Brescia 1977, pp. 5 segg.

38 F. Fonzi, I cattolici e la società, cit., pp. 21 segg., pp. 56-62.

39 F. Traniello, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, cit., pp. 315 segg.

40 A. Zambarbieri, Il cattolicesimo tra crisi e rinnovamento. Ernesto Buonaiuti ed Enrico Rosa nella prima fase della polemica modernista, Brescia 1979, pp. 21 segg.

41 L. Bedeschi, introduzione a Il modernismo tra cristianità e modernizzazione, Atti del Convegno internazionale (Urbino 1997), a cura di A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2000.

42 P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961, pp. 33 segg.

43 Cfr. R. Murri e i murrismi in Italia e in Europa cent’anni dopo, Atti del Convegno internazionale (Urbino 2001), a cura di I. Biagioli, A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2004.

44 A. Pavissich, Il testamento di L. Windthorst al suo popolo, «La Civiltà cattolica», IV, 1904, pp. 641-657.

45 E. Fattorini, Il cattolicesimo politico tedesco, in Cultura politica e società borghese in Germania fra Otto e Novecento, a cura di G. Corni, P. Schiera, Bologna 1986, pp. 241-284.

46 G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze 1959, p. 187.

47 Erver (E. Vercesi), Una conferenza di Vercesi a Ferrara, «L’Osservatore cattolico», 10 dicembre 1904.

48 F. Meda, Scritti scelti, a cura di G.P. Dore, Roma 1959.

49 F. Meda, I cattolici italiani nella vita politica, «L’Osservatore cattolico», 29 dicembre 1904.

50 G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1976, p. 272.

51 D. Secco Suardo, Da Leone XIII a Pio X, Roma 1967, pp. 413 segg.

52 Per un partito cattolico nazionale, «Lega lombarda», 10 dicembre 1904.

53 J.D. Durand, L’Église à la recherche de l’Italie perdue, in Histoire du christianisme, XI, Libéralisme, industrialisation, expansion européenne (1830-1919), a cura di J. Gadille, J.-M. Mayeur, Paris 1995, pp. 611-636.

54 J.M. Mayeur, Des partis catholiques à la démocratie chrétienne, XIXe-XXe siècles, Paris 1980, p. 65.

55 Ibidem, p. 66.

56 A. Pavissich, Il carattere politico del centro germanico, in Milizia nuova dei cattolici italiani, 1905, pp. 124 segg.

57 Il Centro tedesco, «Corriere della Sera», 22 gennaio 1905.

58 Il movimento cattolico e la società italiana in cento anni di storia, Atti del Colloquio sul movimento cattolico italiano (Venezia 1974), Roma 1976.

59 G. De Rosa, Il movimento cattolico, cit., p. 57.

60 Filippo Meda tra economia, società e politica, Relazioni sul Convegno di studio (Milano 1989), a cura di G. Formigoni, Milano 1991.

61 A. De Gasperi, Meda e l’inserimento politico dei cattolici nello Stato costituzionale (1928), ora in «Civitas», 4, 1987, pp. 5-12.

62 G. Spadolini, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Firenze 1970.

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