Dall’etica medica alla bioetica

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Maria Conforti

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

L’emergere della bioetica, nella seconda metà del Novecento, è stata conseguenza del fallimento dell’etica medica tradizionale e dei codici deontologici, che non bastano a prevenire gli abusi della sperimentazione sull’uomo e la partecipazione dei medici alle pratiche di sterminio nel contesto dei regimi totalitari. La bioetica abbandona il paternalismo medico e assume come proprio principio morale il rispetto dell’autonomia decisionale delle persone, che nell’ambito medico si incarna nella pratica del consenso informato e nelle diverse strategie volte a tutelare gli individui che non sono in grado di fare scelte autonome. La riflessione bioetica si applica inoltre alla valutazione delle dimensioni morali implicate nell’analisi del rapporto tra rischi e benefici relativamente agli interventi medici o all’utilizzazione di nuove tecnologie biologiche, nonché all’esame dei criteri di giustizia nella distribuzione sociale dei costi e dei ricavi implicati nelle scelte politico-economiche riguardanti la sanità pubblica, ma anche l’accesso, l’utilizzazione e la commercializzazione delle biotecnologie agricole e industriali.

Una crisi di impatto sociale

I principi e i valori che, sin dall’antichità, governano la pratica professionale della medicina attraverso i giuramenti e i codici deontologici vincolano il medico ad agire sempre con l’intento di produrre il massimo beneficio per il paziente; gli vietano, inoltre, non solo qualsiasi intervento che possa arrecare danno al paziente stesso, ma anche di agire contro i valori morali prevalenti nella società. Il giuramento di Ippocrate e i codici professionali dei medici hanno rappresentato sino a metà del Novecento gli unici riferimenti etici normativi per il medico. In tal senso, le sole garanzie per i pazienti circa la correttezza, l’affidabilità e la benevolenza del medico erano rappresentate dal controllo esercitato dalla stessa comunità medica attraverso la selezione professionale. I codici deontologici stabilivano, in pratica, delle regole di comportamento, che, tuttavia, sino a quando la medicina non venne in possesso di rimedi e metodi di ricerca davvero efficaci, funzionarono relativamente bene come guide per una condotta moralmente corretta. Con l’avvento del metodo sperimentale e l’emergere della figura del medico-ricercatore, ovvero nel momento in cui la medicina comincia a disporre di trattamenti davvero efficaci e di un potente metodo di ricerca in grado di migliorare le conoscenze sulla funzionalità normale e patologica dell’organismo, tali regole rivelano sempre più inadeguate a contenere, per esempio, le ambizioni dei ricercatori a guadagnarsi un prestigio scientifico attraverso la sperimentazione sull’uomo, nonché a evitare che la medicina venga contaminata da ideologie politiche e sociali interessate a sfruttarne il ruolo per scopi diversi dalla cura dei pazienti e dalla prevenzione delle malattie.

La scoperta dei crimini commessi dai medici nei campi di concentramento nazisti induce il tribunale di Norimberga a fondare la sentenza su un nuovo codice etico di riferimento internazionale per ogni ricerca clinica su soggetti umani. Il Codice di Norimberga (1947) afferma innanzitutto che solo il “consenso volontario” rende moralmente accettabile la sperimentazione con soggetti umani. Nel 1948 viene votata dall’Associazione Medica Mondiale la Dichiarazione di Ginevra, che aggiorna in chiave laica i contenuti del giuramento di Ippocrate, e impegna il medico a non utilizzare, nemmeno “sotto costrizione”, le sue conoscenze contro le leggi dell’umanità. Ma nemmeno questi vincoli e impegni solenni sarebbero bastati a evitare che maturassero nuovi conflitti tra le istanze della ricerca e della pratica biomedica e quelle della società. L’Associazione Medica Mondiale ribadisce quindi nella Dichiarazione di Helsinki del 1964, approvata nel 1962 e accettata con qualche resistenza da parte della comunità medica, il concetto che solo il consenso esplicito e non presunto può giustificare moralmente la ricerca sui soggetti umani e che “nella ricerca medica gli interessi della scienza e quelli della società non devono mai prevalere sul benessere del soggetto”.

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta le scienze biomediche registrano una serie di sviluppi conoscitivi e terapeutici rivoluzionari: le scoperte della biologia molecolare, i progressi nelle tecniche di rianimazione, gli avanzamenti della farmacologia, e l’avvento della medicina dei trapianti rendono concreta la prospettiva di un controllo della vita, della morte e delle malattie da parte della medicina scientifica. Accanto alle promesse e alle aspettative di un continuo miglioramento della salute umana si manifestano anche i primi conflitti fra i valori che vegono privilegiati dal medico e dal ricercatore e quelli più largamente diffusi nella società. I progressi conoscitivi e applicativi delle scienze biomediche vengono percepiti progressivamente da parte dell’opinione pubblica e in contesti più umanistici come delle potenziali minacce all’umanità e alla dignità della persona, e la pretesa delle scienze biologiche di conoscere e manipolare i meccanismi fondamentali della vita e del comportamento umano veniva considerata come lesiva della libertà e la dignità dell’uomo.

Gli stessi protagonisti della ricerca biomedica, consapevoli della frattura in atto tra scienza e società, sviluppano una serie di riflessioni sull’etica della conoscenza scientifica, la responsabilità del ricercatore e l’esigenza di promuovere nella società “nuovi” valori, in grado di indirizzare le scelte politiche nel senso di un’utilizzazione del nuovo sapere per un miglioramento del benessere generale. Allo stesso tempo, però, vengono lanciati dagli stessi ricercatori ingiustificati allarmi sui rischi potenziali derivanti dall’utilizzo della tecnologia del DNA ricombinante. Nel 1974 gli inventori del DNA ricombinante propongono una moratoria unilaterale sull’uso della nuova tecnologia, e organizzano una conferenza ad Asilomar nel 1975, nella quale si chiarisce che non vi sono prove concrete dei rischi e quindi ragioni per rinunciare a praticare l’ingegneria genetica. Nondimeno l’allarme produce un clima di sospetto verso gli scienziati e le nuove biotecnologie nella società.

Termini e definizioni

Il termine “bioetica” (bioethics) veniva coniato nel 1970 dall’oncologo americano Potter Van Rensselaer proprio per definire un’ipotesi di etica di ispirazione ambientalistica, basata sulle conoscenze biologiche e volta a integrare tali conoscenze con i valori del sapere umanistico tradizionale allo scopo di sensibilizzare l’umanità verso i rischi della crescita demografica, dell’inquinamento ambientale e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche. La parola bioetica sarebbe comunque stata utilizzata negli anni Settanta e Ottanta con un diverso significato.

Nell’ambito della pratica medica, intanto, vengono denunciati, soprattutto negli Stati Uniti, numerosi casi di sperimentazione umana contrari all’etica del Codice di Norimberga e alla Dichiarazione di Ginevra del 1948. Lo scandalo più clamoroso è la scoperta, agli inizi degli anni Settanta, del Tuskegee Study. Circa 400 persone di colore di una contea dell’Alabama affette da sifilide erano state tenute sotto osservazione dagli anni Trenta, e per consentire il proseguimento della ricerca non erano state trattate con la penicillina neanche quando il farmaco divenne disponibile dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto ha una vasta eco nell’opinione pubblica statunitense. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti vota il National Research Act che istituisce la National Commission for the Protection of Human Subject of Biomedical and Behavioral Research. La Commissione, composta da 11 esperti, deve proporre delle linee guida di carattere etico per la regolamentazione della ricerca sperimentale su soggetti umani e su feti. Nel giugno 1978 viene diffuso il Rapporto Belmont: i principi del rispetto per le persone e le loro scelte morali autonome, della beneficità per i soggetti umani della ricerca biomedica e della giustizia nella distribuzione sociale dei benefici e degli inconvenienti vengono per la prima vota identificati come criteri di riferimento per la valutazione etica della ricerca e della pratica biomedica.

Le idee all’origine della bioetica maturano negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta tra i filosofi morali, di orientamento sia laico sia religioso, che sviluppano un crescente interesse per l’applicazione delle dottrine etiche ai diversi campi dell’attività umana, con lo scopo di identificare principi morali e metodi adeguati a risolvere efficacemente i numerosi conflitti che caratterizzano la complessificazione dei rapporti sociali. Tutte assumono la libertà e l’autonomia individuali come presupposto per qualsiasi scelta eticamente valida. I filosofi mettono in discussione la possibilità che un’etica medica basata sui principi morali dei codici deontologici possa assicurare il rispetto dei diritti individuali delle persone. Per i filosofi morali, e per molti teologi e giuristi, i medici possono legittimamente reclamare una competenza sui fatti della scienza medica, ma mancano di competenza nel riconoscimento dei principi etici e dei valori che dovevano guidare le scelte. In particolare i valori del paziente devono essere considerati decisivi, e questi deve essere trattato dal medico come una persona dotata di capacità di scelta autonoma: in tal senso qualsiasi tentativo del medico di ampliare la sua competenza scientifica viene giudicato un errore morale di “paternalismo” (un giudizio moralmente negativo che da quel momento avrebbe caratterizzato tutta la tradizione dell’etica medica che riconosceva come valori fondamentali i doveri morali del medico). È importante tenere conto che la nuova etica biomedica si sviluppa in quegli anni soprattutto analizzando i presupposti filosofico-giuridici del consenso informato e la possibilità che il paziente abbia il diritto di rifiutare, sulla base del proprio sistema di valori, un trattamento terapeutico. L’intento di differenziare la nuova prospettiva morale da quella dell’etica medica tradizionale porta quindi all’affermarsi del termine bioetica con un significato diverso da quello originario, definito nella prima edizione dell’Encyclopedia of Bioethics (1978) come “lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali”.

Un paziente non astratto

Nel corso degli anni Ottanta si manifestano diverse critiche al primato del principio di autonomia nel processo decisionale. Da più parti si obietta che se l’obbligo primario del medico e dell’operatore sanitario è quello di guarire il malato o di mantenere in salute una persona, nel momento in cui viene data la precedenza all’autonomia del paziente rispetto agli obblighi stabiliti dai codici professionali, i medici sarebbero costretti a violare i doveri morali. Un altro argomento contro un’intepretazione troppo radicale del principio di autonomia è quello dell’interesse collettivo: mentre da un lato il processo di socializzazione condiziona le scelte individuali (e quindi l’idea di valori scelti autonomamente è un’illusione), d’altro canto i desideri e le scelte individuali devono comunque conformarsi alle convenzioni sociali. Come conseguenza della crisi economica degli anni Settanta, che mette in discussione nei Paesi anglosassoni i presupposti etici dell’assistenza sanitaria secondo il welfare state, il dibattito bioetico si apre alla riflessione sui problemi delle scelte politiche ed economiche più efficaci per far fronte alla scarsità delle risorse e all’aumento dei costi per la sanità pubblica.

Il problema dell’autonomia del paziente negli ultimi anni è diventato relativamente secondario nella letteratura bioetica, rispetto ad altri concetti morali come la giustizia, l’onestà, l’eguaglianza, l’efficienza economica e il contenimento dei costi.

A partire dalla metà degli anni Ottanta, mentre i temi della riflessione bioetica si diffondono in tutti i Paesi occidentali, e cresce la domanda di interventi legislativi e di un’attività di formazione e insegnamento in tal senso, va divulgandosi la bioetica negli ospedali e nelle scuole di medicina come un sistema di procedure decisionali astratte dando origine a un’etica preconfezionata che consenta di dare risposte semplici e soluzioni veloci ai numerosi problemi morali che medici e ricercatori si trovano ad affrontare. Come reazione al prevalere di un’accezione formalistica e procedurale della bioetica applicata si manifestano a livello teorico e metodologico, negli Stati Uniti, due orientamenti abbastanza divergenti.

Alcuni dei fondatori della bioetica, vale a dire coloro che avevano definito una maggiore articolazione della bioetica sia rispetto all’etica medica tradizionale sia rispetto alle radici semantiche, biologistiche ed ecologiche del termine, cominciano a recuperare l’originaria ispirazione globalistica che collega i problemi dell’etica biomedica con quelli più generali dell’etica ambientale e di un orizzonte speculativo più vasto entro cui definire i valori e i principi da assumente come guide nelle scelte bioetiche. In tal senso, nella seconda edizione dell’Encyclopedia of Bioethics (1995), curata dai ricercatori che hanno fondato la bioetica come disciplina negli anni Settanta e Ottanta, si osserva il prevalere di una definizione che, accanto alle questioni strettamente biomediche, torna a dare importanza ai problemi ambientali come quelli dello sviluppo demografico, del degrado ecologico e dei rapporti fra l’uomo e gli altri viventi.

Nel frattempo i medici rivalutano, anche a livello di analisi dei problemi morali, i metodi decisionali della pratica clinica, e in alcuni casi esplorano la possibilità di applicare i metodi della ricerca empirica – soprattutto epidemiologica – alla valutazione dell’efficacia delle procedure adottate nella soluzione dei conflitti morali e di interessi nella ricerca e nella pratica clinica. Di fatto, i tentativi di applicare le procedure formali, ovvero gli algoritmi decisionali proposti dai manuali di bioetica si rivelano alquanto frustranti, nel senso che i medici si trovano di fronte a situazioni sempre diverse, in cui ogni paziente dimostra diversi gradi di interesse, capacità e bisogno di partecipare al processo decisionale. Vale a dire che non è vero che la maggior parte dei pazienti desideri e sia in grado di partecipare attivamente alle scelte mediche, né che il loro diritto di partecipare al processo decisionale sia l’elemento davvero fondamentale in tutte le situazioni. Il medico deve innazitutto predisporsi per aiutare il paziente a esercitare l’autonomia. In tal senso, la dottrina bioetica appare essenzialmente statica e cognitiva e necessita di una formulazione più flessibile e ritagliata su situazioni reali. L’immagine che la bioetica assume del paziente, come un astratto operatore decisionale, che per caso è anche un malato, mostra tutti i propri limiti: nel senso che ogni paziente va considerato come un individuo unico e complesso, con la sua biografia, le sue proprie esperienze di vita, credenze personali, valori e intenzioni: elementi che peraltro possono essere modificati dalla malattia.

A partire dalla fine degli anni Ottanta, accanto alle discussioni teoriche dei concetti etici o all’analisi di casi individuali, appaiono studi realizzati da medici che si erano lasciati catturare dai problemi dell’etica medica e a cui tuttavia cercavano di trovare soluzioni in modo empirico. Piuttosto che insistere con l’applicazione dei metodi teorici dei teologi o dei filosofi – spesso discussioni su questioni di principio – essi propongono i metodi empirici dell’indagine sociologica e soprattutto dell’epidemiologia clinica. Il passaggio alla ricerca empirica in etica medica rappresenta un positivo sviluppo, anche se non potrà sostituire completamente la riflessione teorica. L’approccio empirico in relazione a scelte cliniche e alle decisioni sostitutive nel contesto delle terapie di rianimazione consente di identificare nuovi problemi etici, di focalizzare l’attenzione su questioni teoriche che nella pratica concreta possono avere conseguenze problematiche e di valutare la capacità di chi fornisce cure mediche di rendere operativi i principi etici. Infatti la maggior parte della ricerca empirica pubblicata nella letteratura medica utilizza le metodologie dell’epidemiologia e dell’analisi decisionale piuttosto che i metodi qualitativi della sociologia e dell’antropologia. In tal senso vengono effettuati studi per esaminare gli atteggiamenti verso casi ipotetici, piuttosto che indagare il comportamento di partecipanti a situazioni di vita reale.

Nel corso degli anni Novanta la riflessione bioetica si è progressivamente dedicata alle applicazioni delle tecnologie genetiche e cellulari. Mentre l’applicazione delle biotecnologie in ambito agro-alimentare solleva soprattutto in Europa una reazione di paura per i potenziali rischi ambientali e sanitari derivanti dalla coltivazione e commercializzazione di organismi geneticamente modificati, l’avvento di tecniche di diagnosi molecolare prenatale, di fecondazione in vitro e di trasferimento del nucleo cellulare (clonazione) concentra l’attenzione sui valori etici e i diritti in gioco nelle scelte riproduttive e in relazione alla prospettiva di utilizzare gli embrioni umani per scopi di ricerca e per mettere a punto nuove terapie per le malattie degenerative. Accanto alle applicazioni della genetica e dell’ingegneria riproduttiva e cellulare, le controversie bioetiche emergenti riguardano gli studi sul cervello e le ricadute delle nuove conoscenze e tecnologie neuroscientifiche che consentirebbero di diagnosticare anomalie neurologiche associate a comportamenti socialmente devianti, o per lo sviluppo di trattamenti farmacologici con cui potenziare le capacità individuali. Per quanto riguarda le implicazioni etiche della ricerca neuroscientifica e delle ricadute applicative delle tecniche di indagine e intervento medico sul cervello, si tratta di temi ormai oggetti di una specifica riflessione neuroetica, che include anche il problema di esaminare i processi neurofisiologici implicati nei giudizi morali.

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