DALLA MEDICINA ALTERNATIVA ALLA MEDICINA INTEGRATA

XXI Secolo (2010)

Dalla medicina alternativa alla medicina integrata

Francesco Bottaccioli

Il primo organismo statale a occuparsi nel mondo occidentale di medicine e terapie diverse da quelle convenzionali è stato l’Office of alternative medicine, istituito nel 1992 presso gli statunitensi National institutes of health (NIH). Pochi anni dopo l’Office si trasformò in National center for complementary and alternative medicine (NCCAM). L’acronimo CAM (Complementary and Alternative Medicine) divenne sinonimo di quelle che in Europa venivano chiamate medicine non convenzionali. A partire dai primi anni del 21° sec. si è andata sempre più diffondendo la definizione di medicina integrata (integrative medicine negli Stati Uniti, integrated medicine in Gran Bretagna), marcando così l’aspetto complementare delle medicine non convenzionali.

In questo saggio useremo prevalentemente queste ultime definizioni, anche se, talvolta, a seconda del contesto, useremo anche la generica dizione medicine non convenzionali.

Diffusione delle medicine complementari

Dall’ultimo decennio del 20° sec. nei principali Paesi industrializzati, è in atto una crescente diffusione dell’uso delle medicine complementari. Negli Stati Uniti, tra il 1990 e il 1997, l’uso di tali terapie è passato dal 33,8% al 42,1% della popolazione. All’inizio del 21° sec. sarebbero addirittura 62 su 100 gli statunitensi che fanno ricorso alle medicine complementari (P.M. Barnes, E. Powell-Griner, K. McFann, R.L. Nahin, Complementary and alternative medicine use among adults. United States, 2002, «Advance data», 2004, 343, pp. 1-19). Livelli molto elevati di utilizzazione (tra il 30 e il 40% della popolazione) si registrano anche in Australia, Francia, Germania, Gran Bretagna.

In Italia, un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sul finire del 20° sec. registrava un valore del 15,5%, che, a un successivo monitoraggio del 2005 a opera dello stesso Istituto, risultava sceso a 13,6% (ISTAT 2007). Stando a questi dati, quindi, il nostro Paese non solo si collocherebbe all’ultimo posto tra le nazioni occidentali più ricche che utilizzano le medicine complementari, ma presenterebbe anche un divario sorprendente rispetto ai Paesi affini. In realtà, occorre considerare che nelle statistiche statunitensi si inserisce tra le CAM anche il ricorso alla preghiera, per sé e per gli altri. Se si toglie la preghiera, il tasso di utilizzazione negli Stati Uniti scende al 36% (Institute of medicine of the National academies 2005). Per converso, le indagini ISTAT per l’Italia, a cui ci siamo sopra riferiti, sono estremamente restrittive, in quanto prendono in esame solo le principali medicine complementari: agopuntura, omeopatia, fitoterapia, trattamenti manuali. D’altra parte, altre indagini, effettuate nello stesso periodo (dati EURISPES 2006), attestano che l’omeopatia da sola vanta 11 milioni di utilizzatori a fronte di un numero di italiani inferiore a 8 milioni stimato dall’ISTAT in riferimento alle medicine non convenzionali nel loro complesso.

Ma, al di là delle statistiche discordanti, è interessante analizzare, sia pur in sintesi, la distribuzione delle preferenze e le caratteristiche socioculturali degli italiani che ricorrono alle medicine complementari. Se­condo la già citata indagine ISTAT del 2007, l’omeo­patia nel nostro Paese è la medicina complementare di gran lunga preferita (7%), seguita dai trattamenti manuali (6,4%), dalla fitoterapia (3,7%) e dall’agopuntura (1,8%). Il forte incremento che si è registrato nell’uso delle medicine complementari in Italia, tra il 1994 e il 2000, è dipeso proprio dall’omeopatia, che però nel quinquennio successivo non è riuscita a stabilizzare l’espansione, ma ha addirittura registrato una flessione, che del resto caratterizza anche le altre discipline.

In Occidente, sono più le donne che gli uomini a fare ricorso alle medicine complementari. Infatti, in Italia le donne sono 4,7 milioni, pari al 15,8%, a fronte dei 3,162 milioni di uomini, pari all’11,2%; ma, se si considera la fascia di età tra i 35 e i 44 anni, più del 20% delle donne risulta aver fatto ricorso a rimedi non convenzionali contro il 14,6% dei coetanei uomini. Quasi il 10% dei bambini e dei ragazzi fino a 14 anni è curato con terapie complementari, di cui circa l’8% con l’omeopatia. Molto accentuate le differenze tra i sessi riguardo al ricorso all’omeopatia, ossia 8,8% di donne contro 5,1% di uomini, mentre sono più contenute nel caso dell’agopuntura (2,2% contro 1,5%) o dei trattamenti manuali (7,1% contro 5,7%).

Coloro che utilizzano le medicine complementari sono in prevalenza laureati e diplomati, dirigenti, imprenditori, liberi professionisti e impiegati. Più modesta la percentuale di operai e pensionati. Netto il divario tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali. Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto e Friuli presentano una percentuale di utenti ben sopra il 20% della popolazione, con la provincia di Bolzano che è oltre il 34%, in crescita lineare rispetto al passato e in controtendenza rispetto al resto d’Italia che, come abbiamo ricordato, ha visto una flessione nei primi anni del 21° secolo. Ma anche Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna sono vicine al 20%; seguono, ben distanziate, Toscana (15,5%), Umbria (14,1%), Marche (13,8%), Lazio (12,2%) e Sardegna (11,6%). Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia invece hanno una percentuale bassissima: attorno al 5%.

Il grado di soddisfazione degli utilizzatori delle medicine complementari è elevato. Gli utenti pienamente soddisfatti delle terapie utilizzate vanno dal 61,1% dell’agopuntura al 70,3% della fitoterapia, al 71,3% dell’omeopatia fino al 77,9% dei trattamenti manuali. Se si sommano anche quelli parzialmente soddisfatti si hanno queste percentuali: agopuntura 79,8%, fitoterapia 91,5%, omeopatia 92,5%, trattamenti manuali 96%. Un’analisi più dettagliata mostra che l’aumentare dell’età e la diminuzione del livello di istruzione sono correlati con l’aumento del grado di insoddisfazione. Questo può spiegare la più bassa percentuale di soddisfazione riferita all’agopuntura, i cui utenti sono mediamente più anziani, con un più basso grado di istruzione, che ne usufruiscono soprattutto per patologie dolorose croniche di difficile risoluzione anche con la farmacologia e la chirurgia.

Tre persone su quattro che si sono rivolte alle terapie complementari non l’hanno fatto in maniera esclusiva, ma le hanno integrate con farmaci di sintesi. Solo il 17% degli intervistati ha dichiarato di aver usato esclusivamente rimedi omeopatici o fitoterapici. Anche in questo caso è interessante notare il divario tra Nord-Sud. Al Nord è maggiore la tendenza all’integrazione rispetto al Sud. In Veneto o in Emilia-Romagna solo il 13% degli utilizzatori di medicine complementari lo fa in modo esclusivo, mentre in Molise è il 36% e in Campania quasi il 24%. Al riguardo si possono ipotizzare due ragioni fondamentali: una di tipo economico, e cioè l’aggravio di spesa che comporta il ricorso contemporaneo alle due medicine, come dimostrato dalla forte perdita nelle regioni meridionali di utilizzatori delle medicine complementari nel quinquennio 2000-2005, con una fase di crescita economica vicina allo zero; l’altra ragione è relativa al fatto che, laddove il ricorso alle medicine complementari è un fenomeno ristretto, preponderanti appaiono le motivazioni culturali ‘alternative’ rispetto al pragmatismo che caratterizza il fenomeno di massa che si registra al Nord del Paese.

Tendenza mondiale all’integrazione

L’integrazione in Oriente

L’integrazione tra diversi sistemi medici è un fenomeno in atto da decenni nei due più grandi Paesi asiatici, Cina e India, dove è regolamentata e attivamente promossa da ordinamenti e politiche statali. In India, presso il Ministero della salute e del welfare familiare, ha sede dal 1995 uno speciale dipartimento denominato AYUSH (Ayurveda, Yoga & naturopathy, Unani, Siddha and Homoeopathy), acronimo che comprende tutte le discipline mediche complementari che, insieme alla medicina convenzionale, fanno parte del Servizio sanitario nazionale: ayurveda (medicina tradizionale indiana), yoga, naturopatia, unani (antico sistema medico di derivazione greca), siddha (una delle più antiche terapie del Sud dell’India), omeopatia.

Per quanto riguarda l’omeopatia (Prasad 2007) sono 250.000 i medici omeopati indiani registrati, mentre sono 11.000 i letti negli ospedali pubblici riservati alle cure omeopatiche. L’omeopatia è insegnata nelle facoltà di medicina, dove i primi tre anni di studio sono identici sia per chi diventerà un omeopata sia per chi sarà un medico di tipo occidentale.

Secondo fonti governative, circa il 10% degli indiani, 100 milioni di persone, si affida per la propria salute solo alle cure omeopatiche. È evidente quindi che il ricorso alle cure della tradizione indiana o di quella alternativa europea (l’omeopatia venne introdotta in India negli anni Trenta del 19° sec. da John Honigberger, un discepolo diretto del fondatore dell’omeopatia Samuel Friedrich Christian Hahnemann) risente anche delle ristrettezze di bilancio statale, ma non si deve pensare che sia un fenomeno residuale legato allo stadio di sviluppo economico del Paese; l’omeopatia è infatti in crescita notevole tra le classi abbienti. Il mercato dei prodotti omeopatici in India cresce a un ritmo del 25% l’anno e si calcola che, attorno al 2015, la spesa privata per l’omeopatia nel grande Paese asiatico si aggirerà attorno ai 60 miliardi di rupie (circa 1,55 miliardi di dollari).

La Cina, dagli anni Ottanta del 20° sec., è promotrice della diffusione mondiale della medicina tradizionale cinese. All’interno del Paese, la medicina cinese e quella occidentale sono oggetto di attive politiche di integrazione nel servizio sanitario nazionale, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento universitario. Nel primo decennio del 21° sec. si è registrato un doppio movimento: da un lato, lo studio e la ricerca in biomedicina hanno fatto grandi progressi conquistando quote crescenti di giovani studenti e insidiando quindi la diffusione della medicina tradizionale; dall’altro lato, la politica degli accordi internazionali, per lo studio e l’insegnamento della medicina tradizionale cinese in Occidente, ha raggiunto importanti traguardi con l’istituzione di corsi professionalizzanti in medicina tradizionale cinese gestiti dalle università statunitensi ed europee, tra cui quelle italiane, in collaborazione con le istituzioni formative cinesi.

Per effetto della globalizzazione, si può pertanto prevedere che la spinta alla medicina integrata proveniente dai grandi Paesi asiatici entrerà sempre più in collegamento con l’analoga spinta che è in atto nei principali Paesi occidentali.

L’integrazione in Occidente

Nel primo decennio del 21° sec. l’integrazione delle medicine complementari con la medicina convenzionale ha assunto le caratteristiche di un trend in ascesa che riguarda l’America Settentrionale e l’Europa.

Negli Stati Uniti una quota crescente di ospedali offre terapie complementari, mentre sono sempre più numerosi i medici che usano le CAM nella loro pratica. Le più importanti università del Paese si sono unite nel Consortium of academic health centers for integrative medicine. Prestigiosi centri di cura, in particolare di terapia del cancro, hanno istituito al loro interno servizi di medicina integrata, che spesso sono in diretto contatto con le facoltà mediche per garantire un insegnamento qualificato.

Dal 1998 è attivo, presso i NIH, il National center for complementary and alternative medicine (NCCAM), che è passato da un budget annuale iniziale di 2 milioni di dollari a oltre 120 milioni di dollari per l’anno 2009; ma se si calcola l’insieme degli investimenti di tutti i NIH nel campo delle CAM, si superano i 300 milioni di dollari. Di questa cifra, oltre un terzo è destinato al settore dell’oncologia (Integrative oncology, 2008). Infine, a dimostrazione del successo delle CAM negli Stati Uniti, c’è da considerare la crescente copertura assicurativa delle spese sostenute per le terapie complementari e integrate.

Rilevante è l’esperienza nel campo dell’oncologia integrata. Centri oncologici di eccellenza, tra i più famosi del mondo, come il Memorial Sloan-Kettering cancer center di New York e il Dana-Farber cancer institute della Harvard university a Cambridge (Stati Uniti), hanno attivato, dalla fine degli anni Novanta, servizi di medicina integrata rivolti ai pazienti ricoverati o in trattamento esterno. In questi centri terapeutici lavorano insieme medici esperti in medicine complementari (agopuntura, fitoterapia, omeopatia), psicologi psicoterapeuti, dietisti, musicoterapeuti, esperti in massaggio orientale (tuina e shiatsu), maestri di tecniche meditative e di ginnastiche energetiche orientali (qigong, taiji quan). L’obiettivo è quello di integrare la terapia oncologica standard con trattamenti complementari rivolti al miglior controllo della sintomatologia, anche di quella secondaria alle terapie (nausea, vomito, astenia, dolore, danni cutanei ecc.), ma rivolti anche a innalzare le capacità di superamento della malattia tramite la considerazione della persona nella sua interezza (Cassileth, Gubili, in Integrative oncology, 2008).

I centri ospedalieri di oncologia integrata funzionano, al tempo stesso, da centri di ricerca e di formazione. Le terapie complementari e alternative vengono sottoposte ad accurata verifica scientifica, tramite l’esame della letteratura, ma anche mettendo in campo studi clinici controllati. L’obiettivo dichiarato è quello di offrire il meglio delle terapie complementari proteggendo i pazienti dall’uso di terapie non validate o rischiose.

Il crescente successo dell’oncologia integrata ha indotto i responsabili dei centri maggiori a dar vita nel 2004 a una società scientifica, la Society for integrative oncology (SIO), che nel 2007 ha redatto le linee guida per il corretto uso delle CAM in oncologia (G.E. Deng, B.R. Cassileth, L. Cohen et al., Integrative oncology practice guidelines, «Journal of the Society for integrative oncology», 2007, 5, 2, pp. 65-84). La SIO si sta impegnando in un programma di diffusione internazionale: un importante simposio è stato infatti celebrato a Shanghai nell’aprile del 2008.

In Italia sono circa duecento i centri pubblici che offrono prestazioni di medicina complementare, di cui una sessantina solo in Toscana che, tra le regioni, è quella che si è spinta più avanti nell’integrazione delle CAM nel servizio sanitario regionale. Con il Piano sanitario regionale 2005-2007 la Regione To­scana ha infatti deciso di integrare nel servizio sanitario agopuntura, omeopatia e fitoterapia, cioè le terapie complementari che, al momento, il legislatore regionale ha ritenuto presentino un’evidenza scientifica sufficiente. I cittadini toscani, a partire dal 2006, possono accedere in modo diretto (senza prescrizione del medico di base) ai servizi di medicina complementare che vengono erogati al pari di altre prestazioni mediche. Inoltre, l’autorità regionale ha deciso di inserire un rappresentante delle medicine complementari in ogni Azienda sanitaria e nel Consiglio sanitario regionale. È stata istituita anche una rete di medicina integrata con tre centri di riferimento regionale: a Firenze per l’agopuntura e la medicina cinese, a Empoli per la fitoterapia, a Lucca per l’omeopatia. Nella primavera del 2008 è stato annunciato il varo del primo ospedale di medicina integrata a Pitigliano (Grosseto), esperienza pilota su scala europea. Ma, oltre che in Toscana, riferimenti e programmi di attività relativi alle medicine complementari si trovano nei Piani sanitari regionali di Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio, mentre in quasi tutte le altre regioni sono attivi osservatori, commissioni o altre strutture istituzionali di riferimento. Rilevante, infine, l’approvazione di un documento sulle CAM nei corsi di laurea dell’area sanitaria da parte della conferenza dei presidi delle facoltà di Medicina e dei presidenti dei corsi di laurea in medicina e chirurgia, tenutasi ad Alghero nel 2004. Dopo questa conferenza, nell’anno accademico 2005-06, alcune università (Milano, Verona, Bologna, Firenze, Modena e Reggio nell’Emilia) hanno inserito corsi obbligatori o elettivi per gli studenti di medicina, mentre altre (Brescia, Chieti, Firenze, Padova, Roma La Sapienza) hanno offerto corsi di perfezionamento postlaurea; e altre ancora (Milano, Firenze, Roma La Sapienza e Roma Tor Vergata) master di I e di II livello (Le medicine non convenzionali in Italia, 2007).

Ostacoli e spinte all’integrazione

Nonostante la tendenza all’integrazione sia ben operante su scala mondiale e nazionale, non pochi e non piccoli sono gli ostacoli che si oppongono a tale processo. I principali possono essere classificati come di tipo epistemologico, scientifico, politico e culturale.

Per quanto riguarda gli ostacoli di tipo epistemologico, il modello biomedico riduzionista a cui si ispira la medicina convenzionale può costituire un recinto invalicabile per medicine e approcci terapeutici che si ispirano a modelli di carattere olistico. Ci si può trovare, in sostanza, nella condizione descritta da Thomas S. Kuhn a proposito dell’incomunicabilità tra paradigmi (The structure of scientific revolutions, 1962; trad. it. 1969).

In merito agli ostacoli di tipo scientifico, come vedremo più avanti, pur verificandosi un trend crescente di studi controllati sull’efficacia e la sicurezza delle terapie complementari, è ancora complessivamente debole e non omogenea la ricerca nel campo delle CAM.

Riguardo agli ostacoli di tipo politico e culturale, in Italia in particolare, importanti opinion leaders della scienza sono stabilmente schierati contro ogni tentativo di regolamentare per legge la materia e, soprattutto, contro ogni progetto di finanziamento per ricerca e servizi alla popolazione in ambito CAM. Questa opposizione alla medicina integrata è anche ciò che spiega, almeno in parte, il fatto che il Parlamento italiano, pur sollecitato da numerosi progetti di legge, dalla fine degli anni Ottanta al 2009 non ha trovato la volontà di legiferare in materia.

Prima di riassumere in breve l’annosa querelle, è utile sottolineare che il fondamentale ostacolo di tipo epistemologico è venuto virtualmente meno con l’emergere, dal seno della medicina scientifica, della psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), un nuovo modello sistemico di visione dell’organismo umano in salute e in malattia (cfr. Bottaccioli 20052; Psycho­neuroimmunology, 20074).

Il mutamento di paradigma scientifico: la PNEI

Viviamo in un’epoca ipertecnologica e iperspecialistica, nella quale forme spettacolari di intervento sul vivente (biotecnologie) e sull’organismo umano (trapianti, ingegneria genetica) convivono con un diffuso analfabetismo sugli aspetti di fondo della regolazione del benessere psicofisico e della salute umana. Questo analfabetismo moderno riguarda le persone, che sempre più vanno alla ricerca di un aiuto per affrontare in modo unitario malesseri e problemi fisici e psichici. Richiesta spesso frustrata dalla biomedicina iperspecialistica e che, sociologicamente, costituisce una delle principali forze di attrazione verso le medicine complementari, i cui operatori tendono a fornire risposte che riguardano la persona nella sua interezza e non semplicemente il disturbo che è all’origine del consulto (Colombo, Rebughini 2006).

Ma anche ampi settori di studiosi e di operatori della salute soffrono ormai le difficoltà del modello biomedico dominante, vivendo la contraddizione tra l’aumento delle conoscenze scientifiche e la riduzione del campo di indagine e di intervento terapeutico, sempre più imprigionato in ambiti specialistici. In questo quadro, la persona che chiede aiuto sparisce come unità biopsichica e viene sostituita da segmenti sovrapposti e non relazionati su cui si applicano le diverse competenze e le singole terapie, talvolta con effetti di accumulo e di sinergia negativa. Non a caso la frustrazione è uno dei sentimenti più diffusi tra gli operatori: essa deriva, per l’appunto, dal sentirsi meccanici del corpo o della mente e non promotori della salute. Eppure è sempre più evidente, sulla base di importanti studi epidemiologici e studi sperimentali mirati, che gran parte dei malanni che affliggono l’umanità è radicata nelle cattive relazioni che gli esseri umani instaurano tra loro e con l’ambiente. Le strutture contemporanee dell’alimentazione, del lavoro e della vita sociale plasmano ambienti urbani, stili di vita e comportamenti che costituiscono le radici delle principali patologie moderne: cardiopatie, tumori, malattie autoimmuni e allergiche, disturbi dell’umore e del comportamento.

Il mutamento di questo stato di cose comporta una molteplicità di altri cambiamenti, nelle persone, negli operatori e nelle istituzioni, ma richiede anche un’innovazione nel modello scientifico di riferimento, superando definitivamente la dicotomia mente-corpo, che porta con sé la separazione tra cura del corpo e cura della psiche, tra prevenzione primaria, affidata agli stili di vita, e secondaria, affidata essenzialmente ai farmaci. La PNEI fornisce un quadro di riferimento che evita le tentazioni di ridurre la psiche a modelli biologici o informatici, rintracciandone le solide radici nel sistema nervoso centrale, ma, al tempo stesso, comprendendone e valorizzandone il livello specifico. La psiche, nel modello PNEI, emerge dal livello biologico, ma è anche capace di retroagire sui circuiti nervosi da cui sorge, modificandoli. È condizionata dalla rete delle relazioni biologiche interne all’organismo, derivanti dall’alimentazione, dall’attività fisica, dallo stato dei grandi sistemi di regolazione fisiologica (network neuroendocrinoimmunitario); al tempo stesso, retroagisce su tali sistemi, svolgendo un ruolo determinante nell’equilibrio salute-malattia.

In un passo celebre, l’antropologo e psichiatra Gregory Bateson afferma: «All’interno di questa scienza [la medicina] c’è una conoscenza straordinariamente scarsa [...] del corpo visto come un sistema autocorrettivo organizzato in modo cibernetico e sistemico. Le sue interdipendenze interne sono pochissimo comprese. [...] Cannon ha scritto un libro sulla Saggezza del corpo, ma nessuno ha scritto un libro sulla saggezza della scienza medica, poiché la saggezza è proprio ciò che le fa difetto. Per saggezza intendo la conoscenza del più vasto sistema interattivo» (Steps to an ecology of mind, 1972; trad. it. 200421, p. 473).

La ricerca PNEI è esattamente lo studio del «più vasto sistema interattivo» auspicato dall’epistemologo. Vagliando le reciproche relazioni tra la psiche e i grandi sistemi biologici (il neuroendocrino e l’immunitario), essa consente di vedere l’organismo umano come una rete strutturata e interconnessa, in reciproca relazione con l’ambiente fisico e sociale e di prospettare quindi una modulazione del network umano da parte di comportamenti (gestione dello stress, alimentazione, attività fisica), di sostanze naturali, di terapie fisiche. È un modello olistico scientifico che consente di non respingere le medicine antiche ed eterodosse, ma di sottoporle a verifica scientifica rispettandone gli statuti costitutivi.

Con il modello PNEI, la medicina integrata può presentarsi quindi non come giustapposizione di terapie o come tentativo di sottomissione delle CAM alla medicina convenzionale, bensì come nuova sintesi medica e culturale, come un fondamentale passo in avanti non solo nella cura, ma anche nella conoscenza dell’uomo (Bottaccioli 20052).

La querelle sulle medicine non convenzionali in Italia

Anche se in tutti i Paesi occidentali non manca un vivace dibattito sul ruolo delle medicine complementari, in Italia, a partire dal 2002, esso ha assunto i toni dello scontro frontale. Prima di quella data, infatti, tutto ciò che era al di fuori dalla medicina convenzionale era per definizione alternativo, poiché si confondeva spesso con i movimenti ecologisti e persino con la New age in generale.

Il 18 maggio 2002, il Consiglio nazionale della Fe­derazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO), riunitosi a Terni, ha approvato un documento nel quale si dettavano agli ordini provinciali le linee guida sulle medicine e pratiche non convenzionali, che venivano riconosciute come atto medico e quindi degne di tutela professionale. L’omeopatia e le altre medicine non convenzionali, di colpo, passavano alla piena rispettabilità. Qualche settimana dopo, il 15 giugno, un gruppo di noti ricercatori ha presentato alla stampa un comunicato che conteneva una critica demolitrice dell’insieme delle pratiche di medicina non convenzionale e una chiara censura delle stesse deliberazioni assunte dall’organo professionale dei medici italiani. Secondo questo documento le pratiche di medicina non convenzionale hanno un approccio ideologico alle malattie, si basano su presupposti arbitrari, non tengono in considerazione i meccanismi biologici e le conoscenze scientifiche più moderne, non offrono una spiegazione razionale alla presunta efficacia delle cure e fanno riferimento a meccanismi del tutto indimostrabili.

Questi argomenti sono stati poi ripresi negli anni successivi con articoli sulla stampa da parte di singoli firmatari del documento e nuovamente utilizzati, sia pur in un contesto più aperto al dialogo, in un documento del Comitato nazionale per la bioetica relativo a quelle che il Comitato stesso ha definito medicine alternative, sottraendo a tale classificazione l’agopuntura reflessologica, la fitoterapia e la medicina manuale, collettivamente definite pratiche terapeutiche empiriche che appaiono, in determinati casi, benefiche per i pazienti (CNB 2005).

Il documento del Comitato per la bioetica è interessante perché, al di là dell’asprezza dei toni di condanna delle medicine alternative, giudicate senza fondamenti epistemologici e scientifici, mette in rilievo tre aspetti fondamentali. In primo luogo contiene un’ammissione: la «crescente diffusione nel mondo occidentale del ricorso alle medicine alternative […] dipende anche (e per alcuni soltanto) dal fatto che molti pazienti trovano soggettivamente beneficio da tali indicazioni terapeutiche» (CNB 2005, punto 3). Poi un’indicazione metodologica: analizzare e distinguere le diverse terapie che non vanno considerate tutte allo stesso modo. Come già ricordato, il Comitato giudica positivamente alcune importanti terapie come l’agopuntura, la fitoterapia e le medicine manuali. Infine, il documento sostiene che «ogni medico […] deve ottenere negli anni della sua formazione una conoscenza adeguata delle ragioni che militano a favore e di quelle che militano contro le pretese delle medicine alternative» (CNB 2005, punto 19).

Per il Comitato nazionale per la bioetica il ricorso alle cosiddette medicine alternative non è quindi il frutto di un fenomeno ideologico, di un irrazionalismo antiscientifico di massa, ma, più laicamente, dipende anche dal fatto che molti cittadini trovano vantaggi soggettivi in queste terapie. Inoltre, diversamente da quanto affermato nel documento degli scienziati sopra citato, il Comitato sostiene che le medicine in questione non sono tutte uguali. Questo è infatti il punto di maggiore debolezza della posizione dei critici radicali delle medicine complementari. Non sembra corretto criticare in nome della scienza e poi non applicare il metodo scientifico nell’esaminare l’oggetto che si critica. Non porsi quindi l’onere di analizzare le diverse configurazioni che presenta il mondo delle medicine complementari e alternative, sottraendolo così dalla nebulosa indistinta in cui lo confina una visione frettolosa.

I critici radicali sostengono che le medicine in questione non hanno un fondamento scientifico perché muovono da presupposti ideologici: anche in questo giudizio occorre distinguere ciò che è indiscutibilmente vero da ciò che è opinabile. È vero che le terapie di cui stiamo parlando sono nate e si sono sviluppate prima della nascita della medicina convenzionale. In questo senso non possono essere scientifiche per definizione. È indubbio infatti che la medicina tradizionale cinese non possa muovere da presupposti scientifici in quanto si è formata a partire dal 5° sec. a.C., al pari dell’antica medicina greca. Così, l’omeopatia è nata alla fine del Settecento in pieno vitalismo. La fitoterapia poi iniziò a essere praticata con la medicina duemila anni prima di Cristo. È evidente quindi che nessuna di queste medicine partecipa del modello scientifico che si è pienamente affermato in Occidente nel 20° secolo. Ma basta questo per dire che medicina cinese, omeopatia e fitoterapia si basano su presupposti ideologici? Se fosse così si dovrebbe concludere che la storia della scienza medica inizia poco più di cento anni fa e ciò appare manifestamente inverosimile.

Sembra quindi necessario indagare se, pur partendo da presupposti diversi da quelli della biomedicina contemporanea, le medicine complementari possano offrire stimoli di riflessione scientifica e strumenti di azione terapeutica, piuttosto che chiedersi se esse muovano o meno da presupposti scientifici. In sintesi se siano indagabili con il metodo scientifico. Il fine è duplice: controllarne il grado di efficacia terapeutica sulle principali patologie contemporanee e, al tempo stesso, accrescere il livello di conoscenza dell’organismo umano. Come vedremo in seguito, questo è possibile, ovvero si può applicare il metodo scientifico nel controllo di efficacia delle terapie complementari, ma è anche molto fecondo lasciar contaminare gli ideali scientifici mediante modelli epistemologici antichi ed eterodossi.

Questo approccio non ideologico alle CAM sembra orientare l’atteggiamento della maggioranza dei medici. In un’indagine condotta dall’ordine dei medici di Parma, che ha coinvolto i 2/3 del totale degli iscritti (1734 su 2631), il 53% dichiara di ritenere che le medicine non convenzionali abbiano una qualche efficacia. Percentuale che sale se si tiene conto solo dei medici di base (medici di medicina generale) i quali, secondo altre indagini, giudicano in modo differenziato le diverse terapie complementari fra le quali l’agopuntura, le terapie manuali e la fitoterapia riscuotono i maggiori consensi. Inoltre, due medici di base su tre, almeno una volta, hanno inviato un loro paziente a un operatore di terapie complementari.

Infine è interessante rilevare che anche i medici fanno ricorso alle terapie complementari per la loro salute. Secondo alcune indagini oltre il 24% dei medici di base e il 34% dei pediatri, in base a una libera scelta, hanno fatto ricorso alle terapie complementari per le stesse ragioni che motivano i loro pazienti: efficacia con trascurabili effetti collaterali, rispetto agli scarsi risultati ottenuti con le terapie convenzionali (Le medicine non convenzionali in Italia, 2007).

Regolamentazione dell’esercizio delle CAM

La regolamentazione dell’esercizio delle medicine complementari è difforme su scala internazionale. Esemplare il caso dell’agopuntura. Un gruppo di Paesi (Austria, Italia, Francia, Grecia, Ungheria e Romania) richiede – con leggi o, in loro assenza, con sentenze della magistratura, come è il caso italiano – la laurea in medicina per il suo esercizio. Un altro gruppo, non meno significativo (Gran Bretagna, molti degli Stati statunitensi, Germania, Spagna, Finlandia), non richiede alcun titolo oppure richiede un diploma ad hoc, rilasciato sotto controllo statale, ottenibile anche da non laureati in medicina. Ma anche l’esercizio dell’omeopatia è variamente regolamentato a livello internazionale, con il paradosso tutto italiano per il quale, in assenza di una legislazione in materia, si registrano sentenze della magistratura contrastanti sull’esercizio della disciplina, che per alcuni tribunali è riservato al medico, mentre per altri può essere esteso ad altre figure.

Per la fitoterapia, anche se cresce la corrente medica che chiede la riserva in via esclusiva della prescrizione delle piante medicinali (e per alcuni prodotti vegetali questo è già avvenuto: per es., l’iperico, a dosaggi terapeutici per il trattamento della depressione, può essere acquistato solo su ricetta medica), c’è da considerare che in Italia operano migliaia di erboristerie e di farma­cie con il reparto erboristico: la fitoterapia viene quindi in larga misura esercitata da professionisti non medici.

Il vasto mondo delle terapie manuali, dall’osteopatia alla chiropratica fino allo shiatsu e al massaggio cinese (tuina), va dalla situazione statunitense, che da un secolo prevede una laurea magistrale sia per l’osteopatia sia per la chiropratica, alla situazione francese che richiede il rilascio di un attestato statale per quelle stesse discipline, fino alla situazione italiana che non regolamenta nessuna di esse. In particolare, sono migliaia gli operatori di massaggio orientale (shiatsu e tuina) che esercitano nel nostro Paese e che, in assenza di un titolo di massaggiatore o di fisioterapista, lo fanno abusivamente, potendo incorrere nel reato relativo previsto dalla legge.

Anche se il Parlamento europeo, fin dal 1997, ha auspicato una regolamentazione nel campo delle medicine non convenzionali, l’Europa è in piena anarchia, con conseguenti pesanti limitazioni dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini e degli operatori nell’ambito dello spazio europeo.

Principali CAM esercitate da medici

Anche se con le contraddizioni rilevate nel paragrafo precedente, in Italia, in particolare dopo la deliberazione della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri del 2002, precedentemente ricordata, e dopo alcune leggi regionali, tra cui quella della Regione Toscana del 2007, la tendenza è quella di considerare atto medico l’esercizio dell’agopuntura, dell’omeopatia e della fitoterapia e quindi riservato agli abilitati all’esercizio della medicina. Vediamo in sintesi storia, principi ispiratori ed evidenze di efficacia delle tre maggiori medicine complementari.

Terapie tradizionali cinesi

La medicina tradizionale cinese è certamente la più organica dottrina medica antica tuttora operante in gran parte del mondo. Costituisce un’importante risorsa in Cina dove, negli ultimi cinquant’anni, è stata oggetto di una politica governativa che ne ha regolamentato l’insegnamento, la diffusione e l’integrazione con la medicina convenzionale negli ospedali e nelle facoltà di Medicina. Al tempo stesso, negli ultimi trent’anni, con l’apertura delle relazioni della Repubblica popolare cinese con l’Occidente, ha avuto una crescente diffusione in tutti i Paesi industrializzati.

La medicina tradizionale cinese si articola in cinque aree fondamentali: agopuntura e moxibustione, farmacologia naturale, dietetica, massaggio, esercizi meditativi in movimento (qigong e taiji quan) anche chiamati ginnastiche mediche.

Alla base dell’antico pensiero medico cinese c’è un’idea comune anche all’antico pensiero medico greco: la salute è uno stato di equilibrio dell’organismo; la malattia è il frutto di un disequilibrio, degli umori, per gli antichi greci, delle energie e delle sostanze vitali, per gli antichi cinesi. Compito del terapeuta è aiutare la persona malata a ristabilire l’equilibrio: con la dieta, i massaggi, l’attività fisica, le tecniche per la psiche, le piante, l’uso del calore.

Tutto ciò è comune ai greci e ai cinesi. In più questi ultimi, in base a una peculiare visione della circolazione delle energie in canali (meridiani) che percorrono l’organismo umano, stabiliscono una serie di modalità di corretta circolazione delle energie e delle altre sostanze vitali. Agendo su punti specifici della superficie corporea, con gli aghi (agopuntura), con il calore (moxibustione), con la pressione delle dita (tuina), con il movimento e con l’automanipolazione del corpo (qigong e taiji quan) è possibile ritrovare l’equilibrio e quindi la salute (Maciocia 20052).

Agopuntura. È la metodica terapeutica della medicina tradizionale cinese più nota e diffusa in Occidente e, negli ultimi due decenni, è cresciuto l’impegno cinese, ma anche occidentale, nella verifica della sua efficacia clinica e dei suoi possibili meccanismi di azione. A partire dalla metà degli anni Ottanta del 20° sec. è iniziata la pubblicazione di studi controllati e di buona qualità in riviste scientifiche occidentali. Nel 1996, la Food and drug administration ha riclassificato l’agopuntura da strumento medico sperimentale a regolato. Nel 1997, uno storico documento del gruppo di lavoro dei NIH, il Consensus development program (CDP), sull’efficacia clinica dell’agopuntura, segnò l’ingresso dell’antica metodica terapeutica nel campo delle terapie per le quali era possibile dimostrare un’efficacia. Negli ultimi anni, si è assistito a un crescente sviluppo della ricerca sia sui meccanismi di azione dell’agopuntura sia sulla sua efficacia terapeutica.

Studi, ormai decennali, realizzati sugli animali e sull’uomo, nonché il recente utilizzo delle immagini di risonanza magnetica funzionale, consentono di affermare che l’agopuntura ha effetti biologici locali e sistemici che vengono mediati per via nervosa e neuroendocrinoimmunitaria. Il fatto che l’input dell’ago venga trasmesso per via nervosa è stato dimostrato da esperimenti sugli animali. L’efficacia analgesica di uno dei punti più usati, hegu (intestino crasso-4, collocato sul dorso della mano nel punto più alto del muscolo primo interosseo quando il pollice viene affiancato all’indice), viene abolita se vengono recise le vie nervose vicine (il nervo radiale e/o il nervo mediale), ma non se viene reciso il nervo ulnare, che è quello più lontano.

Risalgono agli inizi degli anni Novanta del 20° sec. le prime prove sperimentali sugli umani, ai quali, beninteso, non è stato riservato il crudele trattamento di cui sopra: il nervo non è stato tagliato, bensì addormentato. L’iniezione di un anestetico locale (procaina) su un punto di agopuntura, per es. pericardio-6, ne abolisce la provata efficacia contro nausea e vomito (Clinical acupuncture, 2001). Storicamente, gli studi più antichi e significativi sui meccanismi di azione dell’agopuntura si riferiscono al dolore e all’attività analgesica da essa esercitata.

L’introduzione della risonanza magnetica funzionale e di altre tecniche di visualizzazione cerebrale nello studio dei meccanismi di azione dell’agopuntura ha aperto un terreno del tutto nuovo e di elevata potenza scientifica. Nel 1996 si è avuta la prima dimostrazione che il segnale dell’ago arriva al cervello. Negli ultimi anni diversi lavori hanno dimostrato l’attivazione e/o la disattivazione di aree sia corticali sia sottocorticali. Più recentemente, alcuni lavori hanno accertato che l’agopunto hegu (intestino crasso-4) attiva diverse aree sottocorticali, come ipotalamo e giro del cingolo, di grande rilievo nella valutazione cognitivo-emozionale del dolore. Alcuni studi sono in grado di discriminare in modo netto tra effetti di agopuntura vera, agopuntura placebo e semplice placebo.

Ma i risultati probabilmente più entusiasmanti vengono da uno studio del dipartimento di radiologia della University of California, che ha mostrato una relazione sorprendente tra agopunti, loro indicazioni e aree corticali attivate (Z.H. Cho, C.S. Na, E.K. Wang et al., Functional magnetic resonance imaging of the brain, in Clinical acupuncture, 2001, pp. 83-95).

Nella figura le immagini di risonanza magnetica funzionale mostrano gli effetti dell’ago inserito in due punti tradizionalmente indicati per il trattamento dei disturbi della visione. Le cortecce visive occipitali si attivano sia a seguito di uno stimolo visivo sia con l’inserimento dell’ago nei suddetti punti. Fenomeno che non si verifica pungendo un punto sbagliato, collocato vicino a SP1 (milza-1).

Di grandissimo interesse è il fatto che questi punti, anatomicamente molto lontani dagli occhi, hanno come indicazione di trattamento proprio queste funzioni sensoriali. Infatti, vescica-67 viene indicato per disturbi della regione cefalica e degli organi di senso e in particolare per dolori agli occhi; colecisti-37 viene punto per prurito e dolore agli occhi, cataratta, cecità notturna, atrofia ottica. Tuttavia, nonostante queste accattivanti suggestioni, occorre segnalare che sulla specificità degli agopunti non si hanno evidenze conclusive.

Da quanto esposto si può ragionevolmente concludere che l’ago inserito al posto giusto induce meccanismi neuroimmunoendocrini locali coinvolgendo il cervello. Sappiamo infatti che le fibre nervose sensoriali, stimolate dall’ago, rilasciano neuropeptidi capaci di regolare la risposta immunitaria in senso pro- o antinfiammatorio e quindi, per questa via, influenzano l’equilibrio fisiopatologico (Song, Halbreich, Han et al. 2009). Ma anche l’ipotalamo, come abbiamo visto, può essere direttamente influenzato dallo stimolo procurato dall’inserzione dell’ago. Del resto è noto che esiste una via di trasporto del dolore (nocicettiva) diretta, la cosiddetta via spinoipotalamica, che collega la periferia all’area ipotalamica, la quale funziona da centro integrato di risposte multiple (neuroendocrine, neurovegetative), complessivamente di governo dell’ambiente interno.

In conclusione, possiamo affermare che è possibile indagare con gli strumenti scientifici più moderni questa antica tecnica terapeutica e fornire risposte plausibili alla domanda sui meccanismi biologici indotti dall’agopuntura. In effetti, gli studi sull’efficacia terapeutica dell’agopuntura sono in continua crescita. La tabella 1 non è certamente esaustiva e subirà delle modificazioni nel tempo, in particolare a carico della seconda colonna, quella che mostra le patologie dove gli studi controllati non permettono di trarre delle conclusioni certe. È comunque evidente che l’agopuntura ha un’efficacia clinica dimostrata per alcune importanti patologie e condizioni mediche che spesso risultano scarsamente trattabili, o che presentano significativi effetti collaterali, con la farmacologia e con le altre terapie correnti. Non si tratta quindi né di placebo né di magia, ma di terapia. E come tutte le terapie non è una panacea, ma presenta indicazioni e limiti. Rilevante è che tutti gli studi mostrano in modo univoco che l’agopuntura, in mani esperte, è sicura e priva di effetti collaterali significativi (The desktop guide to complementary and alternative medicine, 20062), che hanno un’incidenza davvero rara e non paragonabile a quella che si verifica in corso di terapia farmacologia.

Qigong e taiji quan. Secondo il più antico testo di medicina cinese, il Canone interno dell’imperatore giallo (Huangdi neijing), del sec. a.C., per mantenere la salute occorre seguire la via (dao) e saper nutrire la vita. La nutrizione della vita si fa soprattutto con le pratiche interne: meditazione e ginnastiche energetiche, ossia taiji e qigong.

L’espressione qigong fa riferimento alla capacità di condurre e far circolare l’energia interna (qi). Tale capacità è alla base dell’antica medicina cinese. Il saggio e il buon medico, come abbiamo ricordato, devono saper nutrire la vita tramite le pratiche interne, le tecniche di concentrazione e di meditazione che consentono la visualizzazione del qi e il suo trasporto lungo i meridiani energetici, la cui rete pervade nel suo complesso l’organismo.

Vi è un’ampia diffusione di queste pratiche in Occidente e, con essa, sono iniziati studi controllati. Al momento abbiamo buone evidenze sull’efficacia della pratica del qigong nel controllo dell’ipertensione. L’aspetto più difficile, tuttavia, riguarda il cosiddetto qigong esterno e cioè la capacità che avrebbero alcuni maestri di proiettare l’energia al di fuori del proprio corpo: un fenomeno difficile da accettare in un’ottica scientifica classica; resta però il fatto che scienziati cinesi e occidentali hanno prodotto lavori che dimostrano modificazioni indotte dal qigong in colture batteriche e cellulari. Juliann G. Kiang, professore di farmacologia a Bethesda (Maryland), ha ripetutamente descritto un incremento del calcio nel citoplasma come indice di reattività della cellula all’emissione del qi (J.G. Kiang, J.A. Ives, W.B. Jonas, External bioenergy-induced increases in intracellular free calcium concentrations are mediated by Na+/Ca2+ exchanger and L-type calcium channel, «Molecular and cellular biochemistry», 2005, 271, 1-2, pp. 51-59). Dalla Cina è giunto un lavoro che mostra la capacità del qigong esterno di indurre l’arresto della proliferazione e l’apoptosi di cellule di cancro prostatico in vitro (X. Yan, H. Shen, H. Jiang et al., External qi of Yan Xin qigong induces G2/M arrest and apoptosis of androgen-independent prostate cancer cells by inhibiting Akt and NF-kB pathways, «Molecular and cellular biochemistry», 2008, 310, 1-2, pp. 227-34). Ci sono poi lavori che hanno verificato l’efficacia clinica del qigong esterno su patologie dolorose, documentandone la superiorità rispetto alla terapia standard. Una metanalisi solo degli studi più rigorosi ha concluso che l’evidenza del qigong esterno è incoraggiante (M.S. Lee, M.H. Pittler, E. Ernst, External qigong for pain conditions: a systematic review of randomized clinical trials, «Journal of pain», 2007, 8,11, pp. 827-31).

Per quanto riguarda il taiji quan, non si sa esattamente quando e da chi fu inventato. La leggenda racconta che, attorno al 1200 d.C., Chang San Feng, monaco del monte Wudang, nella provincia cinese dello Hubei, osservando un combattimento tra un serpente e una gru, concluse che il rettile aveva la meglio perché era più sciolto e più concentrato dell’avversario. Per questo motivo Chang che praticava il kung fu, un’arte marziale di potenza fisica decise di cambiare e seguire la strada della flessibilità e della concentrazione, dell’armonia interiore.

Lo spirito autentico del taiji è proprio l’unione tra il corpo e la mente: i movimenti dolci del corpo vengono guidati dalla concentrazione sull’energia interiore (qi). Culturalmente, infatti, il taiji ha le proprie radici nella filosofia taoista, che mette in primo piano la ricerca dell’equilibrio interno. Nel 19° sec. ebbe una notevole diffusione nella versione elaborata da Yang Lu Chan, che conquistò le classi elevate della Cina. La versione Yang, però, accentuò molto l’aspetto fisico e plastico del taiji a scapito del suo aspetto meditativo. Si dice che Yang avesse fatto questa operazione per ragioni ideologiche: non voleva comunicare ai ‘barbari stranieri’, che provenivano dalla Manciuria e dominavano la Cina, la disciplina mentale che costituiva l’essenza vera del taiji quan, e che per alcuni studiosi mira a raggiungere l’unità suprema attraverso il movimento.

Anche il taiji è sottoposto a un’intensa verifica scientifica riguardo a efficacia e sicurezza. In merito alla sicurezza, reviews sistematiche hanno concluso che tale disciplina può essere tranquillamente praticata anche da persone affette da artrite reumatoide poiché fornisce un significativo beneficio per i movimenti delle gambe e dell’anca. Studi clinici controllati hanno documentato un’efficacia del taiji in numerose condizioni: deficit immunitari, insufficienza cardiaca cronica, osteoporosi in menopausa, qualità del sonno, qualità della vita e autostima in donne operate di cancro al seno (The desktop guide to complementary and alternative medicine, 20062). Neurologi e riabilitatori, nel caso di persone colpite da ictus, hanno paragonato un normale trattamento di fisioterapia a un corso di taiji, registrando in quest’ultimo caso un netto miglioramento nel recupero delle funzioni generali e nelle relazioni sociali. Infine, studi controllati su anziani hanno indicato un chiaro aumento nella qualità e quantità del sonno (con un guadagno medio di 50 minuti di sonno a notte) e un significativo incremento della flessibilità e dell’equilibrio, documentato da una riduzione delle cadute.

Omeopatia

L’inventore dell’omeopatia è il medico S.F.Ch. Hahnemann (1755-1843). Tutta la sua vita fu segnata dallo scontro aspro con la medicina convenzionale e, a distanza di tanti anni, l’omeopatia viene ancora avversata dalla medicina scientifica. Eppure, in Europa e in Italia, a differenza degli Stati Uniti, l’omeopatia è la medicina alternativa per eccellenza, anche se gran parte dei medici omeopati, passata la fase della contrapposizione dogmatica, si orienta ormai verso un modello di medicina integrata.

La medicina omeopatica, secondo Hahnemann, è fondata sul principio del simile in base al quale la terapia risolutiva consiste nella somministrazione di un rimedio che, sperimentato nel sano, dà sintomi simili a quelli riscontrati nella malattia. Quest’ultima è una perturbazione della dinamica della forza vitale, ossia il principio dinamico che consente la vita. I sintomi che registra il medico sono l’espressione di questa alterazione. Al medico è concessa solo questa forma di conoscenza, non essendo accessibile quella della forza vitale che anima l’organismo. Il medico deve pertanto registrare la totalità dei sintomi del paziente e trovare un rimedio che, sperimentato nel sano, produca una malattia artificiale quanto più simile possibile a quella registrata nel malato. L’altra peculiarità della terapia omeopatica è rappresentata dall’uso di medicine preparate con una procedura che prevede un’estensiva triturazione dei prodotti di partenza (piante, minerali, prodotti animali) seguita da diluizioni in acqua e alcol e ‘succussioni’ (agitazioni del prodotto). Questa procedura viene ripetuta in serie eseguendo successive diluizioni e ‘succussioni’. In origine tale metodo era utilizzato per ridurre la tossicità di sostanze spesso particolarmente pericolose, come il veleno di serpente, ma in seguito Hahnemann notò che, procedendo nelle diluizioni e ‘succussioni’, aumentava la capacità di cura del medicinale. Per questo parlò di potenze crescenti e definì la procedura dinamizzazione. Per questo, ancora oggi, per trattare un disordine di tipo sistemico che coinvolge la forza vitale nel suo più puro aspetto energetico, il medico omeopata usa medicinali a elevata potenza e cioè molto diluiti e dinamizzati. L’azione del rimedio omeopatico non è quindi diretta verso la malattia o le sue cause, bensì è di tipo indiretto, essendo rivolta a sollecitare una reazione riequilibrante della forza vitale. È per questo che si dice che in omeopatia non interessa la malattia bensì il malato, inteso come individuo dotato di un ‘principio vitale’ che, se opportunamente sollecitato, è in grado di eliminare il disordine e riconquistare la salute. Detto in linguaggio scientifico moderno, la medicina omeopatica sarebbe quindi in grado di sollecitare i meccanismi di riequilibrio dinamico dell’organismo, meccanismi che sappiamo essere molto articolati e diffusi sia a livello cellulare sia a livello di grandi sistemi.

Sorgono a questo punto alcuni problemi: può un farmaco molto diluito avere questo effetto? E, ancora, perché un rimedio che nel sano produce malattia, nel malato produce guarigione? La scienza farmacologica tradizionale nega che dosi molto basse di una sostanza abbiano effetti significativi. Così, una sostanza viene classificata in base a determinati effetti, che di regola sono sempre quelli, indipendentemente dallo stato del soggetto che la riceve. In realtà, è tutto molto più complicato e più vicino ai paradossi omeopatici di quello che si possa pensare. Nel 1888, quarantacinque anni dopo la morte di Hahnemann, Hugo Schulz (1853-1932), uno studioso tedesco interessato a comprendere i meccanismi dell’omeopatia, lavorando sui lieviti dimostrò che la dose del farmaco poteva avere effetti opposti: stimolanti nel caso di basse dosi, inibenti nel caso di alte dosi. Questo effetto, che nei testi di farmacologia si chiama anche effetto a U rovesciata o effetto bifasico, nel 1943 venne incorporato in un nuovo concetto chiamato ormesi da due fitopatologi, Chester M. Southam e John Ehrlich, che riscontrarono la validità della legge di Schulz (meglio nota come legge di Arndt e Schulz) studiando la risposta di dosi variabili a estratti di cedro rosso sulle infezioni fungine.

Negli ultimi anni, la tossicologia e la farmacologia stanno riaccostandosi al concetto di ormesi, all’idea cioè che anche dosi molto basse possano avere effetti significativi. Concetto che viene ulteriormente allargato dagli studi sul sistema immunitario secondo i quali è centrale non solo la dose, ma anche la via di ingresso (mucosa, cute o sangue). Per es., è noto che se si vuole indurre una risposta di riequilibrio immunitario (tolleranza), servono basse dosi e la via da utilizzare è la mucosa, come la sublinguale.

Anche il problema della diversità degli effetti di una sostanza, a seconda dello stato in cui si trova chi la riceve, può essere spiegato in base a osservazioni scientifiche effettuate negli ultimi cento anni. È noto, infatti, che la medesima sostanza, per es. un eccitante come l’adrenalina, se somministrata in uno stato di forte attivazione del sistema simpatico produce un debolissimo e breve incremento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, seguito da una potente e prolungata depressione di ambedue le funzioni. Il contrario di quello che accade se la stessa sostanza viene somministrata in uno stato di vagotonia e cioè di iperattivazione del parasimpatico. Del resto, è noto sul piano clinico che in corso di tachicardia parossistica (incremento eccezionalmente elevato della frequenza dei battiti del cuore spesso accompagnata da altre alterazioni del ritmo cardiaco) l’adrenalina, che dovrebbe aumentare la frequenza cardiaca, in realtà la rallenta. Molto noto anche il cosiddetto effetto rebound e cioè la comparsa di un effetto opposto a quello desiderato. Questo accade soprattutto in corso di trattamenti cronici. Per es., i clinici sanno che i broncodilatatori, che sembrerebbero essere i farmaci di elezione per l’asma, non possono essere usati a lungo perché provocano costrizione bronchiale. Lo stesso fenomeno riguarda i cardiotonici. Qualcuno ha chiamato queste e altre innumerevoli osservazioni ‘farmacologia paradossale’ (Bellavite 2004).

I principi alla base della medicina omeopatica, ossia il simile, le basse dosi, appaiono quindi scientificamente plausibili, ma ciò non toglie che anche l’omeopatia abbia bisogno di ripensare il proprio rapporto con la scienza moderna. Infatti, non è possibile evitare l’ostacolo delle altissime diluizioni che oltre la soglia del numero di Avogadro non presentano più traccia delle sostanze di partenza. È da tempo che alcuni fisici e biochimici cercano di dimostrare che in realtà è il solvente (acqua o alcol), modificato dalle ripetute diluizioni e dinamizzazioni, a fungere da medicina. A tutt’oggi non si ha una dimostrazione accettata di questa ipotesi (la cosiddetta memoria dell’acqua). Inoltre, resta il fatto che, anche in ambito clinico, le basse e medie diluizioni (che contengono molecole delle sostanze di partenza) sono le più usate e sono più numerosi gli studi clinici positivi con queste dosi rispetto a quelli che impiegano alte diluizioni.

Valutando complessivamente la letteratura disponibile, anche per l’omeopatia vale il discorso fatto per l’agopuntura. Non è una panacea, non è placebo, è terapia con i suoi limiti, che vanno ancora scoperti e chiariti in misura probabilmente superiore all’agopuntura. Anche perché sotto la denominazione di omeopatia si celano pratiche molto diverse tra loro: l’omeopatia unicista (un solo rimedio per volta e per lo più a diluizioni alte e altissime); l’omeopatia complessista (più rimedi insieme a diluizioni variabili); l’omotossicologia (con un approccio di maggiore contaminazione con la medicina scientifica), l’omeopatia e la fitoterapia insieme (diffuse in prodotti di largo consumo). Rilevante è il fatto che in linea generale si tratta di una terapia a bassissimo rischio di effetti collaterali significativi e tali da dover interrompere il trattamento. La tabella 2 mostra come l’omeopatia presenti delle evidenze positive in alcune patologie significative, in altre risultati promettenti e in altre ancora risultati negativi.

Fitoterapia

L’uso delle piante in medicina è antichissimo e, prima del recente avvento della farmacologia chimica, la fitoterapia è stata la principale forma di terapia in tutto il mondo. Ancora oggi, l’industria farmaceutica utilizza numerose sostanze vegetali come fonte di molecole per la sintesi di farmaci. La vendita al pubblico di piante medicinali o di prodotti che le contengono è un mercato ben sviluppato anche nei Paesi dotati di un moderno sistema sanitario nazionale.

Negli ultimi anni è cresciuta la rivendicazione da parte di un settore della medicina di riservare ai medici la prescrizione delle piante medicinali. Il fatto che le piante possano avere effetti pertinenti sulla fisiopatologia umana e animale in genere è ovvio e non è contestabile nemmeno dai critici radicali delle medicine complementari. La critica che questi ultimi avanzano riguarda invece la minore efficacia della pianta rispetto al principio attivo contenuto in un farmaco chimico, il quale, dicono, può anche essere costituito da un principio attivo di derivazione vegetale, ma in una forma nettamente più pura ed efficace di quella presente nella pianta. In effetti un prodotto vegetale contiene più molecole, diverse tra loro, quindi, quando si assume un fitoterapico, si assume una miscela naturale di componenti, il cosiddetto fitocomplesso. Sta qui la peculiarità del trattamento con le piante medicinali che lo differenzia dal trattamento farmacologico: per es. il tentativo di estrarre un principio attivo efficace dall’iperico, una pianta con proprietà antidepressive, è stato un fallimento. È l’insieme del fitocomplesso che funziona contro la depressione e non un singolo principio attivo.

La ricerca nel campo della fitoterapia risente molto del fatto che, non potendo brevettare il fitocomplesso ma solo l’eventuale principio attivo, le aziende farmaceutiche non hanno interesse alla pianta in sé. Anzi, quando un fitocomplesso è efficace quanto un farmaco e ha minori effetti collaterali, può essere un pericoloso concorrente. Di qui l’atteggiamento ambivalente dell’industria farmaceutica verso le piante medicinali, viste, volta a volta, come scrigno naturale di inestimabile valore commerciale o come potenziale minaccia. In effetti, le piante possono essere ancora oggi un fondamentale strumento terapeutico, come dimostra la tabella 3, che elenca solo alcune delle piante più diffuse in fitoterapia.

Riguardo alla sicurezza della fitoterapia, l’Istituto superiore di sanità ha attivato un sistema di sorveglianza per la raccolta e valutazione delle segnalazioni delle reazioni avverse dovute a erbe medicinali, prodotti erboristici e integratori. Il sistema, basato su una scheda di segnalazione (http://www.epicentro.iss.it/focus/erbe/pdf/scheda_fito.pdf; 22 apr. 2010), è del tutto simile a quello operante per la farmacovigilanza.

Altre CAM esercitate da medici

La medicina ayurvedica è la più importante medicina tradizionale indiana e ancora oggi, come accennato in precedenza, costituisce un’importante risorsa per la salute del grande Paese asiatico.

In Italia, pur essendo antichissimi i contatti tra Roma e l’India, soltanto negli anni Ottanta del 20° sec., sotto la spinta del maestro Maharishi Mahesh (1918-2008, fondatore negli Stati Uniti della Maharishi international university, centro didattico e di ricerca attivissimo su scala mondiale), iniziarono la diffusione di tale medicina e la formazione dei primi operatori sanitari. Nei primi anni del 21° sec. è stata fondata una società scientifica (Società italiana di medicina ayurvedica, con sede a Milano) che ha lo scopo di promuovere sia la diffusione sia la conoscenza dell’antica medicina indiana.

Al pari della medicina tradizionale cinese, l’ayurveda ha un approccio olistico alla salute e alla malattia e usa, in campo preventivo e curativo, la combinazione di alimentazione, tecniche meditative e fitoterapia. Il campo delle tecniche meditative è notevolmente sviluppato in quanto si basa sul cosiddetto yoga integrale, che è composto da tre grandi branche: la respirazione (kriya), le posizioni (hatha) e la meditazione (dhyana). In Occidente ha avuto una grande diffusione soprattutto lo yoga delle posizioni, al punto da essere identificato con lo yoga tout-court, ma, in realtà, le versioni occidentali, da palestra, sono spesso forme riduttive e soprattutto mutilate dell’hatha yoga che è parte inscindibile dello yoga integrale.

La Maharishi international university ha prodotto, nel corso degli anni, più di 800 studi che hanno indagato gli effetti di una particolare tecnica meditativa elaborata da Maharishi per l’Occidente, nota con il nome di meditazione trascendentale, sulla neurofisiologia e sulla salute. Di minor numero e peso invece i lavori sulla miscela di piante in uso nella medicina ayurvedica, anche per le difficoltà legate alla metodologia diagnostica e prescrittiva.

La medicina antroposofica nacque invece nel secolo scorso in Europa, frutto della riflessione filosofica e scientifica di Rudolf Steiner (1861-1925), filosofo austriaco fondatore dell’antroposofia e della Libera università di scienza dello spirito, di cui la medicina antroposofica è una sezione, inaugurata dallo stesso Steiner nel 1924 in collaborazione con il medico Ita Wegman. Il movimento steineriano si è diffuso per tutto il Novecento dando vita a una pluralità di iniziative e di istituzioni mediche, farmaceutiche, assistenziali, pedagogiche, educative, diffuse in tutta Europa e complessivamente in circa settanta Paesi nel mondo. In Italia è attiva la Società italiana di medicina antroposofica che cura la formazione postlaurea dei medici, alcune centinaia, presenti nella gran parte delle regioni. La formazione degli operatori sanitari non medici (in particolare i cosiddetti arteterapeuti) a orientamento antroposofico non avviene invece in Italia, ma viene svolta in altri Paesi europei, ed è coordinata dalla Libera università della scienza dello spirito, che ha sede in Svizzera.

L’approccio antroposofico mette in primo piano le relazioni dell’individuo con il suo ambiente sociale e fisico, per questo la pedagogia steineriana dà grande rilievo alla corretta socializzazione del bambino in un contesto naturale. Non a caso Steiner e il suo movimento sono stati i primi a occuparsi della qualità dell’alimentazione. Possiamo dire che l’agricoltura biologica ha nell’intellettuale austriaco il suo padre nobile. In effetti, verso la fine del 20° sec. fece molto scalpore, tra gli allergologi, la pubblicazione di uno studio, condotto secondo le buone regole dell’epidemiologia, che paragonò l’incidenza delle allergie in Svezia su bambini della stessa città e della stessa età che frequentavano scuole steineriane o scuole pubbliche. I bambini delle scuole steineriane assumevano meno antibiotici, mangiavano più verdure dei loro coetanei delle scuole pubbliche e su di loro si registrava una minore incidenza delle malattie allergiche.

Altri studi, condotti su adulti con malattie acute delle vie respiratorie, hanno paragonato le terapie antroposofiche con quelle standard identificando un trend a favore delle prime, nel senso di un minore consumo di antibiotici, minori reazioni indesiderate e maggiore soddisfazione delle persone trattate (G. Buccheri, Medicina antroposofica, in Le medicine non convenzionali in Italia, 2007, pp. 271-90).

I rimedi che usa il medico antroposofo sono sia di tipo fitoterapico sia di tipo omeopatico, ma dato il rilievo assegnato alla componente spirituale dell’individuo e al suo armonico equilibrio interiore risultano avere grande importanza anche la musicoterapia e il massaggio ritmico.

La ricerca in questo campo è comunque complessivamente minore rispetto a quella relativa alla medicina cinese e all’omeopatia.

Principali CAM esercitate da operatori non medici

Tecniche di gestione dello stress

Numerose sono le tecniche antistress e meditative, differenti a seconda della tradizione. Tutte comunque puntano al medesimo obiettivo: realizzare uno stato di rilassamento e di benessere psichico profondo, presupposto di una vita cosciente e felice.

L’interesse della scienza verso le pratiche meditative è documentato innanzi tutto dal fatto che le più significative tecniche di rilassamento occidentali vennero elaborate, nei primi decenni del 20° sec., tenendo presente anche l’esperienza dell’Oriente. In particolare, lo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz (1884-1970), combinando la riflessione sull’ipnosi e quella sul raja yoga (disciplina meditativa di controllo del corpo e della mente) elaborò il più famoso metodo di rilassamento occidentale: il training autogeno. La prima osservazione scientifica sugli effetti della meditazione sull’organismo umano fu però di Thérèse Brosse, cardiologa francese, che in India, nel 1935, descrivendo lo stato di uno yogi in meditazione, affermò che il suo cuore sembrava essersi fermato. In seguito, a partire dalla seconda metà del 20° sec., fu introdotto l’utilizzo di strumenti moderni di indagine scientifica, come l’elettrocardiogramma (ECG) e l’elettroencefalogramma (EEG), per decifrare i cambiamenti fisici che si realizzavano durante l’esecuzione di esercizi di meditazione. Le conclusioni di queste indagini scientifiche furono che, a livello cardiorespiratorio, vi era una forte riduzione del ritmo (frequenza) del respiro e di quello cardiaco, nonché del consumo di ossigeno. Inoltre, a livello cerebrale, si registrava uno stato di rilassamento diverso dal sonno, con un aumento dell’ampiezza e della frequenza delle onde alfa. Queste onde cerebrali compaiono normalmente quando si chiudono gli occhi, mentre nei meditanti compaiono anche a occhi semiaperti.

Negli anni Ottanta e Novanta gli studi sono diventati più sistematici e articolati: per es., si sono studiati meditanti a vari livelli di preparazione e con diversi anni di esperienza, mentre ai tradizionali strumenti di registrazione dell’attività elettrica del cuore e del cervello si sono associate analisi del sangue per indagare i livelli dei più importanti ormoni e neurotrasmettitori. Nel primo decennio del 21° sec. lo strumento principale di indagine risulta costituito dalle neuroimmagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale e con la tomografia a emissione di positroni.

In sintesi, gli effetti fisiologici della meditazione sul cervello possono essere così riassunti: a) un rilassamento profondo che non ottunde l’attenzione, anzi la potenzia; b) un maggiore controllo dei circuiti neuroendocrini e segnatamente dell’asse dello stress; c) una maggiore coerenza cerebrale, una migliore comunicazione tra gli emisferi, una maggiore capacità di adattamento (Carosella, Bottaccioli 2003).

Sono molte centinaia gli studi sull’efficacia delle diverse tecniche antistress e meditative in numerose condizioni di malattia. Anche se alcuni autori (The desktop guide to complementary and alternative medicine, 20062) segnalano la debolezza metodologica di parte di questi studi, prendendo in esame solo quelli più seri e recenti si può concludere che l’uso delle tecniche di rilassamento, in grado di consentire il controllo della reazione di stress, ha effetti documentati sulla riduzione della pressione arteriosa e sulla normalizzazione dei parametri endocrini e immunitari. Tale uso offre vantaggi significativi alle persone in trattamento per gravi patologie come cancro, malattie autoimmuni, malattie cardiovascolari, ansia e depressione. Attualmente, l’efficacia delle tecniche meditative e la loro positiva accettazione da parte dei pazienti hanno indotto molti psicoterapeuti a introdurle in combinazione con la normale psicoterapia (Segal, Williams, Teasdale 2002).

Terapie manuali

In questo campo si distinguono: osteopatia, chiropratica, shiatsu e tuina. Le prime due sono discipline occidentali sorte alla fine del 19° sec., le altre sono di derivazione orientale, anche se solo il tuina si può considerare una disciplina antica: infatti, lo shiatsu che si conosce e pratica in Occidente è stato elaborato negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo.

L’osteopatia è stata fondata nel 1874 dal medico statunitense Andrew Taylor Still (1828-1917) e si basa su un principio fondamentale: la vita è movimento, il movimento è vita. Il compito principale dell’osteopata nel visitare un paziente è dunque quello di rintracciare i blocchi, le limitazioni e le restrizioni del movimento, interpretati come costrizioni al libero manifestarsi della vita e quindi della salute.

Gli strumenti terapeutici dell’osteopata sono di tipo manuale e puntano a ripristinare il grado di libertà di movimento perduto a causa della patologia che, per lo più, è di tipo doloroso, ma non esclusivamente tale. Possono rivolgersi all’osteopata persone che accusano anche altri disturbi legati a posture errate o conseguenti a stress cronico. L’osteopata infatti vede le relazioni biunivoche tra apparato muscolo-scheletrico e organizzazione dei tessuti, degli organi e delle funzioni. Una postura scorretta o un’alterazione strutturale dell’assetto muscolo-scheletrico possono indurre, tramite il sistema nervoso, alterazioni nella fisiologia degli organi e queste, a loro volta, possono lasciare il segno nell’organizzazione dell’apparato muscolo-scheletrico. La riorganizzazione manuale dell’assetto scheletrico e muscolare diventa pertanto una modalità fondamentale di riequilibrio dell’intero organismo e di ripristino della salute.

Negli Stati Uniti, la professione è strettamente regolamentata e prevede una laurea magistrale con il conferimento del titolo di doctor of osteopathy. In Europa, invece, esiste solo il diploma. In Italia è stato costituito un registro degli osteopati a garanzia della formazione degli operatori.

Studi clinici controllati (The desktop guide to complementary and alternative medicine, 20062) dimostrano che l’osteopatia è utile in corso di lombalgia acuta e subacuta, con effetti migliori rispetto a quelli del trattamento standard. Un’analisi inglese sul rapporto costi/benefici ha dimostrato che l’osteopatia per il dolore subacuto della spina dorsale è un trattamento economicamente vantaggioso. Non è dimostrato invece che sia utile per i dolori mestruali (dismenorrea) o per altre condizioni di carattere internistico.

La chiropratica è stata fondata nel 1895 dal canadese Daniel David Palmer (1845-1913). Attualmente è presente in 70 Paesi nel mondo, con 90.000 dottori in chiropratica di cui 65.000 solo negli Stati Uniti, dove è prevista una formazione universitaria con successive specializzazioni postlaurea. In America Settentrionale, il dottore in chiropratica svolge un’attività di prima assistenza formulando una diagnosi anche con l’ausilio di mezzi radiologici o di altri esami e strumenti di imaging. La professione non prevede però l’uso di farmaci o di chirurgia.

La filosofia di fondo risulta del tutto simile a quella che ispira l’osteopatia e quindi si lavora sulle relazioni tra assetto del sistema muscolo-scheletrico e organi, con speciale riguardo al sistema nervoso. Una particolare attenzione viene riservata alla cosiddetta correzione articolare e cioè all’aggiustamento, tramite manipolazioni, delle articolazioni, che sono ritenute causa di numerose patologie, non solo riferite all’apparato muscolo-scheletrico. Resta il fatto che, secondo alcune indagini condotte sia negli Stati Uniti sia in Europa, il 95% delle persone che ricorrono al chiropratico lo fa per disturbi dolorosi dell’apparato muscolo-scheletrico; l’altro 5% invece per disturbi va­ri: dalle mestruazioni dolorose al mal di testa all’asma, fino a problemi dell’apparato digerente.

In Italia è attiva l’Associazione italiana chiropratici che opera in difesa di una professione non riconosciuta, anche se il tariffario nazionale prevede l’erogazione di prestazioni di mobilizzazione e manipolazione della colonna vertebrale, ossia la tipica attività del chiropratico. Studi clinici controllati (The desktop guide to complementary and alternative medicine, 20062) indicano un trend positivo per il trattamento della lombalgia, ma i dati sono meno significativi di quelli che provengono dagli studi sull’osteopatia. Ancora meno convincenti sono gli studi relativi alle patologie non muscolo-scheletriche. Gli effetti indesiderati sono rari, ma lievi problemi transitori sono abbastanza comuni dopo sedute di chiropratica.

Lo shiatsu è una tecnica manuale caratterizzata da un elevato livello di eclettismo anche se, tradizionalmente, due sono le scuole fondamentali in Occidente, entrambe di derivazione giapponese: Namikoshi e Masunaga. Il modello Namikoshi è stato elaborato in Giappone, negli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec., da Tokujiro Namikoshi (1905-2000). È un approccio che, pur partendo dalla medicina tradizionale giapponese (e dal suo substrato cinese), ha tentato un esplicito collegamento con la fisiopatologia e la fisioterapia occidentali. La tecnica prevede la pressione manuale di punti specifici del corpo, secondo particolari se­quenze, con l’obiettivo di riportare alla normalità il to­no muscolare, all’origine della tensione che l’operatore identifica nel corpo del paziente. I punti da trattare sono indicati in una mappa che ricorda quella dell’agopuntura, anche se non è assolutamente sovrapponibile, visto che presenta anche dei punti identificati da Namikoshi e dal successivo lavoro del figlio Toru.

L’operatore shiatsu di orientamento Namikoshi lavora in collegamento con il medico curante, nel senso che tratta una persona in seguito a diagnosi medica e tenendo presente le patologie come vengono codificate dalla medicina scientifica. Spesso gli operatori shiatsu che seguono questo indirizzo sono anche fisioterapisti o massaggiatori diplomati.

L’indirizzo Masunaga, elaborato dalla psicologo giapponese Shizuto Masunaga (1925-1981), riprende invece la medicina tradizionale cinese enfatizzando il ruolo dei meridiani energetici, anche se propone un nuovo modello di circolazione energetica, e, soprattutto, trascura le tecniche di pressione sui punti a favore di tecniche di pressione perpendicolare a due mani con andamento bipolare. L’eclettismo di Masunaga ha avuto una larghissima diffusione in Occidente, ma, come già accennato, nello shiatsu non esiste uno stile predominante codificato.

Secondo stime del 2004, realizzate per conto di associazioni del settore, il numero degli operatori shiatsu nel nostro Paese sarebbe davvero notevole: 50.000, mentre il volume degli utenti varierebbe dai 7 ai 10 milioni (Le medicine non convenzionali in Italia, 2007); se questa fosse la dimensione del fenomeno, ancora più colpevole è lo stato di non regolamentazione della professione, che ha comunque le sue associazioni professionali. Studi clinici controllati sullo shiatsu non esistono, anche se è documentata l’azione positiva del massaggio sulla lombalgia.

Il tuina è il massaggio della medicina tradizionale cinese. Antico quanto l’agopuntura si basa sui medesimi principi. L’operatore di tuina infatti deve conoscere adeguatamente la fisiologia, la diagnostica e la terapeutica cinese. Invece che gli aghi usa le mani, attingendo a un raffinato bagaglio di tecniche manipolative per riequilibrare energia e sostanze vitali. I pochi studi controllati sono in grande maggioranza realizzati in Cina e pubblicati in lingua cinese, il che rende impossibile, al momento, un’adeguata valutazione dell’efficacia di questa tecnica terapeutica che, in base ai principi a cui si ispira e alla tradizione, trova indicazioni per una vasta gamma di disturbi e patologie, non solo relativi all’apparato muscolo-scheletrico.

Il termine naturopatia fece per la prima volta la sua comparsa negli Stati Uniti alla fine del 19° sec., quando il medico newyorkese John Scheel lo utilizzò per descrivere il suo metodo di cura. Il significato del termine è controverso: per alcuni, infatti, vuol dire empatia con la natura, per altri via naturale o cura naturale; al di là dell’etimo incerto, il significato che ha assunto comunque in tutto il mondo occidentale, nel corso dell’ultimo secolo, è quello di medicina naturale, una cura senza farmaci, basata su stili di vita, alimentazione, metodi e sostanze naturali.

La prima compiuta espressione della naturopatia va fatta risalire al tedesco Benedict Lust (1872-1945) che, trasferitosi negli Stati Uniti, iniziò un percorso di studio ampio ed eclettico, laureandosi in osteopatia e poi in chiropratica e in omeopatia, ma coltivando anche un forte interesse per l’Oriente e per le tecniche yoga. Un eclettismo basato su una visione olistica dell’organismo umano, che ispirava una pratica terapeutica centrata, come scrive lo stesso Lust, sull’estirpazione delle cattive abitudini e l’acquisizione di abitudini salutari e di nuovi principi di vita, nella convinzione che non esista altra forza di guarigione della natura stessa (Textbook of natural medicine, 19992).

La naturopatia conquistò una posizione riconosciuta all’interno della medicina americana, mantenuto fino agli anni Cinquanta; l’avvento della farmacologia (penicillina e cortisone) le fece poi perdere terreno, ma negli anni Settanta rifiorì con la fondazione di istituti di formazione universitaria di notevole prestigio come la Bastyr university a Seattle. Attualmente negli Stati Uniti la naturopatia è esercitata da laureati nella specifica materia. In Europa, la situazione più anticamente strutturata è quella tedesca, dove dal 1939 è riconosciuta una figura di naturopata che si chiama Heilpraktiker. Analogo riconoscimento in Svizzera (compreso il Cantone italiano). In alcuni Paesi (Inghilterra, Danimarca, Belgio, Paesi Bassi) vi è assoluta tolleranza verso la professione, in altri (Italia), invece, anche per l’ostilità dei medici, predomina un atteggiamento di chiusura.

Non esiste una letteratura scientifica significativa che consenta di valutare il metodo naturopatico anche perché, come abbiamo visto, non esiste un metodo, ma un approccio di medicina naturale che nella tradizione americana è strettamente legato alla scienza (Textbook of natural medicine 19992), mentre nella tradizione tedesca è molto più legato alla medicina popolare.

Prospettive

Il fenomeno della diffusione di pratiche mediche e terapeutiche sorte fuori dal paradigma delle biomedicina pare destinato a trovare una sua collocazione significativa nell’ambito dei servizi sanitari e, più in generale, dell’offerta di salute nella gran parte dei Paesi, compresi quelli industrialmente avanzati. La spinta alla medicina integrata appare forte, coinvolgendo settori rilevanti di cittadini e di operatori sanitari. La comunità scientifica e le istituzioni politiche, nei prossimi decenni, saranno chiamate a governare un cambiamento nella gestione della salute che coinvolge il modello e la pratica medica, la formazione degli operatori e l’organizzazione dei servizi (Integrative medicine, 20072). Questa sfida all’attuale assetto della biomedicina potrebbe dar luogo a un generale avanzamento nella comprensione del funzionamento dell’organismo umano in salute e malattia, con positive conseguenze sulla salute e sulla longevità umana.

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Si veda inoltre:

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ISTAT, Le terapie non convenzionali in Italia. Anno 2005, 2007, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070821_00/testointegrale.pdf (22 apr. 2010).