SCANNABECCHI, Dalmasio di Iacopo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 91 (2018)

SCANNABECCHI, Dalmasio

di Iacopo
Paolo Cova

Fu Roberto Longhi (1934-1935, 1973, pp. 33-35; Id., 1950, 1973, pp. 160 s.), anche in relazione alla suddetta documentazione, a riferire a Dalmasio un corpus di opere pittoriche stilisticamente omogeneo, comprendente alcune tavole e i vasti cicli d’affreschi di S. Maria Novella a Firenze e di S. Francesco a Pistoia. Nonostante che quest’ipotesi attributiva fu precocemente messa in discussione, e, sulla base delle precisazioni cronologiche della pittura bolognese (Bellosi, 1974), la critica riferì il corpus longhiano, con i suoi progressivi accrescimenti, a un pittore denominato Pseudo Dalmasio, recentemente alcuni studiosi hanno ribadito l’antica identificazione (Volpe, 2004; Strehlke, 2004; Boggi - Gibbs, 2013). È pur vero che l’irrisolta querelle storiografica, come già notato (Benati, 1994, p. 612), non pare pregiudicare la compattezza stilistica di un articolato gruppo di dipinti, confermando nella sostanza la centralità del maestro, capace di intelligere la cultura giottesca e declinarla in un’icastica parlata felsinea pregna di suggestioni gotiche.

Un’ipotesi allo stato degli studi non condivisa da buona parte della critica ha individuato nel celebre trittico del Louvre (inv. 20197), datato 1333 e forse proveniente dalla chiesa bolognese di S. Vitale, un primo capolavoro dell’artista (Castagnoli, 1978, p. 100; Strehlke, 2004, pp. 106, 110; Ferretti, 2010, pp. 51-53; Boggi - Gibbs, 2013, p. 33; Cerutti, 2015). Altresì, tra le opere iniziali che in maniera più concorde la storiografia ha riferito allo Pseudo Dalmasio si possono annoverare: la Madonna col Bambino del Museum of Art di Philadelphia (Bellosi, 1974); quella in trono con angeli, già nella collezione newyorkese Askew ma proveniente da Imola (Longhi, 1950, 1973, p. 160; Lollini, 2000, p. 91 nota 21; Volpe, 2004, p. 8); la Crocifissione della collezione Acton di Firenze, e la Deposizione dalla Croce in collezione privata a New York, quest’ultime due tavole parte di un più articolato complesso decorativo d’altare (Boskovits, 1975, p. 205 nota 133; Gibbs, 1982; Benati, 2005, p. 67). In questa fase, corrispondente al principio degli anni Trenta, il fare pittorico del maestro discende chiaramente dalla tradizione felsinea dei primi decenni del secolo, dove gli arcaismi dai forti accenti patetici e le inquietudini espressive si coniugano puntualmente alle marcate attenzioni ai modelli gotici desunti dal mondo nordico.

Il lessico raffinato e sontuoso di questa prima produzione dovette assicurare all’autore una posizione di prestigio tra i pittori operanti alla corte legatizia del cardinale Bertrand du Pouget (ibid.): una costatazione che potrebbe confermare una partecipazione dello Pseudo Dalmasio all’attività giottesca bolognese. In particolare è stata ipotizzata la sua collaborazione all’allestimento del famoso polittico firmato dal fiorentino, oggi conservato alla Pinacoteca nazionale di Bologna, con un intervento diretto nella predella (Laclotte, 1978, pp. 16, 62 nota 7; Volpe, 1983, p. 269 nota 16; Benati, 2005, pp. 64-66; Medica, 2005, pp. 170 s.; Cerutti, 2015, pp. 161 s.).

Appare probabile che le vicende felsinee anteriori al 1334, anno della cacciata del cardinale, permettessero allo Pseudo Dalmasio di allacciare quei rapporti che in quella convulsa stagione gli garantirono la rara possibilità di operare nel contesto artistico toscano. Infatti viene datata poco dopo il 1335 la decorazione della cappella Bardi di Vernio in S. Maria Novella a Firenze: quando la potente famiglia subentrò alla Confraternita degli Umiliati nella sua giurisdizione, impose l’intitolazione a s. Gregorio e commissionò la nuova decorazione pittorica. Il lessico del maestro nell’ampio intervento parietale si avvia verso una maggiore modulazione tra la raffinata eleganza espressiva, il naturalismo gotico padano – dalla cultura pittorica polimaterica – e l’aderenza ai modelli giotteschi intonati nel ritmo narrativo del singolo ordine di storie e in più efficaci cadenze prospettiche.

All’impresa fiorentina sono state avvicinate stilisticamente le tavolette, ciascuna con quattro santini all’interno di quadrilobi, già note a Longhi (1950, 1973, p. 160): due conservate rispettivamente alla National Gallery di Dublino e al Detroit Institute of Arts, altre due oggi di ubicazione ignota, ma riprodotte in fotografia (Benati, 2005, pp. 176-179). Oltre alla comune destinazione domenicana suggerita dalla presenza di diversi beati dell’Ordine (Medica, 2004, pp. 114), le tavolette e gli affreschi palesano una stessa aderenza ai modelli fisionomici giotteschi, dove negli «sguardi e nei gesti rapidi, quasi furtivi» dei personaggi sacri trapela una psicologia instabile (Benati, 2005, p. 178).

Intorno al 1340 la critica ha datato i lacerti d’affresco, parte di un ciclo più ampio, con S. Antonio, sovrastato da S. Onofrio coronato dagli angeli e dal Profeta Elia, dipinti su una semicolonna della chiesa carmelitana di S. Martino a Bologna. Probabilmente dallo stesso convento provengono le tavole con la Crocefissione della Pinacoteca nazionale di Bologna, scomparto centrale di un polittico smembrato di cui doveva far parte anche la Flagellazione conservata a Seattle (Medica, 2004, p. 114); a questa fase sono state ricondotte la consunta Madonna col Bambino e angeli del Museum of Art dell’Università di Yale a New Haven (Benati, 2005, p. 69) e i rari vetri dorati con quattro filosofi derivati da un’allegoria agostiniana e conservati tra il Museo civico d’arte antica di Torino e il Musée National du Moyen Age di Parigi (Volpe, 2004).

Le Storie di s. Francesco della cappella maggiore dell’omonima chiesa di Pistoia sono state indicate dalla storiografia come l’impresa artistica contraddistinta dalla maggior maturazione in senso giottesco, dove lo Pseudo Dalmasio si richiama al ciclo assisiate e alle cappelle fiorentine di S. Croce (Cerutti, 2012), in conformità con la diffusione del linguaggio di Maso di Banco (De Marchi, 1986, p. 56, nota 21), ma introducendo anche alcune novità compositive (Id., 2012, p. 43). Gli affreschi, come ricorda una lapide, vennero realizzati grazie alla donazione nel 1343 del mercante Bandino Ciantori (Mellini, 1970; Neri Lusanna, 1993; Benati, 2005, p. 69; Cerutti, 2012) e, nonostante gli odierni problemi conservativi, dovevano distinguersi anche per la preziosa materia decorativa, in parte ravvisabile nella volta con le Virtù francescane. Nella cappella il pittore opera una rara simbiosi miscelando sapientemente l’attenzione analitica e costruttiva alle architetture con figure declinate nella composta narrazione, la cura naturalistica nei dettagli della realtà con una compassata razionalità emotiva (Volpe, 2004, pp. 10 s.; Benati, 2005, pp. 69 s.; Cerutti, 2012).

Non appare perciò singolare che lo Pseudo Dalmasio, in aggiunta alle imprese pistoiesi – recentemente si è voluta individuare la sua mano anche nel volto della Vergine Maria della SS. Annunziata (Boggi - Gibbs, 2013, pp. 35-37) –, poté operare negli stessi anni proprio per Pisa, lasciandoci il guasto Banchetto di Erode della chiesa di S. Michele degli Scalzi (Boskovits, 1975, p. 206, nota 134).

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