DOLFIN, Daniele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DOLFIN, Daniele

Gino Benzoni

Nato a Venezia, il 14 ott. 1654, da Daniele (II), detto Andrea (1631-1707), di Niccolò e da Elisabetta di Daniele Gradenigo, il D. ebbe il nome di Daniele (III) e venne pure chiamato Zuanne o Giovanni. Quanto allo storico Pietro Garzoni, che lo nomina tre volte, dapprima scrive "Giovanni detto Daniello III", quindi "Giovanni", infine "Daniello III".

Conforme alle tradizioni della famiglia - del ramo di S. Pantalon, ché quivi aveva il palazzo - il D. ebbe un'accurata educazione finalizzata alla carriera politica che inizia, nel 1675, come savio agli Ordini. Accasatosi il 25 sett. 1677 a S. Cristoforo di Marano, con Pisana di Giovanni Bembo del ramo di riva de Biasio dalla quale avrà una numerosissima figliolanza, tra cui almeno otto figli maschi, nel 1678 è camerlengo di Comun, nel 1683 è ufficiale al Cataver, nel 1684 è provveditore alla Sanità, divenendo, quindi, nel 1685 e, di nuovo, nel 1688 avogadore di Comun. Tra gli elettori, sempre nel 1688, del doge Francesco Morosini, il D. risulta, nel 1690, tra i dodici deputati a riceverlo al suo rientro dall'armata. Più volte, nel 1690-94, savio di Terraferma e, dal 1692, cassiere del Collegio di cui i savi sono membri, il 12 sett. 1694 viene eletto senatore. Savio del Consiglio nel 1695, 1697, 1698 e, di nuovo, savio di Terraferma sempre coll'incombenza del cassierato del Collegio, nel 1699 viene rieletto savio del Consiglio. Provveditore sopra la Sanità in Friuli all'inizio del 1701, provveditore quindi sopra i Beni comunali, l'elezione ad ambasciatore presso l'imperatore - cui peraltro si sottrae - vanifica quella a provveditore sopra i Conti. Deve accettare, invece, la carica di provveditor straordinario in Terraferma.

"Se havessi portato - così il D. al Senato l'8 ag. 1701 - il riflesso a' tredici figli che lascio, alla famiglia che abbandono", avrei fatto il possibile per evitarla. Ma il "cuore" - così il D., sempre, in questa e in successive occasioni, incline ad enfatizzare l'"impatienza" del suo "zelo" per l'"interesse"pubblico, il "fervor di spirito" che lo anima, sempre pronto ad ostentare il suo "costume di preferir alle tenerezze di padre l'obbedienza di figlio"verso la patria, mai dimentico di ricordare i meriti della sua ottemperanza alle "disposizioni" della Serenissima - non è capace di concepir altro che "publici affetti", sordo ai pur legittimi richiami dei "privati riguardi". Passando per Verona e per Brescia il D. si porta a Crema dove - mentre il territorio veneto, con "gran gemito di sudditi infelici", con "danni", "sconcerti" senza fine, è occupato dalle milizie cesaree e da quelle degli "alleati" gallo-ispani, entrambe esigenti, con "continue ... istanze" e "violente premure" e "grani" e "fieni" - non vede altra soluzione che limitarsi alla "gelosa custodia di questa piazza", rinforzando alla meglio il recinto, riempiendo d'acqua la "fossa", rassodando i parapetti.

Si tratta di gestire - sperando che prima o poi i contendenti finiscano per andarsene altrove - una paralizzante situazione d'impotenza. Pago se le "stime" e le "note" dei danni subiti avranno un cenno d'attenzione e un qualche futuro "rissarcimento", lieto se, ad ogni buon conto, sinché "le due armate", quella degli "alemani" e quella delle "truppe colegate", stanno "imobilmente fisse ne' loro campamenti", si nascondono, nelle "ville più esposte", foraggi e viveri, il D. sa che non è possibile una dignitosa difesa del territorio, paventa eventuali reazioni contadine e ritiene esiziale ogni ipotesi d'"armare i paesani". Unica linea di condotta attuabile, quella d'evitare incidenti. "Se ben è stato frequente il passaggio de convogli con viveri e di compagnie sciolte a vista di questa piazza" (Crema, cioè, dove rimane rintanato) "col mezo d'opportune insinuationi agl'officiali che le dirigevano e d'ordini rissoluti a' paesani di star a dovere", vale a dire di non opporre resistenza, "ho havuto il contento", scrive il 9 settembre, "di veder" momentaneamente "allontanato ogni disordine". Impensabile organizzare un minimo di salvaguardia per uomini e cose. "Militie per cuoprir i villaggi non ve ne sono, mentre da questo debolissimo pressidio non si potrebbero ricavar cento soldati atti a tale funtione", tanto più che le "cernide bergamasche" concentrate a Crema sono ridotte "in stato miserabile". Solo 100, tra queste, gli uomini "in vigor bastante a portar l'armi", mentre 330 sono "febricitanti". Ecco, fa presente il D., la "troppo sfortunata conditione di chi deve ricever legge dalla maggior forza", Donde il suo "assentire all'estrazione" di "biade", "grano", "fieni" per entrambi i contendenti, mentre s'adopera, nel contempo, per indurre "li villici" a non desistere dalle semine, promettendo che il raccolto avrebbe, in qualche modo, goduto della "publica prottezione". Per fortuna - così il 23 novembre - c'è il "gradito aviso" dell'ordine di trasferimento dell'"intiero accampamento degl'alemani" nel Mantovano. E la vita può riprendere "quanto più - così sempre D. il 26 novembre - nella lontananza" degli eserciti stranieri "s'accresce la confidenza di placida calma".

Nuovamente eletto, il 29 giugno 1702, ambasciatore ordinario a Vienna, il D. questa volta non può schivare la prestigiosa, ma anche onerosissima carica, per la quale, più volte nel 1701 e il 18 febbraio e il 30 maggio 1702 è già stato prescelto dal Senato. Bisognosi i tanti troppi figli della sua amorevole sollecitudine, aggrappati a lui i "genitori cadenti", esigui i "poveri capitali" di famiglia per la cui "preservazione" il D. s'è a lungo adoperato. Ciononostante il D., anche se come "padre: infelice", anche se come "rassegnato cittadino" costretto a gravosi dispendi, affronta il "gran cimento". Avuta, il 3 febbr. 1703, la commissione, si reca a Treviso, donde, il 22, parte alla volta di Vienna che raggiunge il 17 aprile. Qui, per oltre cinque anni - confortato dall'apprezzamento del Senato che ne loda la "savia ed accurata condotta", la "singolare desterità", il "lodevole studio indefesso", gli "ufficii propri ed efficaci", la "circospettione e penetratione", lo "zelo ed attentione", l'"abilità e prudenza", la "vigilanza e diligenza", la "maturità e fervore", le "esatte copiose essentiali notitie", il "benemerito e fruttuoso servitio", il "particolare ... merito", degno, appunto, delle "piene dichiarationi del pubblico aggradimento e compiacimento" - si muove accorto ed abile sotto l'incalzante tiro incrociato delle "congiunture" e delle "emergenze", in "tempi" decisamente "difficili". Infuria, in effetti, la guerra in Alta Italia coinvolgendo Venezia, specie quando i Francesi s'impadroniscono di Desenzano ed Eugenio di Savoia fissa il suo quartier generale a Salò. Per fortuna della Repubblica, comunque, il voltafaccia sabaudo del novembre 1703, la battaglia di Torino e il successivo trattato del 12 maggio 1707 alleggeriscono sempre più la pressione sulle terre venete sino ad allontanarne lo spettro della guerra. Nel frattempo il D. si barcamena, in sintonia col piroettante equilibrismo della Serenissima, assicurando che la Repubblica non pencola verso la Francia ed evitando, altresì, con scrupolo - così da non irritare la suscettibilità di quest'ultima - ogni occasione che possa suonare implicito riconoscimento del titolo regio dell'arciduca Carlo. Arduo, d'altronde, per il D., convincere la corte imperiale che le limitazioni, in fatto di "quartieri" e "liste", all'ambasciatore cesareo a Venezia valgono anche per il rappresentante francese. Diffidente, in effetti, Vienna dell'equidistanza proclamata dalla Repubblica che viene, invece, sospettata ora di manovrare, in occulta combutta con la Francia, perché la Porta attacchi l'Impero, ora di mirare, tramando a tal fine a Versailles e a Roma, all'insediamento d'un proprio presidio a Mantova "contro tutte le leggi di neutralità", ora d'ambire alla costituzione d'un'"alleanza tra i prencipi" italiani che, col pretesto d'affrettare la fine dei contrasti tra Francia e Impero in suolo italico, avrebbe, di fatto, favorito la prima. Ciò mentre il D. s'ingegna d'agghindare la debolezza di Venezia quale linea di coerente neutralità che l'autorizza a candidarsi ad autorevole mediatrice tra le Corone finalmente, per suo tramite, pacificate. Pungolante, per lui, il vagheggiamento della Repubblica savia elargitrice di pace "universale" e "generale", capace d'ammansire i contrapposti belligeranti, quanto meno benefattrice d'Italia col dono della "quiete particolare".

A quest'ultimo riguardo sfugge, però, al D. la potenziale utilità dell'impegno ad Oriente costituito per l'Impero dal fiero moto antiasburgico capeggiato da Ferenc Rákóczy. Saturo dei pregiudizi ideologici tipici del patriziato lagunare (allergico questo ad ogni messa in discussione dell'ordine non solo proprio, ma anche altrui), il D. auspica che i "colpi dell'armi cesaree riescano fortunati", che "Dio faccia prevalere la causa più giusta", quella dell'ordine imperiale, sulla pretestuosa "libertà" con la quale i "ribelli" - e quindi "contumaci", "rei", "felloni", "seditiosi", "violenti", "malcontenti" (anche questo dato di fatto suona, nel lessico del D., epiteto ingiurioso), "propensi" ai "torbidi", ai "tumulti", ai "delitti", "fiamma impura", concentrato di "mali umori" - nelle loro impetuose scorribande "allettano i popoli ad abbracciare il loro partito". La rivolta che incendia l'Ungheria diventa, agli occhi del D., una sorta di pazzia blasfema. Perciò non ha dubbi: da un lato l'empia "iniquità" della sovversione che dev'essere "abbandonata dalla fortuna", dall'altro la "causa" buona e "giusta" di Cesare degna della "protetione del cielo". Ed è lo stesso imperatore, con "sentimenti degni di religioso monarca", che attribuisce al "braccio onnipotente" - divino e le "vittorie" e le "perdite" in terra magiara. E quando il D. apprende che circola, da parte de "li contumaci ribelli", una proposta di conciliazione nella quale, tra i garanti, viene ipotizzata la presenza della Repubblica, anziché rallegrarsi per questo segno di riconoscimento, in fin dei conti lusinghiero, per il superstite prestigio di Venezia, s'affretta a farlo apparire, sino a persuaderne pienamente i "ministri" cesarei, come dissennato "capriccio" di disperati. Non si tratta con "l'insegne della ribellione", è "zizania" da "svellere" prima che metta radici. Impossibile, d'altronde, per il D. la guerriglia possa vincere: di per sé la "gente imbelle" non sa fronteggiare l'impeto di "truppe regolate"; di per sé queste sono use ai trionfi, sono "nutrite tra le vittorie".

Miglior prova d'intendimento fornisce, invece, il D. quando, sgombro da diaframmi moralistico-ideologici, esamina la fastidiosa minutaglia delle beghe confinarie, la lista delle "reciproche indolenze", le pretese di Trieste a danno del sale istriano e tante altre "differenze" che avvelenano i normali rapporti veneto-imperiali. In fin dei conti gioverebbe - a por fine a tante diatribe per il taglio degli alberi, per l'uso delle acque, per il pascolo del bestiame - "piantar limiti certi" sì da "assicurare", nel Friuli orientale, "la quiete", sì da porre, quantomeno, fine ai troppi "disordini e sconcerti" nei "coniunali promisqui". Punto dolente, materia "delicata e gelosa" soprattutto la giurisdizione adriatica, già irrisa dal protervo scorrazzare di navi armate francesi e, di fatto, scalzata dalle forniture alle truppe imperiali tramite il traffico diretto tra il litorale austriaco e la Mesola pontificia. Per di più le "fuste segnane" sembrano indicare la ripresa dell'"antico genio del corso". Ma basta la "comparsa del capitan dell'armata" veneta "alle spiagge di Segna" ad incutere timore ai suoi protervi abitanti. Venezia, ne deduce il D., è rispettata quando esibisce un minimo di energia. Eppure il D. stesso si trova in difficoltà - specie, dopo la morte nel 1705 di Leopoldo I, al subentrare del figlio Giuseppe I - quando la Repubblica sequestra, nel suo "Golfo", imbarcazioni austriache - "barche", "feluche", "polacche", "marciliane" - col carico sotto l'accusa di contrabbando. A Vienna si protesta, i "ministri" se la prendono con lui. E il D. suggerisce - visto che ai sequestri segue puntualmente il rilascio e che questo è giudicato non già una concessione, ma un doveroso atto riparatorio - d'attenuare il ritmo di siffatti "arresti". Sono opportuni - ammette il D. - per ricordare la giurisdizione veneta, ma se troppo frequenti producono "irritamento", reclami, proteste, minacce, ritorsioni. Anche se il D. non lo dice, pare ormai velleitaria ogni intransigenza in merito al già glorioso dominio del Golfo.

Congedatosi dall'imperatore e spedito, il 7 luglio 1708, da Semmering l'ultimo dispaccio, il D., rientrato a Venezia, vi presenta, il 9 dicembre, la relazione che si risolve, nella prima parte, in un'autentica galleria di ritratti; e, tra questi, coi suoi tocchi cromatici (capelli sul biondo, occhi sull'azzurro, volto rubizzo), quello dedicato a Giuseppe I è un po' una sorta d'equivalente letterario del pastello di Rosalba Carriera.

Non altrettanto felice, invece, l'eccesso di rifinitura stilistica cui vanno imputati giochi di parole (l'imperatrice Eleonora è così virtuosa da parer fatta "più per l'empireo che per l'impero") e stucchevoli stereotipi (la quasi trentenne arciduchessa Elisabetta intende "preservar illibato il fiore verginale"). Poco attendibile quando, desumendolo dall'ostilità per la casa d'Austria dei seguaci dei "falsi riti di Lutero e Calvino", profetizza - per quel tanto che gli è permesso di "penetrare nelle caligini dell'avvenire" - un'imminente "guerra feroce di religione", il D. è, invece, degno d'attenzione quando, lamentando il crescere del "traffico passivo" e la diminuzione dell'"attivo" nell'interscambio veneto-imperiale, auspica un vigoroso incremento, per ridurre le relative importazioni e rilanciare, semmai, le esportazioni, della zoocoltura e della silvicoltura.

Ripresa la cura dei "dodeci innocenti figli" rimasti "privi d'assistenza" durante la sua prolungata assenza, il D., le cui risorse finanziarie devono essere meno esigue di quanto lamenta, approfitta, quindi, del rientro per rioccuparsi dei propri interessi seguendo di persona l'ampliamento del palazzo in città e l'abbellimento della villa presso Carrara San Giorgio nel Padovano. Non per questo mancano le incombenze pubbliche, ché la Repubblica - informata, il 6 dic. 1708, dal provveditore generale in Terraferma Daniele (IV) Dolfin, detto Girolamo, fratello del D., che è giunto a Trento "cavaliere col nome di conte d'Oldemburgo" che si "ha per certo essere", invece, il re di Danimarca Federico IV - incarica, il 27 dicembre, il D. e altri tre patrizi d'accogliere l'illustre ospite e d'assisterlo durante il suo soggiorno lagunare che si protrarrà dal 29 dicembre al 6 marzo 1709. E, nel luglio-ottobre del 1709, il D. deve ancora assentarsi da Venezia assieme a Giovanfrancesco Morosini, ambasciatore straordinario a Vienna per porgere ufficialmente, a nome della Repubblica, all'imperatore Giuseppe I i sensi del cordoglio di quella per la scomparsa del padre e, insieme, le più vive felicitazioni per la successione.

Consigliere, quindi, di S. Polo, savio alla Mercanzia, provveditore alle Artiglierie, il D. parte, il 15 febbr. 1715, alla volta di Varsavia, dove - dopo una sosta nel marzo a Vienna e dopo aver toccata Bratislava - giunge l'8 aprile per rimanervi sino alla fine dell'agosto 1716 in veste di ambasciatore straordinario della Serenissima aggredita dalla Porta. È compito, appunto, del D. indicare l'immane minaccia dei "grandi apparati per terra e per mare" ottomani e richiamare la "bellicosa nazione" polacca al dovere del "pronto concorso", come esige l'"osservanza della lega" a suo tempo stipulata con Venezia e Vienna, come vogliono tutti "li riguardi" politici e religiosi, all'altrimenti impari lotta antiturca di Venezia.

Il D. non può capitare in un momento peggiore. La Polonia è lacerata dall'avversione nobiliare per il re e le sue truppe sassoni. Ed è Augusto II stesso a dichiarare, a detta del D., ch'"era assai più facile" accordare "l'acqua e il fuoco" che i Polacchi e i Sassoni. Vano l'adoperarsi del D. presso i più autorevoli nobili polacchi e i ministri sassoni per la pacificazione, ottenuta la quale, questo il massimo delle illusioni sue e di Venezia, l'armata sassone avrebbe potuto affrettarsi in soccorso di Venezia e la stessa Polonia scendere in campo con un'operazione, se non altro, d'alleggerimento per la Repubblica vacillante in Morea. Speranze senza alcun fondamento. Il D. è accolto con gran cortesia dal sovrano, dimora nel palazzo dell'influente ministro conte Jacob Heinrich Fleming, partecipa - costretto, suo malgrado, a tracannare e ad ingozzarsi - a pantagruelici banchetti della miglior nobiltà, ma l'esito della missione non può che essere fallimentare. "Li polacchi fossero - sospira - così generosi sul campo" contro il Turco "come lo sono alla mensa". Ed è per loro più temibile della Porta il re di Svezia Carlo XII, terribile più dell'Infedele col suo "furore" non guidato dalla "ragione". Il D. si sente impotente. Il mancato arrivo d'un ambasciatore cesareo, che l'affianchi nelle sue sempre più patetiche perorazioni, l'avvilisce ulteriormente. Inutile la sua permanenza a Varsavia come "spettator ozioso" di eventi estranei, vano il suo "sparger sudore sopra sterili arene" in un "angolo remoto della terra", mentre Venezia perde la Morea, mentre la mezzaluna sventola a Corinto. Torturato da "pertinace flussione", i suoi giorni scorrono uggiosi, incupiti dalla sensazione di sciupare la "vita" che vorrebbe, invece, utile in ogni momento a Venezia di cui è "fedele, ossequioso, riverente cittadino". Obbedendo agli ordini ostinati del Senato, egli continua ad insistere col re. Ma questi non può che replicare: "voi vedete lo stato e la miseria di questo regno". La Polonia - cerca di far capire il D. al Senato - è un paese "in rovina", con "ogni provincia infestata di partitanti". È un regno stremato dalle divisioni, straziato dalla discordia, fiaccato dalle lotte intestine di cui approfitta lo zar di Russia che "soffia sul fuoco". Nessun "profitto" può trarre Venezia dalla missione del Dolfin. La Polonia ha il "braccio" troppo "illanguidito dalle straggi e dalla miseria" per tentare d'"impugnare la spada contro l'ottomana potenza". Il re si stringe "nelle spalle": non può far nulla. Egli sa che i confederati, in odio a lui, sono disposti a ricorrere ai Tartari e ai Turchi.

Finalmente, quando il principe Eugenio di Savoia, il 5 ag. 1716, sbaraglia i Turchi a Petervaradino, Venezia allenta i propri timori. Quanto al D., può porre fine alla superflua dimora a Varsavia, tanto più che, "allontanato - così il D., il 26 agosto - il sovrano et il ministero", gli è impossibile qualsiasi simulacro d'attività diplomatica. Avvilito, torna a Venezia dove, il 10 ag. 1717, presenta una relazione che risente dalla sua negativa esperienza.

Il "disordine" e la "confusione" - sostiene in questa - sono i tratti caratteristici della Polonia. La responsabilità va, a suo avviso, addebitata all'assetto stesso del regno, "misto confuso di monarchia et aristocrazia", fomite di spinte disgreganti, di frammentazione decisionale, di contraddizioni e contrasti, di cruenta anarchia. Incapaci, infatti, i tre "ordini" - "regio, senatorio et equestre" - di concorde espressione. Impossibilitato a porsi su di un piano realmente superiore il re, senza "arbitrio" in fatto d'"armi" e "giustizia", con un "assegnamento" annuo troppo ristretto, impacciato dall'obbligo d'ottenere il consenso per ogni imposizione finanziaria. Esiziale il sistema delle "dietine" e delle "diete" generali ove la costruzione faticatissima d'una qualche convergenza frana se la tappa finale dell'unanimità "incaglia nel dissenso d'un solo". Eppure i "Polacchi", malgrado i "gravi disordini" in questo insiti, considerano il sistema, che sulle Diete s'impernia, "pupilla della loro libertà". Una "corona di spine" allora quella d'Augusto II. Anche fosse disposto a propendere per la "sacra lega", il paese non lo seguirebbe, vorrebbe la "pace". Non tollera il re "con la spada alla mano". Teme ne approfitti per infrangere, all'interno, "le leggi", per "ferire" la "tanto decantata libertà". Una valutazione, questa del D., che rimuove la Polonia, afflitta da un'"infelice e languida costituzione", dall'orizzonte politico lagunare. Come antemurale antiturco è inaffidabile. Virtuale interlocutore d'una strategia antiturca diventa "il czaro di Moscovia" Pietro il Grande mirante - sempre che "gl'Imperiali" l'assecondino - al recupero d'Azov, all'"oppressione" dei "tartari della Crimea" per poi accostarsi al Mar Nero e, coll'"assistenza" dei "cossacchi", incalzare la Porta.

Eletto, il 6 dic. 1717, provveditore all'Arsenale, il D. è quindi, dal 21 sett. 1718 al 14 luglio 1720, podestà (nonché dal gennaio 1720 vicecapitano) di Padova, a tutta prima deciso a conservare ed accrescere il "decoro" alla nobiltà, la "sicurezza" ai cittadini, "l'abondanza" al popolo, inizialmente determinato a sguainare la "spada della giustitia per sradicar ... abusi", per punire i "contumaci" e, nel contempo, animato dal nobile proposito di dedicarsi al "sollievo dei poveri".

"Rubberò - dichiara - l'ore" al sonno "per vegliare al loro respiro e per impedire le violenze dei prepotenti, l'insidie dei malitiosi e le fraudi dell'arti". Di fatto la sua podestaria si risolve nell'assidua vigilanza ai lavori di "riparo delle rotte et arzeri", nella sollecitudine per il ripristino della "navigazione nel canale della Battaglia che tanto importa per il pubblico et privato commodo del necessario commercio", nell'"affittanza" di questo o quel dazio. Non elargisce, come s'era illuso nell'assumere la carica, il benessere alla popolazione. Constata il "difetto de' pagamenti" fiscali da parte d'un territorio afflitto dalle "disgrazie di tante rotte ... con conseguenze di danni rilevanti"; ed i "poveri villici, battuti in ogni parte ... nei mesi del loro maggior stento nell'alimentarsi", fanno compassione, sono - suggerisce - meritevoli di "carità". In merito al rinnovo della "tansa ordinaria" di Padova, "confesso - così, il 27 giugno 1720, il D. -d'averla fatta con pena, perché ho scoperto miserie e piaghe maggiori d'ogni suposto". Purtroppo s'è rarefatto il "traffico" ed è "quasi"abbandonata la fabbricazione delle "candele che dava alimento a molti habitanti".

Eletto, ancora il 7 marzo 1720, provveditor generale a Palma, il D. vi risiede tra la fine di quest'anno e gli inizi di novembre 1722, salutato all'ingresso da una Festa accademica... (Udine 1720) del collegio, retto a Cividale dai somaschi, dei nobili di S. Spirito e omaggiato all'uscita da Composizioni... (Udine 1722) in versi raccolte dal canonico Lorenzo Asquini arricchite da un'Orazione panegirica del barnabita Basilio Asquini.

Con scrupolosa diligenza - dei cui frutti il D. informa tanto nei dispacci quanto nella relazione del 14 nov. 1722 - attende alla manutenzione, all'inventariazione, al restauro, al rafforzamento. Ripara baluardi, migliora "le cose" destinate al "ricovero" della "militia", accresce, nell'arsenale, "25 letti di cannone con rodoloni d'un solo pezzo", ricostituisce le scorte di miglio, riordina la gestione delle armi in dotazione. Rivede, inoltre, la fortezza di Marano, si occupa del "ristauro" di ponti, della "preservatione della strada della Levada", della "conservatione" di quella "del Raffaro", del "riparo delle rive" isontine, della "riparatione dei lidi" di Grado. Quanto alla richiesta dei residenti a Palma - 1.326 in tutto stando ad una lettera del D. del 10 ag. 1721 - d'ottenere un Consiglio della Comunità civile, il D. si mostra favorevole, anche perché convinto che la "prerogativa della cittadinanza", una volta concessa, avrebbe finito, col tempo, per incrementare - entro la cinta della fortezza virtualmente potevano sistemarsi oltre 15.000 abitanti - la popolazione, appunto, civile. E il Senato - anche se la cosa non risulta aver esito - accoglie il suggerimento del D., dando istruzioni in tal senso al suo successore.

Frustrata, nel novembre 1723, la sua ambizione a divenire procuratore de ultra (una mancata elezione forse dovuta al fatto che già due suoi fratelli erano stati insigniti della procuratia di S. Marco), il D. può consolarsi seguendo il ciclo pittorico che Tiepolo sta allestendo nel suo palazzo, con tutta probabilità dicendo la sua su questa o quella scelta iconografica. Eletto, il 22 sett. 1725, bailo presso il Turco, il D. s'imbarca sulla nave "Corona" (e in questa figurano anche due trinitari scalzi espressamente impegnati nel riscatto degli schiavi) che salpa da Malamocco il 27 giugno 1726 e tocca Costantinopoli il 4 ottobre. Qui, obbediente alle istruzioni della commissione del 20 aprile, caldeggia i "buoni trattamenti" per i mercanti veneti, ricorda il doveroso rispetto dei "capitoli della pace", appoggia l'operato dei consoli di Siria e d'Egitto, si preoccupa della "liberatione de' schiavi sudditi" veneti, protesta contro i "danni" apportati alla navigazione veneta dai "corsari" agevolati dalla complicità dei "ministri" turchi specie di Durazzo e della Vallona.

Ricchi d'informazioni, altresì, i suoi dispacci su Valacchia e Moldavia, sui ricorrenti "sospetti di contagio", sulle voci d'epidemia ad Alessandria e al Cairo, sul ritmo ora intenso ora rallentato degli "armamenti marittimi" allestiti all'arsenale, sull'indebolimento dell'apparato militare turco sul versante dell'Europa per il "grande impegno dell'Asia", sulle mosse dei Tartari, sulla Persia "aggittata da interne rivolutioni e lacerata da' Moscoviti alla parte del Caspio", sulle malefatte della pirateria, sui delitti della "gente iniqua della Vallona". Stralciabile da quello del 5 dic. 1726 lo schizzo del sultano Aḥmed per il gusto ritrattistico che l'impronta: "l'occhio è aperto, la faccia bruna ... piena, la barba nera, corto il collo quasi attacato alla spalla", pingue il corpo. Rilevabile in quello del 27 apr. 1727 il suggerimento di rivedere i tempi di partenza e d'arrivo dei convogli da Venezia, imitando i convogli inglesi e olandesi che giungono "nel cuore dell'inverno". Risultandogli che "il primo convoglio" era fermo a Venezia ancora in marzo, il D. asserisce sarebbe bene, invece, farlo arrivare a Costantinopoli entro febbraio o, al più tardi, all'inizio di marzo, essendo questo il periodo in cui i Turchi "provedono all'occorrenze del bairano" e al "bisogno" familiare, mentre, trascorso questo, "nel rimanente dell'anno restano oziosi li capitali, si cangiano li disegni, le stoffe perdono il lustro". Cospicuo merito del D. i lavori - condotti con spesa non esorbitante e ridimensionando, nel contempo, l'esosa richiesta del proprietario del fondo, su cui sorgeva il palazzo, di raddoppiare il canone d'affitto - per restaurare la dimora dei baili veneziani "abbandonata e negletta nel lungo corso delle guerre passate" e quasi "ridotta nell'ultima perdizione". Un intervento di ristrutturazione a fondo quello diretto dal D. dal quale il "bailaggio" sortisce "rinovato" e "accresciuto" di dodici "stanze", mentre "dalle due sale mal composte et inutili se ne ricava una sola" spaziosa colla "scala alla fronte, ripartendosi il resto in camere ben disposte e moltiplicate nella parte superiore e nell'inferiore". Ricostruite pure le scuderie con dodici poste e stanza separata pei cocchieri.

Al D., uomo che s'infastidisce per la "greca petulanza", che bolla, all'ingrosso, le religioni non cattoliche quali "falsi dogmi", che giudica i rinnegati "scellerati disertori della nostra santa religione", il 30 luglio 1729, gli inquisitori di Stato scrivono che sarebbe opportuno, anzi necessario dar "mano a qualunque più gagliardo ripiego per disfarsi" di C.-A. de Bonneval che, col clamoroso voltafaccia del passaggio al Turco, rischia di "riuscir fatale" a Venezia e alla Cristianità in genere. Il D., insomma, dovrebbe, in qualche modo, organizzare la sua eliminazione tentando "ogni via" per conseguire siffatto scopo, naturalmente "con quella segretezza, attenzione e cautela che tenga immune" la sua "persona" da un palese coinvolgimento nell'assassinio. E il D., già malato - un malore l'ha colto il 7 settembre nel "giardino" del rappresentante francese -, risponde, il 13, che Bonneval non risulta pervenuto a Costantinopoli.

Mentre questi è ancora in Bosnia, le condizioni di salute del D. s'aggravano e dopo sette giorni di progressivo deperimento - di fronte al quale i tre medici accorsi al suo capezzale si dichiarano impotenti - muore, a Costantinopoli, il 22 sett. 1729, venendo quindi sepolto, com'egli stesso aveva disposto, nella chiesa dei cappuccini di S. Luigi a Pera.

Fonti e Bibl.: In aggiunta a quanto segnalato nei due lavori espressamente dedicati al D. - e precisamente: M. Giudici, I dispacci di Germania dell'ambasciatore ... D. D. …, I-II, Venezia 1907-10, e M. Zorzi, D. D. ambasciatore in Polonia, in Ateneo veneto, n. s., XX (1982), pp. 267-302 - si riduce il rinvio a: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 93, c. 99v.; Capi del consiglio dei dieci. Lettere di rettori, busta 104, nn. 110-126, 128-136, 140-142, 144, 145, 148-151, 155-238; Ibid., Senato. Deliberazioni Costantinopoli, regg. 39 (da c. 44r), 40; Ibid., Senato. Lett. provv. da Terra e da Mar, filza 195; Ibid., Senato. Lett. rettori Padova e Padovan, filze 107 (passim dalla lettera del 21 sett. 1718), 108 (passim sino a lettera del 14 luglio 1720); Ibid.; Senato. Terra, regg. 276 (da c. 354r), 277, 278, 279 (sino a c. 223v), 281, 282, 283, 284 (sino a c. 736r), passim; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 3115/47; 3283/XLII; 3503/11; 3508; Ibid., Mss. Correr, 977.23; 1051; 1258.1; Ibid., Mss. Malvezzi, 139/14; Ibid. Mss. P. D., 347 C 33; 348 C 75, 79; 636 C/XIII; Ibid., Mss. Venier, B. I/1(6); Ibid., Stampe Gherro, 1893; Venezia, Bibl. Querini Stampalia, Mss., cl. IV, CLXXXIX; DXLVI, 2; N. Madrisio, Poesie..., Padova 1723, p. 275; P. Garzoni, Istoria ... di Venezia…, II, Venezia 1716, pp. 75, 323, 412; Documente privitóre la istoria Románilor, a cura di E. de Hurmuzaki, IX, 1, Bucuresci 1897, pp. 398, 405-437 passim, 612-616; I Libri commemoriali della Rep. di Venezia. Regesti, VIII, a cura di R. Predelli, Venezia 1914, p. 119; Rel. di amb. sabaudi genovesi e veneti…, a cura di C. Morandi, Bologna 1935, p. LIV n.; Rel. dei rettori veneti…, a cura di A. Tagliaferri, IV, Milano 1975, p. LI; IX, ibid. 1977, p. 496; XIV, ibid. 1979, pp. XLIX, 455-461; Archivum civitatis Utini, a cura di P. C. Ioly Zorattini, Udine 1985, p. 82; G. De Renaldi, Mem. ... del patriarcato d'Aquileia..., Udine 1888, p. 463; P. 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