DANTE ALIGHIERI

Enciclopedia Italiana (1931)

DANTE ALIGHIERI

Michele Barbi

ALIGHIERI La vita. - Condizione sociale e prima educazione. - Nacque in Firenze nel maggio del 1265, di famiglia che si teneva derivata dal gentil seme dei Romani fondatori della città (Inf., XV, 73-78) e poteva dirsi nobile per titoli e uffici conseguiti (Par., XVI, 1-9), quantunque fosse ormai scesa a modeste condizioni. Il suo trisavo Cacciaguida (Par., XV, 130-148) fu fatto cavaliere dall'imperatore Corrado III, e morì, stando all'attestazione del poeta, nella seconda crociata in Terrasanta; fu probabilmente consanguineo degli Elisei, e la sua casa era difatti situata presso il Mercato Vecchio dove costoro abitarono (Par., XVI, 40-42); ma i discendenti di lui passarono ad abitare nel popolo di San Martino del Vescovo, e qui nacque D. da un Alighiero di Bellincione d'Alighiero. La famiglia era guelfa, come in genere la piccola nobiltà cittadina e il popolo artigiano, in opposizione alla nobiltà feudale, di parte ghibellina, che della protezione dell'Impero si valeva a dominare nel comune; ma benché D. per bocca di Farinata degli Uberti (Inf., X, 46) proclami i suoi maggiori fieramente avversi al partito ghibellino, ond'ebbero a patire due volte l'esilio, essi non emergono mai nella cronaca di quelle lotte, e appena dai documenti d'archivio sappiamo di danni sofferti da uno di loro nella sua abitazione. Nonostante la modesta condizione sociale della famiglia (una sorella fu sposata a un banditore del comune; un'altra, Tana, a un prestatore), D. può attendere agli studî e fa vita da gentiluomo; serve il comune nelle cavallate, e a Campaldino nel 1289 combatte nelle schiere a cavallo, tra i feditori; può legarsi d'amicizia con spiriti alteri come Guido Cavalcanti; suo padre, prima di morire circa il 1283, gli prepara in matrimonio una gentildonna dei Donati, per quanto d'un ramo la cui potenza s'era andata attenuando. Si vuole che passasse gran parte della sua adolescenza come novizio francescano nel convento di Santa Croce, ma è opinione che contrasta con troppi indizî d'altro genere di vita a cui attende e a cui è destinato dai parenti. Non si esclude che possa aver frequentato le loro scuole inferiori, come più tardi quelle di filosofia; ma la rettorica, che comprendeva così l'arte di parlare in pubblico come quella di scrivere lettere in latino (ars dictaminis), e il cui apprendimento era ricercato non solo da giudici e notari, ma anche da coloro che volevano riuscire cittadini influenti, sembra averla imparata da Brunetto Latini, che fu primo ad avviare i Fiorentini "a regger la repubblica secondo la politica" (G. Villani, Cronica, VIII, 10), e dal quale D. confessa aver imparato "come l'uom s'eterna" (Inf., XV, 85). Restano indizî che fosse in sua giovinezza a Bologna; e se vi fu per ragioni di studio, più che le scuole di diritto è probabile che anche lì frequentasse le scuole di rettorica, assai famose in quel tempo; e di questo studio formale e dell'amore pei classici latini durò per tutta la vita l'efficacia.

Tentativi d'arte e studi. - Da sé imparò, giovinetto ancora, l'arte del "dire parole per rima" (Vita nuova, III, 9), e ben presto poté così entrare in corrispondenza coi più noti trovatori della città movendo loro questioni o rispondendo a quelle proposte da loro, e diffondere sue poesie d'amore secondo l'uso che correva. Per molti questo poetare era come un ornamento, un di più; per D. diventa a poco a poco un'occupazione seria, per amore d'arte e di sapere, oltre che di vera leggiadria, specialmente dopo che ebbe acquistato familiarità con Guido Cavalcanti. Cominciaron essi a distinguere l'arte propria, e di Lapo Gianni, da quella di Guittone, che a loro parve rozza, e d'altri "grossi" che rimavano a caso, e assottigliarono assai la mente circa la natura e gli effetti dell'amore, in relazione anche con l'interiore perfezione dell'uomo. Se non che Guido, incline alle sottigliezze del pensiero, curò più che altro la filosofia naturale; D. invece, natura più artistica, preferì lo studio dei poeti latini, e particolarmente di Virgilio, che divenne il suo maestro e il suo autore, tanto da riconoscer poi che da lui gli era provenuto il bello stile che gli aveva dato fama (Inf., I, 82-87). E mentre da principio dové risentire l'efficacia della più lunga esperienza di Guido, ben presto la sua natura poetica, gli studî sui classici e l'esempio di Guido Guinizelli che con poche rime, e specialmente con la canzone Al cor gentil, aveva dato saggio di un'arte nuova, con sentimenti meglio rispondenti ai nuovi ideali del popolo italiano, lo spinsero ad attuare quell'innovazione nella poesia volgare di cui si fa dar lode nel Purgatorio (XXIV, 49-62) da Bonagiunta Orbicciani, e la sua fama di eccellente dicitore in breve tempo si consolidò e dilatò. Così agli ozî, che i doveri di cittadino per cavallate o altre imprese guerresche e la cura degl'interessi familiari lasciavano a persone della sua condizione (e il suo matrimonio non dové tardare quanto si crede), seppe trovare un'occupazione nobile e da impegnare fortemente il suo amor proprio.

Grande efficacia ebbe sull'anima sua la grazia di una gentildonna fiorentina (tutto induce a credere che fosse una Bice figlia di Folco Portinari andata sposa a un Simone dei Bardi), che egli designò col nome intero di Beatrice, a indicare ch'ella dava a chi la vedesse beatitudine. Qualche impressione ricevuta da lei sin dai più teneri anni, l'uso di questi amori per rima e il suo stesso melanconico fantasiare, certa soave austerità in quella gentilissima che gliela faceva apparire più altamente virtuosa, produssero a poco a poco in lui la persuasione che ella dovesse essere e fosse guida ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti verso quella perfezione ideale a cui ciascun nobile spirito deve mirare. Onde non più, nelle sue poesie, i lamenti consueti negli altri rimatori per la durezza della donna, e non più il frequente domandar mercede; ma invece l'esaltazione di lei come un miracolo di gentilezza e di virtù, e come una creatura mandata da Dio sulla terra non soltanto per la salute del suo fedele, ma per tutti quelli che da natura fossero disposti a intendere la sua nobiltà; e insieme con tale esaltazione il tremore che siffatta creatura non fosse destinata a rimanere a lungo in questa bassa vita. In mezzo a questo vago e trepido immaginare giunse veramente la morte; prima del padre di Beatrice, e poi di lei (8 giugno 1290): e nel poeta, tra l'espressione del suo dolore, subentrò e s'acuì la contemplazione di essa nella gloria del cielo. E se altro aspetto gentile atteggiato a pietà, che pareva compiangere con lui la perdita di Beatrice, riuscì, qualche tempo dopo il primo annovale, ad avvincerlo d'impreveduto desiderio, ben presto la memoria della sua donna tornò a trionfare, lasciando in lui il cruccio d'una infedeltà verso chi i suoi occhi e il suo cuore non avrebbero mai dovuto fallare. In questo sentimento di rinnovata fedeltà e di dolore nacque il proposito di celebrare più solennemente la virtù di Beatrice, raccogliendo le rime sparse in lode di lei e dichiarandone le occasioni e il vero intendimento. Ne uscì (c. 1292-93) un volumetto, che fu nel suo insieme una bella novità, anche se composto di cose in gran parte scritte secondo l'uso corrente e già divulgate, ed ebbe il titolo di Vita nuova, quasi congedo da un'età di preparazione e avviamento a cose maggiori.

L'amore dello studio s'era intanto fatto più forte in lui. La lettura di Boezio e di Cicerone (Conv., II, x11,2-5) gli aveva aperto allo sguardo più larghi orizzonti; e il movimento speculativo ravvivatosi in seguito alla diffusione delle opere fisiche e metafisiche di Aristotele e al bisogno di accordare il pensiero del "maestro dell'umana ragione" con le verità della fede, e il sorgere di tante università o studî, specialmente per opera dei nuovi ordini religiosi, spingendo verso la speculazione filosofica anche i laici, attrassero il poeta, già uomo fatto, alle "scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti" (Conv., II, x11,7). Il convento dei domenicani di Santa Maria Novella aveva nella seconda metà del sec. XIII uno studium solemne, e dal 1295, per il riordinamento della provincia romana, uno studium generale; presso i francescani di Santa Croce insegnarono in quegli anni maestri insigni, fra i quali, dal 1287 all'89, Pietro Giovanni Olivi; e scuole erano anche presso gli agostiniani di Santo Spirito. Stando alla testimonianza stessa di D., egli si volse alla filosofia, poco oltre il 1290, con sì forte ardore che "in picciol tempo, forse di trenta mesi", cominciò "tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero"; e non eran passati due o tre anni, che "per affaticare lo viso molto, a studio di leggere", in tanto debilitò gli spiriti visivi che le stelle gli "pareano tutte d'alcuno albore ombrate" (Conv., II, x11,7 e III, ix, 15). I riflessi di questo suo ardore si ebbero anche nella poesia, essendosi egli, oltre a celebrare la filosofia come signora della sua mente, posto anche a trattare in artificiose canzoni argomenti di filosofia morale, come la nobiltà e la vera leggiadria. Non che per questo lasciasse "il dolce dire d'amore" per donne reali: amore rimaneva sempre per lui germe d'ogni nobile azione e d'ogni alta aspirazione; e compimento del vero gentiluomo, oltre che il valore, era altresì la cortesia, intesa nel senso sociale di bei costumi, e quindi anche "il donneare a guisa di leggiadro" e rendere omaggio poetico alla bellezza come avviamento e conforto a nobili imprese. Di più, il senso e il bisogno dell'arte, in una natura come quella di D., operavano pure per proprio conto; e alla sempre più cosciente ammirazione per i poeti latini s'aggiunse un più largo studio della poesia provenzale nei trovatori suoi più singolari, e il desiderio d'entrar con loro in gara lo portò a comporre qualche cosa di nuovo e d'intentato: furono, se non altro, esperimenti d'arte che andarono temprando il suo ingegno poetico a cose più grandi per l'avvenire. Uno di questi tentativi sarebbe, secondo alcuni, anche il Fiore, libera riduzione del Roman de la Rose in 232 sonetti, fatta con abilità e franchezza non comuni; ma più si cerca in esso il fare di D. e meno vi si trova.

Vita domestica e uffici pubblici. - Non bisogna però immaginarsi un D. tutto assorbito nei suoi studî e nei suoi tentativi d'arte: anche la realtà della vita urgeva, né egli era anima da perdersi in un mondo puramente intellettuale, e da disinteressarsi dei rapporti che la scienza e l'arte hanno con la vita. In Firenze avveniva una grande trasformazione sociale: l'ampio sviluppo preso dalle arti e dal commercio, l'immigrazione dal contado di gente nuova, attratta dal desiderio di guadagnare e farsi largo, avevano sempre più ristretto il potere e le facoltà delle case di nobiltà originaria e che non s'erano mai occupate d'industrie e di commerci: da una parte la baldanza e il seguito che dà il danaro, dall'altra la tristezza e l'abbandono che è conseguenza della penuria. Il padre di D. aveva saputo conservare, e forse accrescere, il piccolo patrimonio familiare, se non facendo propriamente l'arte del prestatore, certo occupandosi d'affari; ma il figlio non lo seguì per questa strada, e neppure suo fratello, Francesco, che, pur tenendosi lontano dagli studî, altra occupazione o ozio non conobbe fuor di quella del possidentuccio: come tutta la media nobiltà che viveva delle rendite terriere, sentì presto anche il poeta il morso del bisogno, e ne restano testimonianze in atti di mutuo che egli e suo fratello contrassero negli ultimi anni del sec. XIII. Dal matrimonio con Gemma di Manetto Donati (era questi cugino di Corso, ma d'un ramo della famiglia che andrà presto staccandosi dalla consorteria, assumendo nuovo casato), combinato nel 1277 ma attuato non sappiam quando, erano nati varî figli: noi conosciamo Iacopo, Pietro, Antonia (da identificarsi probabilmente con una suor Beatrice fattasi monaca nel monastero di Santo Stefano degli Olivi a Ravenna), e potrebbe esser loro fratello anche un Iohannes filius Dantis Alagherii de Florentia che compare come testimone in un atto del 21 ottobre 1308 in Lucca. Il dover vivere dei frutti delle possessioni che D. aveva a comune col fratello, anch'esso ammogliato con donna di pari condizione sociale, e di piccoli guadagni quali si potevan ricavare dal dar bestiame a soccida o caposalvo, imponeva limitazioni, e generava strettezze quando occasioni straordinarie richiedessero spese di qualche momento o per decoro della famiglia o per speranze di migliorare la propria condizione. E a D., per l'altezza dell'ingegno, per l'attitudine e il desiderio di menar vita cavalleresca, in una città celebrata per la cortesia che vi regnava, non dovevano mancare occasioni di figurare. A una di tali occasioni si vede un accenno nelle parole che nel Paradiso (VIII, 54-57) si fa dire da Carlo Martello:

Assai m'amasti, e avesti ben onde;

ché s'io fossi giù stato, io ti mostrava

di mio amor più oltre che le fronde.

Il principe angioino, venuto in Toscana, tra il febbraio e il marzo del 1294, incontro al padre suo che tornava dalla Provenza, fu molto festeggiato a Siena e in Firenze da cavalieri fiorentini messi ai suoi ordini dal comune: fra essi dové esser D., che ebbe, sembra, dal giovine principe tali manifestazioni di simpatia da ingenerare in lui le più lusinghiere aspettazioni.

Ma intanto, più D. vagheggiava nel pensiero cortesia e valore che rendessero la convivenza sociale virtuosa e lieta, e più la città s'avviava verso una considerazione materialistica della vita e una lotta spietata per soverchiare l'un l'altro; alle invidie private e agli odî di famiglia s'aggiungevano i contrasti fra i magnati, intenti a impedire gli avanzamenti del popolo, e il popolo, accanito contro i magnati per sottrarsi, pur con mezzi eccessivi, alle loro violenze e alle loro usurpazioni. A D. questa vita d'interessi materiali e di sopraffazioni spiaceva, e il suo dolore ha echi nelle canzoni della nobiltà e della leggiadria e in un sonetto a Cino da Pistoia (Rime, LXXXII, LXXXIII, XCVI). Ma, com'è degli animi generosi, non si sottrasse alla lotta. Benché scarsa parte nel governo della repubblica lasciassero i nuovi ordinamenti di Firenze ai nobili che non esercitassero effettivamente un'arte, quand'anche non fossero dei grandi costretti a dare speciali garanzie al regime popolare, appena una provvisione del 6 luglio 1295 consentì ai nobili di certa condizione d'esser eletti ai consigli del popolo e al priorato con la semplice inscrizione nelle matricole delle Arti, D. diede il suo nome, certamente come cultore di studî filosofici, a quella dei medici e speziali. Poté così essere del consiglio speciale del popolo per il semestre dal 1° novembre 1295 al 30 aprile 1296 (non è quindi da credere, per ragione d'incompatibilità, ch'egli appartenesse, come si pensa, al consiglio del podestà o del comune durante il secondo semestre del 1295, e che perciò avesse parte nel provvedimento a favore dei grandi del 6 luglio di quell'anno); fu chiamato il 14 dicembre 1295, fra i savî dei varî sesti della città, a prender parte a un consiglio per l'elezione dei priori; appartenne al consiglio dei Cento, che deliberava sulle spese e sugli affari più importanti, dal maggio al settembre del 1296, e a un altro consiglio (non sappiamo quale) nel 1297. Dal luglio 1298 al febbraio 1301 ci mancano i verbali dei consigli; tuttavia della partecipazione di D. al governo della città rimangono altre testimonianze. Nel maggio del 1300 fu inviato come ambasciatore a San Gimignano per invitare quel comune a mandar sindaci a un'adunanza dei comuni guelfi di Toscana per rinnovare la loro lega ed eleggere il capitano: non sembra in sé ufficio di grande rilievo, ma in realtà doveva in quel momento importar molto a Firenze tenere stretti a sé i comuni guelfi della regione per difendere la comune indipendenza, non contro le solite pretese dell'Impero (che in quel tempo si considerava come vacante non essendo stato ancora riconosciuto e incoronato Alberto d'Austria), ma contro Bonifazio VIII che, approfittando di quella vacanza e delle discordie fiorentine, voleva assoggettare al dominio della Chiesa tutta la Toscana. La fiducia riposta in D. di fronte a quel pericolo c'è confermata dal fatto che, scaduto il priorato che primo avvertì le mire pontificie e primo le osteggiò senza lasciarsi spaventare dalle minacce di scomunica, fu egli eletto dei priori per il bimestre successivo (15 giugno-15 agosto); e poiché volta per volta si stabiliva come dovesse farsi l'elezione di quell'ufficio, è certo che tutto fu predisposto perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva. Così si ritrovò D. a contrastare, per tutto il bimestre, alle arti della curia romana, che con la dottrina della plenitudo potestatis e con la pretesa del vicariato durante le vacanze dell'Impero voleva intromettersi nelle giurisdizioni cittadine, e a neutralizzare i segreti raggiri del cardinale d'Acquasparta mandato come legato pontificio a Firenze: tanto la Signoria tenne duro, che il 22 luglio il papa, irritato da quella resistenza, invitava il suo legato a procedere contro i rettori, i priori e i consigli, scomunicandoli e sospendendoli dagli uffici, confiscando i loro beni, annullando i crediti, ecc.; e D. si salvò dalla scomunica solo perché il legato, illuso ancora da chi sa quale speranza, tardò sino alla fine di settembre a lanciare i suoi fulmini spirituali, quando era entrato in carica un nuovo priorato. Un avvenimento notevole sul principio del priorato dell'Alighieri fu l'assalto che alquanti magnati, certo di parte nera, fecero la vigilia di San Giovanni contro i consoli delle Arti che andavano a fare la consueta offerta al santo patrono, al quale assalto seguì un movimento di reazione nella parte opposta: la Signoria, pare per consiglio di D., ne trasse motivo a un provvedimento che liberasse la città dagli spiriti più turbolenti, massime fra i Neri che apparivano più disposti a soddisfare i desiderî di papa Bonifazio pur di vincere gli avversarî, e assegnò il confino ai caporioni dell'una e dell'altra parte: tra quelli di parte bianca fu compreso anche il primo amico di D., Guido Cavalcanti. La divisione nella città era ormai così profonda, che perfino "i religiosi non si poterono difendere che con l'animo non si dessero alle dette parti, chi a una chi a un'altra" (Dino Compagni, Cronica, I, xx11): pochissimi i cittadini "comuni", cioè senza spirito partigiano, che guardassero, più che agl'interessi della casata o del partito, al benessere della città; e D. fu di quelli. Tuttavia, siccome in politica bisogna esser sempre con qualcuno, e a un partito di "comuni" che, senza contatti dubbî, avesse forza di fare stare a dovere gli altri, non era da pensare, D. si accostò a quella parte che pareva più umana, più accomodevole, più tollerante (cfr. Dino, I, xx), se anche più gretta e meno accorta, e fu coi Cerchi, ossia con parte bianca. Anche Bonifazio tentò i Cerchi, ma davanti all'irrisolutezza di Vieri dové sin d'allora pensare che non conveniva "perdere gli uomini per le femminelle" (ibid., II, xi), e uomini quali egli voleva trovò in Corso Donati e in altri facinorosi della sua parte. Sicuro della loro cooperazione, il pontefice aveva sin d'allora stabilito di far muovere un principe francese, Carlo di Valois, oltre che per la riconquista di Sicilia, anche per domare i ribelli di Toscana: era dunque naturale che D., per allontanare dalla sua città il superiore dominio della Chiesa e la signoria di Corso e della sua parte, si confermasse nel proposito d'opporsi con tutte le sue forze alle mire di Bonifazio. Se altri uffici avesse dall'agosto 1300, quando lasciò il priorato, al febbraio 1301, non possiam0 sapere per la lamentata mancanza dei verbali dei consigli; né è da mettere fra gli uffici politici l'essere stato eletto nell'aprile del 1301, per designazione degl'interessati, a soprastante dei lavori necessarî al raddrizzamento e allargamento della via di San Procolo, che doveva farsi per comodo e a spese dei vicinanti. Probabile è però che il 15 marzo dello stesso anno, in un consiglio a cui avrebbe partecipato come uno dei savî richiesti, s'opponesse a uno stanziamento in favore di re Carlo d'Angiò, appunto per la riconquista della Sicilia. Poco appresso, il 14 aprile, fu di nuovo chiamato per fissare il modo dell'elezione dei priori: una delle proposte avanzate dal legato pontificio era che fossero eletti a sorte fra i designati delle due parti; e l'interesse della città esigeva invece che non potessero esser nominati uomini di dubbia fede o favorevoli alla politica della curia romana. Dal 10 aprile al 30 settembre tornò a far parte del consiglio dei Cento; e il 19 giugno essendo venuto due volte in discussione se si dovesse continuare al papa l'aiuto di cento militi già concesso per im'impresa contro gli Aldobrandeschi ai confini della Toscana, l'una e l'altra volta consuluit quod de servitio faciendo domino Papae nichil fiat. Il 13 settembre prese ancora la parola in un'adunanza di tutti gli uffici e consigli et aliorum bonorum virorum sui provvedimenti da prendersi per la tutela degli Ordini della giustizia e degli Statuti del popolo (cioè in una di quelle adunanze che si solevano fare quando alla città sovrastavano gravi avvenimenti ed era necessario dar pieni poteri alla Signoria); ma il notaio degli atti non ci ha conservato il suo parere. All'avvicinarsi di Carlo di Valois, nell'ottobre 1301, il comune pensò di mandare un'ambasciata a Bonifazio per contrastare alle male arti dei Neri, e uno dei tre prescelti fu D. Ebbe così occasione di avvicinare il grande pontefice e di praticare la sua corte; e non per breve tempo, ché Bonifazio, avuti a sé i tre ambasciatori, rimandò gli altri due perché persuadessero i Fiorentini a umiliarsi a lui, che nient'altro desiderava se non la pace della città, e trattenne presso di sé D., del quale più aveva da temere. Così egli non assisté all'incerta, fiacca, inconcludente politica praticata dai Bianchi negli ultimi mesi del loro dominio, la quale, unita alla viltà dei Cerchi quand'era tempo d'arrotare i ferri, portò al trionfo della parte contraria. Pare che la casa di D. fosse una delle prime a esser derubata nel sormontare dei Neri e nelle prime vendette contro i loro avversarî: egli probabilmente non ritornò più a Firenze. Trattenutosi, quando seppe del rovescio della parte, a Roma e a Siena, in quest'ultima città dové raggiungerlo il 27 gennaio 1302 la prima sentenza, che con altri quattro cittadini lo condannava a pagare cinquemila fiorini piccoli, a stare confinato per due anni e ad essere escluso in perpetuo dagli uffici pubblici, sotto la comune accusa di baratteria, illeciti guadagni, opposizione al pontefice e a Carlo di Valois, turbamento della pace in Firenze e rivolgimento di Pistoia a parte bianca con espulsione dei Neri fedeli devoti di Santa Chiesa. Non essendosi presentato a pagare e a giustificarsi entro il termine assegnato, seguiva il 10 marzo una seconda sentenza, comune ad altri quindici cittadini, la quale stabiliva che se fosse venuto in forza del Comune dovesse esser bruciato vivo (igne comburatur sic quod moriatur). È vano ricercare di che in particolare potesse essere accusato l'Alighieri: s'attribuiva a ciascuno quello che efa stata la politica di parte bianca. e a ogni obiezione s'ovviava con la distinzione cavillosa ipsi vei ipsorum aliquis. Ognun capiva che era inutile intervenire a discolparsi, e accettava le conseguenze della sua contumacia.

I primi anni dell'esilio. - L'esilio rallargò l'orizzonte di D. e di fiorentino lo fece cittadino d'Italia. Non che Firenze fosse un osservatorio ristretto a quei giorni rispetto alle altre terre d'Italia; non che l'Alighieri non rimpiangesse la città diletta dalla quale era cacciato proprio per l'amore che aveva avuto alla sua autonomia e alla sua pace; non che non s'adoprasse nei primi tempi coi compagni di sventura a riacquistare ciò che aveva perduto (lo troviamo nel 1302 a San Godenzo nel Mugello a dar garanzia agli Ubaldini pei danni che avrebbero potuto ricevere dalla loro guerra contro Firenze; nel 1303 a Forlì come aiuto e segretario presso Scarpetta Ordelaffi, e ambasciatore a Verona presso gli Scaligeri; scrivere e operare come uno dei 12 consiglieri di parte bianca nel 1304 durante le trattative di pace tra Firenze e gli esuli condotte dal cardinal da Prato); ma ben presto si ruppe con la "malvagia e scempia" compagnia con la quale era caduto in esilio, e si ridusse a far parte per sé stesso. Dalla testimonianza dell'Ottimo commentatore e dalla parola stessa del poeta (Par., XVII, 61-65; Inf., XV, 70-72) pare che la rottura fosse determinata da gravi accuse e risentimenti della parte contro di lui. Non sappiamo niente di preciso, ma il carattere di D. non era tale da acconciarsi facilmente al sentimento e ai disegni di una moltitudine di faziosi mossa da tanti e così diversi interessi come quella con cui si trovava a vivere e ad agire. Si rifugiò presso i signori di Verona, ma non vi resse a lungo; e pochi anni dopo scriveva che a lui era patria il mondo come ai pesci il mare (De vulg. eloq., I, vi, 3), e lamentava d'essere dovuto andare "per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando", come "legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade", e s'attristava d'essersi dovuto in tale stato mostrare a molti che forse "per alcuna fama in altra forma" lo aveano immaginato; nel cospetto dei quali non solamente sua "persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come quella che fosse a fare" (Conv., I, 111, 4-5).

La condizione di D., staccatosi dai suoi compagni, fu presso a poco quella dell'uomo di corte: accorrere qua e là dov'eran signori in fama di liberalità verso gli uomini d'ingegno e di dottrina oppur d'indole piacevole, tanto da doversene una corte onorare e servirsene per affari d'importanza o averne sollazzo nella vita quotidiana; vivere quindi in una mescolanza di gente che andava e veniva, di varia natura, con gusti e intendimenti diversissimi, dalle persone di scienza ed esperienza politica ai buffoni; e generalmente non eran quest'ultimi i meno graditi e i meno liberalmente donati o che prima dovessero sgombrare. Che D., col sentimento del suo valore, e con l'indole sua, si sentisse a suo agio in tali ambienti si potrebbe escludere, anche se non si avessero accorate testimonianze nelle opere (Par., XVII, 58-60; Conv., I, vi, 3) e non parlasse chiaro l'invettiva nel De vulg. eloq., I, xii, 5 contro i principi del suo tempo.

Si capisce come simile vita gli facesse sentire più vivo il desiderio della patria diletta, e di ciò che aveva lasciato in essa di più caro; e il pensiero che, per un provvedimento preso in Firenze nel 1303, anche i suoi figli sarebbero stati costretti a seguire la sua sorte appena raggiunta l'età di quattordici anni, doveva pure preoccuparlo assai. Vi fu tempo che si ridusse perciò a "umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a particolari cittadini del reggimento, ma anche al popolo, ed intra l'altre una epistola assai lunga, la quale comincia Popule mee, quid feci tibi?" (Leonardo Aretino, Vita di D.). E a Firenze mandava una canzone, nella quale viene esaltato il suo amore di giustizia, perch'ella s'adoperasse coi cittadini a ottenergli pace, proclamando che "perdonare è bel vincer di guerra" (Rime, CIV, 101-107). Se il suo popolo non gli perdonava, era perché non sapeva quel ch'egli si fosse, e che per nessun'altra ragione pativa l'ingiusto esilio se non per aver amato Firenze (ibid., 105; De vulg. eloq., I, vi, 3). Facile era stato farlo passare per nemico della sua città. L'opposizione fatta alla politica della Chiesa, la condanna che è sempre presunzione di colpa, l'essersi uniti agli esuli Bianchi nei primi tentativi di riacquistare la patria i veri ghibellini già banditi da Firenze, l'aver dovuto cercar rifugio e aiuti in città della Toscana e della Romagna nemiche di parte guelfa, avevano nell'opinione comune accomunato ben presto lui e i compagni coi ghibellini. Ora D., col tenersi lontano dai nemici di Firenze, col dimorare in luoghi che non dessero sospetto, e col rivendicare nelle epistole quello che aveva fatto per la città e per parte guelfa combattendo a Campaldino contro i ghibellini e tutelando l'autonomia del Comune contro ogni ingerenza straniera sia per titolo d'impero sia per altra cagione, mirava a purgarsi della taccia di ghibellino e di oppositore alla politica che era stata tradizionale a Firenze guelfa. Ma non meno utile al suo richiamo, e da giovare intanto a trovare una degna occupazione che lo togliesse all'avvilente povertà e all'andar mendicando di regione in regione, pensò poter essere il comporre qualche opera di soda dottrina che lo facesse apparire qualche cosa di più che non un semplice rimatore. Già nella Vita nuova aveva cercato distinguere sé e l'amico suo da "alquanti grossi" che poetavano più a caso che secondo ragione e arte; ma conveniva mostrar meglio che, se aveva coltivato la poesia volgare, non era stato per mancanza d'arte e di studio, ma che aveva ad essa invece saputo applicare le norme e gli avvedimenti dei poeti regolati, cioè dei poeti latini. Né scrivendo rime volgari aveva soltanto espresso sentimenti d'amore per la bellezza muliebre o passioni convenienti alla più giovine età, ma valendosi della facoltà che i poeti hanno di rappresentare cose ideali e altissime sotto la veste di cose sensibili, aveva cantato nelle consuete forme d'amore anche la sua passione per lo studio e il suo culto per la filosofia e argomenti attinenti all'educazione civile, tanto da potersi dire con piena ragione "poeta della rettitudine". Di qui i due trattati, rimasti però incompiuti, il De vulgari eloquentia e il Convivio, la cui composizione è da assegnarsi agli anni 1304-1307, e nei quali è evidente così il proposito di rialzare la sua fama oscurata dall'esilio, reagendo con ogni mezzo contro la mala fortuna che lo perseguitava, come il desiderio di trovare nello studio e nello scrivere di cose utili al benessere sociale e all'arte un conforto ai suoi dolori (Conv., I, 11, 15-17; iv, 13 e ix, 7; De vulg. eloq., I, xvii, 6).

Il pensiero del poema. - Ma l'orizzonte non si rischiarava, e il pensiero di D., in tanto persistente avversità di casi, dové per forza esser rivolto, dagl'ideali di gentilezza e amore vagheggiati nella sua giovinezza e dalla scienza amata e perseguita come perfezione dell'umana natura e come guida al perfezionamento etico dell'individuo, verso problemi più concreti di politica. Il mondo era senza giustizia e senza pace: non mancavano le leggi, ma nessuno v'era che avesse forza o interesse di farle osservare: la cupidigia, l'invidia, la violenza trionfavano in ogni luogo. Dovunque, per le regioni d'Italia, lo portasse il suo duro esilio, trovava altri infelici sbanditi dalle loro città; in nessuna parte un governo ordinato e tranquillo, ma discordie, sopraffazioni, tirannie o di fazioni o di usurpatori; e contrasti e guerre fra città vicine. Meditando sulle cause di tanto male, egli credé di vederne la cagione prima nella mancanza di un dominatore supremo che riducesse a unità gl'incomposti voleri, e che, tutto possedendo, e nulla avendo a desiderare, potesse impedire le cupidigie altrui. La provvidenza divina (di ciò non s'era fin allora accorto, cfr. Mon., II,1, 2-3) aveva ordinato a tale ufficio l'Impero romano; ma gl'imperatori in quel tempo, trattenuti da altre cure in Germania, trascuravano il dovere principale, che era qnello di venire in Italia, curare le piaghe del giardino dell'Impero, e da Roma governare il mondo. Di più, erano impediti nelle loro funzioni dalla Chiesa, che invece d'attendere all'ufficio commessole dalla provvidenza, di guidare la cristianità alla salute eterna, s'era voluta mescolare nelle faccende terrene, e aspirando ad avere la superiorità sull'Impero, reclamava a sé dovuto il supremo dominio così nell'ordine spirituale come nel temporale: onde i contrasti esiziali fra le due guide provvidenziali, l'approfittarne dei facinorosi, e il dilagare della cupidigia per il cattivo esempio dato dalla Curia romana, che appariva preoccupata più della potenza temporale e dei beni terreni che non dell'ufficio apostolico e della salute delle anime. A questo rivolgimento del pensiero dové accompagnarsi in D. il desiderio e il proposito di metter mano a un'opera molto diversa da quelle a cui attendeva, la quale rappresentasse i danni di un così generale pervertimento e disponesse gli animi a ravvedersi e a rimettersi sul retto sentiero. Si ebbe quindi l'interruzione del Convivio e della Volgare eloquenza, e la ripresa di un disegno che per tutt'altro fine aveva D. accarezzato sin da quando il suo spirito poteva indugiarsi a contemplare Beatrice beata nella corte del cielo (cfr. Vita nuova, XLII,1-2). Niente di più facile che innestare i nuovi propositi nell'antico disegno; combinare l'esaltazione della donna amata che vegliava dal cielo sulla sua dura milizia terrena, con la rappresentazione del mondo traviato, per tante cagioni, in tanti modi: gli effetti di sì grande pervertimento e il merito di chi sapesse mantenersene immune si potevan vedere nell'altra vita più che in questa; avere di là ammonimenti, ammaestramenti, e soprattutto esempî (Par., XVII, 136-142), che sarebber ricevuti dai viventi con tanta più efficacia quanto più avrebbero espresso il tardo pentimento di chi errò o la sicurezza di chi ormai tutto vede in Dio. Non poteva bastare a rivolger l'Italia dal male un trattato come il Convivio, e neppure esortazioni epistolari a re o imperatori, a principi o città. Che autorità aveva egli, uomo privato, sbandito dalla sua patria, perseguitato dall'avverso destino, da potersi ripromettere d'essere ascoltato? L'autorità non poteva venirgli se non dal suo genio di poeta. Occorreva una grande rivelazione, in cui l'immensità del male fosse ritratta a vivi colori, tanto da fare impressione in alto e in basso; dove l'insegnamento venisse, non da fatti contingenti o di scarsa importanza, ma dalla storia dell'intera umanità nel suo fortunoso svolgimento; e dove la volontà divina d'intervenire a restaurare la legge eterna e a ravviare il mondo per il vero cammino s'annunziasse in modo solenne. L'opera per cui D. è glorioso, e alla quale dedicò tutti i rimanenti anni della vita era concepita: la volle intitolata, secondo le dottrine del tempo, Commedia per lo stile piano con cui la iniziò, e per la materia triste in principio e in fine lieta; ma i posteri la dissero divina.

La discesa d'Arrigo VII. - In quali luoghi più a lungo si trattenesse l'Alighieri da poi che si fu staccato dai compagni d'esilio c'è ignoto. Sappiamo solo che nel 1306 ebbe cortese ospitalità presso i marchesi Malaspina, per conto dei quali trattò anche di pace col vescovo di Luni, riuscendo a comporre le loro questioni. Mancano veri indizî, e pare anzi poco probabile, che passasse le Alpi per andare a Parigi, attratto da quel celebre focolare di studî filosofici e teologici. Annunziata, e avvenuta nel 1310, la discesa d'Arrigo VII, D. visse per tre anni in ansia continua per l'impresa di questo imperatore. La sua venuta era proclamata come quella di un rex pacificus che scendeva in Italia a rimettere la concordia tra le città e tra le fazioni, a restituire gli esuli in patria, ad abbattere le usurpazioni di governo, a ristabilire il buon accordo fra la Chiesa e l'Impero. E veramente godeva fama d'uomo giusto e pio, e desideroso del bene pubblico; e il pontefice, com'era stato favorevole alla sua elezione, si mostrava con lui perfettamente inteso, e invitava i popoli d'Italia a fargli buon'accoglienza. Tutti gli esuli furon subito per lui. Come poteva D. non aprir l'animo alla speranza? e non dar pieno favore a chi, senza volere sentir parlare di guelfi e ghibellini, d'altro non si mostrava preoccupato se non di pacificare le discordie e di rendere giustizia a tutti? Che altro desiderava egli da più anni? E il suo primo grido fu, in una nobile lettera ai re, principi e popoli della penisola: "Allietati, Italia dolorosa, che il tuo sposo s'affretta alle nozze; e voi che piangete oppressi, sollevate l'animo, perché è presso la vostra salute; e voi tutti, Italiani, andate incontro al vostro re, come quelli che siete riservati, non solo al suo impero, ma al suo regime diretto". Già nei suoi studî (l'abbiamo accennato) s'era andato persuadendo della necessità dell'Impero universale, come quello che solo poteva sovrapporsi ai particolari interessi, giudicare con giustizia delle questioni inevitabili fra città e città, fra regno e regno, e assicurare con opportune leggi e con retti giudizî la pace necessaria al benessere del mondo; e appena Arrigo fu in Italia, corse subito a rendere il suo omaggio: "benignissimum vidi et clementissimum te audivi, cum pedes tuos manus meae tractarunt et labia meum debitum persolverunt" (Epistole, VII, 9). Non lo trattenne dal prendere risoluto la sua via pavida prudenza per aver sentito la riluttanza di Firenze a riconoscere l'autorità dell'imperatore. La verità e il bene pubblico sopra tutto. Che l'Impero fosse in mano di un re tedesco che importava? Quello era l'eletto della Provvidenza; e col prendere la corona in Roma diventava cittadino d'Italia; e da Roma avrebbe governato la penisola e imperato sul mondo. Quell'ufficio che altri re dei Romani avevano trascurato, Arrigo voleva compiere senza esitazione e coi migliori propositi: qual cittadino conscio dei suoi doveri poteva negargli il suo favore? o peggio, resistergli? E poiché Firenze, che nell'imperatore temeva il re barbaro, avverso alle libertà faticosamente conquistate dai comuni, impositore di balzelli e di gravami, non solo resisteva, ma, piena d'ardire e larga di fiorini, sommoveva quasi tutta Italia contro l'invasore, un nuovo urto fra D. e la sua città fu inevitabile: scagliò contro gli scelleratissimi Fiorentini di dentro, in un'epistola a loro diretta, i fulmini della sua ira; e indugiando Arrigo nell'Italia superiore a vincere altre resistenze, eccolo senza esitanze, e come mosso da ardore profetico, ad ammonirlo che lì non era il vero pericolo, e ad eccitarlo a correre invece senza ritardo a soffocare l'idra della ribellione sull'Arno. Firenze rispondeva mettendo il suo nome fra gli eccettuati dall'amnistia decretata con una provvisione del settembre 1311, nota sotto il nome di riforma di Baldo d'Aguglione. Se non che, quando Arrigo si risolse finalmente a seguire il consiglio di D., questi non volle esser contro la sua patria, tanta reverenza lo trattenne dal prendere le armi in questa che doveva essere, se non distruzione, esemplare punizione della città ribelle; né difatti il suo nome compare tra i Fiorentini condannati per essere stati nel campo dell'imperatore. Uffici presso Arrigo non appare che l'Alighieri ne avesse, e le sue lettere scritte in quel tempo sono datate dal Casentino, dove sembra godesse l'ospitalità del conte di Battifolle: egli partecipava all'impresa dell'imperatore col suo nobile cuore, e di fatto con le sue impetuose esortazioni: quando poi all'opposizione di Firenze s'aggiunse quella di re Roberto, e in fine, coperta e palese, anche quella di Clemente V, è probabile che, a difesa del diritto imperiale disconosciuto e contrastato, si ponesse a scrivere quel suo trattato della Monarchia, nel quale prese a dimostrare la necessità dell'Impero al benessere del mondo, l'attribuzione provvidenziale di esso al popolo di Roma, e l'indipendenza del potere imperiale dalla suprema autorità religiosa.

Gli ultimi anni. - D. non aspettò la morte di Arrigo per dubitare che la redenzione d'Italia potesse essere ormai opera di lui, ma certo quella morte fu un grave sconforto. Affrontò tuttavia la nuova sventura con l'animo che vince ogni battaglia, e rimase fermo più che mai nei suoi convincimenti circa l'ufficio dell'Impero e della Chiesa e le cagioni dei mali che affliggevano l'Italia e il mondo. L'epistola scritta ai cardinali italiani dopo la morte di Clemente V (1314) è un'appassionata invocazione a soccorrere Roma, già lieta e gloriosa per i due soli che la illuminavano e dai quali ricevevano splendore tutte le terre cristiane, ora prive dell'uno e e dell'altro: dovrebbero i cardinali italiani, e specialmente quelli di Roma, eleggendo un papa della loro nazione, porre fine allo scandalo del papato avignonese e restituire all'Italia e a Roma la gloria da altri usurpata. Ci fu tempo che i parenti e gli amici sperarono potesse D. tornare in patria accettando una di quelle amnistie a cui la città di Firenze ricorreva o per diminuire il numero dei suoi nemici esterni o per ragioni puramente finanziarie, né mancò chi nel 1315 lo esortasse ad approfittare d'un ribandimento decretato, a certe condizioni e per mezzo dell'offerta a San Giovanni, in occasione delle feste patronali di quell'anno (era l'unica forma di grazia che si conoscesse e si praticasse, anche in caso di errori giudiziarî riconosciuti, e per nobili persone; e le più umilianti formalità, come l'andare processionalmente alla chiesa del santo patrono con una mitria in capo, erano escluse); ma l'esule sdegnoso, amico di giustizia, rifiutò di tornare a Firenze per simile via. Avvenuta nell'agosto di quell'anno la sconfitta di Montecatini, il comune fiorentino dové pensare ad altri provvedimenti per attrarre a sé i meno pericolosi dei suoi sbanditi, se non assolvendoli del tutto, trasformando le condanne capitali in pena di confino, purché dessero sicurtà di rimaner quieti al luogo stabilito. Fra essi fu D.; ma egli neppur questo volle accettare; e non avendo risposto a nuova intimazione in forma di sentenza del 15 ottobre, il 6 novembre venne di nuovo condannato a morte insieme coi figliuoli, che ormai, come prole di ribelle, erano accomunati nella sorte del padre. Dove e come il poeta passasse gli ultimi otto anni di vita non ci è ben noto: rimase nel Casentino o si rifugiò presso Uguccione della Faggiuola non appena le sue felici imprese fecero sperare ch' egli fosse contro Firenze più fortunato che non Arrigo? O ricorse subito dopo la morte dell'imperatore alla liberalità di Cangrande della Scala, e se le fortune d'Uguccione lo attrassero per qualche tempo in Toscana, fu questa una più o meno breve interruzione dell'ospitalità scaligera? E a Ravenna, che certo gli fu nell'estrema vita porto tranquillo, passò dalla Toscana o da Verona? Varie sono le opinioni e le argomentazioni dei critici, e dubbî assai gl'indizî; né la cosa è di gran momento: quello che par sicuro, è che Dante cercasse e riuscisse ad avere negli ultimi anni una relativa stabilità e tranquillità di vita, e potesse tenere presso di sé i suoi figliuoli e, checché se ne pensi in contrario, probabilmente anche la moglie. Si discute anche se per qualche tempo tenesse in Ravenna cattedra di poesia e di rettorica; e certo, se le necessità della vita lo indussero ad accettare tale ufficio, data la sua fama si poté passare sopra la mancanza del titolo dottorale, a quel modo che a Verona gli fu dato nel 1320 di compiere un atto magistrale come quello di definire pubblicamente alla presenza di tutto il clero una questione, nata mentre si trovava a Mantova, sul sito e la forma dei due elementi acqua e terra. Egli attese soprattutto, a Verona e a Ravenna, a compiere il suo poema dal quale s'aspettava finalmente un onorato richiamo in patria, ed era appena compiuto quando, di ritorno da un'ambasceria a Venezia per conto di Guido da Polenta, moriva fra il 13 e il 14 settembre 1321. Fu sepolto con grande onore dentro un'arca lapidea in una cella presso il tempio che s'intitolava a San Pier Maggiore, e si disse poi di San Francesco; e le sue ceneri, benché richieste più volte dai Fiorentini, riposano ancora in quella cella, ridotta a tempietto dall'ammirazione dei posteri.

Della figura di D. lasciò scritto il Boccaccio: "Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso". Ma fra tante immagini che rimangono in dipinti, miniature e sculture nessuna ci dà con sicurezza il suo ritratto. Le più sicure ci presentano due tipi, entrambi senza barba: uno d'aspetto giovanile, ed è quello dell'affresco di Giotto nel palazzo del podestà di Firenze; l'altro in sembianza d'uomo maturo, che si crede derivi da un dipinto di Taddeo Gaddi in Santa Croce, e ci è conservato, più o meno fedelmente, in un disegno del Codice Palatino 320 della Biblioteca Nazionale di Firenze, in uno schizzo del codice Eugeniano della Palatina di Vienna, in una tavoletta posseduta dal principe Trivulzio, in una miniatura del codice Riccardiano 1040, in una tavola di Domenico di Michelino in Santa Maria del Fiore di Firenze, in un busto di gesso colorato della Galleria degli Uffizî di Firenze e in un altro di bronzo del Museo di Napoli, in una tavola che faceva parte di un cassone nuziale dipinto da Giovanni del Ponte (morto nel 1440) e che è ora in una collezione privata a Boston, ecc. L'immagine di Giotto è stata tutta ridipinta, ma dell'originale rimangono fortunatamente due lucidi, tratti nel 1842 da Seymour Kirkup e Perseo Faltoni. Il secondo tipo è quello più comune e che divenne tradizionale nei secoli, e ad esso s'ispirò anche Raffaello per quella vigorosa figura del poeta che introdusse nella Disputa del Sacramento.

Morto il padre, si sarebbe dovuta estinguere anche la condanna per i figli: se non che essi erano stati ricordati come tali, senza che fosse espresso il nome, nel bando del 1315, e questo portò incertezze circa la loro condizione giuridica di fronte al comune di Firenze. Gemma poté riscattare i suoi diritti dotali assicurati sui beni incamerati del marito; Beatrice rimase a Ravenna monaca in Santo Stefano degli Ulivi. Iacopo tornò presto in patria, e assicurata la sua condizione mediante un'amnistia del 1325, continuò poi, benché conservasse benefici a Verona, a vivere in Firenze, intento col suo poco ingegno a esporre e commentare in varî modi, ma sempre superficialmente e da persona ch'era ben lontana dall'aver inteso il pensiero e l'arte del padre, la Commedia, che con giustificato orgoglio chiamava sua sorella, e a scrivere un pedestre Dottrinale di materia scientifica e morale. Pietro appare in Firenze nel 1323 e nel 1324, e a Bologna nel 1327 come scolaro in diritto civile, ma si stabilì poi a Verona, dove esercitò la professione di giudice, finché morì nel 1364, a Treviso, lasciando discendenza che finì nei Serego Alighieri: anch'egli commentò più volte la Divina Commedia in latino, e se con più dottrina del fratello, non però con più sicura informazione di quello che fosse il pensiero e l'intendimento del padre suo.

Opere minori.

Le opere minori e la "trilogia dantesca". - D. è e resterà famoso per la Divina Commedia. Ma anche le sue opere minori, oltre che indispensabili a meglio comprendere il poema, sono, per un riguardo o per l'altro, per la storia della cultura o per quella dell'arte, utili a conoscersi. Si è arrivati al punto di credere che due di coteste minori opere (la Vita nuova e il Convivio) costituiscano insieme col poema una vera e propria trilogia. Se non che, per ammetter ciò, bisognerebbe almeno che fossero tutte e tre opere compiute, e fra loro concordate in modo da esser come tre atti d'un medesimo dramma. Invece il Convivio fu interrotto per dar luogo alla Divina Commedia, e per quanti sforzi sieno stati fatti dai critici, a nessuno è riuscito accordare tra loro i dati delle tre opere: si spiegano i nessi a due a due, perché il Convivio fu veramente immaginato come continuazione e svolgimento della Vita nuova, e la Commedia presuppone, per quanto attiene a Beatrice, la conoscenza di ciò che quella gentil donna sia stata nella vita di D., e quindi il racconto della stessa Vita nuova; ma un nesso intenzionale, e un coordinamento delle tre opere, per modo da far di loro una trilogia, non c'è. Altri vi sono che, pur avendo abbandonato l'idea della trilogia letteraria, persistono a scorgere nella vita interiore dell'Alighieri tre periodi, di ciascuno dei quali sarebbe, espressione artistica rispettivamente la Vita nuova, il Convivio e la Commedia: un primo periodo di fede ingenua e d'intimo misticismo, un secondo di razionalismo e di vita sregolata, e un terzo di ritorno a una vita profondamente religiosa e a una fede illuminata. Ma chi vede nella vita giovanile di D. uno stato d'acceso misticismo, vede tutto dal traguardo della Vita nuova, cioè da un momento di speciale esaltazione fantastica prodotta nel poeta dal pentimento di una prima infedeltà verso la memoria della sua Beatrice; e se n'è traccia anche in rime preesistenti a quel momento, son pur sempre stati d'animo passeggeri dei quali è rimasto documento questa o quella poesia; ma sì la vita e sì la poesia giovanile di D. è più varia di quanto cotesti critici si dànno a credere. Nel Convivio poi si cercano invano indizî di razionalismo: vi sono al contrario prove continue di soggezione della ragione alla verità rivelata e di desiderio d'una fede illuminata per vincere ogni dubbio, tanto che per questo riguardo l'opera in prosa non differisce dal poema. Hanno fatto impressione sui critici due avvenimenti quali la morte di Beatrice e quella di Arrigo VII, e certo sono momenti importanti nella vita di Dante; ma nessuno fu tale da determinare per sé una svolta nel pensiero o nel sentimento di lui: già Beatrice era creatura del cielo e guida, all'eterna salute prima che Dio stabilisse di richiamarla a sé; e la missione che Dante s'era imposta come cittadino e come poeta non ebbe menomamente a cambiare per la mancata speranza che aveva riposta nell'alto imperatore. Né è da aspettarsi in una vita complessa e travagliata come quella dell'Alighieri che tutto proceda per svolgimento regolare e continuo, senza contraddizioni e senza ritorni: occorre guardarsi bene dal prendere certi abbandoni d'anime inquiete e travagliate come stati permanenti e dallo scambiare desiderî momentanei coi sentimenti e propositi predominanti, e soprattutto non indulgere alla tendenza del nostro spirito verso le costruzioni dalle linee nette e precise. Se tre periodi s'hanno da ammettere nella vita dell'Alighieri, possono esser distinti: il primo dal culto della poesia amorosa e dall'ideale cavalleresco; il secondo dall'entusiasmo per la scienza come vera perfezione dell'uomo; il terzo dal desiderio d'una riforma politico-religiosa e dalla missione da D. assuntasi di vate e profeta, quando nell'obliqua politica dei suoi tempi, e principalmente per colpa dei pontefici, ebbe visto l'allontanamento dell'umanità così dalla retta via del mondo come dalla retta via del cielo. Al primo periodo apparterrebbero la Vita nuova, le rime che ne rimaser fuori, e molte di quelle che continuò a scrivere anche dopo il compimento di essa; al secondo le rime allegoriche e dottrinali, il De vulgari eloquentia e il Convivio; al terzo le epistole in occasione della venuta di Arrigo in Italia e del conclave del 1314, la Monarchia e la Commedia.

La Vita nuova. - La Vita nuova è una raccolta di rime con prose ("ragioni") che ne mostrano le occasioni e con chiose che ne dichiarano l'intendimento. Intorno a nessun'altra opera tanta diversità di giudizî. E la storia più o meno fedele, piú o meno idealizzata, degli amori giovanili di D. e di quello in particolare per Beatrice che tutti li assorbì? O Beatrice, e la Donna gentile che per qualche tempo si sostituisce ad essa, sono prette figurazioni allegoriche di aspirazioni sentimentali e ideali che si contendono l'anima del poeta, come l'inclinazione alla fede ingenua e il culto per la filosofia? E posto che la celebrazione di Beatrice non esca dall'ambito della poesia amorosa, si tratta di amore per una donna reale a cui D. ha prestato il consueto omaggio, o si tratta dell'esaltazione di un ideale muliebre che il poeta si crea nella mente più che non colga sul volto delle donne che gli appaiono nelle varie contingenze della vita? E inoltre, è un'opera che fu concepita e composta a sé e per sé, o fu stesa in un primo tempo e aggiustata poi in relazione ad altre opere come il Convivio e la Commedia? E quando sarebbe stata stesa l'opera e avvenuti i rimaneggiamenti? L'opinione che più rimane stabile fra tante supposizioni che si succedono, sempre diverse fra loro, è che la Vita nuova sia quello che è nella lettera, senza sensi riposti, e altra forma non abbia avuta da quella che conosciamo; e poiché i fatti in essa narrati non ci portano oltre il 1292, la sua stesura e il suo compimento non siano molto posteriori a quell'anno: fuori di quello stato psicologico in cui il poeta venne a trovarsi per il ritorno del suo affetto e del suo pensiero a Beatrice dopo la breve deviazione verso la Donna pietosa, la composizione dell'opera non si comprende, né più se ne scorge l'unità spirituale ed estetica, che risulta appunto dal particolare colorito e dalla speciale significazione che ai fatti e alle rime scritte in tempi diversi e con diversa ispirazione ha dato l'anima del poeta ritornando, in un momento di profonda commozione, sul suo passato e rivedendo la sua vita sotto nuova luce.

Che per questo stato d'animo e per l'esaltazione di Beatrice come creatura mandata dalla Grazia sulla terra per salute degli uomini, e particolarmente per guidare sulla retta via il suo fedele, la vita giovanile di D. apparisca nella Vita nuova come circonfusa da un'aria di misticismo, nessun dubbio. In realtà però il poeta viveva la vita del secolo, apprezzava cortesia e valore come doti necessarie in un gentiluomo, e lo scrivere per rima era appunto un indulgere a questo desiderio di mostrarsi seguace di "vera leggiadria": più che ad altro, la composizione della Vita nuova si deve dunque alla brama di comparire autore, e autore d'arte cosciente. La materia è quella comune alla poesia volgare così in lingua d'oc come in quella del , e si rimane quindi nella poesia d'amore per donne reali: nessun accenno a novità per questo rispetto dove parla dell'origine del dire per rima (§ XXV); e anche là dove, narrata l'occasione d'ogni singola poesia, e riferita questa, si fa a chiosarla secondo l'uso scolastico, la chiosa è soltanto per mostrare ch'egli non è di quei rimatori "grossi" che rimano a caso, ma che sa invece render ben conto delle sue immagini poetiche. Né l'idealizzazione della donna è niente di diverso da quell'esaltazione della bellezza e delle virtù muliebri che è comune a tutti gli amori: e dove può parer trascendenza, è anzi riportare sulla terra l'ideale della perfezione umana; ché la natura (come spiegherà più tardi nel Convivio, III, VII, 2-7; IV, xxi, 6-12) fa esseri umani così perfetti che poco differiscono dalla natura angelica, e Dio tanto più dà della sua grazia alle creature quanto più sono da natura fatte degne di essa; onde non è meraviglia che vi sieno anche in terra esseri quasi divini.

Alcune delle poesie comprese nella Vita nuova sono ancora esercitazioni di rimatore esordiente o espressione di sentimenti convenzionali, ma non poche meritano veramente il titolo che l'autore attribuì loro di "rime nove" per la sincerità dell'ispirazione e per l'originalità dell'espressione. Anche dove accetti una forma consueta di rappresentazione, poniamo la visione, riesce talvolta a far cosa di nuova bellezza, come, nel timore di perdere Beatrice, la canzone Donna pietosa e di novella etate. Meno legato alla tradizione appare in quella che può dirsi più propriamente la Vita nuova, ossia nella parte prosastica, che dà il tono a tutto il resto: ebbe ivi una sua ispirazione vera, onde l'opera conserva ancora certa freschezza e originalia di rappresentazione, che è notevole per quei tempi; e basti ricordare alcune scene colte dal vero, come la scena del gabbo, quella delle donne gentili curiose di conoscere il mistero dell'amore di D. così diverso dagli altri, e il passaggio dei peregrini pensosi di sé stessi e dei cari abbandonati ma indifferenti al dolore della città che attraversano. Più sorprende per novità poetica l'episodio della donna pietosa: una tentazione d'amore, più che un amore vero e proprio; un desiderio di nuovo affetto, durato alquanti dì, del quale il poeta si duole come di una grave infedeltà, come di cosa vile e malvagia; un'inclinazione amorosa che nasce dalla pietà d'una gentil donna per il suo dolore e si presenta come giusto conforto alla sua anima stanca del lungo pianto, e che è invece contrastata e vinta dalla santità delle memorie e finisce in un rimorso e in una nuova aflizione.

La Vita nuova ha anche un'importanza storica come opera che meglio determina i caratteri della scuola dello "stil novo" quanto al concetto d'amore e quanto al concetto dell'arte (D. parla anche in nome di Guido Cavalcanti, a cui il libro è dedicato); né è senza importanza per la sua forma stessa di libro di ricordi e confessioni, che viene a porsi accanto ai romanzi dell'amore cortese e ai cantari cavallereschi provenienti d'oltre Alpe.

Rime. - Nella Vita nuova l'autore non raccolse tutte le sue poesie giovanili, anzi ne escluse assai sia di quelle ispirate da Beatrice sia di quelle scritte per altre donne. Quattordici canzoni pensò poi di raccogliere e commentare nel Convivio, ma non ve n'entrarono più di tre: le altre che aveva già stabilite (anche se non riusci a comporre tutte quelle che aveva pensate) rimasero da dichiarare. Queste liriche estravaganti, con altre scritte in momenti varî della vita, o per dare sfogo a proprî sentimenti, o per esercizio d'arte, o per compiacere a signori e gentildonne vaghe della poesia, o per corrispondere con altri rimatori, costituiscono quello che si dice il suo Canzoniere. Non ch'egli provvedesse a ordinarle in opera a sé: non n'ebbe tempo, o non vi pensò neppure, perché volto, nella sua maturità artistica, a maggior impresa, più non diede importanza a questo sparso rimare, e probabilmente ne fu anche distolto dalle raccolte parziali che ne aveva fatte nella Vita nuova e nel Convivio. Rimasero disperse nei manoscritti di antiche poesie volgari, e si mescolarono e confusero con quelle di altri rimatori; sicché oggi riesce difficile separare le genuine dalle apocrife, e ordinarle secondo i tempi e le ispirazioni; qualcuna è andata perduta: ad es., un serventese in lode di sessanta donne fiorentine (Vita nuova, VI, 2), e una canzone che cominciava Traggemi de la mente Amor la stiva (De vulg. eloq., II, xi, 5). Quelle che rimangono d'appartenenza più sicura sono appena un centinaio.

Le rime estravaganti della giovinezza di D. hanno una doppia importanza: aiutano la ricostruzione della sua vita interiore, in quanto forniscono dati che sono di compimento o di correzione a quelli della Vita nuova, e ci forniscono manifestazioni diverse della sua arte: note più gaie e più fantasiose, come nei sonetti Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io e Sonar bracchetti e cacciatori aizzare; poesie scherzose o di tono leggiero per musica, come Non mi poriano già mai fare ammenda e Per una ghirlandetta; canzoni di tono appassionato, da non convenire con quello della Vita nuova, come E' m'incresce di me sì duramente e Lo doloroso amor che mi conduce. Fra le rime occasionali, importanti quelle scambiate coi rimatori del tempo, e particolarmente col Cavalcanti, per vedere qual parte avesse la poesia nella Firenze del sec. XIII e a quali ideali di vita e d'arte s'ispirasse quel gruppo di rimatori che si disse dello "stil novo". Notevole anche una tenzone con Forese Donati, nata probabilmente per ischerzo in un momento d'ozio e di buon umore e trasformatasi presto in uno scambio di rinfacci e insulti grossolani: non c'è bisogno di supporre un periodo di vita dissoluta o scorretta, ma piuttosto è da pensare che in ambienti ristretti come le città d'allora non sempre lo spirito poteva avere un'occupazione degna e assorbente, e che allo scherzo e all'ingiuria il costume del tempo concedeva limiti più larghi. Certe rime amorose della maturità (ad es., Amor da che convien, e cfr. Epist., IV) ci persuadono di non trascorrere a considerare allegoriche, come molti fanno, Amor che movi, Io sento sì d'Amor, Io mi son pargoletta, Chi guarderà già mai; ecc. (cfr. i sonetti LXXXVI e XCVI); ché anche quando D. si diede allo studio e alla politica, continuò a considerare un bell'ornamento il rimare d'amore, ch'egli concepiva come virtù che tira a ben fare tutto il potere dell'uomo, ossia come il principio d'ogni virtù e d'ogni nobiltà (cfr. Rime, XC). Non che non tentasse circa il medesimo tempo anche poesia allegorica: in esaltazione della filosofia prese anzi a comporre una specie di poema, costituito non soltanto di canzoni, ma anche di sonetti e ballate, con l'intento di ritrarre il diverso atteggiamento di essa nei suoi sforzi per conquistarla; e la immaginò prima come una gentile consolatrice del dolore per la perdita di Beatrice, al pari della donna pietosa della Vita nuova; poi se la figurò come donna dura e disdegnosa, per le difficoltà che lo studio presenta, via via che il desiderio cresce. Né qui si fermò, ma, nonostante il preconcetto, attestato dalla Vita nuova (XXV, 6), che la poesia volgare dovesse limitarsi alla poesia amorosa, aggiunse, per allargar sempre più il campo della sua arte, canzoni che celebrassero le virtù morali, che sono come le bellezze visibili della filosofia stessa. Particolare rilievo, anche per le questioni a cui ha dato e dà luogo, assume un gruppo di rime dette petrose per la celebrazione che vi si fa di una donna dura come pietra: per il tempo, chi le attribuisce al 1296 circa, chi al 1306-07 e chi al 1310; e per l'argomento, chi vi vede una passione reale e turbinosa che avrebbe investito il poeta, chi una pura allegoria, e chi un nuovo esperimento d'arte. E invero lo studio che rivelano delle poesie di Arnaldo Daniello, il vantarsi l'autore di aver osato novità non pensate mai in alcun tempo, e tutto insieme il contenuto e le forme di siffatte canzoni inducono a consentire piuttosto alla terza opinione: l'arte come qualcosa d'estrinseco da sovrapporre come ornamento al concetto era pregiudizio del tempo, né D. ne fu esente; e alle vere nature poetiche bastano spesso elementi comunque raccolti, o da esperienze proprie o da figurazioni altrui, per dar alimento alla fantasia creatrice. Quanto al tempo, è preferibile collocare le "petrose" prima dell'esilio.

Il Canzoniere, a non tener conto delle rime occasionali, è una serie di tentativi, come di chi cerca via via quello che valga a soddisfare intimi e continui bisogni d'arte, di cultura, e anche di addottrinamento e di educazione civile. Muove D. dalla tradizione del rimare di materia amorosa e, senza uscire dalle forme consuete, porta nella sua lirica una più fresca ispirazione e un'arte più cosciente e più franca, e a onore della sua donna raccoglie, coordina e commenta il piccolo canzoniere della giovinezza. Perduta Beatrice, vien come a sostituirlesi Amore, principio d'ogni alta ispirazione, d'ogni diritto operare, d'ogni sapere, che porta ad ammirare ciascuna cosa bella con più diletto quanto è più piacente, sia essa creatura reale ornata di virtù è di leggiadria, sia studio di ciò che perfeziona la mente e nobilita lo spirito, sia anche questa o quella virtù o dottrina particolare. Il concetto che s'aveva allora comunemente della poesia era soprattutto fictio rethorica, eccellenza formale, perfezione artistica, che s'otteneva specialmente nella forma della canzone, con scrupolosa scelta dei vocaboli e con sapienti costruzioni; e l'ispirazione d'Amore non era soltanto sentimento, ma anche documento, ossia ammaestramento. Si direbbe che D. si proponesse di voler riuscire dappertutto dove Guittone aveva fatto mala prova, perfino nel rimar aspro, nel trobar escur, nella poesia puramente dottrinale, e far vedere che tutto si poteva osare, per acquistar intera la "gloria della lingua", poetando con quell'arte regolare di cui avevano dato esempio gli autori latini e i più illustri trovatori di Provenza. Non in tutti i suoi tentativi è riuscito ugualmente felice (neppure la sua alta fantasia poteva bastare a trasformar in poesia la pura dottrina), ma nessuno dei rimatori contemporanei può competere con lui per novità, varietà e franchezza. E a quel modo che le soavi immaginazioni della giovinezza ci diedero sonetti perfetti come Tanto gentile, e l'ispirazione lirica congiungendosi sapientemente con la figurazione drammatica ci procurò una canzone come Donna pietosa, anche nella maturità troviamo canzoni degne della poesia dantesca; e basta ricordare Così nel mio parlar, dove la passione amorosa trova accenti nuovi e vigorosi, e Tre donne intorno al cor, dove i più nobili sentimenti che muovono l'animo umano hanno un'espressione d'inusitata altezza.

Il Convivio. - Il Convivio fu concepito come un commento a quattordici canzoni sì d'amore come di virtù materiate, in quindici trattati: il primo come proemio, ciascuno degli altri per dichiarazione d'una canzone. Ne furono scritti solamente quattro: ma anche il disegno degli altri era fatto; e in IV, xxvi, 8, s'accenna a cosa che si dirà nel settimo; in I, xii, 12; II, 1,4 e IV, xxvii,11 è annunziato che nel quattordicesimo si parlerà dell'allegoria e della giustizia; in I, viii, 18 e III, xv, 14 si allude a materie delle quali sarà discorso nel quindicesimo. Si è supposto che dopo il quarto avrebbe trattato delle undici virtù morali provenienti dalla nobiltà (IV, xxii, 4-7), ma è prudente lasciar in dubbio la cosa, perché il proposito dell'autore di commentare canzoni già fatte, anche amorose, e ragioni d'opportunità pratica poterono consigliare diversamente: sta il fatto che dove enumera e definisce quelle virtù non accenna minimamente a più ampia trattazione che ne sarebbe venuta in seguito.

Guardando il principio dell'opera, essa si presenta come una continuazione e uno sviluppo della Vita nuova: riprende difatti il racconto dalla finzione della Donna pietosa, senza tener conto che là fu breve dilettazione sensibile, vinta presto dalla memoria di Beatrice, e qui intende celebrare quella maggiore e più duratura consolazione che, pur tra le difficoltà dello studio, aveva trovato nell'amore per la filosofia, già da lui raffigurata nelle sue canzoni come donna piena di bellezza e di virtù. Per togliere ogni dissonanza fra le due opere credé bastasse approfittare delle abitudini medievali di commentare le scritture secondo quattro sensi e attribuire un significato allegorico anche al racconto che prima n'era immune. E sarebbero con questo mezzo raggiunti due scopi: 1. avrebbe potuto mostrare che se aveva speso buona parte della sua vita a scrivere d'amore, ciò non era avvenuto perché fosse uomo, per disposizione di natura, incline a passione (anche là dove pareva parlare soltanto d'amore trattava di virtù e di sapienza); 2. spiegando in volgare il vero senso delle sue canzoni, cioè esponendo la dottrina nascosta sotto le apparenze della lettera, avrebbe fatto un vero banchetto di scienza per coloro che, assorbiti dalle cure civili e dal governo della cosa pubblica, non potevano né erano preparati a frequentare le scuole, e sarebbe così riuscito a indurre a scienza e a virtù "principi, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine", di condizione "volgari e non letterati", ond'essi e nel reggimento civile e nella convivenza sociale avessero quel sapere che li rendesse atti ad essere, come dovevano, guida ed esempio di ben fare a tutti. Segue, s'intende, la filosofia aristotelica, e non si sazia mai di proclamare Aristotele "maestro e duca de la ragione umana" (IV, vi, 8), dignissimo di fede e d'obedienza" (IV, vi, 6), e d'affermare che in quella parte dove aperse la bocca la divina sentenza d'Aristotile", da lasciare gli pare "ogni altrui sentenza" (IV, xvii, 3). I commenti di San Tommaso alle opere del filosofo greco e la Summa contra Gentiles si possono dire le sue fonti principali; ma non meno familiari ha le Sacre Carte e gli autori latini sino a Seneca, a Orosio, a Boezio; conosce, forse più per riferimenti altrui che direttamente, i più diffusi commenti arabi alle opere di Aristotele; allega di S. Agostino le Confessioni, e d'Alberto Magno il De meteoris, il De coelo et mundo e altre opere; né fa maraviglia che, dati i suoi fini, conosca e citi anche il trattato De regimine principum di Egidio Colonna. Per merito di tanti filosofi le verità fondamentali di ragione si possono ormai dir tutte note (cfr. Mon., III, xvi, 9); ma con ciò non è esclusa la possibilità di dimostrare sempre nuove verità così nell'ordine speculativo come in quello pratico. Non manca quindi nel Convivio l'ardore scientifico; appare anzi in ogni parte di esso l'entusiasmo di colui che scopre come un nuovo mondo e, nel suo entusiasmo, vuol far partecipi anche gli altri della sua sorte, e applicare le nuove esperienze ai bisogni della vita del suo tempo, e porgere rimedî là dove occorrano. Il suo ideale della vita umana è così alto, che ben pochi vede corrispondere ad esso; in certi momenti gli sembra anzi che tutto disvii. Ma non per questo smorza la sua fede: resta egli in campo per richiamare i disviati; e più si sdegna contro i reggitori di popoli, che non curano acquistare quella sapienza che al loro ufficio si richiede, o circondarsi almeno di chi possa in ciò supplire al loro difetto (IV, vi, 19-20).

L'importanza del Convivio non consiste tanto nell'erudizione filosofica che mostra in D., quanto in ciò che rivela in lui di personale. Come pone in alto la scienza! Messosi col pensiero davanti al problema dell'universo, come sente che la ragione è ciò che veramente nobilita l'uomo e l'avvicina a Dio! Neppur egli siede alla beata mensa dei sapienti, ma fuggito dalla pastura del volgo, poi che ha sentito la dolcezza del sapere, vuole che il suo bene sia partecipato da coloro che d'accostarsi alla scienza sono stati impediti per cura familiare o civile. E per riuscire, con "pronta liberalitate", utile al maggior numero possibile, userà non il linguaggio della scuola, ma il volgare tanto spregiato da chi o non ne sa far buon uso, o è mosso a biasimarlo per bassa invidia di chi da esso ritrae fama, o crede aver maggior lode a valersi d'una lingua straniera, o pregia per viltà d'animo più le cose altrui che le proprie; e "tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri"; e vanno dietro a loro infiniti altri, ciechi degli occhi della mente, che con la mano sulla spalla di quei mentitori, cadono "ne la fossa de la falsa opinione, de la quale uscire non sanno" (I, x1,1-21). Egli invece, come tuona " a perpetuale infamia e depressione" di cotali "malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano", così per perfettissimo amore che ha alla propria loquela, e per convinzione della sua intrinseca bontà, lo preferirà non solo a quelli stranieri, ma allo stesso latino, e ne profetizza con sicura coscienza il trionfo: "Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce" (I, xiii, 12). E fu questa sua innovazione un ardimento davvero straordinario in quelle condizioni di cultura, specialmente per aver osato di servirsi del volgare là dove il latino era massimamente richiesto, cioè in cosa dottrinale e scolastica come un commento. Ma era necessario all'intento ch'egli ebbe di volgarizzare la scienza per quel puro e disinteressato amore che ad essa professava e dal quale è persino indotto a negare il nome di letterati a coloro che imparano il latino, non per servirsene ad acquistare e dare dottrina, ma per procurarsi danari e dignità: il che è per lui un fare la letteratura "di donna meretrice" (I, ix, 3-5). La filosofia non deve dare soltanto sapienza, ma nobilitare il sentimento ed elevare a una forma di vita superiore: di qui quel tono alto e, per i mali che D. vedeva intorno a sé, severamente passionato che ha la trattazione del Convivio.

Due dottrine hanno fra tutte più rilievo personale, e sono quella della nobiltà e quella dell'Impero. È nella prima una rivendicazione della vera nobiltà quale disposizione personale a virtù per opera di natura e per grazia divina, contro coloro che la riponevano nella ereditarietà o, peggio, in antico possesso di ricchezza. Ripugna a D., che ha sì alto concetto della vita umana, che un tale privilegio si faccia consistere in oblivione, prodotta dal tempo, dell'oscurità e bassezza degli antenati, o si confonda con cosa sì vile come la ricchezza, la quale si può dir buona solo in quanto ci se ne privi per usare liberalità; e non esita a proclamare che "la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe" (IV, xx, 5). Quanto all'Impero, ne parla solo per incidenza (IV, 11-v), ma in modo da mostrare l'alta importanza che è da attribuire a tale ufficio nell'ordinamento provvidenziale del mondo. Aveva un tempo creduto (Mon., II, 1, 2-3) che l'Impero romano avesse acquistato il dominio universale, non per diritto, bensì con la violenza; ma figgendo poi più addentro lo sguardo nella successione degli eventi e nella natura delle cose, scorse nell'avvento di quell'Impero una preordinazione della divina provvidenza per la redenzione del genere umano e per il suo benessere in questa vita. Così tutto gli si chiarì nella storia dell'umanità; le pagine dedicate a questa materia risentono dell'entusiasmo della prima scoperta, e la formazione dell'Impero di Roma come preparazione allo stabilimento della fede cristiana viene solennemente affermata, senza neppur sospettare che altri potesse valersene per conclusioni contrarie all'indipendenza dell'ufficio imperiale. Non è da credere che l'idea dell'Impero, quando si pose a scrivere il Convivio, investisse la sua mente così profondamente come in seguito avvenne. Pur vedendo il danno della mancanza di quel supremo magistrato per la pace e la felicità del mondo, non dové tuttavia sin d'allora apparirgli questa mancanza, e l'usurpazione del potere civile da parte della Chiesa, la causa principale e quasi esclusiva d'ogni male, tanto da credere inutile tentare ogni altro rimedio sin che non fosse provveduto a ristabilire l'ordine voluto da Dio nel governo del mondo. Certo è che fra le cause che allontanano i più dalla scienza, e quindi dalla felicità (I, 1, 1-6), non pone le guerre e le discordie che, per la mancanza di un buon regime, rendevano infelicissimi quei tempi. Ma mette in ogni modo ben in rilievo la "divina elezione del romano imperio" (IV, v, 6), per far tacere con sì potente argomento i disconoscitori della suprema autorità civile. E così Roma diviene a lui reverenda per doppio motivo, perché sede della Chiesa di Cristo, e perché nido di quel popolo eletto a cui la provvidenza assegnò, per le sue virtù civili, il governo della terra; e "certo (conclude) di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sua stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato" (IV, v, 20).

De vulgari eloquentia. - Lo stesso sentimento che moveva Dante a esaltare il volgare italico nel Convivio, lo mosse pure a tentare d'avviarlo a "stabilità" e a dargli regole, quasi come per il latino, nel De vulgari eloquentia. Intendeva condurre innanzi quest'opera contemporaneamente all'altra, ma non ebbe per essa le tante ragioni di scriverla in volgare che enumerò per il commento alle canzoni: il nuovo trattato si rivolgeva, non a principi e gentiluomini, ma a gente di studio, e poteva e doveva quindi essere scritto nel linguaggio della scuola. Ne fu steso il primo libro e buona parte del secondo; a un quarto si rimanda in II, 1v, 1, né sappiamo se dovesse esser l'ultimo.

Nel primo tratta del linguaggio in genere, prima della sua origine e poi della sua storia, con criterî e vedute (nonostante certi preconcetti medievali) che gli assegnano un posto ben elevato fra i precursori della moderna scienza linguistica; e via via che passa dalle lingue europee, e in particolare da quella che si parla in Spagna, Francia e Italia, ai dialetti proprî delle varie parti d'Italia, la novità e il pregio della sua trattazione si fa maggiore. Abbiamo perfino il tentativo di una classificazione dei dialetti italiani, col pensiero non solo di distinguere, ma anche di raggruppare: cosa senza esempio anche per altri paesi. L'apprezzamento dei varî dialetti è fatto rispetto a quel linguaggio che l'autore andava cercando di fissare, cioè il linguaggio illustre comune a tutta Italia e che doveva servire per le più nobili scritture, e in poesia per la canzone. Di fronte a quel suo ideale letterario trova da condannare, qual più qual meno, tutti i volgari d'Italia, e i toscani e il fiorentino non meno degli altri: il volgare "illustre" o, com'anche lo dice, "cardinale, aulico, curiale" dà maggior sentore di sé più in questa che in quella regione o città, ma non risiede in nessuna. Egli ha in mente la lingua in cui a lui eran note, attraverso anche a trascrizioni di copisti toscani, le poesie dei più insigni rimatori della scuola siciliana; quella di Guido Guinizelli, formatasi per la conversazione colta e per la prosa d'arte in un ambiente universitario come Bologna; e, come modello più perfetto del volgare illustre, quella di Guido Cavalcanti, di Cino da Pistoia e di lui stesso: ed ebbe l'illusione che questa lingua dei migliori rimatori italiani fosse lingua comune di tutta la penisola, quella, in altre parole, che, eliminati tutti i municipalismi, meglio rendeva il tipo linguistico proprio dell'Italia. È un errore che ha la sua giustificazione nella speculazione di quei tempi; ed è segno notevole del profondo sentimento di nazionalità che ebbe D. e di cui diede in questo trattato la prima limpida manifestazione. Non solo Italia indica sempre tutta la penisola, e mai la sola parte settentrionale a cui di fatto s'estendeva, o s'era esteso, il regno italico, e l'Italiae loquela comprende i dialetti tutti dalle Alpi alla Sicilia; ma si sente anche il desiderio che tutta Italia gia unita di fatto sotto un sol principe com'era una di lingua e di costumi (I, xvi, 3 e xv111, 5). Di più, il fatto che s'adoperi indifferentemente Italia e Latium, italus e latinus o latialis, mostra che D. non pensava mai all'Italia senza pensare al suo capo Roma. Nel secondo libro l'autore, mostrato che il volgare illustre s'addice non a tutti i rimatori ma soltanto ai più eccellenti, non a tutte le materie ma soltanto a quelle più alte (armi, amore, virtù), non a tutte le forme metriche ma soltanto a quella che è più nobile, cioè alla canzone, passa a discorrere dello stile più alto o, come si diceva, tragico, che solo si conviene a quelle tre materie, determinando quali versi, costrutti e parole occorrano. Viene per ultimo a trattare particolarmente della forma e delle esigenze della canzone, ma la trattazione a un tratto rimane in tronco, mentre ha preso a parlare del numero dei versi e delle sillabe nella stanza.

L'originalità di questo suo tentativo D. l'ha sentita ed espressa nel principio dell'opera, e costituisce per lui un vero titolo d'onore. A noi è prezioso per tanti particolari che ci rivela circa l'arte non soltanto del rimatore ma anche del poeta della Divina Commedia, e soprattutto perché ci mostra quanto D. abbia sentito la necessità dell'arte a lato dell'ispirazione, dell'arte che è studio e cultura e che s'acquista, con lungo amore, sui grandi maestri (II, iv, 9-10).

Epistole. - In nessun'altra opera come nelle Epistole rimangono tracce dell'educazione letteraria di D., e della soggezione di uno spirito pur così originale alle pedanterie della scuola, per seguir l'arte anche quando noi la diremmo artificio. Sono, s'intende, scritte in latino, anche se l'argomento e le persone a cui son dirette potevano dispensare, e formulate secondo le rigide regole delle Artes dictandi: era canone universalmente riconosciuto che solo l'ornato distinguesse i dotti dagl'indotti, e i precetti del cursus rendevano la prosa non meno studiata delle scritture in versi. Dell'autenticità di alcune delle epistole che sopravvivono la critica ha dubitato e dubita, ma ragioni vere per toglierle al nostro autore non abbiamo se non per una in volgare diretta a Guido da Polenta; nelle altre, pur fra i colori suggeriti dalla rettorica della scuola, si rivela il pensiero, la coscienza e il fare di D. Mentre la sorte cieca ci conserva tre letterine di complimento scritte in nome della contessa di Battifolle a Margherita di Brabante consorte di Arrigo VII, la cui importanza sta solo in questo, che sono indizio e riprova di tante epistole scritte durante l'esilio per conto altrui, abbiamo purtroppo da rimpiangere la perdita di più lettere scritte al popolo di Firenze e a particolari cittadini del governo, nelle quali si lamentava della sua condanna senza colpa e ricordava le sue benemerenze verso la città e la parte guelfa.

Le lettere rimasteci, oltre le tre scritte a nome della contessa di Battifolle, sono appena dieci. Una è scritta al cardinale d'Ostia legato della Santa Sede in Toscana a nome del consiglio e dell'università di parte bianca; con due accompagna D. sue poesie a Cino da Pistoia e a Moroello Malaspina; in un'altra si duole con Oberto e Guido conti di Romena della morte di loro zio A (lessandro?) romanae aulae palatinus in Tuscia. Nobilissima la lettera a un religioso (Amico florentino), con la quale respinge la possibilità di ritornare in patria mediante l'offerta a S. Giovanni; e di grande importanza le tre che furono scritte in occasione della discesa in Italia dell'imperatore Arrigo, non solo per quello che ci rivelano della vita dell'esule in quei tempi, ma anche perché sono documento del progressivo determinarsi del suo pensiero politico fra il Convivio e la Monarchia. Due di esse (come anche una di quelle scritte per la contessa di Battifolle) sono datate dagli anni "faustissimi cursus Henrici Caesaris ad Italiam", con che mostrava di riconoscere l'imperatore solo in quanto si faceva di fatto re dei Romani, venendo a governare l'Italia da Roma; e italus s'afferma fin nel titolo della lettera Universis et singulis Italiae regibus ecc., intendendo così parlare da Italiano a Italiani di tutta quanta la penisola; e gl'Italiani tutti, dalla sommità delle Alpi ai lidi dei mari che d'ogni parte bagnano la penisola, invita a farsi incontro al loro re - al rex Romanorum, cui spetta altresì l'impero del mondo - il quale col suo diretto regime li renderà veramente liberi da ogni governo tirannico (Evigilate igitur omnes et assurgite regi vestro, incolae latiales, non solum sibi ad imperium, sed ut liberi ad regimen reservati", V, 19). Notevole, in queste epistole, anche lo stile, che mostra come Dante si senta animato da uno spirito profetico; da quello spirito che più apertamente si manifesta nella Commedia, non soltanto in quanto annunzia il Veltro, ma nel più largo senso biblico, cioè d'interprete della parola di Dio e di banditore della sua volontà. Un po' lo portavano i tempi, ma la sua principale ragione è nella fede di D., che anche nelle cose di questo mondo vedeva la volontà divina, e della parola di Dio si faceva forte per consigliare, persuadere, minacciare. Riuscì vox clamantis in deserto, e può parer oggi a spiriti superficiali linguaggio inopportuno o, peggio, da retore; ed era invece l'espressione richiesta dalle sue credenze e dal suo zelo di cittadino e di cristiano. Egli vedeva nell'imperatore l'unto del Signore, e opporsi alla sua autorità era trasgredire "divina iura et humana" (VI, 5), era fare del genere umano "bellua multorum capitum" (Mon., I, xvi, 4) che si agita in vani conati e si perde dietro a fini particolari e contrarî a quelli segnati dalla Provvidenza. Più a posto che nelle lettere politiche siffatto stile parrà a tutti in quella scritta ai cardinali italiani dopo la morte di Clemente V per esortarli a eleggere un pontefice che restituisse a Roma la sede del papato. Come Geremia pianse la vedova Gerusalemme, così D. la città del nuovo popolo eletto - alla quale Cristo stesso confermò l'impero del mondo e che Pietro e Paolo consacrarono sede apostolica col loro sangue - "nunc utroque lumine destitutam, nunc Annibali nedum alii miserandam, solam sedentem et viduam". Egli è l'ultima delle pecorelle di Cristo, ma la parola di Dio sonò già sulla bocca dei lattanti e il cieco nato confessò la verità: or quale vergogna che fra tanti pastori e in tanto gregge "una sola vox, sola pia, et haec privata, in matris Ecclesiae quasi funere audiatur!" Valga quel che può il suo zelo: egli esorta commosso i cardinali italiani a combattere "pro Sponsa Christi, pro sede Sponsae quae Roma est, pro Italia nostra, et ut plenius dicam, pro tota civitate peregrinante in terris", acciò che non trionfi l'obbrobrio dei Guaschi che tentano ancora usurpare la gloria degl'Italiani.

Fonte di delusione è stata a molti dantisti l'epistola con cui D. accompagnò a Cangrande della Scala alcuni canti del Paradiso, includendovi la dichiarazione della materia e dei fini dell'intera Commedia e il commento relativo al prologo della terza cantica, forse perché in essa non trovarono conferma ai loro pregiudizî sul poema: onde le recise e ostinate affermazioni di apocrifità per quello scritto. Ma chi non sia esigente al punto da pretendere che D. prevedesse tutte le nostre curiosità e le nostre ambiziose ricostruzioni critiche, e consideri quello che le consuetudini scolastiche suggerivano e imponevano alle menti anche più libere in materia simile, e ripensi che quello che a D. premeva di dire, e che noi ricerchiamo di preferenza, è detto apertamente in tutto il poema, e non occorreva quindi farne espressa trattazione in questa generica presentazione che il poeta fa dell'opera propria, non si lascerà impressionare dalle sottili e cavillose argomentazioni dei critici odierni, o meglio di qualche decennio fa, contro l'autenticità di una scrittura che dall'intitolazione ove D. si designa "florentinus natione, non moribus" al commento preciso delle prime terzine del Paradiso rivela per tal modo l'animo e lo stile dantesco che più non si potrebbe desiderare.

Monarchia. - È il trattato che più ordinatamente e compiutamente espone la dottrina politica di D. Quando esso fosse composto non si può determinare con sicurezza, mancando chiari accenni a persone o a fatti contemporanei. È da escludere tuttavia che possa essere stato scritto mentre D. era in patria, in occasione delle controversie giurisdizionali con la corte pontificia, e più ancora che una parte sia stata scritta allora e una parte più tardi, dopo la morte di Arrigo VII, tanto è salda l'unità del concepimento e della trattazione. È sicuramente posteriore al Convivio, perché ciò che in esso era come in germe, nella Monarchia ha tutto il suo sviluppo, e certe affermazioni della prima opera che l'esperienza mostrava imprudenti in così accese controversie vengono taciute nella seconda o fatte dopo che dall'insieme della trattazione risulta ben chiara la loro portata. L'opinione più probabile è che la sua composizione sia da porre negli anni della discesa d'Arrigo in Italia, quando più vivi si fecero i contrasti e più incerto apparve il successo dell'impresa che aveva nell'esule poeta suscitato tante speranze. La trattazione, essendo materia dottrinale e d'importanza non solamente italiana, è naturalmente in latino; ed è distinta in tre parti: nel primo libro si prova che per il benessere del mondo è necessaria la monarchia temporale; nel secondo, che il popolo romano si è a buon diritto assunto l'ufficio di monarca; nel terzo, che l'autorità del monarca romano dipende immediatamente da Dio e non da alcun suo ministro o vicario.

Si è contestato a D. il vanto che si dà di "intentatas ab aliis ostendere veritates" (I,1,3), perché è parso che le sue dottrine fossero state già prima da altri sostenute; e non c'è dubbio che questa o quella proposizione si trovi già largamente affermata, e che tutte più o meno abbiano una loro tradizione che rimonta ai primi secoli del Medioevo, e anche più addietro: ma, a guardar bene, una scrittura dove D. non avrebbe trovato dottrine da condannare, e dove la dimostrazione fosse tentata con quegli argomenti che più a lui parevano valevoli, non si trova. Poco importa che molte di quelle argomentazioni sembrino a noi di scarso valore: D. è uomo del Medioevo, e tenta persuadere i suoi contemporanei con le ragioni che più allora avevano appiglio. Non c'era né senso sicuro della realtà giuridica né conoscenza storica precisa dello svolgimento delle istituzioni pubbliche medievali: e, con tutta la buona volontà, non sarebbe davvero stato facile veder chiaro nella condizione giuridica e reale di questo re dei Romani, la cui designazione spettava alla nazione tedesca, e che non diventava imperatore se non era unto e coronato in Roma dal pontefice; che si predicava signore di tutto il mondo, e la sua autorità non era neppure riconosciuta in tutte le parti sottoposte alla sua diretta giurisdizione e la stessa capitale del suo impero, dove doveva esser consacrato per poter esercitare il suo ufficio, era fuori del suo effettivo dominio; tanto che se non andava a prendervi la corona con forze sufficienti a far valere la sua volontà, doveva ogni volta trattare, specie col papa, e giurare e confermare diritti, compreso quello stesso che lo escludeva dalla città da cui derivava il suo titolo al governo del mondo, e gl'impediva d'esercitarvi giustizia, sia pur temporaneamente. Ma di ciò poco si preoccupavano questi dissertatori sull'Impero e sulla Chiesa, e discutevano astraendo dalle condizioni di fatto e dai reali fondamenti di diritto, sia perché la condizione di fatto pareva loro condizione provvisoria o abuso, sia perché i fondamenti di diritto non erano ben noti, o s'attaccavano solo a quelli che potessero giovare; e così sugli argomenti di diritto prevalevano le argomentazioni della ragione astratta o le prove e le deduzioni teologiche. D. vi aggiunge le testimonianze dei suoi poeti, specialmente di Virgilio; e fa gran conto dei miracoli che Dio avrebbe mostrato col dare agli uomini di una piccola città il dominio del mondo, e dei simboli e degli argomenti tratti dalle Sacre Carte. Anzi accentua questo speciale carattere della sua dimostrazione contro la gente di chiesa, che si valeva più del testo delle decretali che non della parola divina e dell'autorità dei Santi Padri. E talvolta assume qui pure l'atteggiamento e il tono già notato nelle Epistole; perché per lui non è questione puramente politica, ma si tratta della salute dell'uomo; non è interesse puramente umano, abbandonato alla cura dei mortali, ma è ordinamento divino, di contrastare al quale deve ognuno guardarsi, e specialmente chi di Cristo fa le veci in terra. L'esperienza e la meditazione avevano fatto certo l'Alighieri che la causa principale dei mali che travagliavano l'Italia e il mondo non era tanto la traslazione dell'Impero alla nazione germanica (per cui poteva avvenire che l'imperatore, distratto dalle cure dei suoi particolari dominî d'oltralpe, trascurasse i suoi più alti doveri) quanto l'usurpazione da parte del pontefice dell'ufficio che Dio aveva assegnato all'imperatore. Quella era cosa transitoria, ma l'usurpazione papale impediva che Cesare potesse attendere alla sua missione; e poiché tale usurpazione era causata da cupidigia di beni terreni, così sviava la Chiesa stessa dalla missione sua propria e la rendeva fomentatrice, col malo esempio, delle più basse voglie anche nel gregge a lei affidato. Si dice che il primo e il secondo libro della Monarchia sono contro i guelfi francesi, che tendevano a liberare il loro paese dalla soggezione all'Impero, come anche da quella della corte di Roma, e che il terzo è contro la politica papale; ma in realtà l'intero trattato è contro tutti coloro che, per un conto o per un altro, disconoscono la legittimità della monarchia romana e la sua diretta dipendenza da Dio. Tutto però converge a oppugnare le pretese della Chiesa, per la maggior autorità di questa e per il maggior danno della sua usurpazione. E con tutto ciò D. dà prova di quella moderazione che sta bene in ogni cosa e di quel senso di giustizia che invoca a favore dell'Impero, riconoscendo, secondo la tendenza più generale nella tradizione sia giuridica sia ecclesiastica, che indipendenza non si deve intendere in senso tanto stretto, "ut romanus princeps in aliquo romano pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodam modo ad immortalem felicitatem ordinetur"; al contrario, deve l'imperatore avere per il papa quella reverenza "qua primogenitus filius debet uti ad patrem, ut luce paternae gratiae illustratus virtuosius orbem terrae irradiet, cui ab Illo solo praefectus est qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator" (III, xvi, 17-18). Fra le due somme autorità deve essere coordinazione d'intenti e d'opere, perché il genere umano possa conseguire prima la felicità terrena e poi quella celeste; ma non soggezione dell'uno ufficio all'altro; chi elegge e conferma l'imperatore è direttamente Dio (III, xvi, 12-15).

L'Impero non esclude gli stati particolari; "habent namque nationes, regna et civitates inter se proprietates quas legibus differentibus regulari oportet" (I, xiv, 5): l'imperatore dà la legge comune, e i principi e le città devono accettarla "tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem, quae proprie sua est, assumit et particulariter ad operationem concludit" (I, xiv, 7). È improbabile che D. avesse un concetto preciso del come potesse attuarsi in pratica il suo ideale, e bisogna andar cauti nel dedurre oltre quello che ha espresso. A lui è bastato affermare i principî generali, che solo con la monarchia universale è attuabile la giustizia e conseguibile la pace, e che l'imperatore nel temporale ha autorità su tutti i principi e le repubbliche della terra, e la sua legge vigore in ogni parte di essa. Che in realtà l'Impero non fosse esteso a tutto il mondo, né dappertutto riconosciuto, erano cose contingenti che non invalidavano le necessarie deduzioni di quei principî: così avveniva pure per il regno della fede cristiana; né ciò impediva di credere che un dì si compiesse quello che Dio aveva stabilito, e che intanto si dovessero considerare e Chiesa e Impero come istituzioni sacre e universali. Quali poi in particolare dovessero essere i rapporti dell'imperatore e del re dei Romani verso l'Italia e î regni e le repubbliche ivi esistenti non è accennato nella Monarchia; né è detto qual grado di autonomia potessero godere questi minori organismi politici di fronte al superiore dominio imperiale e regio, o in che modo l'Italia, pur nella varietà dei suoi regimi particolari, avrebbe avuto la sua unità politica, come certo doveva avere il suo re e la sua corte in Roma nella persona dell'imperatore. Ma era una realtà giuridica, se non di fatto, che l'imperatore avesse sull'Italia quel più diretto dominio che aveva anche sulla Germania, per esser re dei due regni; e questo speciale ufficio regio faceva sperare a D. un più efficace governo in tutte le parti della penisola per la giustizia e per la pace, quando l'ufficio d'imperatore e di re dei Romani, cioè d'Italia, si potesse compiere regolarmente.

Qualche cosa di più preciso abbiamo rispetto a Roma, a proposito della questione se era o no in facoltà di Costantino donare alla Chiesa la sede dell'Impero. D. l'esclude assolutamente, e concede solo che l'imperatore potesse "in patrocinium Ecclesiae patrimonium et alia deputare, immoto semper superiori dominio, cuius unitas divisionem non patitur", e che il pontefice potesse "recipere non tanquam possessor, sed tanquam fructuum pro Ecclesia, pro Christi pauperibus dispensator" (III, x, 16-17). Onde il suo dolore per il malo uso che di rendite e patrimonî ecclesiastici si faceva al suo tempo: "nec miseret eos pauperum Christi, quibus non solum defraudatio fit in ecclesiarum proventibus, quin immo patrimonia ipsa cotidie rapiuntur, et depauperatur Ecclesia dum, simulando iustitiam, executorem iustitiae non admittunt". Se dovesse continuare il malo uso, meglio sarebbe che quei patrimonî tornassero ai loro donatori (II, x1,1-2). Secondo D., l'esser Roma città imperiale non impedisce che sia contemporaneamente la sede della Chiesa: Impero e Chiesa devono dalla città santa provvedere in perfetto accordo alla felicità e alla salvezza del genere umano.

S'è parlato a proposito delle dottrine politiche di D. di utopia e di sogno poetico, e s'è ad esse contrapposto il senso pratico dei Fiorentini, fermi, senza illusioni e senza incertezze, a difendere e ad accrescere l'indipendenza loro e di tutta Italia da questo dominio esercitato dai barbari. Maraviglioso è senza dubbio l'ardimento dei concittadini del poeta per assicurare la conquista lenta e progressiva fatta dai comuni italiani della propria autonomia. Ma non è senza giustificazione neppure il modo di vedere di D. esule, se si ripensi allo stato politico dell'Italia, travagliata dalle guerre e dalle lotte intestine, che faceva rassomigliarla "a nave senza nocchiero in gran tempesta". Il nocchiero non poteva essere se non un'autorità superiore a tutti che dominasse i flutti degli odî e delle cupidigie, e conciliasse nella sua imparzialità i contrastanti interessi, sedendo arbitro fra le città e i partiti in lotta fra loro. Respingere l'imperatore era allontanare il tutore della giustizia e della pace nelle città e fra le città; era voler essere servi di tirannie sia principesche sia oligarchiche sia democratiche, invece d'aspirare a quella libertà e a quella sicurezza che ogni cittadino di stato ben ordinato ha nei limiti e col patrocinio della legge. La realtà giuridica dell'Impero non era sogno dell'Alighieri; l'Impero era riconosciuto generalmente anche da quelli stessi che per interessi loro particolari lo combattevano, e si credeva generalmente capace ancora d'imporsi agli stati particolari che ne disconoscevano l'autorità, almeno in Italia, a cui D, soprattutto aveva la mira. E in questa fiducia che l'opera dell'imperatore bastasse a sanare le piaghe della penisola, combatteva. Ma certo il grande amore che portava all'Italia, l'ammirazione per quello che aveva compiuto nel mondo il popolo romano, la visione che i suoi studî e le sue riflessioni gli avevano dato della storia dell'umanità, esaltando il suo sentimento e la sua fede, lo indussero a credere quella dell'Impero una missione provvidenziale, legata coi fini assegnati da Dio all'uomo per questa e per l'altra vita, e quindi indefettibile, per quanto lenta e contrastata nel suo processo. Comunque sia, a noi non importa misurare il senso politico di D., ma conoscere quello che più riscaldò il suo sentimento e accese la sua fantasia. Se la sua fu una utopia, certo fu un'utopia generosa; né mostrò con essa minor amore all'Italia, e per il suo benessere e per la sua gloria, che i suoi più pratici concittadini. Esaltando e difendendo l'Impero credeva d'esaltare e difendere una gloria italiana: anche se contingenze storiche o giudizio divino avevano temporaneamente attribuito la corona imperiale a principi stranieri, questi eran pur sempre principi dell'Impero, e questo ultimo era ad ogni modo romano, e Roma ne doveva esser la sede; e l'Italia, domina gentium, aveva così l'onore di reggere il mondo.

Egloghe. - Mentre D. nella pace di Ravenna attendeva a compiere il poema, gli giungeva sulla fine del 1319, da Giovanni del Virgilio, maestro di latinità nella vicina Bologna, un carme in cui era espresso il dispiacere che il venerando vecchio gettasse il tesoro dell'arte sua al volgo e il desiderio che celebrasse nella lingua dei classici uno dei più importanti avvenimenti del suo tempo, per modo ch'egli potesse acquistarsi fra i dotti titolo ad esser poeta laureato. Dante si compiacque di tanto affetto quanto il carme mostrava, e rispose con un'egloga latina di felice ispirazione e d'arte, per quei tempi, squisita: non nasconde il desiderio dell'alloro poetico, ma egli l'attende dalla Commedia, e lo sospira in Firenze quando sia compiuto e divulgato il Paradiso come già le prime due cantiche; intanto gli manderà dieci canti di quelli che va componendo, pensando che finiranno di togliere gli ultimi scrupoli al maestro bolognese. Giovanni del Virgilio ebbe ragione di esaltarsi per la risposta del nuovo Titiro e pel dono prezioso: come non credere in lui risorto Virgilio?

O si quando sacros iterum flavescere canos

fonte tuo videas et ab ipsa Phillide pexos,

quam visando tuas tegetes miraberis uvas!

Ma intanto che i tempi si compiano, perché Titiro non andrà a Bologna, dove potranno cantare insieme, anche se con voce diversa, e avrà corona di giovani e vecchi desiderosi tutti d'ammirare i nuovi carmi e d'apprendere gli antichi? D. replicò con una seconda egloga: l'insistente invito ha spaventato gli amici di Titiro, che temono d'essere abbandonati; egli vorrebbe compiacere Mopso (il gentile sollecitatore e corrispondente), ma teme i pericoli che gli amici stessi gli fanno prevedere in Bologna.

Le due egloghe sono di singolare importanza non soltanto per quello che lasciano trasparire della vita di D. in Ravenna e dei suoi sentimenti e delle sue speranze rispetto alla Commedia, ma anche perché ci confermano in modo così luminoso quale preparazione avesse fatta sui poeti latini prima di tentare la sua nuova arte, e quale aiuto poté avere da essa.

Quaestio de aqua et terra. - Lungamente incerta è stata la critica sull'autenticità di questa dissertazione, ma finalmente s'è risolta a considerarla come opera genuina dell'Alighieri. Era questione viva nelle scuole e negli autori se l'acqua nella sua sfera, ovvero nella sua naturale circonferenza, sia in qualche punto più alta della terra che emerge dalle acque, detta comunemente la "quarta abitabile"; e non fa maraviglia che D., che era e si professava familiare della filosofia (viro philosophiae domestico), rimanesse comunque impigliato in una controversia, per la quale fosse indotto a trattare pubblicamente e a scriver poi la sua disputa, e che potesse ottenere dal vescovo di Verona, per la tradizionale autorità che i vescovi avevano sull'insegnamento, di poter discutere, anche senza esser regolarmente conventato, in un sacello della sua città dov'era famoso e ammirato per la sua dottrina e gradito al signore. Riferiti i cinque argomenti addotti dai sostenitori della maggior altezza dell'acqua, dimostra nella prima parte della sua disputa essere impossibile che l'acqua sia in qualche parte più alta della terra emergente; nella seconda prova che la terra emergente è in ogni suo punto più alta di tutta quanta la superficie del mare; nella terza adduce e scioglie le obiezioni fatte dagli avversarî contro ciò che è sin qui dimostrato; nella quarta ricerca la causa finale ed efficiente dell'emergenza della terra, in forma di un semilunio o quasi; nella quinta termina mostrando vani i cinque argomenti addotti in principio contro la verità da lui dimostrata. Un tempo fu data grande importanza a questa dissertazione per nove verità cosmologiche accertate dalla scienza moderna che vi sarebber state presagite, e in parte dimostrate: accertato che questo era pura illusione di una critica troppo corriva, e che il sapere di D. in queste materie non oltrepassava quello del suo secolo, la Quaestio resta sempre una prova considerevole dell'amore di D. per la verità, nel quale si dichiarava continue nutritus sin dalla puerizia, e della sicura dottrina che ebbe a disposizione della fantasia poetica per costruire i suoi regni ultramondani.

La Divina Commedia.

Genesi e composizione. - L'idea prima di quella che fu l'opera massima di D. provenne senza dubbio dal proposito d'esaltar Beatrice. La Vita nuova termina con questa promessa: "apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei: e di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae veracemente; sì che se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna". È vano tentar d'indovinare ciò che allora disegnasse di fare, e ricercare se qualche cosa possa avere scritto effettivamente con quel suo disegno; ma un proposito così solenne non poté esser del tutto dimenticato neppur negli anni in cui gli studî e la politica e le prime preoccupazioni dell'esilio più a sé lo tennero stretto. Quando veramente il disegno riprendesse vita nel suo pensiero, e a quali anni si debba riportare la composizione del poema che a noi rimane, s'è a lungo e sottilmente discusso. Taluni, pur ammettendo che D. già da tempo pensasse alla Commedia e ne andasse via via preparando la materia, sostengono che a comporla non si accingesse veramente se non dopo la morte di Arrigo VII; secondo altri invece la composizione avrebbe avuto principio circa il 1307, per modo che le due prime cantiche sarebbero state compiute prima della morte di quell'imperatore o poco dopo, e solo il Paradiso sarebbe opera degli ultimi anni del poeta. Questa seconda opinione ha caratteri di maggior probabilità; e rimane prova sicura che anteriormente all'aprile del 1314 già si poteva parlare di un'opera "quod dicitur Comedia, et de infernalibus inter cetera multa tractat", come di opera, in parte almeno, generalmente conosciuta e quindi pubblicata; e altri indizî, e più la testimonianza di D. stesso nella prima egloga, che innanzi fosse compiuto il Paradiso le altre due cantiche erano già divulgate ("Quum mundi circumflua corpora cantu astricolaeque meo, velut infera regna, patebunt") confermano la cosa, e rendono assai verosimile che l'Inferno e il Purgatorio fossero pubblicati, se non insieme, a breve distanza fra loro poco dopo la morte d'Arrigo. Sia che veramente da Firenze egli ricevesse nel 1306, mentre si trovava alla corte dei Malaspina, parti di un'opera che aveva scritto in patria in lode di Beatrice; sia che la dura esperienza dell'esilio lo facesse accorto della scarsa efficacia che a sanare le piaghe d'Italia poteva avere un trattato puramente dottrinale; sia che la natura poetica, costretta e mortificata dalla dura disciplina del filosofo e dell'erudito, riprendesse a un certo momento il sopravvento; probabile è che verso il 1307 l'idea d'un'opera di poesia si ripresentasse alla sua mente con l'impeto d'una cosa necessaria, per esprimere quello che turbinava nel suo spirito da tanti anni, memorie, desiderî, esperienze, pensieri, speranze, e per tentare un rinnovamento dell'umanità, e particolarmente dell'Italia, che andava sempre più allontanandosi dall'ideale vero della vita civile e cristiana. Accesosi in questa idea, come già Enea fu destinato dalla provvidenza divina a preparare il sorger di Roma e del suo impero universale, e Paolo apostolo eletto a diffondere fra le genti la fede cristiana, D. si sentirà chiamato a mostrare i disastrosi effetti della mancanza delle due guide stabilite da Dio per la salute degli uomini e a profetare il soccorso divino perché l'ordine provvidenziale sia ristabilito. Le dignità civili, la cura dei beni terreni ritorneranno all'Impero; la Chiesa, libera da cure non sue, riprenderà la missione per cui fu istituita, di guidare gli uomini all'acquisto del cielo, riaperto loro con la morte di Cristo. E intanto egli darà in sé l'esempio d'un ritorno a vera vita religiosa dopo aver conosciuto la vanità dei beni caduchi. Scomparsa la donna che lo guidava "in dritta parte volto", ad amare il sommo bene, egli s'era smarrito dietro alle cose presenti, e messo sulla via della perdizione; ma il devoto figlio di Maria, il fedele della giustizia, l'amico di Beatrice, non doveva perire: la visita dei tre regni ultraterreni sotto la guida di Virgilio, mandato da Beatrice, e poi di Beatrice stessa, l'anno del grande giubileo del 1300, rifarà sana l'anima sua, e lo renderà degno di rivelare quello che Dio ha disposto alla salute di tutto il genere umano. E così il proposito del poema nato nell'esilio per fine altamente sociale e religioso si ricongiunge col primo disegno di un'opera ove di Beatrice sarebbe stato detto quello che non fu mai detto d'alcuna donna.

Non è possibile tracciare la storia della composizione del poema nelle sue fasi successive, durante i dieci e più anni ch'essa durò; e i critici che l'hanno tentato, per desiderio di precisar troppo, hanno dato nel sottile e nell'arbitrario. Gl'inizî furono forse più modesti che l'insieme non mostri; e se lo stile fu da principio quale si richiedeva a un'opera che voleva intitolarsi Commedia, e quale conveniva al metro stesso, tratto dal serventese popolaresco, a poco a poco la coscienza artistica fece sentire a D. di poter entrare in gara coi grandi poeti latini (Inf., XXV, 94-102), e l'ispirazione andò via via innalzandosi di tono, e fu rincalzata con più arte (Purg., IX, 70-72), sin che la "commedia" divenne "poema sacro", a cui non bastò più né lo stile mediano né la lingua più comune, ma si fece in tutto degno di cantare la gloria del paradiso. L'argomento stesso portava una prima divisione dell'opera in tre parti; e il tre col dieci (due numeri di speciale significato per D., l'uno come simbolo della Trinità, l'altro come simbolo di perfezione, secondo le idee del tempo) divenne il principio regolatore dell'architettura morale dei tre regni, così in quella prima struttura embrionale indispensabile per ogni concezione poetica o d'altro genere, come in quella successiva ideazione e creazione con cui l'ispirazione trova poi la sua forma determinata: tre cantiche, quanti i tre regni ultraterreni (Inferno, Purgatorio, Paradiso); ciascuna cantica in trentatré canti, con un canto proemiale all'intero poema, da formare appunto cento, multiplo del dieci; l'Inferno (una vasta voragine nel centro della terra) diviso in nove cerchi, più il vestibolo; altrettante divisioni per il regno della purgazione (un'alta montagna che sorge in mezzo all'oceano, nell'emisfero australe), e, nella sua cima, il Paradiso terrestre; nove cieli, secondo, il sistema tolemaico, più l'empireo, per il Paradiso. Nell'Inferno distribuiti i peccatori secondo che la loro colpa derivi da incontinenza, violenza e frode; ordinati i penitenti nel Purgatorio secondo che amore è diretto al male, o, se diretto al bene, è con troppo o con poco di vigore; distinti gli spiriti nel paradiso in saeculares, activi e comemplativi, secondo che affetti mondani turbarono l'amore verso Dio, o che quest'amore s'esplicò in vita attiva o in vita contemplativa. Anche il metro è la terzina concatenata. Tutto fu, via via che l'ispirazione prendeva forma, disegnato con somma precisione: le tre cantiche hanno press'a poco lo stesso numero di versi (cfr. Purg., XXXIII, 139-141), e ognuna di esse finisce con la parola stelle. Prove esteriori ma notevoli d'un ingegno felicissimo e potente che sa congiungere la più alta e calda ispirazione con la meditazione severa e con le cure minuziose dell'arte.

L'Inferno. - Nella rappresentazione dell'Inferno non è da aspettarsi che D. si stacchi in tutto dalla tradizione poetica classica, e specialmente da Virgilio: la novità doveva consistere, non nel sostituire materia mai trattata a un mondo familiare e che poteva benissimo adattarsi a nuovi bisogni e a nuove invenzioni, ma in ciò che sarebbe figurato per entro quel mondo. Già la religione cristiana aveva trasformato in demonî gli dei e i mostri del mito pagano: D. più francamente mescola le acque che derivano dalla tradizione biblica e dalla mitologia, e sa dare aspetto di novità ad ogni cosa. Troviamo così nel suo inferno i fiumi Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito (Lete è trasportato, come in luogo più conveniente, sulla cima del Purgatorio); con invenzione conforme al pensiero cattolico, che attribuiva ai demonî ufficio provvidenziale di tormentatori dei dannati e il governo dell'Inferno, troviamo a adempiere l'uno o l'altro di tali uffici Minosse, Caronte, Cerbero, Plutone, Flegias, le Furie, Medusa, e altri di quei mostri di cui la tradizione classica aveva tramandato il ricordo, come il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, e insieme con questi i diavoli della tradizione biblica, sia nella forma loro consueta, sia in quella di cagne o di serpi o di dragoni; né manca tra essi Lucifero in persona, a cui è affidata la diretta punizione di chi tradì Cristo, fondatore della Chiesa, e di chi tradì Cesare, fondatore dell'impero. Ma tutti questi esseri (e aggiungiamo pure i giganti sia della mitologia sia della Bibbia), se nel poema non potevano mancare perché anche la credenza religiosa li considerava come esseri reali, da dover esser quindi relegati nell'Inferno, e nella vita dell'arte avevano un'esistenza troppo notoria, entrano piuttosto nella parte costruttiva e ornamentale che in quella veramente poetica. La vera poesia e data alla Commedia dagli esseri più propriamente umani, celebri nella storia antica e recente, e da D. uomo vivo che va fra essi a suscitare le loro memorie e a rinnovare le loro passioni. Neppure là dove D. s'industria di far sentire l'orrore di quel regno di tenebra e dolore e la preoccupazione sua per un viaggio così fuor dell'ordinario e tanto superiore alle forze umane, riceviamo una suggestione veramente potente, quale può derivare da una grandiosità indeterminata: bisogna che la sua anima venga in contatto con altre anime perché vibri il suo canto: ed è ora un irrefrenabile compatimento per le passioni che sconvolgono la frale natura umana; ora una più profonda commozione davanti agli errori e alle debolezze di concittadini ammirati, di maestri cari, di nobili spiriti d'ogni età; ora simpatia ardente per esseri che il ben fare non salvò da ingratitudine e da persecuzioni, e ora, per contrario, esplosioni di sdegno, sia dell'uomo sia del cittadino, verso peccatori non fregiati di nessuna bontà e macchiati di colpe che rivoltano la coscienza d'ogni onesto. Da parte delle anime il sentimento prevalente dovrebbe essere la disperazione, e questo è il rilievo primo, fatto dal poeta appena varcata la porta dell'Inferno; ma la presenza d'un vivo fra le anime perdute, come basta a far loro dimenticare per un momento il martirio, le trasporta nel mondo dei ricordi, le riaccende delle passioni della prima vita; onde a ogni incontro un erompere diverso di sentimenti, una nuova rappresentazione di casi umani, che acquista colorito anche dall'esserci proiettata da un mondo così lontano e misterioso, e dal combinarsi coi sentimenti dell'animo di D., incline da una parte ad apprezzare gentilezza, valore, e tutte le virtù e aspirazioni che nobilitano la natura umana, e dall'altra esacerbato per l'esilio, struggentesi in un vivo, e pur vano, desiderio di rettitudine e di giustizia, e pieno d'ansia per la sorte dell'Italia e dell'umanità abbandonate all'impeto delle passioni e della cupidigia. Non sempre s'indugia sul peccato che ha condotto le anime all'Inferno; al contrario si compiace spesso di rievocare ciò che non ha a che fare con la loro dannazione (si ripensi a Farinata, a Brunetto, a Ulisse) o che può destare un interesse largamente umano (ad es., non il tradimento fatto e sofferto dal conte Ugolino, ma come la morte sua fu cruda); e si commuove a quando a quando nel ricordare quello che avviene per le terre d'Italia, per soddisfare al desiderio delle ombre ansiose d'aver notizie di cose e persone care, e sono allora, le ombre e il poeta, come esuli in terra lontana che s'inteneriscono parlando del loro paese (di quella dolce patria natio.. di vostra terra sono...Romagna tua...). Né tutti gli spiriti si presentano in quell'atteggiamento d'impenitenti che li renderebbe teologicamente perfetti come dannati ma poeticamente meno vivi: rimane in molti tutta la varietà di sentimenti che si può avere nei peccatori viventi; e accanto a Capaneo e a Vanni Fucci ostinati nella loro empietà, Francesca tende a giustificare il suo amore come necessario, Pier della Vigna riconosce la sua debolezza che lo rese ingiusto contro sé giusto, Guido da Montefeltro rimpiange di non aver saputo perseverare nella penitenza (Ahi miser lasso!, e giovato sarebbe...). Per tanta varietà d'ispirazioni abbiamo nell'Inferno una serie di episodî (Francesca, Farinata, Pier della Vigna, Ulisse, conte Ugolino ecc.), di così efficace virtù poetica da non potere in questo competere nessuna delle altre due cantiche, e frammiste a loro figure vigorose, o in piena luce o di scorcio, e scene di mirabile movimento, come quella dei diavoli in Malebolge. La rappresentazione assume via via tono e colore confacenti a sì diverse condizioni di peccatori, e persino scene e gesti e spunti volgari sono ritratti, dove più convengono, con felice franchezza, a rendere più vario e più vivo questo primo regno d'oltretomba.

Il Purgatorio. - Se l'Inferno è il regno delle tenebre e della disperazione, con pianti e imprecazioni, con odî e inganni, e dove perfino a D. sembra talvolta cortesia l'esser villano, il Purgatorio è il regno dell'aria aperta e luminosa, della concordia, della pace, della speranza: concordia di voleri non più divisi nella caccia dei beni terreni ma uniti nell'acquisto di quel bene che, per essere in più a possederlo, non scema, anzi moltiplica; pace che è perdono di Dio e che rende le anime disposte al perdono verso chi è stato ingiusto con loro, e sospirose così del male che hanno commesso come del male che vedono compiere da altri; speranza di salire presto a Dio, nella quale attesa la pena diventa sollazzo. La "morta poesia" della prima cantica par rasserenarsi come l'anima di D. all'uscir fuori dall'oscurità al "dolce color d'oriental zaffiro" che rischiara l'orizzonte ampio e tranquillo del Purgatorio. Da questo suo ritrovarsi improvviso sotto il cielo stellato nell'ora in cui la stella di Venere promette vicino il giorno luminoso, in sino a quando giunge col sole in fronte tra "la gran variazion dei freschi mai" del Paradiso terrestre, tutto s'intona alla nuova condizione delle anime, al nuovo sentimento del poeta. Canta Casella sulla spiaggia dell'isola circondata dal mare infinito, e così soavemente che gli spiriti pur ansiosi della loro purgazione e Virgilio stesso s'indugiano ad ascoltarlo, come "a nessun toccasse altro la mente"; cantano gli spiriti invocando la grazia sulla loro espiazione o giubilando per coloro che, fatti finalmente puri, lasciano il monte per salire alla gloria del Paradiso; canta Matelda come donna innamorata mentre si fa ghirlande coi fiori ond'è dipinta tutta la sua via. Guardando al complesso, il Purgatorio si può dire la cantica della tenerezza e della malinconia raccolta: non invettive (se non da parte del poeta narratore del suo viaggio che si sdegna nel raffrontare quello che ha veduto di là con la realtà di qua), ma piuttosto rimpianto, dolorosa maraviglia, cruccio, che acquista forza dalla moderazione generale degli spiriti purganti, rilievo da tutto questo ambiente di condono: così nei principi della valletta, in Rinieri da Calboli, in Marco Lombardo, in Ugo Ciappetta, in Forese Donati. Soltanto nel Paradiso terrestre tali spunti di rampogna e di cruccio, che erompono qua e là come per forza, paiono concentrarsi e prendere sviluppo: prima nei rimproveri di Beatrice a D., poi nella predizione della vendetta di Dio su chi ha pervertito la Chiesa e guastato l'ordine provvidenziale nelle cose del mondo; ma anche qui Beatrice assiste "sospirosa e pia" al progresso di quel pervertimento, e se la sua pietà per D. può parere "acerba", è sempre pietà di madre che ha sospirato a lungo per i trascorsi del figlio diletto. C'è anche nel Purgatorio varietà di figure e di scene, da Catone e Manfredi a Arnaldo Daniello e a Matelda, dallo sbarco di nuove anime purganti sulla riva dell'isola alla rappresentazione simbolica del paradiso terrestre. Vero è che né le une né le altre sono così drammatiche come nell'Inferno, per ragione di convenienza col carattere di questo regno dove le anime non vivono più nel loro peccato come passione ancora presente e agitante, e aspirano invece, con tutto il loro ardore, a vita affatto diversa; ma la poesia non sgorga meno limpida dalle memorie e dalle speranze che dalle passioni: soltanto è più intima e più affettuosa. Il poeta stesso, come suggestionato dalla bellezza del luogo, si compiace di rivivere quel mondo dell'arte a cui natura soprattutto lo formò e a rievocare le memorie della sua età migliore. Quanti artisti in questa seconda cantica (Casella, Belacqua, Sordello, Oderisi, Stazio, Bonagiunta, Guido Guinizelli, Arnaldo Daniello), e che lungo ragionare dell'arte loro e delle creature da loro immortalate fra Virgilio e Stazio, mentre D. li segue ascoltando i loro ragionamenti che gli dànno "intelletto a poetare"! Si direbbe che il Purgatorio stesso voglia contribuire a questa celebrazione dell'arte offrendone in uno dei suoi gironi un genere nuovo e lontano da ogni possibilità umana, e che il poeta ammirato tenta descrivere con la sua parola: i bassorilievi che erano "visibile parlare", e i profili ove "morti li morti e i vivi parean vivi". In nessun'altra cantica la nota dell'affetto ha più soavi espressioni: anche le anime non sono così perpetuamente assorbite nella loro espiazione, per affrettare il loro congiungimento con Dio, che non rimanga luogo all'erompere degli affetti terreni: quelle che D. vede giungere si lasciano allettare dal canto di Casella, "quasi obliando d'ire a farsi belle"; Corrado Malaspina, alla vista di un vivente, non ha quella sera occhi per il serpente tentatore; e perfino Stazio, nell'atto di salire finalmente, tutto purificato, al cielo, consentirebbe, per veder Virgilio, di ritardare ancora un anno la visione beatifica di Dio.

Il Paradiso. - Il Paradiso è anzitutto la cantica di Beatrice. Che un beato vigili con particolare cura sulla salute di singole creature che vivono la dura e pericolosa vita del mondo è idea comune in quei tempi; ma l'avere il poeta scelto per tale ufficio Beatrice è invenzione che mette in questa terza cantica una bella nota di umanità e d'affetto: al "dolcissimo padre" e "più che padre", sta bene che succeda la "dolce guida e cara" di quella che D. poteva a ragione chiamare la "sua donna", di colei che, come "in cielo con gli angeli", viveva "in terra con l'anima" sua. Egli pende durante il suo viaggio per le sfere celesti dal suo occhio lucente, da quell'occhio che aveva avuto forza di muovere Virgilio al soccorso immediato; e il sorriso di lei, che si fa sempre più gaudioso, è segno del progressivo salire dai cieli inferiori verso la sede della divinità: è lei che tutto prevede, che tutto coordina, che a tutto soddisfa. V'è chi torce il viso davanti alla "teologale" Beatrice, e parla di "fredda creazione"; ma ciò dipende, invece, da fredda e preconcetta ricostruzione della visione dantesca. Beatrice illumina, a tempo e luogo, D. senza mettersi il berretto dottorale: è una beata, e parla di quello che ogni beato sa naturalmente nella continua visione di Dio; né da essa sola si compie l'ufficio d'informare D. delle novità che appaiono al suo sguardo e di chiarire i dubbî che sorgono nel suo spirito. Con l'affetto e la sollecitudine di madre o di sorella maggiore lo istruisce e l'ammonisce in quelle cose che a lui, quaggiù nel cieco mondo, crede tornino più utili, lieta che Dio abbia concesso al suo fedele tanta grazia e a lei il privilegio di poterlo guidare sino all'empireo: la carità che anima tutti i beati, e che è segno e accrescimento della loro beatitudine, fa il resto. Né soltanto in quei dolci occhi "è paradiso", come avverte la stessa Beatrice: per l'apparizione, dal poeta felicemente immaginata, delle anime nei varî cieli secondo gl'influssi da esse risentiti in vita, D. viene a trovarsi a contatto con quegli spiriti che più amava e ammirava e che quindi più doveva desiderare di vedere in gloria e parlare con loro e di loro Rimane anche qui, come negli altri regni, la parvenza umana, in attesa che torni il corpo vero, e se oltre i cieli inferiori non è più possibile, sotto la crescente luminosità, riconoscere le reali sembianze, i sentimenti dei beati si manifestano con mezzi indiretti che permettono alla nostra fantasia una cooperazione continua con l'arte del poeta e dànno alla visione quell'indeterminatezza che più conviene nella raffigurazione del divino. A guardar bene, la terza cantica non è essenzialmente diversa dalle altre. Il Paradiso non è per D. pura unione dell'anima col suo creatore: i beati furono già uomini, e pur essendo la loro beatitudine in Dio, e ferma in Dio la loro volontà, niente impedisce che amino e ricordino quello che fu già il loro mondo, e s'interessino alla Chiesa militante, ossia ai loro simili che vivono ancora la vita terrena; e D., pellegrino privilegiato dalla grazia che è ammesso a godere della beatitudine "anzi che il militar li sia prescritto" e a conoscer gli arcani chiusi a occhio mortale, porta con sé i suoi dubbî e i suoi desiderî, le sue passioni e le sue speranze, e passioni e speranze suscita in quegli esseri beati, e con loro prega e canta, si sdegna e s'esalta: e ha con sé, fido seguace, il cuore dei rimasti in terra, desiderosi di conoscere la vita che li aspetta dopo la morte, o ansiosi di sapere quale sia per essere, nei decreti della provvidenza, la sorte di questo mondo, che per colpa di chi dovrebbe guidarlo al bene, pare, ogni dì più, disposto a rovina. Insomma neppure nel Paradiso D. figura cose di pura immaginazione e fuori della realtà in cui viviamo e per cui amiamo e soffriamo e speriamo: nel mondo ultraterreno si trasporta il nostro mondo, e non soltanto il presente, ma altresì il passato che vive nelle nostre memorie e nei nostri affetti, e il futuro che vive nelle nostre speranze: Dio e l'uomo, pensiero e passione, religione e politica, teologia e filosofia, scienza e arte, tutto quello a cui l'uomo s'interessa, per cui ogni giorno s'assottiglia nella speculazione e opera, s'angustia e s'esalta. E se poesia non è soltanto quello che è raffigurazione della natura sensibile o del più comune sentimento, ma anche quello che è ardore di verità profonda, non si può dire che nel Paradiso la poesia s'estenui o si perda. Né la speculazione di D. è la speculazione fredda del filosofo o teologo di professione: egli specula per il bisogno di spiegarsi ciò che lo circonda, per darsi ragione di ciò che crede, di ciò che spera, di ciò che fa; sale dagli effetti alle cause, sino alla causa prima, ma da Dio torna alle creature con più intenso attaccamento, quasi dalle contemplazioni più alte e profonde, dalla purificazione dei suoi affetti nasca più vivo, e senta più doveroso, l'affetto per le creature fatte a immagine di Lui, e per l'intero creato ove si manifesta l'ombra dell'eterno valore; sente tutta la dignità dell'uomo, pur coi limiti imposti alla ragione e con la vulneratio della sua natura in conseguenza del primo peccato, e nelle lotte del libero volere riconosce la vera nostra virtù. Lo stesso poema, per cui ogni dì più si fa "macro", è concepito come una battaglia, l'ultima sua gran battaglia; ed è appunto nel Paradiso che i gravi problemi che riguardano il governo provvidenziale del mondo hanno più largo e solenne svolgimento: qui la celebrazione dell'Impero romano, da Dio voluto per la pace del mondo e lo sviluppo della civiltà umana; qui l'esaltazione della giustizia come virtù sovrana nei reggimenti della terra; qui la glorificazione di chi con pura intenzione coopera alla ricerca della verità nell'ordine della scienza umana o divina, di chi opera altamente e muore per la fede, di chi con l'esempio di una vera vita religiosa invita e conforta al vero culto che si deve a Dio e al distacco dalle cure e dalle cupidigie terrene che hanno traviato i pastori e dietro a loro il gregge cristiano. E qui, nella generale preoccupazione dei beati per questo generale traviamento, viene a D., a questo povero esule amico di giustizia, solennemente affidata la missione di rivelare al mondo la verità che i farisei tacciono o adulterano e d'annunziare il soccorso divino. Che qua e là nella trama del Paradiso s'inserisca anche qualche spunto di misticismo è naturale: si sviluppa spontaneamente dall'intimo dell'azione. Che può essere la scienza umana, la vita terrena per quei beati, per D. stesso testimone e partecipe di quella loro beatitudine? Ma dopo breve abbandono l'umano riprende; ed è insomma il Paradiso, più che esaltazione della divinità in sé, glorificazione di lei nei suoi effetti, e celebrazione epico-lirica di ciò che l'umanità ha prodotto di più alto.

L'unità poetica dell'opera. - D. intese a far opera poetica, ma non a modo nostro, bensì secondo le idee del tempo, che consentivano di pensare a poesia che non escludesse fini pratici d'ammaestramento e d'apostolato. Il concetto che della poesia abbiamo oggi sarà più giusto, e ci porta ad avvertire nel poema parti dove essa erompe, si spande e trionfa, e parti che sono piuttosto eloquenza, o figurazione concettuale, o anche semplicemente struttura: secondo D. era tutta poesia per l'appropriata elocuzione e figurazione e per il metro; e la diversità di tono più o meno poetico nel senso moderno della parola non porta disarmonia fra le varie parti onde l'opera si compone, perché tutto è ispirato e animato da uno stesso sentimento che tenne per oltre un decennio lo spirito del poeta in uno stato come d'esaltazione e commozione fantastica, e tutto ha quel timbro, quel colorito, quell'accento che suol dirsi dantesco. Non è già da pensare che per gl'intendimenti pratici a cui l'opera era diretta l'autore-si trovasse nella necessità di far prima una specie di costruzione a sé, valendosi del raziocinio e della dottrina in luogo della fantasia e dell'ispirazione, e che soltanto dopo aver fatto il suo massiccio castello pensasse agli adornamenti. Avuta D. l'idea che ai suoi fini, insieme artistici e pratici, niente più convenisse che una rappresentazione del mondo ultraterreno, il primo schema fu rapidamente fatto, e la creazione cominciò senza preoccupazione di sorta che non fosse rappresentare il suo mondo interiore, assecondando via via l'ispirazione del momento, foss'ella puramente poetica o mossa anche da fini diversi. Grande libertà gli concedeva questo suo iniziale concepimento, ed egli ne approfittò per soddisfare a tutti i suoi bisogni e a tutti i suoi desiderî, secondo che questo o quello prevalesse: abbandonarsi all'impeto creativo, quando la fantasia lo trasportasse; cedere all'amore d'ordine e di chiarezza, dove la materia varia e lontana dai concepimenti comuni lo richiedesse; inveire e perorare, quando lo accendesse il sentimento; discutere sottili questioni fisiche e metafisiche, ogni volta che il travaglio del dubbio o la soddisfazione d'averlo chiarito l'agitasse o lo commovesse. Che si sia indugiato su certe figurazioni o costruzioni o discussioni più che al nostro gusto possa piacere; che ci si sia indugiato anche per certi concetti o preconcetti sull'arte, per certi suoi propositi di poeta della rettitudine o di scienziato e per quel suo ingegno "cupido" di sapere; che s'avverta dappertutto una forza di riflessione che organizza, ordina, sorveglia, è da concedere; ma difficile sarebbe sostenere che insieme non si mantenga quella forza centrale dell'ispirazione che ravviva della stessa luce, con più o meno d'intensità, ogni punto del poema, e fa sentire in ogni momento l'anima dantesca. Il genio poetico ha tenuto sin da principio, ininterrottamente, la direzione dell'opera, e tutto è nato via via con getto spontaneo dall'intimo del soggetto come D. lo ha vissuto.

Neppure l'allegoria riesce all'opera poetica così esiziale come si figurano certi critici. A prescindere dalle allegorie o fatte credere da D. stesso con le sue affermazioni nell'epistola a Cangrande o immaginate dalla sottigliezza degl'interpreti, c'è sì un'allegoria pensata nella prima ideazione del poema, ma questa è così generica e leggiera, che non impedì o ingombrò affatto la creazione particolare successiva: si tratta di quel senso parallelo all'azione letterale per cui al viaggio di D. dalla Selva al Paradiso terrestre dietro a Virgilio e all'ascensione pei cieli sotto la guida di Beatrice corrisponde il cammino dell'umanità verso la felicità terrena e verso la felicità celeste sotto la guida dell'Impero e della Chiesa. La felice tempra dell'ingegno poetico indusse D. a scegliere per la sua figurazione tali personaggi da esser pienamente giustificato anche nel senso letterale quello che serve all'allegoria; sicché leggendo non abbiamo obbligo di pensare a un senso ulteriore a quello della lettera per godere dell'invenzione, e se siamo preparati a cogliere anche un senso più pieno, è tutto un guadagno che facciamo per nostra maggior soddisfazione. Virgilio è già per sé uno spirito che "tutto seppe", e fu cantore dell'Impero e prenunziatore di "nuovo ordine"; Beatrice è spirito beato, a cui tutto è dunque rivelato dalla sua contemplazione in Dio, e fu già in terra guida a D. "ad amar quel bene di là dal quale non è a che s'aspiri": per conseguenza tutto quello che fanno nel poema, anche in rapporto al fine allegorico, lo fanno con tale naturalezza e coerenza, che noi possiamo seguire sempre il poeta senza sforzo e senza difficoltà. Figurazione diversa è quella della Selva: ma qui non abbiamo propriamente una allegoria, sì bene una metafora prolungata, che ha il doppio ufficio di dare al poeta come un punto di partenza materiale alla finzione del suo viaggio per i regni eterni e di significare quello smarrimento morale che rende necessario il suo viaggio. Se a questo smarrimento s'allude poi con frasi varie (mi smarrii in una valle, di quella vita mi tolse costui, vo su per non esser più cieco ecc.), nessun turbamento viene per ciò alla coerenza della rappresentazione poetica: noi seguiamo senza nessuna difficoltà l'autore secondo che il fantasma poetico ci trae, a quel modo che sin nel parlare quotidiano mescoliamo continuamente espressioni figurate diverse a espressioni proprie; e se gl'interpreti hanno complicato le cose, senza contentarsi del tocco leggiero del poeta e della più evidente significazione delle sue parole, di questo non è da far conto. Così certe figu̇razioni simboliche sparse per il poema, come quelle delle Furie del Veglio di Creta, di Gerione, di Catone, del Serpente, possono dar filo da torcere alla sottigliezza dei commentatori, ma ai discreti non è sufficiente quel che dice espressamente il poeta a fare intendere il loro più profondo significato? Quanto poi alla figurazione più complessa che abbiamo nel Paradiso terrestre, bisogna considerare l'importanza che nell'azione del poema ha la discesa di Beatrice, la cui glorificazione è sentimento permanente in tutta l'invenzione, e la necessità poetica di destare un'attesa conveniente a un avvenimento così solenne. Certamente tutto ciò vien preparato anche col fine di valersene poi a comporre una profezia simbolica; ma intanto l'arte del poeta ci sa condurre nel modo più naturale fin sulla soglia di tale rappresentazione simbolica, e questa procede poi con elementi tanto evidenti, e in modo tanto rapido, ed è così connessa con la missione assegnata a D. dalla Provvidenza, ossia con l'invenzione stessa del poema nel senso strettamente letterale, e così giustificata dal voler Dio che il poeta conosca per quel mezzo (tanto solenne quanto conforme alle bibliche rivelazioni) la sua volontà e l'annunzî agli uomini, che cosa più fusa e più armonica con tutta la restante invenzione non si può desiderare. E se alcuno avanzasse sul serio l'accusa d'oscurità, D. sarebbe il primo a maravigliarsene: tanto è vero che Beatrice non ha da spiegar niente al suo fedele di tutta quella visione; ha solo da dirgli: "hai visto? rivelalo al mondo disviato per suo ammonimento". Ci può essere incertezza sulla significazione del Grifone, del Carro, dell'Aquila, dell'Albero e delle vicende del Carro, se stiamo alla storia e alle idee di D. invece che ai nostri preconcetti? Quello che più importa è d'aver fisso nella mente che la Commedia non è stata concepita, come spesso si afferma, come un poema allegorico, sibbene come una rivelazione, e che quel viaggio ch'essa descrive non è già immaginato per filare nebbia di sottili concetti, ma perché D. possa annunziare quello che Dio ha voluto che vedesse e udisse nel suo "fatale andare" per la salvezza dell'umanità traviata: onde l'importanza della lettera nella Commedia, e la gran parte che riuscì ad avervi la pura poesia rispetto alle dottrine e agl'intendimenti pratici.

Il mondo dantesco. - Invano però ci sforzeremo di cogliere l'unità interiore dell'opera e vedere ogni cosa nella giusta luce senza riprodurre in noi, sin nei minimi particolari, la visione nella quale D. visse per tanti anni con una intensità che mai non si vide la maggiore. Mutarono gli eventi e grandi scosse provò l'animo suo, ma la sua fede rimase inalterata: si potrà scorgere qua e là nel poema un maggior ardore, o un'aspettazione più vicina; si potrà avere in qualche parte anche l'impressione di più determinati concetti, via via che gli avvenimenti politici mostrarono l'opportunità di più risolute affermazioni; la visione nondimeno restò fondamentalmente la stessa, e anche se le fortunose vicende di quegli anni possono avere indotto l'autore a qualche ritocco o aggiunta, nessuna traccia appare che valga a menomare l'intima unità dell'opera poetica. Tutto è ispirato da convinzioni e sentimenti che sono ormai divenuti la vita stessa dell'autore.

Che l'uomo sia un essere creato per l'altra vita è in D. ferma credenza di vero cristiano quale egli era: di qui la conseguenza che ll peccato d'Adamo e la redenzione operata da Cristo siano i due fatti capitali nella storia dell'umanità; e di qui pure l'importanza che acquistano i problemi connessi con l'acquisto della felicità eterna, a cominciare da quello che tormenta ancora le coscienze moderne, la salvezza degl'infedeli. Ma D. non è spirito ascetico, e non tutto il suo pensiero e il suo sentimento è assorbito nella considerazipne di questo fine ultraterreno. Egli riconosce anche all'uomo com'essere corruttibile vivente in questa terra un suo proprio fine, che di fronte alla corrente agostiniana lo rialza e lo nobilita; e tale fine, per effetto della sua dottrina sull'Impero, venne ad avere più risoluta e più ampia affermazione che in san Tommaso. Quest'essere corrotto dalla colpa e nato all'ira, anche prima che la Grazia gli aprisse la via alla redenzione aveva potuto, per virtù della ragione che è pur dono di Dio, far cosa degna di lode e di merito in sé e nel cospetto di Dio ("grazia acquista nel ciel che sì li avanza, Inf., IV, 78). Che la vita sociale sia sorta per violenza e come pura conseguenza del peccato, non appare mai nel pensiero di D.: è sforzo naturale verso il bene, è consiglio della ragione che addita i mezzi per ovviare ai mali derivati dalla colpa. Se non che la costituzione successiva della famiglia, della vicinanza, della città e del regno non basta alla felicità terrena: nascono subito, per gli appetiti non frenati, le politiae obliquae (oligarchie, democrazie, tirannie); e a pace e giustizia perfetta occorre il monarca, "lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo viva felicemente" (Conv., IV, iv, 4). Ora la monarchia universale è cosa a cui l'uomo da sé non poteva pervenire, e vani furono i tentativi ripetutamente fatti; ma poiché esso doveva pure, nel dolore, poter conquistare quella perfezione e felicità terrena per cui fu creato, Dio intervenne in suo aiuto, anche perché giovava con ciò alla voluta redenzione per la vita eterna, e scelse a tanto ufficio il popolo romano, che da natura meglio v'era disposto. Ed ecco, accanto alla preparazione provvidenziale del Riscatto, quella dell'Impero; ed ecco i due remedia contro il guasto prodotto dal primo peccato, ossia le due guide che conducono alle due felicità, per la via degli uomini e per la via di Dio. Bisogna pensare che, nonostante il costituirsi della vita civile e nonostante la Redenzione, perdurano e perdureranno nella natura umana - anche se l'individuo può sottrarsene con la volontà e con la grazia - le conseguenze della colpa originale, e chi guidi l'umanità è dunque necessario. Come la Redenzione non restaurò l'umana natura nella perfezione della giustizia originale e pur dà il mezzo agl'individui di salvarsi, così l'Impero, assicurando la giustizia e la pace nel mondo, può dar modo di attuare tutto l'intelletto possibile e di riconquistare, nei limiti naturali e entro ai quali l'uomo s'appaga (Conv., III, xv, 7-10; IV, xvi, 6-9), quella felicità terrena perduta per colpa del primo padre. Per questo, e non già perché sia propriamente necessario al Riscatto, come da parecchi oggi si crede, fu costituito l'Impero; e due uffici, distinti e senza che l'uno dipenda dall'altro, furono voluti dalla Provvidenza per i due diversi fini dell'uomo. Certo a D. non può essere sfuggita l'inscindibilità tra vita civile e religiosa, né l'ideale superiorità del fine celeste sul terreno; né è ammissibile che uno spirito così logico abbia trascurato d'esaminare come l'imperatore potesse conciliare l'obbedienza dovuta al pontefice in ciò che spetta alle cose spirituali con l'indipendenza nell'esercizio del suo ufficio, anche se non è andato addentro sino ai casi particolari. Dové credere bastasse la legge divina così chiaramente manifestatasi in più modi in favore della distinzione e dell'indipendenza dei due uffici. Che se la reverenza da parte dell'imperatore venisse a mancare in quelle cose ov'è obbligatoria, non ha il pontefice autorità da Dio per richiamare il figlio? E d'altra parte, se cupidigia di cose terrene spingesse il papa a essere ingiusto e ad appropriarsi l'altrui, non troverebbe naturale e legittimo impedimento nell'executor iustitiae (Mon., II, x1,1)? L'una guida deve servire all'altra di freno, l'una autorità deve temere l'altra (Purg., XVI, 112); e se no, paventino il castigo divino. Si giudichi come si vuole il pensiero di D., questa è la sua dottrina quale appare in tutte le sue opere: ché se nella Monarchia, trattato essenzialmente politico, è l'autore più prudente nell'affermare la subordinazione ideale del fine terreno a quello celeste, non la nega però in fine (III, xvii, 17-18); e più manifestamente la riconosce nel poema, ove si ha di mira non soltanto la felicità terrena dell'uomo, ma anche la celeste. Or chi dà nella Commedia una parte così prevalente all'imperatore da considerare che senza il suo concorso la Redenzione non abbia effetto nemmeno per la salute eterna, fraintende tutto lo spirito del poema. D. vede bensì la necessità di risollevare l'Impero contro chi lo disconosce; crede che Dio si varrà di un erede dell'aquila per ristabilire l'ordine nel governo del mondo, giacché un provvedimento straordinario è necessario; ma suo pensiero è ristabilire l'ordine provvidenziale tanto per la vita civile quanto per la vita religiosa, e l'Impero altro ufficio non ha che quello d'aiutare l'umana generazione a riconquistar la perfezione e la felicità di questo mondo, perduta anch'essa con la colpa d'origine. Ciascuna autorità a suo posto, e per il proprio fine. Se il mondo è disviato dalla salute eterna, non è propriamente perché manchi l'imperatore; è perché (e quanto il poeta insiste!) la guida spirituale, invece d'indirizzare al bene, travia col malo esempio: se l'uomo non giunge al suo fine com'essere terreno, questo sì avviene - colpa ancora del pontefice usurpatore! - perché l'Impero è impedito di funzionare. E perché al Veltro o all'erede dell'aquila sarà commesso il rimedio, non bisogna confondere l'ufficio ordinario dell'Imperatore con la missione speciale del Messo del cielo: questo deve far cessare la tresca dei falsi pastori coi re tirannici (Dio sa i suoi mezzi); ma compiuta la breve missione, ha da riprendere l'ufficio suo: al modo stesso che l'altra guida, non più accecata dalla cupidigia dei beni terreni, dovrà riassumere il suo alto ministero e compiere quello ch'essa sola è capace di fare.

Presente e passato nella visione dantesca. - Con questa unità di visione che abbraccia insieme la storia dell'umanità, la realtà che urge il poeta da tutte le parti e la vita stessa dell'altro mondo immaginata secondo la necessità che aveva questo nostro d'esser salvato dal baratro ove stava per precipitare, D. affrontò il suo argomento. Firenze, la "gran villa", la gloriosa figliuola di Roma, la città tanto cara al suo cuore e tanto desiderata nel lungo e aspro esilio come la più bella parte della terra (De vulg. el., I, vi, 3) e nella quale desiderava "con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato" e terminare la vita (Conv., I, m, 4), ahi quale spettacolo dava di sé! Lotte fratricide che le toglievano ogni pace e ogni dolce convivenza; una mutabilità di propositi e di leggi che le impediva ogni sicuro progresso; i migliori cittadini, quelli che avrebbero potuto darle un buon governo, sopraffatti, conculcati, dispersi; non più "cortesia e valore", ma "orgoglio e dismisura" da parte d'una gente nuova venuta dal contado per bramosia di subiti guadagni e che aveva sovvertiti tutti i valori della vita civile e religiosa. L'Italia, nobilissima regio Europae (Mon., III, 111,16), eletta dalla Provvidenza a essere il "giardino dell'Impero", con la sua gente per nobiltà e per virtù meglio d'ogni altra disposta da natura a reggere il mondo (Conv., IV, iv, 10), divenuta essa stessa, da "donna di provincie", serva delle passioni e ostello di dolore. La cristianità intera, che pur fu riscattata dall'abiezione in cui era caduta, a così caro prezzo, incurante ormai del dono preziosissimo della fede, e traviata verso il male dai suoi stessi rettori: i re buoni sono ormai un ricordo, e le stesse guide ecclesiastiche dànno il cattivo esempio di curare soltanto i beni terreni. Da questa condizione di cose, considerata e riconsiderata, sofferta e deprecata invano, l'animo di D. vien trasportato verso due estremi: l'ammirazione per il passato, l'accoramento e lo sdegno per il presente.

Il suo giudizio sopra i contemporanei è severo, ma imparziale: non guarda a questo o quel partito, a questa o quella città, e su guelfi e ghibellini, città amiche e città nemiche, nobili e gente nuova, riversa ugualmente il suo cruccio: sente solo di dover battere più forte chi più è in alto, e chi per il suo ufficio o ministero ha minore scusa del fallo. E più vivo lo sdegno si fa nel Paradiso. A condannare la cavalleria che si deturpa con l'usura, le più nobili famiglie che si dànno al ladroneggio volgare, i conti-palatini che si fanno falsificatori di moneta, i politicanti che guastano le città, può bastare anche la rappresentazione diretta di tali turpitudini e di tale sgoverno nelle altre due cantiche; ma le più forti riprensioni contro gli ecclesiastici non possono aversi che in cielo, dove tutto procede da buon zelo (Par., XXII, 7-9): nella terza cantica è la rivelazione di ciò che i beati vedono in Dio, ed è quindi naturale che ad essa fosse riservata l'esaltazione o la condanna di tutto quello che D. più ammirava o detestava. La corruzione della gente di Chiesa appariva la causa principale del traviamento del mondo: su di essa doveva dunque percuotere il poeta, e percuote; e il suo sdegno, che si riversa con l'impeto di cui il suo gran cuore è capace, non appare già sfogo voluto o cercato artificiosamente con intenzioni personali o per un fine pratico, ma un prodotto spontaneo e necessario della stessa invenzione poetica.

Il disgusto del presente porta naturalmente all'ammirazione del passato, e così la fantasia ha motivi continui d'accendersi nella contemplazione di ciò che fu e nella raffigurazione ed esaltazione delle figure che la storia dell'umanità presenta più conformi agl'ideali civili e religiosi del poeta; dagli spiriti magni del Limbo che, pur lontani dalla fede, acquistarono per le loro virtù umane grazia presso Dio, se non di salvazione almeno di speciale onoranza, ai santi che più operarono a mantenere la religione nella purezza della fede e nell'ardore della carità, lontana dagl'interessi mondani e dalla vana scienza; da Rifeo troiano che, ancora fra il puzzo del paganesimo, pose tutto il suo amore alla giustizia ed ebbe perciò da Dio aperto l'occhio alla redenzione futura, ai concittadini della generazione precedente che, senza saper evitare le debolezze o le superbie della natura umana, avevano posto tuttavia il loro animo a ben fare per la patria e a coltivare quelle virtù che nobilitano l'uomo. Vi fu anzi tempo in cui non s'ebbero soltanto esempî isolati di virtù umane e di perfetta vita religiosa. Da quel fausto momento in cui per divina volontà, all'avvicinarsi della Redenzione, "la nave de l'umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa" (Conv., IV, v, 8), il "buon mondo", il mondo ben governato, aveva resistito a lungo per secoli; e qua e là, fra nuove deviazioni dell'umanità, oasi di pace ed età virtuose, nella cui contemplazione riposare lo sguardo desioso, non mancavano. Gli occhi di D. si fissavano con particolare accoramento su Firenze dentro alla sua più antica cerchia, col suo riposato vivere di cittadini, con la sua popolazione pura e fida, sobria e virtuosa, e anche nei tempi più tardi, sin che, nonostante le fazioni e le gare di dominio, regnò nella città "cortesia e valore"; e vivo era pure presso molti il ricordo del fiorire delle virtù medesime nel "paese ch'Adige e Po riga" (Purg., XVI, 115), e in quello limitato "tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno" (Purg., XIV, 92). Fu un sogno del poeta quell'era di pace e di felicità che Roma avrebbe procurato alla terra coi due soli che avrebbero illuminato l'uno la strada del mondo e l'altro quella di Dio? E sarebbe essa finita con la donazione di Costantino o soltanto più secoli dopo? Certo grave colpo riuscì a dare all'umanità il suo eterno nemico approfittando di quella fatale donazione, tanto che il mondo per essa si può dire "distrutto"; ma gli effetti furono lenti. A vera rovina si era giunti, secondo D., solo nel sec. XIII, quando Federico II aveva avuto briga dalla Chiesa, e la teocrazia d'Innocenzo III, Gregorio IX e Innocenzo IV s'era fatta più esigente, e il diritto ecclesiastico era divenuto la preoccupazione della curia pontificia. Non più il diritto canonico mantenuto nei suoi giusti limiti, ossia senza invadere il dominio dell'altro diritto, come ai tempi di Graziano; non più il Vangelo, i concilî e i grandi dottori fondamento della fede e lume e guida della Chiesa, ma al loro posto le tradizioni quas decretales dicunt (Mon., III, 111,9-16; Par., IX, 133-135); e ciò coi più esiziali effetti civili e religiosi; ché l'Impero era impedito nel suo ufficio, anzi si poteva dire "spento", e nessuno si dava più pensiero delle fonti della fede, e degl'interessi veri della religione; e come i pastori si perdevano dietro alla vana scienza, agli onori mondani e ai beni materiali, così la gente, vedendo la sua guida "pure a quel ben ferire ond'ella è ghiotta", si volgeva anch'essa solo alle cupidigie mondane: ed era per tal modo sparita la fede e la giustizia, e con loro l'innocenza e la pace (Purg., XVI, 97-112; Par., XXVII, 121-141). Il poeta, si capisce, giudica tutto dalle inquietudini e dagli odî che sconvolgono la sua Firenze e l'Italia, e dalla condizione di tanti infelici esuli dalla patria dei quali partecipa la sorte, con un amaro pessimismo che gl'impedisce di vedere tanti segni di progresso nella sua città e in ogni altra parte della penisola e nelle nazioni vicine: è una visione ristretta e in parte non vera, ma è una visione in cui tutto il gran cuore di D. s'effonde, e ne sgorga la più alta poesia.

Dante nel suo poema. - Giova altresì per rendersi ben conto di tanto miracolo di fantasia e di sentimento fissare lo sguardo sulla parte che D. ha nel suo poema, e non dico come veggente e profeta, per la missione divina di cui si sente investito, ma come uomo che ha una sua personalità e una sua storia, e la sua personalità tanto espande nel poema, che ben si disse poter questo esser chiamato "Danteide". Non è un D. in figura di peccatore, come s'indugia a mostrare certa critica. Smarrito s'è, o crede, perché, indirizzato all'alto, a una vita degna delle eminenti qualità del suo ingegno e del suo animo per virtù d'una creatura eletta che a lui appariva mandata da Dio, pensa di aver mancato all'aspettativa, anche se in ciò che ha fatto o tentato è stato sempre mosso da buone intenzioni. Niente di grave ha commesso; ma nella "dignitosa coscienza e netta", al cospetto della sua donna che è corsa in aiuto dal cielo, egli riconosce di non essersi saputo guardare da quelle impurità e da quelle aspirazioni terrene che sono triste retaggio dell'umanità anche negli uomini che secondo il mondo vivono la più regolare vita familiare e civile. Né questo solo confessa. Nella contemplazione pessimistica di un mondo guasto per l'irrompere sfrenato delle passioni, nella meditazione religiosa a cui lo costringe la grazia straordinaria di poter visitare il regno della dannazione e della purificazione, nell'esaltazione del suo spirito mentre ascende i cieli ripieni della gloria di Dio, che doveva a certi momenti apparire la cura ch'egli aveva dato a quelle stesse fra le cose della terra che si hanno per le più nobili, come la scienza, o per le più doverose, come gli uffici civili? E anche contro di esse incontriamo nel poema esplosioni che son parse confessioni di colpa e udiamo il rimprovero che gli muove Beatrice per aver seguitato una scuola che troppo è lontana da quella di Dio. Ma tutto ciò è in lui, a certi momenti, reazione contro le cure mondane che sopraffanno l'uomo a scapito di più alte aspirazioni; è giusta valutazione di due valori di grado infinitamente diverso; è accensione (e s'è già avvertito) per ciò che andava figurando del regno eterno con la fantasia e col sentimento, al punto da sentirsi tratto a condannare in tutto la vita umana così disforme da ciò che allora contemplava. In realtà niente sentiva in sé che lo rendesse indegno di Beatrice; e come il riconoscersi cristianamente peccatore (chi può credersi puro davanti a Dio?) non lo disanima dal pensiero che la Provvidenza possa affidare a lui una missione tanto alta per la salute del mondo, così quelle reazioni e accensioni momentanee non scemano l'ammirazione per tutto ciò che l'uomo è stato capace di fare in virtù del dono divino della ragione, che è sentimento fondamentale nel suo spirito e nel poema.

Non è facile figurarsi in tutta la sua complessa personalità questo D. che è centro di sì ampia visione poetica. C'è in lui il cristiano vero, con quella libertà di sentire e con quella sincerità che portavano i tempi: non troviamo l'effusione mistica, ma Dio si sente in tutto il poema come principio e fine di tutte le cose, come essere a tutti presente, come bene che i più hanno perduto, a cui molti aspirano, di cui gli eletti godono. Però esser cristiano, ripetiamolo ancora, non vuol dire rinnegare l'umanità: al contrario, è intendere meglio la nobiltà di questa creatura divina, e il fine per cui Dio la creò, che è d'acquistare per merito proprio, nella milizia terrena, la gloria di vivere eternamente con lui. C'è il male sulla terra, e deve esserci, ché senza il pericolo, senza la lotta non c'è ragione di meritare. Il maggior dono che Dio abbia fatto all'uomo è il libero volere, e questo non potrebbe esercitarsi senza essere esposto continuamente al rischio; anzi più sarà trascinato dalle forze contrarie verso il male, e più avrà campo di mostrare la sua virtù. D. si trova a vivere in un'età ove tutto trascina alla perdizione: sì può dire un momento propizio per una coscienza eroica. E l'uomo familiare della filosofia, il cittadino dall'animo fermo al "ben fare", non solo non s'accascia, ma sente di poter mostrare con l'esempio che, in ogni condizione, l'uomo è fattore del suo destino, che la perfezione e la felicità non può essere se non conquista nostra attraverso a tutti gli ostacoli che la vita ci oppone. Ed ecco che davanti alla visione dei mali che d'ogni parte gli si fanno incontro, e davanti a quel mondo che la sua fantasia s'accinge a creare per vedere come in uno specchio i destini dell'umanità, la sua coscienza vibra, reagisce e riempie di sé ogni cosa. In quanti riconosce il suo animo, le sue sventure, i suoi ideali e quanti gli dànno opportunità di respingere da sé tutto quello che non è degno, non è puro, non è giusto! Quante occasioni di mostrare la sua calda umanità e il suo pietoso compatimento verso gli errori rampollanti dalla natura nostra pur fra i sentimenti più buoni e più nobili! E via via insieme coi moti più teneri e soavi (come affetti di famiglia, care amicizie, dolce fratellanza d'arte, sentimenti di gratitudine, carità cittadina ecc.) frammisti il suo ardore per il sapere, la sua ammirazione, e direm piuttosto accensione, per quell'ideale dell'uomo che traspare nella vita cittadina delle età passate, che lampeggia nelle grandi figure del Limbo e in Catone, e che più risplende nei santi che più altamente servirono ai fini del Creatore.

Il genio dantesco. - Difficile a determinare la qualità del genio di D. Proclamarlo, come ordinariamente si fa, "sommo poeta", o "eroe della poesia", è dire la sua grandezza, non la natura del suo genio. Mettere in rilievo la tempra adamantina del suo carattere, ossia la ferma fede e la robusta volontà, l'energia del suo dire e il vigore del suo rappresentare, è certo rivelare un aspetto del suo spirito e della sua poesia, dei più notevoli, ma è anche irrigidirlo in un atteggiamento, come in certi dipinti la sua immagine esteriore. Più complessa e più ricca la sua vita interiore, e più varia la sua poesia. Accanto al grandioso e al potente che erompe dalle più sublimi e forti concezioni, troviamo la semplicità, la freschezza, la soavità di chi sa ritrarre i più fuggevoli aspetti della natura, i casi più comuni della vita, i più teneri moti del cuore. Accanto all'artista finissimo educatosi alla scuola di Virgilio, e, aggiungiam pure, al buon retore formatosi nelle scuole medievali, abbiamo il poeta che contempla, ascolta, riproduce con la nativa ingenuità, con l'immediatezza e la franchezza delle età più libere. Sin che si tratta di concetti teorici circa l'arte o di espedienti pratici in quello che è attuazione di precetti invalsi nelle scuole, la forza della tradizione opera anche sul suo genio, e abbiamo alle volte affermazioni e combinazioni artificiose che possono fare oggi perfino sorridere; ma da tutto l'insieme si manifesta in lui un sentimento così intimo della poesia, da intenderla e gustarla indipendentemente dalle forme esteriori, tanto nella lingua latina quanto nei nuovi volgari, e una libertà di mosse nel creare fuori degl'impacci d'ogni tradizione, come in pochi altri genî dell'umanità: lo stesso culto paziente dell'arte ha contribuito, insieme con la limpidezza e la misura dell'ingegno latino, a dare di un mondo così lontano dalla nostra immaginazione e così eterogeneo come quello del poema, una figurazione evidente, precisa e armoniosa da parere miracolo. Anche quello che è puro concetto o che più è riluttante a divenir poesia, in virtù di una felice combinazione nel medesimo spirito delle più opposte doti, trova un'espressione viva e concreta, sicché par visibile agli occhi nostri ciò che di sua natura è più astratto e più lontano dalla realtà di questo nostro mondo. D. riesce in mille modi a dar l'impressione di aver veramente visto e veramente udito ciò che racconta e descrive; né solo vede, ma penetra e scolpisce, e con pochi tratti energici sa rivelare l'anima altrui nel volto e nell'atteggiamento della persona, per modo che non solo ciò che essa dice o fa poi ci riesce naturale ed evidente, ma ci pare anche d'indovinare il mistero interiore che non c'è con minuta analisi rivelato. Si giunge a tal punto, che non solo il lettore che s'abbandona al libero moto della fantasia, ma anche lo studioso consapevole dei limiti della sua indagine rimane spesso vittima dell'illusione e si crea questioni su quello che non è espresso, come si potrebbe fare per ciò che non è manifesto della vera realtà o psicologica o storica o topografica.

È poeta prevalentemente drammatico; e se i drammi son rapidi, è anche questo secondo l'energico e concentrato concepire dantesco, e risponde al desiderio di trovar modo di rappresentare nell'opera sua tutto quello che riempie il suo cuore con tanti bisogni, con tanti ricordi, con tanti affetti, con tante aspirazioni. Ma son anche frequenti le effusioni dell'animo commosso o esarcebato, e non mancano severe raffigurazioni di carattere epico; un poema a cui "han posto mano e cielo e terra", ed erompente da un cuore capace delle più diverse e profonde risonanze, non poteva non aver grande varietà d'invenzioni e di toni. Tutti gli stati e le condizioni umane e tutti gli spettacoli di natura; quello che era stato nei tempi passati e quello che dava la vita contemporanea; quello che più innalza lo spirito e quello che più l'avvilisce e deprime; virtù e passione, verità ed errore, amore e odio, gioia e pianto, in tutte le più svariate manifestazioni, secondo tutti i costumi e le età; e tutto vien proiettato in un mondo che lo rende più grandioso e suggestivo. Né è la sua poesia come uno spettacolo di natura che a ciascuno di noi rivela quegli aspetti e desta quei sentimenti a cui più siamo disposti; è piuttosto come un quadro a cui l'anima del pittore ha trasfuso un suo potente sentimento, che moltiplica in noi le impressioni. L'anima di D. ha tutta pervasa di sé l'opera sua; ha ravvivato i colori di ogni figurazione offertagli dalla storia o dalla tradizione, ha dato nuovo e più profondo sentimento alle cose che ci circondano; e noi siamo continuamente trascinati dall'onda di simpatia che passa dal poeta alla sua concezione. La fusione di tanti disparati elementi riuscì perfetta in essa per quella tensione di spirito nell'ideazione e composizione dell'opera di cui D. si mostrò capace per tanti anni di seguito: il fatto che la discesa d'Arrigo non bastò a distrarlo da essa, quantunque vegliasse con ansia a ogni novità ed erompesse in impazienze a ogni incertezza e a ogni ostacolo, e più il fatto che neppure la sfortuna dell'impresa imperiale valse a fiaccare l'impeto della sua ispirazione, mostrano la tempra del suo genio e ci dànno ragione del vigore della sua poesia: potente, molteplice e originale lo spirito; potente, varia e originale l'arte.

L'istinto vero di poeta e l'impulso naturale verso un'arte nuova si rivelano anche nella scelta della lingua. Lingua viva anzitutto, e non quella delle scuole e della tradizione in cui anche il Petrarca canterà l'Africa; e neppure quella delle canzoni d'amore e di virtù cribrata con tanta cura secondo gli scrupoli teorizzati nel De vulgari eloquentia, ma una lingua più ricca, che fosse più libero mezzo a una più piena, più varia e più efficace rappresentazione del mondo che gli fluttuava davanti alla fantasia. Ed egli seppe trovarla quale occorreva ai suoi bisogni, con una felice invenzione di nuovi modi e con una sapiente elezione di ciò che conveniva a una poesia che a tutti i sentimenti e a tutti i fantasmi di cui è capace la natura umana volesse dar forma propria ed efficace. Non si esagera considerando D. come il vero creatore della lingua nostra poetica e nazionale; e anche se, in tempi più raffinati, ridotto il linguaggio poetico a più stretto vaglio, si finì con giudicare quello suo un po' rozzo e talvolta licenzioso, è tuttavia da riconoscergli una franchezza, un vigore e una ricchezza da non temer confronti. Le stesse incertezze dell'uso e le stretture della rima hanno dato spesso occasione al poeta d'evitare le espressioni fruste e di trovare nei tesori della sua fantasia immagini splendide e potenti, che dànno piacere anche perché giungono inaspettate; e quel po' d'aspro o di non troppo delicato è a suo posto in un'invenzione che, avendo toni diversi, esclude per necessità che tutto vi sia ugualmente levigato: è la Commedia come un frutto savoroso e pieno di succo a cui un po' d'asprezza aggiunge un non so che che lo rende più gustoso.

Si è cercato se e come possa D. considerarsi precursore del Rinascimento. Ma qui bisogna distinguere. Se per Rinascimento s'intende, dopo i secoli più oscuri del Medioevo, rinascita di cultura e d'arte (d'arte e cultura, che pur rifacendosi agli antichi corrispondesse ai bisogni nuovi e alle nuove condizioni), egli più che precursore è un iniziatore e uno dei più insigni maestri. Vero è che per la cultura filosofica e scientifica non innovò, ma ripeté; pur tuttavia anche in questa parte rivelò uno spirito che vuol vedere, considerare e discutere, con un ardore e con una passione che in altri, anche più dotti, non appare; e a ogni modo anche per la cultura, rompendo il pregiudizio che organo della filosofia e della scienza fosse il latino, predisse il volgare italico "sole nuovo che sorgerà dove l'usato tramonterà". Per l'arte poi, fu quegli che restituì all'Italia la poesia; non la poesia di Roma, ma una poesia nuova, nel nuovo volgare, degna di quell'antica, e tale che nessuno ha in seguito potuto superarla. Se invece Rinascimento s'intenda nel senso della cultura e della vita spirituale quale si ebbe nei secoli XV e XVI, certo D. è un uomo di due secoli addietro, è ancora uomo per certi aspetti medievale; e di questo Rinascimento nel senso tradizionale bisognerà contentarsi di porlo tra i precursori. Ma qual precursore! Anzitutto fu laico, e non cherico. Può aver frequentato la scuola dei religiosi quando il bisogno di sapere l'ha volto alla filosofia, essersi fatto discepolo di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, e aver conosciuto Aristotele attraverso le loro esposizioni (quale altra strada aveva aperta davanti a sé?): ma le sue prime mosse sono da Brunetto Latini, ossia da una scuola che preparava il cittadino per la vita civile; dalla poesia volgare, compimento della vita cavalleresca, come elemento necessario di essa ad attuare cortesia e valore; e dalla poesia latina, di cui nessuno, anche più tardi, ha sentito meglio l'efficacia per l'educazione artistica, e insieme il profondo sentimento umano e il civile valore, in quanto era esaltazione di Roma e del suo Impero, ossia della città e del governo necessario alla pace e alla giustizia fra gli uomini. E la sua attività si svolge poi partecipando alla vita attiva e agitata della sua città; e se nell'esilio spera o assume uffici, sono d'uomo di corte nel più alto senso della parola; o meditando e scrivendo per non poter operare, adempie i doveri di chi è nato per seguir "virtude e conoscenza" e vuol giovare alla repubblica e lasciar fama di sé presso i posteri. L'ammirazione per Atene "onde ogni scienza disfavilla" lo induce persino a battezzare col nome di quella città la città eterna dove ogni vero sarà manifesto (Conv., III, xiv, 15); e chi ha sentito e celebrato al par di lui la gloria di Roma? È pur notevole che nessuno abbia con più ardore propugnato la distinzione fra dominio spirituale e dominio civile. Così lontano da ogni esagerato ascetismo, e fedele alla tradizione del sentimento religioso italiano, non condanna la vita terrena per la futura, i doveri che quella impone, e i beni che essa reca; e abbiamo già accennato quanto vivo sia il rispetto e l'ammirazione che ha per ciò che è virtù umana, anche se scompagnata dalla fede. Perfino le virtù del singolo individuo che più piacquero agli uomini del Rinascimento sono in lui in pieno sviluppo. Se al Rinascimento rimane addietro per certe cose, per altre sopravanza, ed è più libero: sente la poesia e ammira l'arte così di Virgilio come quella dei Salmi e dei più eccellenti trovatori; riconosce l'eccellenza del latino, ma preferisce acquistare gloria col volgare; e come l'amore della filosofia e dell'arte non attenua minimamente il sentimento religioso, così la gloria di Roma antica non gli fa meno apprezzare l'altezza di Roma cristiana.

L'Italia ebbe, prima d'uscire dal Medioevo, questo suo genio per cui ella ch'era rimasta ultima fra le nazioni latine ad avere una sua letteratura, a un tratto tutte le superò. Né fu solo una gloria poetica; ma fu, e rimase nei secoli, come la voce della sua nobiltà e della sua sventura. Se riflettendo nella Commedia gl'interessi più universali dell'intera umanità e ritraendo gli affetti più perenni della nostra natura, D. ha suscitato e suscita l'ammirazione di tutto il mondo, in Italia resta il simbolo più alto della nostra civiltà, e si considera con giusto orgoglio come il vero poeta nazionale.

V. tavv. LXXXIX-XC e tav. a colori.

la fama e lo studio di dante.

L'età sua ha subito sentito in Dante il grande poeta; e se di quella che sola a noi par poesia non ha avuto coscienza distinta, ossia non s'è resa conto criticamente, pur non è dubbio che l'ha sentita istintivamente: per la sola scienza, per la sola allegoria non sarebbe la Divina Commedia divenuta così popolare. L'attrattiva di quel mondo misterioso che il poeta rappresenta; l'ansia, che mai si diradica dall'animo umano, di conoscere i suoi destini ultraterreni; l'ingenuo piacere di conoscere, sia pure in una rivelazione poetica, la sorte di tanti personaggi che nella storia del mondo hanno avuto gran parte; l'interesse che dovevano destare tanti problemi politici e religiosi allora vivi, che nel poema sono posti e risolti; l'appassionamento per tante scene dove la nostra umanità passa per i più svariati stati di dolore, di speranza, di gioia; e tutte queste attrattive rese più forti da un'arte potente, nella lingua a tutti comune, dovevano fare, e fecero, della Commedia un libro vivo e universalmente cercato. Aperto è il riconoscimento che per merito di Dante "rivive la morta poesia" e risorge il culto degli antichi poeti; né l'interesse e l'ammirazione che il poema destava è solo attestata dalle lodi che ne troviamo, ma anche, e soprattutto, dal gran numero delle copie manoscritte che, pur dopo tanta dispersione, rimangono, molte delle quali in bella pergamena con fregi e miniature ricchissime; e vien confermata dalle tante postille che troviamo nei margini dei manoscritti, dai sommarî in poesia delle tre cantiche, dal gran numero dei commenti che se ne fecero a cominciare dai primi decennî dopo la morte del poeta. Non erano passati cinquant'anni, e la Commedia si leggeva pubblicamente in qualche università e anche in studî minori accanto ai grandi autori latini; "dantista" era divenuto titolo d'onore, e i grammatici ponevano fra i loro meriti, per esser condotti a leggere a preferenza di altri, il saper commentar Dante: Firenze stessa dava incarico di esporre la Commedia in una chiesa della città a Giovanni Boccaccio, che grandi cure aveva speso a fare delle opere poetiche di Dante (Vita Nuova, canzoni, Divina Commedia) una bella edizione, trascrivendole più volte di sua mano, e premettendo ad esse un alto elogio del loro autore.

Fra i primi epitomatori in versi del poema abbiamo Iacopo figlio di Dante, messer Bosone da Gubbio, fra Guido da Pisa carmelitano, che aggiunse al suo compendio anche chiose latine, Giovanni Boccaccio, Cecco di Meo degli Ugurgieri da Siena e Mino di Vanni d'Arezzo. Chiosarono la prima cantica, in volgare o in latino, lo stesso Iacopo Alighieri, ser Graziolo Bambaglioli cancelliere del comune di Bologna, fra Guido da Pisa (e questa sua seconda fatica rimane ancora in gran parte inedita) e un anonimo senese, che promette di continuare l'opera sua anche per il Purgatorio e per il Paradiso. Estesero i loro commenti a tutte e tre le cantiche il bolognese Iacopo della Lana, probabilmente nello stesso decennio della morte di Dante; un anonimo fiorentino (il notaro Andrea Lancial), che fu detto l'Ottimo, e lasciò tre diverse redazioni delle sue chiose; e Pietro Alighieri, che rifece egli pure il suo lavoro non meno di tre volte (anche le cosiddette Chiose cassinesi non sono che trascrizione letterale di chiose di lui). Iniziatesi nella seconda metà del secolo le pubbliche letture del poema, ne uscirono commenti più minuti e continui; e primo quello del Boccaccio (sino al c. XVII dell'Inferno); poi quello di Benvenuto Rambaldi da Imola, lettore di Dante a Bologna, in diverse redazioni; e, poco dopo, quello del grammatico Francesco di Bartolo da Buti che espose la Commedia nello studio di Pisa. Un buon commento a tutto l'Inferno e sin quasi a mezzo del Purgatorio (il resto è poco più che trascrizione di Iacopo della Lana) ci lasciò, sulla fine del secolo, anche un altro anonimo fiorentino, grammatico esso pure, e buon conoscitore dei classici come degli autori volgari, e della storia e della vita di Toscana. Ma né i figliuoli di Dante né gli altri suoi ammiratori che si posero a chiosare e a esporre la Commedia nei tempi più vicini alla sua composizione, ebbero, o riuscirono ad avere, del mondo interiore di Dante e dei suoi ideali cognizione precisa, e neppure delle cose e delle persone di cui discorse: tuttavia sono stati nei secoli posteriori, e saranno anche in seguito, di grande importanza allo studio del poema per le testimonianze che raccolsero dalla tradizione orale o da cronache e altre memorie che oggi non sopravvivono; e pur essendo da usarsi con circospezione critica, a seconda del tempo, della regione, della cultura e delle probabili fonti, rimangono, dopo le opere minori di Dante, l'aiuto migliore a intendere la Commedia, e avviamento a ricerche nuove, e soprattutto testimonî preziosi dell'uso linguistico di quell'età.

Dalla fine del Trecento sino a tutto il sec. XVIII continua la fama di Dante a estendersi, pur dando luogo a continui contrasti per il variare del gusto letterario e della civiltà stessa e per il progressivo oscuramento di ciò che nella Commedia è strettamente legato con la cultura e lo spirito del Medioevo. A contrastare il culto dantesco vien prima, nel periodo dell'umanesimo, l'entusiasmo per l'antichità classica e per la lingua latina; poi, nel Cinquecento, si fa innanzi il gusto schifiltoso introdottosi nella letteratura volgare per l'influenza del Petrarca e dei più autorevoli petrarchisti, e, via via nei secoli posteriori, lo spregio della critica classica per le forme letterarie irregolari, e il disdegno dei modernisti contro gli antichi. Dante, oltre che oscuro, è senza gusto: per quelli che più seguono la moda è addirittura barbaro o, come si diceva, gotico; e solo rimane in pregio per alcuni episodî e per alcune terzine, ove il genio era riuscito a vincere il cattivo gusto dell'età sua. Ma Firenze resta sempre fedele al suo gran figlio e dà, nel Quattrocento, un dotto commentatore, Cristoforo Landino, che raccoglie e tramanda per le stampe il meglio degli antichi interpreti, e, nel Cinquecento, difensori ed espositori (fra cui Giovan Battista Gelli e Benedetto Varchi) che, se non ad altro, giovano a perpetuare il culto dantesco. Ammiratori, lettori e studiosi, col divenir nazionale la lingua delle tre corone fiorentine, crescono a Dante anche nelle altre regioni d'Italia; e la Divina Commedia è fra le prime opere a esser divulgata per la stampa: così, se prima dell'invenzione di essa rimasero nell'ombra i commenti di fra Giovanni da Serravalle e Guiniforte Bargigi, larga diffusione ebbero poi, oltre il Laneo e il Landiniano, quelli che due lucchesi (Alessandro Vellutello e Bernardino Daniello) pubblicarono a metà del Cinquecento in Venezia. Cominciarono a stamparsi anche le opere minori, e nel Settecento si ha in Venezia stessa la prima edizione delle opere complete; e in questo stesso secolo s'aggiungono commenti al poema più adatti a lettori moderni per opera del padre Pompeo Venturi e di fra Baldassarre Lombardi minore conventuale. Cercando in questi quattro secoli, si trovano studiosi e ammiratori serî anche fra quelli che meno hanno fatto rumore intorno a Dante; e basti ricordare Leonardo Bruni d'Arezzo, difensore dell'Alighieri contro le esagerazioni degli umanisti e autore di una Vita di lui fondata su lettere e documenti che non rimangono; Vincenzo Borghini, conoscitore profondo della storia e della lingua dell'antica Firenze, onde poté avvertire quello che mancava agl'interpreti dei suoi tempi e far buon giudizio della poesia dantesca; G. B. Vico, che meglio d'ogni altro sin allora seppe indicare da che derivi l'altezza di quella poesia; Gasparo Gozzi, che difese il poeta contro le censure del padre Saverio Bettinelli e proclamò la necessità di farsi con lo studio "contemporanei a Dante" e di non trascurare il sentimento politico né le opere minori per la piena intelligenza della Commedia; per ultimo, Bartolomeo Perazzini, veronese, che primo portò nella correzione del testo del poema sicuri principî di critica, e diede valido aiuto ai lavori del Lombardi e dell'appassionato dantista, suo conterraneo, G. J. Dionisi.

Nel sec. XIX la fama e lo studio di Dante si consolida in Italia e s'allarga in tutto il mondo civile. L'ammirazione che ebbero per lui l'Alfieri, il Parini, il Monti, il Foscolo, il Leopardi, fu il primo e più notevole segno di un grande rinnovamento nella vita e nell'arte, che rese meglio disposti a intendere la sua alta poesia. "Dante padre" diviene denominazione comune; il Balbo lo proclama "l'italiano più italiano che sia mai stato"; e dal 1798, quando, ai primi bagliori di libertà, la Divina Commedia vien portata incoronata d'alloro sul sepolcro di Ravenna e il poeta commemorato pubblicamente dal Monti, al 1865, che in ogni parte d'Italia redenta o irredenta si celebra come festa nazionale il sesto centenario della sua nascita, Dante è come segnacolo in vessillo di tutti gl'ideali patriottici e umanitarî: "la grande anima sua (scrive il Mazzini) ha presentito l'Italia iniziatrice perenne d'unità religiosa e sociale all'Europa, l'Italia angiolo di civiltà alle nazioni, l'Italia come un giorno l'avremo". Ciò può aver portato qualche esagerazione o deviamento negli studî; ma allargò l'interpretazione della Commedia da un'esegesi grettamente morale e religiosa a una più piena comprensione di quello che fu il sentimento ispiratore di sì alta poesia; e lo studio di Dante, considerato come un dovere, si fece sempre più intenso. Mancò purtroppo in esso un indirizzo sicuro e disciplinato. Il movimento storico generale giovò indirettamente, ma neppure il Balbo e il Troya consacrarono a Dante quelle cure intense e spregiudicate che sarebbero occorse a ridare la conoscenza e il sentimento dell'età che il poeta raffigurò nella sua opera. S'ebbero commentatori meglio rispondenti ai bisogni del tempo (Giosafatte Biagioli, Paolo Costa, Niccolò Tommaseo, Brunone Bianchi, Pietro Fraticelli, R. Andreoli, G. B. Giuliani); ma si rimase alla superficie, e anche il Tommaseo si mostrò più ambizioso di raffronti e di sue considerazioni e divagazioni che pensoso d'immedesimarsi col poeta.

Intanto però lo straordinario rinnovamento avvenuto tra il Sette e l'Ottocento in Germania negli studî e nell'arte aveva portato a dare grande importanza, sull'arte classicizzante e d'imitazione, all'opera originale dei genî di tutte le età e di tutti i paesi, e Dante fu anche là oggetto di più giusti giudizî e di più severi studî. Comincia in quella nazione, da questo interessamento per l'arte di tutti i popoli, quel fiorire degli studî danteschi, che culminò al tempo del re Giovanni di Sassonia (Filalete), e che contò tra i suoi più benemeriti promotori e cultori, oltre il re Giovanni, Carlo Witte, F.C. Schlosser, L. G. Blanc, Carlo Bartsch, Teodoro Paur, Edoardo Böhmer, Emilio Ruth, F. S. Wegele, e da ultimo ebbe anche un centro nella Società Dantesca fondata a Dresda nel 1865. Quel movimento di studî, benché si restringesse a poco a poco a ricerche puramente filologiche, di erudizione particolare e di esegesi spicciola, e l'interpretazione della Divina Commedia tornasse col Witte a farsi prevalentemente morale, riuscì assai utile per la critica del testo e per l'esegesi delle opere di Dante, per la conoscenza degli antichi commenti, per le fonti della dottrina dantesca. Ebbe un divulgatore pieno di ardore, se anche di criterio poco sicuro, in G. A. Scartazzini, e ha sempre continuato sino ai nostri giorni a dar cultori di valore (Adolfo Gaspary, F. S. Kraus, Alfredo Bassermann, Carlo Vossler, ecc.) e buoni contributi al progresso degli studî danteschi. L'esempio della Germania fu seguito dall'Inghilterra; e anch'ivi s'ebbe, non soltanto traduzioni e opere di divulgazione, società e cattedre dantesche, ma anche lavoro di carattere scientifico: lord Vernon prestò mano al Witte a far conoscere gli antichi commenti della Commedia e il testo delle prime edizioni; H. C. Barlow aiutò con le sue ricerche la critica testuale e l'illustrazione storica del poema; e il loro avviamento fu seguito ai nostri giorni, e con migliori frutti, da Edoardo Moore e da Paget Toynbee. In gara con l'Inghilterra s'è posta l'America, ove Dante ha avuto cultori del valore del Longfellow, di C. E. Norton, J. R. Lowell, ecc.; e là pure, oltre a un intelligente e continuo lavoro di divulgazione mediante traduzioni, letture, società e collezioni dantesche, si è mirato a lavori d'interesse scientifico, come concordanze, cataloghi, bibliografie che rendono buon servigio agli studiosi di tutto il mondo. Non c'è oggi nazione civile ove Dante non abbia i suoi cultori; ma è naturalmente, salvo eccezioni (e anche in Francia è stato ordinariamente così), lavoro d'appropriazione e di divulgazione più che d'indagine nuova.

In Italia gli studî danteschi hanno preso nella seconda metà del secolo XIX un indirizzo più scientifico. Già n'aveva dato segno nella critica storica e filologica, sin dalla prima metà, Giuseppe Todeschini; ma più efficace fu lo sforzo simultaneo di Giosue Carducci, Alessandro D'Ancona, Adolfo Bartoli, Isidoro Del Lungo, Francesco D'Ovidio, Pio Rajna: contemporaneamente a loro Francesco De Sanctis avviò la critica a considerare in Dante il poeta e ad analizzare le sue più belle creazioni in modo da rivederle con gli occhi stessi dell'autore e da riviverle col suo stesso sentimento. Dalla loro scuola uscirono lavoratori serî e coscienziosi (anche se il loro numero è di necessità sempre minore dei saccenti e degl'improvvisatori); nel 1888 fu anche costituita una Società dantesca, la quale ha dato buoni frutti; e la critica e l'esegesi dantesca si vanno ogni dì più allargando e affinando.

Bibl.: La più completa bibliografia dantesa ci è data da Th. W. Koch nel suo Catalogue of the Dante Collection (offerta da W. Fiske alla Cornell University Library), Ithaca-New York 1898-1900, e da M. Fowler col volume di Additions 1898-1920, Ithaca 1921. Per gli anni 1889-1893, a cura di M. Barbi, e nella nuova serie, diretta prima da M. Barbi e poi da E. G. Parodi, voll. I-XXVIII, una rassegna critica delle pubblicazioni dantesche degli anni 1893-1921, fornita di buoni indici annuali per autori e per materie, e anche di un eccellente primo Indice decennale compilato da F. Pintor. L'opera del Bullettino è continuata per gli anni successivi negli Studi danteschi diretti da M. Barbi (Firenze 1920 segg.). Si può consultare per le pubblicazioni dell'ultimo quarantennio anche il Giornale dantesco, diretto un tempo da G. L. Passerini, e quindi da L. Pietrobono e G. Vitaletti (Venezia-Firenze 1889 sgeg., con indici annuali e indici complessivi 1889-1910 e 1911-1927), ma così delle recensioni come degli articoli di esso è sempre reso conto nel Bullettino e negli Studi danteschi cit. È ancora preziosa, per la serie delle edizioni e dei commenti della Commedia e per la descrizione dei manoscritti del poema e dei commenti antichi su di esso (l'opera rimase incompiuta) la Bibliografia dantesca di P. Colomb De Batines, voll. 2, Prato 1845-48; e v. anche, dello stesso autore, le Giunte e correzioni inedite, pubblicate da G. Biagi, Firenze 1888, e l'Indice generale di essa a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna 1883. Cfr. infine g. Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna 1931. Per altre sepciali bibliografie cfr. N. Zingarelli, Dante, Milano 1899-1903, p. 728, e G. A. Scartazzini, Dantologia, 3ª ed., Milano 1906, p. 37; alle quali due opere si può ricorrere anche per indicazioni bibliografiche particolari su tutta la materia dantesca, e meglio, per tali indicazioni, alla 2ª ed. dell'opera dello Zingarelli intitolata: La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano 1931.

Fra le pubblicazioni periodiche che si occupano esclusivamente di D., oltre alle tre sin qui indicate, giova ricordare: L'Alighieri, diretto da Fr. Pasqualigo, Verona-Venezia 1889-93; Il nuovo Giornale dantesco, diretto da G. L. Passerini, I-V, Firenze 1917-21; Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft, voll. 4, Lipsia 1867-77, ripreso a pubblicare col titolo di Deutsche Dante-Jahrbuch, voll. V-IX (1920-25), per cura di H. Daffner, e che ha iniziato una nuova serie diretta da F. Schneider (Weimar 1928 segg.); Annual Report of the Dante Society (Cambridge, Mass.), nn. 1-44, 1883-1926 (oltre agli atti della società contiene memorie e le Additions alla ricca raccolta dantesca del Harvard College).

Utili repertorî per lo studio di D. sono: G. Poletto, Dizionario dantesco di quanto si contiene nelle opere di D. A., con richiami alla Somma teologica di S. Tommaso, coll'illustrazione dei nomi propri e delle questioni più controverse, voll. 7, e 1 d'appendice, Siena 1885-92; G. A. Scartazzini, Enciclopedia dantesca: Dizionario critico e ragionato di quanto concerne la vita e le opere di Dante, voll. 2, Milano 1896-99, continuata da A. Fiammazzo con un 3° vol. Dizionario-concordanza delle opere latine e italiane, Milano 1905; e (opera di molto maggior valore) P. Toynbee, A Dictionary of proper names and notable matters in the works of Dante, Oxford 1898, e in forma ridotta, Concise Dictionary, ecc., Oxford 1914. E accanto a questi più ampî prontuarî merita d'esser ricordato perché stringe "molto in parvo loco", l'Indice analitico dei nomi e delle cose posto da M. Casella in fine dell'edizione delle Opere di D. per cura della Società Dantesca Italiana. Preziosi pure i tre volumi di concordanze pubblicati dalla Società Dantesca di Cambridge, Mass.: Concordance of the D. C. a cura di F. A. Fay, Boston e Londra 1888; Concordanza delle opere italiane in prosa e del Canzoniere di D. A., a cura di E. S. Sheldon, con l'aiuto di A. C. White, Oxford 1905; Dantis Alagherii Operum latinorum Concordantiae edite a cura di E. K. Rand e E. H. Wilkins con la collaborazione di A.C. White, Oxford 1912.

La migliore e più compiuta edizione è quella della Società Dantesca Italiana, Opere di Dante: testo critico a cura di M. Barbi, E.G. Parodi, F. Pellegrini, E. Pistelli, P. Rajna, E. Rostagno, G. Vandelli, Firenze 1921 (cfr. Bull., n. s., XXVIII, pp. 7-46). Il Dante d'Oxford, Tutte le opere di D.A. nuovamente rivedute nel testo da E. Moore (1894), ha avuto due ristampe (1897, 1904) per cura dello stesso Moore e una quarta (1924), per cura del Toynbee, ed è ancora necessario per l'uso delle concordanze suindicate e del dizionario dello stesso Toynbee. Alcuni critici (basti ricordare G. Mazzoni, Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 257-92, e F. D'Ovidio, in Bull., X, pp. 273-92, e poi nei suoi Nuovi studi danteschi, Milano 1907, pp. 567-600) sostengono la possibilità che appartenga a Dante la riduzione del Roman de la Rose, intitolata Il Fiore, e in tale ipotesi secondo altri sarebbe da attribuirgli anche il Detto d'Amore, altra derivazione dallo stsso romanzo. L'attribuzione è molto difficile ad ammettere; e la Società dantesca italiana ha pubblicato i due testi in un volumetto a parte come appendice alle opere di D.: Il Fiore e il Detto d'Amore a cura di E. G. Parodi, Firenze 1922. Una bella riproduzione fotocollografica dei due testi ha poi dato G. Mazzoni (Il Fiore e il Detto d'Amore attribuiti a D. A., Firenze 1923).

Di lavori complessivi sulla vita e sulle opere di D., oltre quello su citato di N. Zingarelli, merita di esser ricordto, per larga, benché non sempre sicura, trattazione, il volume di F.X. Kraus, Dante: sein Leben und sein Werk, sein Verhältniss zur Kunst und Politik, Berlino 1897 (cfr. V. Cian, Bull., n. s., V, pp. 113-161). Per la cultura e il pensiero dantesco, v. E. Moore, Scripture and classical authors in D., in Studies in Dante, I, Oxford 1896; P. Toynbee, Dante studies and Researches, Londra 1902; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A. e le sue fonti, Roma 1922; A. Solmi, Il pensiero politico di D., Firenze 1922; E. G. Parodi, L'ideale politico di D., in D. e l'Italia, di varî autori, Roma 1921; G. Solari, Il pensiero politico di Dante (rassegna critica delle pubblicazioni del secentenario), in Rivista storica italiana, n. s., I (1923), pp. 373-455; F. Ercole, Il pensiero politico di D, voll. 2, Milano 1927-28; G. Gentile, La filosofia di D., e F. Angelitti, D. e l'astronomia, nella citata miscellanea D. e l'Italia; e anche E. Moore, The astronomy of D., in Studies in D., III, Oxford 1903 (sul quale è però da vedere F. Angelitti, in Bull., n. s., VII, pp. 129-140). Tutte le fonti del pensiero di D. antiche e medievali esamina K. Vossler a spiegare la genesi della Commedia, e questa analizza poi come opera di poesia, nei due volumi Die Göttliche Komödie, 2ª ed., Heidelberg 1925 (traduzione italiana, Bari 1927), non sempre sicuro nella prima parte, non sempre felice nella seconda. Meglio considerano il poeta, specialmente in rapporto al poema, F. De Sanctis (Pagine dantesche, Milano 1921, raccolte dalla Storia della letteratura italiana, dai Saggi critici, ecc.) e B. Croce (La poesia di D., Bari 1921), anche se non sia ammissibile quel forte contrasto che vede il primo tra il mondo intenzionale del poeta e la poesia, né quel netto distacco che pone il secondo tra poesia e struttura (cfr. L. Russo, Problemi di metodo critico, Bari 1929, e lo stesso Croce in Critica, XXVI, pp. 122-125). Notevole anche la raccolta di opuscoli intitolata Lectura Dantis, Firenze 1900 segg., dove sono riunite conferenze che non solo offrono buoni commenti ai cento canti del poema, ma anche conferenze che illustrano le opere minori e aspetti diversi della vita e della fortuna, di D. Così il volume Dante: la vita e le opere, le grandi città dantesche, D. e l'Europa, Milano 1921, è una miscellanea di utili scritti riassuntivi per un largo pubblico, alla quale hanno collaborato studiosi di molto valore.

Vita. - Le antiche biografie di D. sono raccolte da A. Solerti nel volume Le vite di D. ecc. scritte fino al secolo decimosettimo, Milano (1904), e da G.L. Passerini, in Le vite di D. scritte da G. e F. Villani, ecc., Firenze 1918. Per le varie redazioni di quella del Boccaccio l'edizione migliore è quella di D. Guerri (G. Boccaccio, Il commento alla Divina Commedia, ecc., I, Bari 1918); e v. su tali redazioni M. Barbi, Qual'è la seconda redazione del Trattatello in laude di Dante, in Miscellanea storica della Valdelsa, XVI, pp. 101-141, e G. Vandelli, in Bull., n. s., XXIV, pp. 125-142. I più importanti documenti per la vita di D. e per la condizione economica della sua famiglia furono riprodotti fotograficamente e illustrati da G. Biagi e G.L. Passerini in un Codice diplomatico dantesco, Firenze 1895-1911, dispense I-XIV (rimasto incompiuto). Per documenti e notizie sulla famiglia Alighieri v. Bull., II, pp. 4, 66; VI, p. 96 seg.; studi danteschi, I, p. 132; II, p. 157; IV, p. 121; G. Livi, Dante e Bologna, Bologna 1921: e per la sua nobiltà Bull., II, p. 5; IV, p. 54; VI, p. 19; su i primi studî di D. e le sue relazioni con Brunetto Latini, cfr. F. Novati, Le Epistole, in Lectura Dantis, pp. 7-14; per una costruzione ideale della vita di D. nei suoi primi trent'anni, con esagerazione d'influenze mistiche e francescane, G. Salvadori, Sulla vita giovanile di Dante, Roma 1906. La questione di Beatrice è ben riassunta da E. Moore, in Studies in D., II, Oxford 1899; v. anche I. Del Lungo, La donna fiorentina del buon tempo antico, firenze 1906 e 1926, e per la fonte della testimonianza del Boccaccio a fvore di Bice Portinari, M. Barbi in Studi danteschi, I, pp. 148-155. Quanto alla donna pietosa della Vita nuova e alla sua supposta identità con Lisetta, v. M. Barbi, La questione di Lisetta, in Studi danteschi, I, pp. 17-64; e cfr. VI, p. 133; VII, p. 156. Documenti e notizie circa la condizione economica di Dante e del fratello si hanno in Bull., 1ª s., nn. 5-6 (1891), pp. 39-45, e n. 8 (1892), p. 7 segg.; n.s., XIV, pp. 124-136, e XXIV, pp. 65-82; Studi danteschi, I, pp. 127-132; X, pp. 101-104; e per la loro più prossima parentela, v. Studi danteschi, II, pp. 121-147. Della dote di Gemma Donati e dell'anno del suo fidanzamento con D. ci riman notizia in atto del 1329; v. Bull., n. s., IX, pp. 181-184. Quanto a Iohannes filius Dantis Alagherii, cfr. M. Barbi, in Studi danteschi, V, pp. 5-39, e N. Zingarelli, I figli di D., in Lectura Dantis, Firenze 1923; e per Iacopo, v., oltre lo Zingarelli, anche Studi danteschi, VII, pp. 139-142, e per Pietro, Bull., n. s., XIII, pp. 41-47. Le rime di Pitero Alighieri furono edite da G. Crocioni, Città di Castello 1903; il Dottrinale di Iacopo, a cura dello stesso, Città di Castello 1895; e v. anche G. Crocioni, Una canzone e un sonetto di Iacopo Alighieri, Pistoia 1898; A. Della Torre, Un documento poco noto sul ribandimento di Iacopo di Dante, nell'Archivio stor. italiano, 2ª dispensa del 1904 (riferito anche in Bull., n. s., XI, p. 322). Sulla vita civile dell'Alighieri, si può consultare M. Barbi, Dante e l'Arte dei medici e speziali, in Studi danteschi, VIII, pp. 160-163; id., Guido Cavalcanti e D. di fronte al governo popolare, ibid., I, pp. 101-111; e per la partecipazione ai Consigli della città, Bull., n. s., VI, pp. 233-239; B. Barbadoro, La condanna di Dante (nuovi accertamenti sull'opposizione nei Consigli e concessioni al re di Napoli e a papa Bonifazio), in Studi danteschi, II, pp. 5-74, e VIII, pp. 111-127; M. Barbi, L'ufficio di D. per i lavori di via S. Procolo, in Studi danteschi, III, pp. 89-128. Intorno ai primi anni dell'esilio: M. Barbi, Sulla dimora di Dante a Forlì, in Bull., s. 1ª, n. 8 (1892), e v. anche n. s., XI, pp. 15-17; per il bando dei figliuoli da Firenze e la dimora del poeta in Lucca e nella Lunigiana, Studi danteschi, V, pp. 17-22 e VI, pp. 131-133; sulla questione del ribandimento di D., Bull., n. s., XI, pp. 25-29 e XII, pp. 150-156; sui provvedimenti presi verso gli esuli dopo la rotta di Montecatini e sulla nuova condanna di D., ibid., XI, pp. 21-25. Quello che si sa e si è scritto circa gli ultimi anni di D. è raccolto ed esaminato da C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., 2ª ed., Milano 1921; da aggiungere: G. Biscaro, Dante a Ravenna, in Bullettino dell'Istituto storico ital., n. 41, (Roma 1921), e altre minori pubblicazioni, di cui in Studi danteschi, V, p. 151; X, p. 156 e 157; XIII, p. 152. Lo studio più ampio, e meglio illustrato, sui ritratti di D., anche se per la parte propriamente iconografica non in tutto sicuro, è quello di R.T. Holbrook, Portraits of D. from Giotto to Raffael, Londra 1911: cfr. E. G. Parodi, in Bull., n. s., XIX, pp. 89-106. Brevemente riassuntivo e con 50 tavole il volumetto di G. L. Passerini, Il ritratto di D., Firenze 1921, che aggiunge il nuovo dipinto di Boston. Da consultare per le questioni su questa materia gli studî di P.L. Rambaldi, in Bull., n. s., VII, pp. 168-175; VIII, pp. 230-235; X, pp. 361-370, e in Studi danteschi, I, pp. 113-125.

Opere minori. - Per la storia della cosiddetta trilogia dantesca, v. P.A. Menzio, Il traviamento intellettuale di D.A. secondo il Witte, lo Scartazzini ed altri critici e commentatori del sec. XIX, Livorno 1903; P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco, Livorno 1903; L. Pietrobono, Il poema sacro, I, Bologna 1915, capp. I e II. - Della Vita nuova abbiamo un'edizione critica per cura di M. Barbi (Firenze 1907, 1931), e parecchie commentate, fra le quali si distinguono quelle di A. D'Ancona (Pisa 1884) e di G. Melodia (Milano 1905); utili per le persone colte e le scuole anche quelle, più volte ristampte, di T. Casini, F. Flamini (Le opere minori, I: La Vita nuova, ecc.), M. Scherillo, G.L. Passerini e, con introduzione e note in inglese, di K. Mckenzie. Per studî su questa prima opera cfr. Bull., n. s., XII, pp. 204-223; XV, pp. 81-94; XXI, pp. 10-25. Delle Rime mancano buoni commenti, e dobbiamo limitarci a ricordare, oltre a quelli di C. Witte (Lyrische Gedichte, Lipsia 1842) e di G.B. Giuliani (La Vita nuova e il Canzoniere, Firenze 1863, 1868), fra i più recenti quelli di G.L. Passerini (Le opere minori, II: Rime, Firenze 1923), G. Zonta (Il Canzoniere, Torino 1923), e L. Di Benedetto (la Vita nuova e il Canzoniere, Torino 1928). Per la tenzone con Forese Donati (v.) è da vedere M. Barbi, in Studi danteschi, IX, pp. 5-149; per la canz. Tre donne, Carducci, in Opere, XVI, e F. Torraca, nei suoi Nuovi studi danteschi, Napoli 1921; per il Canzoniere in genere, G. Carducci, Delle Rime di D., in Opere, VIII; N. Zingarelli, Il Canzoniere di D., in Lectura Dantis, cit.; G. Zonta, La lirica di D., in Giornale stor. d. lett. ital., suppl. nn. 19-21 (1922). - Del Convivio è in corso di stampa un dotto commento dottrinale e filologico, del quale si sente veramente il bisogno, per cura di G. Busnelli e G. Vandelli; per osservazioni al testo, così malconcio nei manoscritti, v. Bull., n. s., XXVIII, pp. 18-29 e Studi danteschi, XV, pp. 67-71. - Per il testo del De vulgari eloquentia abbiamo l'edizione critica di Pio Rajna (Firenze 1896), e nuove sue emendazioni e osservazioni in un'edizione minore da lui procurata (Firenze 1897), e in seguito, in Studi danteschi, XIV, pp. 5-78; sulle questioni a cui dà luogo questo trattato e sulla sua importanza storica v. F. D'Ovidio, Versificazione italiana e arte poetica medioevale, Milano 1910, e P. Rajna, Il trattato "De vulgari eloquentia", in Lectura Dantis, cit. - Fra le edizioni delle Epistolae tiene il primo luogo quella di Paget Toynbee (Oxford 1920), con le varie lezioni die manoscritti e buone note, e con la versione inglese; ma utile ai lettori comuni può riuscire anche quella di A. Monti con versione italiana e commento (Milano 1921); e intorno al testo sarà sempre da vedere quello che osserva E. G. Parodi in Bull., n. s., XIX, pp. 249-275; XXII, pp. 137-144, ed E. Pistelli, in Studi danteschi, II, pp. 149-155; VII, pp. 121-126. Sulle epistole in genere è da consultare F. Novati, in Lectura Dantis: per quella a Moroello, G. Vandelli, in Bull., n. s., VII, pp. 59-68, e F. Novati nel volume miscellaneo Dante e la Lunigiana, Milano 1909; per quella all'Amico fiorentino, A. Della Torre, in Bull., n. s., XII, pp. 121-174 e M. Barbi, in Studi danteschi, II, pp. 115-148; per quella a Cangrande, F. D'Ovidio, Studi sulla Divina Commedia, Palermo 1901; F. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912; G. Vandelli, Bull., n. s., VIII, pp. 137-164; IX, pp. 273-279; XII, pp. 195-200; V. Biagi, sull'edizione con commento di G. Boffito, in Bull., n. s., XVI, pp. 21-37.- Intorno alla Monarchia, A. D'Ancona, in Lectura Dantis e nei suoi Scritti danteschi, Firenze 1912, e la prefazione di F. Ercole alla versione italiana di G.B. Siragusa, Palermo 1923; e v. anche le opere già indicate per il pensiero politico, e, dal punto di vista cattolico, F. Berardinelli, Il dominio temporale dei papi nel concetto politico di D., Modena 1881. - Delle Egloghe abbiamo, oltre quella della Società dantesca, due edizioni critiche con commento, e la seconda, anche con traduzione in italiano: di Ph. H. Wicksteeed e G. E. Gardner (sulla quale v. E. G. Parodi, in Giornale dantesco, X, quad. IV-V, e A. Belloni, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLII, pp. 171-189), e di G. Albini (cfr. Bull., n. s., XI, pp. 136-143); e sono altresì da vedere varî scritti di G. Lidonnici in Giornale dantesco, XXI, quad. VI; XXVIII, quad. III; XXIX, quad. II; e il Diaffonus di Giovanni del Virgilio edito da E. Carrara negli Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Romagne, s. 4ª, XV. - Per l'autenticità della Quaestio, v. Bull., n. s., VIII, pp. 552-71; X, pp. 388-400, e principalmente l'edizione con commento procuratane da V. Biagi, Modena 1907 (s cui F. Angelitti, in Bull., n.s., XV, pp. 161-182). L'edizione principe del 1508 si ha riprodotta in facsimile (Firenze, Olschki), con versione in cinque lingue.

Commedia. - Il testo del poema ci è stato trasmesso in parecchie centinaia di manoscritti (non c'è rimasto nessun autografo di D.), fra i quali più famosi vanno per antichità il codice Landiano di Piacenza del 1336 e quello della Libreria Trivulzio del 1337 (riprodotti in fototipia nel 1921), e per bellezza di miniatura l'Inferno di Chantilly col commento di Guido da Pisa, l'Inferno della Nazionale di Parigi (Ital. 2017) e il codice Vaticano Urbinate illustrato dal Clovio: notevoli anche le copie di mano del Boccaccio, la più antica delle quali è quella della Capitolare di Toledo. La descrizione più completa dei manoscritti abbiamo nel vol. II della Bibliografia del Batines,e per descrizioni più minute d'alcuni gruppi vedi L. Auvray, Les manuscrits de Dante des bibliothèques de France, Parigi 1892, e Bull., 1ª s., nn. 13-15. - Le prime edizioni risalgono agl'incunaboli della stampa, e sin dal 1477,1478, 1481 al testo furono uniti anche ampî commenti; d'allora in poi fu un succedersi continuo di stampe con e senza commento; e per il loro valore quanto al testo, vedi i prolegomeni critici del Witte alla sua edizione del 1862. Né sono mancate edizioni di lusso e con illustrazioni di vario genere; per alcune di queste e per l'iconografia dantesca in genere, vedi Bull., n. s., VII, pp. 161-221; XV, pp. 202-212; XI, pp. 113-127; Studi danteschi, V, pp. 135-161; VII, p. 158. - Sulla questione del testo, E. Moore, Textual criticism of the Div. Com., Cambridge 1889; M. Barbi, Per il testo della Divina Commedia, Roma 1891, e in Bull., n. s., IV, pp. 137-158; G. Vandelli, Il più antico testo critico della Divina Commedia, in Studi danteschi, V, pp. 41-98; M. Casella, Sul testo della Divina Commedia, ibid., VIII, pp. 5-85; e frutto di questi studî del Casella è anche la sua graziosa edizioncina del poema, Bologna 1923. - Sui più antichi commenti, L. Rocca, Di alcuni commenti alla Divina Commedia composti nei primi venti anni dopo la morte di D., Firenze 1891, e v. anche in Bull., s. 1ª, n. 8 (Chiose ambrosiane), e ibidem, n. s., IV, pp. 81-95 (Filippo Villani); M. Barbi, in Bull., n. s., XI, pp. 194-229 (Iacopo di Dante?), XV, pp. 213-236 (Benvenuto da Imola); F. P. Luiso, in Miscellanea di studi critici in onore di Guido Mazzoni, Firenze 1907 (Guido da Pisa); G. Vandelli, in Studi danteschi, XI, pp. 5-120 (Giovanni Boccaccio), XIV, pp. 93-174 (Ottimo); per i commenti dei secoli XV e XVI, M. Barbi, La fortuna di Dante nel sec. XVI, Pisa 1890. Le interpretazioni ai singoli passi dei varî commentatori antichi e moderni, sino all'Andreoli, si hanno raccolte in buona parte per cura di G. Biagi, E. Rostagno e G. L. Passerini, La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, Torino 1921 (in corso di stampa), ma ciò non dispensa lo studioso dal ricorrere ai testi completi e, per alcuni commenti, alle diverse redazioni che ci conservano i codici (cfr. Studi danteschi, V, pp. 135-137 e X, p. 150). Di raccogliere e discutere la secolare tradizione esegetica si propose già G. A. Scartazzini nella sua edizione maggiore del poema con largo commento (Lipsia 1874-82; Prolegomeni 1890, 2ª ed. dell'Inferno 1900), e benché non avesse mente critica pari al bisogno, pure giovò e giova: attende ora a lavoro simile M. Casella, in una nuova edizione delle opere di D. con commento per gli studiosi diretta da M. Barbi. Per le persone colte e per le scuole sono maggiormente in uso i commenti di T. Casini (6ª ed. rinnovata da S.A. Barbi), G. A. Scartazzini (commento minore, nella 9ª ed. rifatto interamente da G. Vandelli), F. Torraca, C. Steiner, L. Pietrobono, V. Rossi, G. A. Venturi, I. Del Lungo, F. Flamini e A. Pompeati, ecc. e, per la teologia e filosofia, G. Cornoldi, G. Poletto, D. Palmieri. Fra i commenti stranieri meritano d'essere ricordati quelli di Filalete (re Giovanni di Sassonia), di A. Bassermann e (testo italiano con note inglesi) di C. Grandgent. - Opere notevoli per la storia e l'interpretazione generale e particolare della Commedia, secondo tendenze varie (oltre a quelle già citate di F. De Sanctis, B. Croce e K. Vossler): A. Bartoli, La Divina Commedia (VI, parte 1ª e 2ª, della Storia della letter. italiana), Firenze 1887-89; I. Del Lungo, D. nei tempi di D., Bologna 1888; id., Dal secolo e dal poema di D, Bologna 1898; F. D'Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Palermo 1901; id., Nuovi studi danteschi, I: Il Purgatorio, II: Ugolino, Pier della Vigna, ecc., Milano 1906, 1907; id., Nuovo volume di studi danteschi e L'ultimo volume dantesco, Caserta 1926; G. Pascoli, Minerva oscura, Livorno 1898; id., Sotto il velame, Messina 1900 e Bologna 1923; id., La mirabile visione, Messina 1902 e Bologna 1913; id., Conferenze e studi danteschi, Bologna 1915; F. Flamini, Il significato e il fine della Divina Commedia, Livorno 1916; E.G. Parodi, Poesia e storia nella Divina COmmedia, Napoli 1921; id., La rima e i vocaboli in rima, in Bull., n. s., III, pp. 81-156. Per la lingua e per l'arte, A. Schiaffini, in Studi danteschi, XIII e XV: C. De Lollis, in Nuova Antologia, 1° Agosto 1921.

La fama e lo studio di Dante. - Per il culto di D. in Italia nei varî secoli sono da vedere: G. Carducci, Della varia fortuna di D. (nel sec. XIV), in Opere, VIII; E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921; V. Rossi, D. nel Trecento e nel Quattrocento, nella miscellanea Dante e l'Italia, Roma 1921; M. Barbi, Della fortuna di D. nel secolo XVI, già cit.; F. Flamini, D. nel Cinquecento e nell'età della decadenza, in D. e l'Italia, cit.; e per ciò che si riferisce al Settecento, M. Barbi, in Bull., n. s., IX, pp. 1-18; G. Mazzoni, D. nell'inizio e nel vigore del Risorgimento, nel citato D. e l'Italia: uno sguardo complessivo, con molte indicazioni bibliografiche, abbiamo in F. Flamini, La varia fortuna di D. in Italia, nella Lectura Dantis. Sul culto di D. all'estero: M. Besso, La fortuna di D. fuori l'Italia, Firenze 1912; A. Farinelli, Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Gremania, Torino 1922 ;G. A. Scartazzini, D. in Germania, Milano 1881-83; Th. Ostermann, D. in Deutschland: Bibliographie der deutschen D.-Literatura 1416-1927, Heidelberg 1929; P. Toynbee, D. in English Literature from Chaucer to Cary (c. 1380-1844), Londra 1909; id., Britain's Tribute to D. in Literature and Art (1380-1920), Londra 1921; The Oxford D. Society, Oxford 1920, e altri contributi nei suoi D. Studies, Oxford 1921; T. W. Kock, D. in America. A historical and bibliographical study, nel Fifteenth annual Report of the D. Society (Cambridge Mass.) Boston 1896; C. H. Grandgent, Il contributo americano agli studi danteschi, in Giornale dantesco, XVIII, pp. 45-52; A. Farinelli, Dante e la Francia dall'età media al secolo di Voltaire, Milano 1906; A. Counson, D. en France, Erlangen 1906; id., Le réveil de D., nella Revue e littér. comparée, I, pp. 362-387; J. L. Cohen, D. in de Nederlandsche Letterkunde, Haarlem 1929; G. Kaposy, Bibliografia dantesca ungherese, nella rivista Corvina (Budapest), I, luglio-dicembre 1921; S. P. Koczorowski, d. w. Polsce (D. in Polonia), Cracovia 1921; Jurichi Oga, A D. Bibliography in Japan, Osaka 1929; id., Bibliografia dantesca giapponse, 2ª ed. riveduta e corretta, Firenze 1930.

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