PACANOWSKI, Davide

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PACANOWSKI, Davide

Giovanni Duranti

PACANOWSKI, Davide. – Nacque il 29 dicembre 1904 a Łodz (Polonia) in una famiglia di antiche origini ebraiche, primogenito di Hermann, industriale del settore tessile, e di Augusta Roth, scultrice; ebbe due sorelle: Felicia, pittrice dell’École de Paris, ed Erna, pianista e concertista, morta in un campo di concentramento in Germania, insieme ai genitori.

Compì gli studi presso la Superiore scuola reale, dove si distinse per gli alti profitti raggiunti nelle diverse discipline. Nel 1923, grazie a una borsa di studio concessa dal governo italiano ai più meritevoli studenti stranieri, si trasferì in Italia – meta agognata fin dall’infanzia – per iscriversi alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano. Particolarmente formativo si rivelò l’apprendistato svolto durante gli ultimi tre anni di corso negli studi dei più affermati e importanti professionisti del capoluogo lombardo: Alberto Alpago-Novello, Guido Ferrazza, Alessandro Minali, Giovanni Muzio. Il contatto con due personalità dominanti il dibattito architettonico milanese segnò, in profondità, lo sviluppo della sua indagine progettuale: da Giuseppe De Finetti, allievo italiano di Adolf Loos, derivò il rifiuto di ogni pleonasmo decorativo e la propensione alla rarefazione dei segni, da Giò Ponti l’idea di un’architettura leggera, quasi librata nell’aria, a sfidare le leggi della gravità.

Nel 1928 discusse la tesi di laurea, presentando il progetto per una sala da concerti, sviluppato sulla base delle teorie acustiche sulla riflessione dei suoni. Nello stesso anno superò l’esame di Stato presso la Regia Scuola superiore di architettura di Roma e seguì, a Milano, il corso di specializzazione in calcestruzzo armato diretto da Luigi Santarella.

Desideroso di conoscere quanto si andava realizzando fuori di Italia, nel 1929 si recò in Inghilterra, dove affrontò un tema nuovo e intimamente legato alla riproducibilità tecnica – l’autentico ganglio attorno al quale ruotava l’idea stessa di modernità – realizzando una serie di negozi a Leeds e Leichester. A seguito delle ripercussioni della grande depressione si trasferì a Parigi per lavorare nello studio Baffrey-Hennebique, all’interno del quale ebbe modo di applicare sul campo quanto appreso sul calcestruzzo armato. Per la Societé des Bains de Mer progettò il congegno strutturale per lo Sporting d’Hiver, lo Sporting d’Eté e il Beach hotel di Montecarlo. A Parigi frequentò inoltre lo studio di Le Corbusier, in rue de Sèvres; il maestro svizzero sarebbe rimasto per lui un punto di riferimento costante.

Alla metà degli anni Trenta tornò in Italia per realizzare – su invito di Antonio Di Penta, suo compagno di studi – un fabbricato in piazza della Vittoria a Campobasso (1936), immediatamente salutato come convincente esito del «vento dello spirito nuovo» che soffiava in provincia (Casa d’abitazione a Campobasso, 1936, p. 46). Iscrittosi nel 1937 all’albo degli architetti di Roma, prese parte con Domenico Filippone al concorso per il palazzo della Civiltà presso l’E42.

Optando, contro ogni logica autarchica, per l’adozione di tecnologie edilizie innovative e materiali costruttivi nuovi, mise a punto una soluzione progettuale che anteponeva allo storicismo arcaicizzante dell’architettura ufficiale un impianto costruttivo fondato sull’archetipo.

Facendo riferimento a quei caratteri di semplicità e necessità propri dell’architettura minore mediterranea, redasse una serie di progetti per la costruzione in Somalia, a Mogadiscio e a Barca, di edifici per uffici e abitazioni, esposti l’anno dopo, a Roma, all’interno della Mostra dell’Architettura coloniale.

A seguito della promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, fu imprigionato in quanto polacco oltre che israelita, prima ad Arezzo, poi a Poggioreale. In virtù delle acclarate capacità operative e delle non comuni conoscenze tecnologiche, ebbe il permesso di uscire dal luogo di detenzione per dirigere, per conto dell’impresa Carnelli, i lavori di costruzione della sede centrale del Banco di Napoli, progettata da Marcello Piacentini.

Nel 1939, in occasione dell’inaugurazione dell’edificio, presentò un ambizioso progetto di ‘edilizia cittadina’ per la sistemazione dell’area antistante la sede del Banco di Napoli, comprendente diversi fabbricati per abitazioni e uffici, un albergo, un teatro, un cinema all’aperto e un vasto parcheggio interrato. Evitando la riproposizione di forme pregresse tipica dell’architettura pompier, mise a punto una potente soluzione architettonica attraverso la sapiente scansione degli elementi e la sofisticata adozione di materiali lapidei per il rivestimento.

Internato a Sepino, presso Campobasso, vi rimase quattro anni. Al di là delle sofferenze patite, il periodo si rivelò gratificante sul piano umano e proficuo sul piano professionale: alle numerose testimonianze di affetto della popolazione locale si aggiunse la profonda considerazione riservatagli dall’archeologo Amedeo Maiuri, che lo coinvolse nei lavori di scavo della Saepinum sannita e di quella romana e gli affidò il restauro del monumento a Caio Ennio Marso.

Nel 1944, in segno di riconoscenza per l’abnegazione e la dedizione mostrate nel lavoro, Pacanowski ricevette, insieme a Maiuri, la cittadinanza onoraria del comune molisano.

Nel secondo dopoguerra, ormai libero, tornò a concepire inediti e avveniristici edifici, impegnato ad affermare la qualità dell’architettura moderna, intimamente rispondente ai bisogni e alle aspirazioni della società. Per conto dell’impresa Di Penta, nel 1945, progettò un albergo di 22 piani: su uno dei moli del porto di Napoli distrutti dai bombardamenti bellici prefigurò, al disopra di un basamento dall’accentuata convessità, uno svettante volume connotato dall’effetto optical prodotto dall’accostamento e dalla sovrapposizione di aggetti cuneiformi. Nel 1946 redasse per conto del duca Visconti di Modrone una proposta progettuale (non realizzata perché ritenuta troppo moderna) per la costruzione, a Milano, di un edificio per appartamenti, un parallelepipedo segnato in facciata da una coppia di corpi scala che si avvitavano verso l’alto come moderne colonne coclidi.

Negli anni della ricostruzione postbellica rivolse la sua attenzione alle infrastrutture legate alla mobilità, rinnovando il rapporto professionale con l’impresa Di Penta. Assieme all’ingegner Carlo Cestelli-Guidi, prese parte a una serie di appalti-concorso: per il ponte monumentale di Ariccia (1946), per i ponti sull’Arno, a Fucecchio (1947) e a Pisa (1947), e per quello sul Tevere a Tor Bracciana (1948). In collaborazione con l’ingegner Adriano Galli partecipò all’appalto-concorso per il ponte S. Nicolò a Firenze.

Nel 1954 ottenne finalmente la cittadinanza italiana e nel 1956 sposò Lidia Sterle, figlia dell’irredentista triestino Mario Sterle, dal matrimonio con la quale nacquero Ermanno, Andrea (fotografo) e Mirta.

Negli anni Cinquanta, diviso tra Roma e Napoli, raggiunse la maturità artistica, realizzando una nutrita schiera di residenze borghesi e alto-borghesi – palazzine nella capitale e ville nel capoluogo partenopeo – dove convergevano, in perfetto equilibrio, ingegnose e ardite concezioni strutturali, sapienti soluzioni funzionali e limpidi impaginati prospettici.

Nel calligrafico dittico adagiato sullo spalto della collina dei Parioli (1950), con le vaste terrazze affacciate sulla valle di Giulio II, e nello slanciato edificio in via S. Angela Merici (1951), abilmente conformato a sfruttare l’acclività del terreno, riuscì a coniugare sentimento classico e tensione avanguardista.

Nelle ville partenopee, mirabilmente inserite nel contesto ambientale del golfo, all’astrazione dell’opera muraria oppose l’accorta disposizione dell’elemento vegetale, a riaffermare il principio dialettico tra cultura e natura. Nella villa Crespi (1952), quasi incastrata tra l’emergenza di due pini secolari e aggrappata all’estremo lembo della collina di Posillipo rivolto verso il porto di Mergellina, concretò la dicotomia tra il basamento fuso con lo sperone tufaceo della collina e le aeree solette lanciate nel vuoto, appena puntellate dallo slanciatissimo pilastro che le sezionava verticalmente. Il progetto fu esposto alla Mostra internazionale di San Paolo del Brasile del 1956 e accolto con grande interesse dalla critica (fu considerata tra Le più belle ville del mondo: in Epoca, 1956, n. 324, pp. 60-62). Cinque anni dopo portò a termine la villa Maderna in via Petrarca (1957), una sapiente e moderna rilettura dell’architettura vernacolare campana, e la villa Bruni Platania sulla collina di Posillipo (1957), in realtà una palazzina per un nucleo plurifamiliare chiusa a nord e spalancata con ampie logge verso l’abbacinante azzurro del golfo.

Negli stessi anni si dedicò anche all’edilizia economica e popolare.

Nelle case a schiera di Casoria (1953), presso Napoli, realizzate per accogliere i dipendenti della Rhodiatoce (azienda italiana operante nel settore delle tecnofibre, per la quale progettò anche lo stabilimento industriale), tralasciò il consueto allineamento dell’edificato al filo stradale, e inanellò le otto unità abitative sfalsandone le rispettive giaciture, così da disporle secondo l’asse eliotermico. Per conto dell’INA-Casa, con cui avviò un’intensa collaborazione nel corso del secondo settennio di attività, portò a termine numerosi interventi dislocati tra Campania e Molise: a Benevento, a Boiano, a Casacalenda (Campobasso), a Secondigliano (Napoli), e a Termoli. Nel fabbricato pluriuso per negozi e abitazioni dell’INA (Istituto nazionale assicurazioni) a Caserta (1959), dovendosi inserire all’interno della cortina muraria continua che delimitava via Roma, tralasciò gli sbalzi e gli aggetti della propria poetica, e reinterpretò in chiave moderna l’articolazione canonica del palazzo classico: al di sopra di un basamento segnato da puntuali piedritti – i pilotis di Le Corbusier – scavò la facciata travalicandone la consueta bidimensionalità e, verso il cielo, in luogo dell’aggetto del cornicione, interpose l’ombra profondissima di un loggiato continuo.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta tornò a occuparsi di infrastrutture legate ai trasporti: nel 1956 progettò, per conto della società SPAN (Società partenopea anonima di navigazione)di Napoli, l’allestimento interno di quattro motonavi, realizzate dalla Società Navalmeccanica di Castellamare di Stabia e l’anno successivo portò a termine la stazione superiore della funicolare di Capri – luogo amato oltremisura, dove mito e moderno si fondono in mirabile sintesi – di cui approntò anche il disegno delle vetture.

Nel 1957 fu tra i soci fondatori dell’associazione Giardino romano e l’anno dopo vinse il concorso per la sistemazione a parco pubblico dell’area prospiciente l’aeroporto di Fiumicino, realizzata solo in minima parte, nel 1970, e successivamente distrutta.

L’interesse per il verde e i giardini lo accompagnò per tutta la vita e ne dette conto pubblicando sulle pagine de Il giardino fiorito lo scritto Cereus grandiflorus (Selenicereus grandiflorus): Regina della notte (n. 7, 1958, p. 181), nonché diversi articoli sulla rivista Fiori dove presentava propri studi e realizzazioni: Terrazze sistemate a giardino (n. 1, 1958, pp. 8-11), Palazzina in un parco (n. 4, 1959, pp. 10-13), Terrazza a giardino (n. 1, 1960, pp. 1-3).

Tra il 1960 e il 1963 prese parte, ancora una volta per conto dell’impresa Di Penta, agli appalti-concorso per le stazioni della metropolitana di Roma.

In particolare nell’ambito della proposta progettuale per la fermata Risorgimento, che prefigurò come un potente invaso ctonio dominato da file di svettanti pilastri, studiò anche la sistemazione a giardino pubblico della piazza sovrastante, rifacendosi al modello informale di derivazione anglosassone, trasfigurato dalla scuola brasiliana.

Negli anni Sessanta portò a termine due importanti edifici deputati al terziario: la sede della SET (Società esercizi telefonia) in via Monte di Dio, a Pizzofalcone (Napoli) e gli edifici del CNEN (Comitato nazionale per l’energia nucleare) alla Casaccia (Roma), risolvendoli entrambi in modo sachlich: pareti lisce, finestre in lunghezza, solette a sbalzo, slittamento dei piani verticali di tamponamento rispetto alle solette strutturali, così da renderne la compenetrazione. In questi progetti era palese l’attenzione posta alla visione notturna; le chiare volumetrie diurne si trasformavano di notte in teche luminescenti, risplendenti come i calligrafici ‘cristalli’ di Giò Ponti.

Nel 1966 progettò per la città di Foggia la chiesa di S. Antonio da Padova (aperta al culto nel 1979), coniugando la complessità geometrica con l’attenzione per il genius loci: il recupero della spazialità barocca con l’adozione del carparo. Nella grande calotta di copertura, memore della lezione della cappella Ronchamp di Le Corbusier, trasfigurò il riferimento simbolico della tenda biblica in una colossale fontana-pluviale.

Spirito investigatore e instancabile sperimentatore, nel 1969 vinse il III premio al Concorso internazionale di applicazione degli elastomeri in architettura, bandito in Germania dalla società Bayer di Leverkusen, e un decennio più tardi, per conto dell’impresa Di Penta, mise a punto a Nepi (Viterbo) il prototipo di una casa prefabbricata antisismica in poliestere rinforzato con fili di vetro e coibentata con poliuretano espanso. All’indomani del terremoto del Belice realizzò a Castello di Cisterna (Napoli), un complesso di case per i terremotati dotato di molti servizi: un asilo nido, una scuola materna ed elementare, una palestra e un centro sociale.

Continuò a lavorare fino in tarda età, rivolgendo sempre più l’attenzione alla scala paesaggistica: alla fine degli anni Ottanta, ideò per Fregene (Roma) un giardino comunale con auditorium all’aperto, centro sociale e parcheggio, e sviluppò il piano di massima per il tratto centrale del lungomare di Levante, nel quale con autentico e pionieristico spirito ambientalista prefigurava la ricostituzione della duna abrasa della violenta urbanizzazione e la reintroduzione della macchia mediterranea; agli inizi degli anni Novanta progettò un vasto garage interrato in via Agrigento, a Roma, coronato da un centro sportivo immerso nel verde.

Morì a Roma il 4 agosto 1998.

Dell’estesa produzione di Pacanowski si ricordano ancora: progetto per la casa della GIL (Gioventù italiana del littorio), Acqui 1939; cinema, Sepino (Campobasso) 1942; progetto di chiesa a Ripa (Campobasso) 1943; cappella funeraria, Afragola (Napoli) 1947; villino Sindici, Ceccano (Frosinone) 1948; palazzine in via Proceno, palazzine in via Bolsena, complesso di palazzine in via Cassia, Roma 1950; complesso di palazzine in via Domenico Cirillo, Roma 1951; complesso di abitazioni signorili in via Petrarca, Napoli 1953; complesso di palazzine in via della Camilluccia, Roma 1956; giardino villa Di Penta, Nepi (Viterbo) 1964; progetto di restauro della chiesa di S. Maria della Vetrana, Castellana Grotte (Bari) 1967; progetto di ampliamento del cimitero, Sepino (Campobasso) 1968; giardino di villa Bandini, viale Atlantico, Roma 1970; piano di lottizzazione con casette unifamiliari, Senorbi (Cagliari) 1972-75; riconversione di un antico capannone industriale, Ortaceus (Cagliari) 1972-75; stabilimento ANBAR di tubi in vetro resina, Carini (Palermo) 1977-78; ampliamento dello stabilimento Sicilvetro, Marsala 1977-78.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio privato Davide Pacanowski; Ing. S., Casa d’abitazione a Campobasso, in Edilizia Moderna, 1936, n. 23, pp. 46-49; B. Moretti, Case d’abitazione in Italia, Milano 1939, pp. 175-177; E. Prampolini, Palazzina ai Parioli, in Edilizia Moderna, 1954, n. 52, pp. 85-88; D. Pacanowski, Tre palazzine panoramiche, ibid., 1955, n. 55, pp. 39-44;Tre palazzine panoramiche sul Vomero a Napoli, in Eraclit, 1956, n. 52, pp. 2-4; Casette unifamiliari a tipo economico a Casoria, ibid., 1956, n. 52, p. 5; Villa a Napoli, in Vitrum, 1962, n. 130, pp. 46-50; Villa sulla collina di Posillipo, ibid., 1962, n. 132, pp. 10-13; Due moderni edifici a Napoli, in Documenti di architettura, 1969, n. 1, pp. 116-118; 50 anni di professione (catal.), Roma 1983, pp. 101-104, 167 s.; Architectonicum. Vite professionali parallele 1920-1980, a cura di G. Latour, Roma 1992, pp. 218 s.; G. Latour - M.L. Neri, D. P. Decano 1995, Roma 1995; CE 900. Guida all’architettura del Novecento in provincia di Caserta, a cura di B. Servino, Roma 1999, p. 44; R. Serraglio, Continuità individuale e crisi locale. D. P. nella Napoli degli anni Cinquanta, in Continuità e crisi. Ernesto Nathan Rogers e la cultura architettonica italiana del secondo dopoguerra (atti del convegno), a cura di A. Giannetti - L. Molinari, Firenze 2010, pp. 198-207.

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