DE APIBUS, Venturino, beato

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE APIBUS, Venturino (Venturino da Bergamo, Venturinus de Lemine), beato

Ambrogio Maria Piazzoni

Nacque a Bergamo il 9 apr. 1304 da Lorenzo Domenico e da Caracosa.

I De Apibus "de Lemine" (originari cioè di Almenno San Bartolomeo, a pochi chilometri da Bergamo) erano un ramo della famiglia Artifoni, che aveva cambiato il cognome originario prima in quello di De Avo, o de Avis, o De Apiis e infine, proprio con il padre del D., in quello di De Apibus. L'attribuzione del D. alla famiglia Ceresoli, creduta sicura per molto tempo e testimoniata iconograficamente, è invece oggi destituita di fondamento.

Nei documenti ufficiali e nei primi biografi il cognome non appare, essendovi il D. riportato come "Venturinus de Bergomo" (o "de Pergamo"). La confusione con il cognome Ceresoli nacque dal fatto che prima priora di S. Marta di Bergamo, convento fondato dal D., fu la beata Marchesa (o Marchesina) della famiglia Ceresoli. In quel medesimo convento professò anche la sorella del D., Caterina, che non divenne però mai, sembra, responsabile della comunità. La tradizione, originatasi nel sec. XVI, venne confermandosi in quello successivo, quando due pareti dei refettorio di S. Marta vennero decorate con le figure di Marchesa (chiamata "B. Marchesia Le Ceresolis, soror B. Venturini") e del D., sotto il quale fu riportata la dicitura "b. Venturinus de Ceresolis, Bergomensis, magnus doctor et fundator huius monasterii". Questa ed altre testimonianze iconografiche più tarde non sono però sufficienti a mettere in dubbio la paternità del D., resa certa da innumerevoli fonti e, in modo particolare, dal testamento del padre, del 4 marzo 1337. In esso il D. appare senza ombra di dubbio come figlio di Lorenzo Domenico, che gli destinava un legato annuo di 6 soldi imperiali ("si ipse voluerit accipere" riferimento alla consuetudine del D. di non accettare né portare denaro con sé) e che raccomandava all'altro suo figlio di prendersi cura del fratello.

Il padre del D., Lorenzo Domenico, uomo di studio per molti anni al servizio del cardinale Longo, aveva fondato una scuola di grammatica e di logica, nella quale insegnò egli stesso per lunghi anni, fino al 1322. Della madre del D., Caracosa, si sa soltanto che proveniva da famiglia gentilizia bergamasca e che morì attorno al 1334-35. Dopo la morte di lei Lorenzo Domenico contrasse un secondo matrimonio (1336). Dal primo erano nati, oltre al D., due figlie, Pierina e Caterina, e un figlio, Iacopo Domenico, che si dedicò, come il padre, all'insegnamento della grammatica (fu detto "magister Crottus") ed ebbe rapporti con il Petrarca, cui inviò in prestito, richiestone, una copia delle Tusculartae disputationes di Cicerone.

La fanciullezza del D. si svolse, dunque, in un ambiente nel quale gli studi e la cultura erano tenuti in altissima considerazione e, forse proprio per questo, quando decise, ancora adolescente, di dar seguito alla propria vocazione religiosa., si rivolse all'Ordine dei frati predicatori.

Alcune iniziali difficoltà sorte con il padre, contrario alla scelta del figlio per la vita religiosa, furono tuttavia superate e, nel 1319. il D. si fece domenicano presso il convento di S. Stefano di Bergamo. Il corso degli studi lo portò successivamente a Pavia, nel convento di S. Tommaso (1320), a Como (1321-23), dove ricevette gli ordini del suddiaconato e del diaconato (presso la Chiesa di Locarno), poi di nuovo a Bergamo (1323-26) ed infine a Genova; dove fu ordinato sacerdote (1328) ed eletto maestro dei novizi (1329) e dove iniziò l'attività pubblica di predicatore. Al periodo del ritorno a Bergamo va fatta risalire quella che il D. considerò più tardi la sua "conversione". Convinto della profonda necessità di una riforma radicale dei costumi dell'Ordine e dell'intera società, decise infatti di abbandonare la "superbia" che lo spingeva a studiare e di iniziare una vita di penitenza, di testimonianza dei valori evangelici e di scrupolosa osservanza della regola domenicana. Ciò, considerato il temperamento assai entusiasta del D. ed il suo conseguente comportamento, non mancò di suscitare sospetti tra confratelli e superiori.

Nel 1330 si iscrisse alla Societas peregrinantium propter Christuin inter gentes, istituita dall'Ordine per le missioni in Oriente, e partì da Genova alla volta di Venezia, dove sperava di imbarcarsi. Dovette però rinunciare ai suoi intenti: troppi erano stati i frati che avevano aderito all'iniziativa (al massimo cinquanta sarebbero dovuti essere, secondo quanto previsto dal capitolo di Tolosa del 1328, i domenicani destinati alla Societas). il D. fu destinato al convento di Chioggia e successivamente a quelli di Vicenza e di Bologna, dove giunse nel 1333; l'attività di prefficatore e le doti di taumaturgo, enfatizzate certo dall'eccessiva fantasia popolare, gli procurarono ampia fama, tanto che gli ascoltatori accorrevano così numerosi da costringerlo spesso a predicare all'aperto.

La particolare devozione del D. a s. Marta (ospite di Cristo e patrona dei pellegrini) lo spinse alla fondazione, in Bologna, di un convento e di una chiesa a lei dedicati. Ripetendo un'esperienza già condotta a Vicenza., il D. inizio a preparare e seguire spiritualmente un gruppo di donne che avrebbero dovuto costituire il nucleo di una nuova comunità religiosa; questa attività, però, suscitò non poche maldicenze e, soprattutto, gli procurò l'avversione del vescovo di Bologna, Bertrand Tissandier.

Nell'estate 1334 il D. lasciò Bologna per recarsi a Bergamo, dove le predicazioni (tenute stabilmente tra il 29 settembre e il 30 novembre di quell'anno nella chiesa di S. Stefano) non fecero che accrescerne la fama di taumaturgo e rafforzare il consenso popolare intorno alla sua figura. Fedele all'ideale della riforma e al culto di s. Marta, che predicò anche nella propria patria, il D. mise a punto un progetto per la fondazione, a Bergamo, di un convento per domenicane, dedicato alla patrona dei pellegrini. La costruzione del convento fu terminata nel 1340.

Nel 1335 il D. organizzò, sembra con l'appoggio del governo cittadino e forse anche del vescovo, un pellegrinaggio di penitenza a Roma degli abitanti di Bergamo.

Intenzione del D. era di facilitare la conversione dei peccatori, la pacificazione interna della città, divisa in guelfi e ghibellini sostenitori della politica di Ludovico il Bavaro (fra le prescrizioni per il viaggio era anche quella che i nemici personali dovessero camminare uno al fianco dell'altro) e di riconciliare al Papato la cittadinanza: Bergamo, infatti, era stata colpita dall'interdetto decretato da Giovanni XXII, probabilmente prima del 1323, per la sua adesione alla politica di Matteo Visconti, signore di Milano e alleato del Bavaro, per aver accolto delegazioni dell'antipapa Niccolò V e perché si riteneva, alla corte di Avignone, che l'intera provincia fosse popolata dai seguaci del movimento di fra' Dolcino. Il D. pensava, erroneamente, di poter ottenere, con il grande pellegrinaggio penitenziale, il perdono papale dal suo vicario in Roma: in realtà solo il pontefice personalmente poteva revocare l'interdetto.

Il pellegrinaggio, annunciato pubblicamente dal b. il 10 gennaio, ebbe inizio fra il 1° e il 5 febbr. 1335; i pellegrini, fra cui anche Iacopo, fratello del D., toccarono successivamente Cremona, Ferrara, Bologna, Firenze., Siena e giunsero a Roma il 21 marzo. burante il canunino non poche erano state le dffficoltà: a volte il gruppo, che fu detto anche dei "Militi della Colomba" (una colomba con un ramo d'ulivo era cucita sul mantello dei pellegrini), venne scambiato con alcune omonime bande di masnadieri (composte da reduci e sbandati tedeschi che avevano depredato il monastero di Chiaravalle della Colomba); ma soprattutto l'atteggiamento penitenziale dei pellegrini, che si fiagellavano pubblicamente invitando alla conversione gli abitanti delle contrade che atttaversavano, al grido di "penitenza, pace e misericordia", non mancò di sollevare perplessità, specie nelle città. Addirittura corse voce che il movimento creatosi attorno al D. (alla originaria popolazione bergamasca si erano aggiunti numerosi altri pellegrini dell'Italia settentrionale e centrale, fra cui qualche famoso fuorilegge. della cui improvvisa conversione si poteva certo a buona ragione dubitare) non fosse che la rinascita di una qualche eresia. Tali voci giunsero anche alla corte di Avignone, tanto che Benedetto XII, temendo che il D. si prestasse alla politica considerata scismatica di Ludovico IV il Bavaro, scrisse al vescovo di Anagni, suo vicario in Roma, che controllasse le azioni dei D. e ne impedisse di pericolose.

A Roma, il D. predicò pubblicamente per dodici giorni e organizzò processioni penitenziali. Il fatto che i numerosi pellegrini (probabilmente qualche migliaio) non avessero il supporto di alcuna struttura organizzativa valida, atta a procurare loro una sistemazione in città, e che non avessero alcun punto di riferimento (se si eccettua la figura del D.) finì con il provocare uno stato di agitazione che sfociò nell'aperta ostilità dei Romani: ne seguirono disordini che non fecero che accrescere la reciproca incomprensione. Probabilmente in seguito a questa situazione (ma non se ne conosce il motivo preciso), il D. lasciò Roma, insieme con il fratello lacopo Domenico, per far ritorno a Bergamo.

Prima di rientrare in città, in un soggiorno di qualche settimana a Crema, il D. elaborò un progetto di crociata contro i Turchi che avrebbe potuto, nelle sue intenzioni, pacificare l'Italia e l'Europa in un'impresa che sembrava potersi realizzare in circostanze favorevoli (la recente sconfitta subita dai Turchi nella Propontide e un generale stato d'animo euforico diffusosi nel 1332, quando si era sparsa la notizia di una nuova crociata). Nel giugno 1335 si recò ad Avignone, insieme con fra' Nicola da Faenza (che gli resterà accanto fino alla morte), per chiedere al papa il permesso di predicare la crociata. Dopo un primo incontro con Benedetto XII, che diffidava delle apparenze (e della fama) di agitatore del frate italiano, il D. fu sottoposto ad un interrogatorio, nel quale gli furono poste trentanove domande scritte, alle quali dovette rispondere, sempre per iscritto. Dalle sue Responsiones traspariva la convinzione di essere ispirato da Dio, dal quale si sentiva scelto come strumento per la riforma dei costumi e per la liberazione della Terrasanta dagli infedeli. Non risulta che all'interrogatorio seguisse un dibattito con l'interessato. Ne seguì, invece, la sospensione dalle facoltà di predicare e di confessare e la proibizione di tornare in Italia.

Diversa interpretazione viene data dagli studiosi a questa decisione della corte pontificia, che ebbe fra i suoi ispiratori il cardinale Bertrand du Poujet e Bertrand Tissandier. gia vescovo a Bologna, da cui entrambi erano fuggiti l'anno precedente. Certamente, però, il D. era venuto a trovarsi coinvolto nei contrasti che opponevano il cisterciense Benedetto XII agli Ordini mendicanti, specie a quello dei predicatori. Pochi anni erano trascorsi da quando il Papato si era trovato in gravi difficoltà con il movimento dei fraticelli e il successore di Giovanni XXII non voleva, probabilmente, correre il rischio che anche all'interno dell'Ordine dei domenicani, già restio ad accettare le sue proposte di riforma, si formasse una corrente, dal Papato avignonese giudicata pericolosa, di carattere ascetico e populista e, tendenzialmente, anarchico. I difensori del D. sostengono, invece, che la condanna si dovette soprattutto a manovre politiche interne alla corte: il Clementi considera Benedetto XII e il D., entrambi, "vittime [dei raggiri] dei curiali", mentre il De Peregrinis afferma che la condanna avvenne "Diaboli persuasione". D'altra parte anche Clemente VI, che pure lo riabilitò nel 1343, parve diffidare del temperamento passionale del D.; nulla di preciso si sa, invece, dell'atteggiamento dei superiori domenicani nei suoi confronti.

L'esilio cui fu costretto in terra di Francia (non si sa per quale motivo il D. non si allontanò mai dalla Provenza, considerato che la condanna papale gli impediva solo il rientro in Italia) si protrasse per otto anni e vide il frate dimorare prima a Mervejols e poi a Tarascona, Pradelles, Le Puy, Alais e, infine, Aubenas. A questi anni risale la produzione scritta del D. (in una lettera affermava che se il papa "ligavit rnihi os, non ligavit mihi manus"), oggi in parte perduta, ma ancora sufficiente ad illuminare alcuni importanti aspetti della sua personalità, e soprattutto, a chiarire i suoi rapporti con il misticismo tedesco. In questo periodo, infatti, egli entrò in contatto con alcuni famosi mistici domenicani tedeschi, come Giovanni Tauler e Giovanni di Dambach. Agli anni del soggiorno Oltralpe risalgono anche i legami di amicizia che strinsero il D. a Umberto II La Tour, signore del Delfinato.

Nonostante le restrizioni cui era sottoposto, il D. godeva certamente di un'ampia libertà di azione: in varie occasioni si era allontanato dal suo luogo di soggiorno ed aveva intessuto rapporti con persone che lo venivano a trovare. Sull'animo insicuro e volubile di Umberto, alla cui corte di Vienne si era più volte recato, il D. esercitò un notevole influsso: fu certamente suo consigliere nelle trattative per la cessione del Delfinato alla Corona di Francia, vista dal frate come una possibilità di liberazione, per l'amico, dal fardello delle ricchezze terrene, e considerata da Umberto il mezzo per disfarsi di un territorio che, tutto sommato, non riusciva ad amministrare e che gli procurava solo debiti e preoccupazioni; in cambio avrebbe avuto una consistente pensione. Le trattative si svolsero con l'intermediazione del Papato e proprio ad Avignone, nel 1343, venne stipulato un accordo, ai cui preliminari il D. non era stato estraneo. La cessione definitiva della regione al Regno di Francia si avrà nel 1349.

La morte di Benedetto XII, l'elezione di Clemente VI (7 maggio 1342) e i cambiamenti avvenuti nella corte pontificia significarono per il D. una svolta importante. Il nuovo pontefice, Pierre Roger, zio di quel Gerardo di Daumar che il 18 maggio fu eletto maestro generale dell'Ordine dei frati predicatori, aveva infatti un atteggiamento benevolo nei riguardi dei domenicani e, a differenza del suo predecessore, credeva nella possibilità di áuccesso di una crociata contro i Turchi. Inoltre nella Curia pontificia il cardinale du Poujet aveva perduto molta della sua influenza (tanto che contro la sua volontà era stata stipulata una pace tra il Papato e la ribelle città di Bologna), mentre sin dal 1340 Bertrand Tissandier era stato spostato nella diocesi di Nevers. Infine, il movimento sorto intorno al D. nel 1335, durante il pellegrinaggio a Roma, si era spento da tempo e non aveva., dato origine, come invece il Papato temeva. ad alcuna eresia.

In questa nuova situazione eforse anche in seguito all'interessamento di Umberto II, il caso del D. venne riesaminato. Nel febbraio 1343 egli fu riabilitato in pubblico concistoro e gli furono concesse di nuovo le facoltà di predicare e di confessare, anche se non gli fu dato il permesso di tornare in Italia. Il D. tenne la sua prima omelia, dopo otto anni di silenzio, il 13 marzo 1343 (prima domenica di quaresima) nella stessa Avignone, nel convento domenicano. Soltanto l'anno successivo (il 4 genn. 1344) Clemente VI - il quale ai fini della guerra contro i Turchi aveva stretto la santa unione con Venezia, Cipro e l'Ordine gerosolimitano - concesse al D. di tornare in Italia; anzi, lo incaricò della predicazione della crociata nell'archidiocesi di Milano.

Alla fine dell'aprile 1345 il D. tornò ad Avignone, dopo aver ottenuto successi nella predicazione in Italia. Alcune vittorie delle forze cristiane in scaramucce contro i Turchi nell'Egeo vennero, intanto, salutate come le prime vittorie crociate, ma le rivalità fra gli alleati annullarono ben presto ogni vantaggio. Si impose la scelta di un "capitano generale" che, forse per intervento dello stesso D., Clemente VI individuò nella persona di Umberto il Delfino, cui venne affidato l'incarico di condurre e di coordinare le operazioni. Il 26 maggio Umberto ricevette le insegne dei crociati e giurò la propria fedeltà alla causa, impegnandosi solennemente a partire prima della fine di luglio: il D. era presente alla cerimonia.

Nonostante lo zelo del signore del Delfinato, però, il suo carattere indeciso finì con il nuocere alle operazioni militari. La partenza avvenne da Marsiglia con più di un mese di ritardo (il 2 sett. 1345), che il capitano generale non si sforzò poi di recuperare. Sbarcò infatti a Porto Pisano e, mentre la flotta veleggiava verso Same, nell'isola di Cefalonia, Umberto e la sua corte (lo seguivano, oltre alla moglie e alle sue accompagnatrici, molti dignitari) proseguirono per via di terra, attraverso Firenze e Bologna, fino a Venezia, dove giunsero solo il 10 novembre. Il primitivo programma di un imbarco a Brindisi, che avrebbe dovuto avvenire dopo aver raccolto le truppe fornite dal Regno di Napoli, era stato mutato da Umberto, che giudicava pericolosa la situazione creatasi in seguito all'assassinio, ad Aversa, di Andrea di Ungheria, marito di Giovanna regina di Napoli; erano anzi venuti meno gli aiuti promessi daì Napoletani, che temevano un intervento dai parenti dell'ucciso. Per il D. si trattava invece di un inutile prolungamento dell'impresa. Umberto scrisse addirittura al papa sulla convenienza di interrompere la crociata, ma Clemente VI rispose ricordandogli il giuramento prestato solennemente all'atto della nomina a capitano generale. Umberto proseguì dunque, sempre accompagnato dal D., per via di mare fino a Same, dove si incontrò con la flotta che aveva lasciato a Porto Pisano, e fu all'isola Eubea per il Natale 1345. Li sostò fino all'aprile successivo, in attesa dei rinforzì che sarebbero dovuti arrivare.

Il D., che aveva sempre accompagnato il Delfino cercando invano di dissuaderlo dagli indugi, si risolse a raggiungere, anche senza l'esercito, la città di Smirne, assediata per terra dai Turchi di Omar Pascià, ma libera dal mare. Vi approdò, insieme con l'arcivescovo ed alcuni compagni, il 1° marzo 1346; il gruppetto fu accolto con entusiasmo dagli assediati, poiché si credeva che fosse un segno dell'imminente arrivo della flotta, ferma invece ancora all'Eubea. L'entusiasmo cedette ben presto di fronte ai fatti, e il D. si dedicò alla predicazione e all'assistenza dei feriti.

Cadde però malato il 15 dello stesso mese e, pochi giorni più tardi, sfinito dalle fatiche e dalle penitenze, morì, non ancora quarantaduenne, a Smime il 28 marzo 1346.

Del suo sepolcro s'è persa ogni traccia: Smirne fu devastata dai Tartari di Tamerlano nel 1399 e dai Turchi nel 1424. Nicola da Faenza, fedele compagno del D., ne riportò in Italia il cilicio e la disciplina. Fu certamente in contatto con il frate dei convento di Bologna autore della Legenda b. fr. Venturini Ordinis Praedicatorum, terminata nel giugno 1347, prima del capitolo generale dell'Ordine, che si tenne proprio in quell'anno a Bologna. Il testo segue i canoni classici di tutte le opere di agiografia ma, sebbene non si possa dare eccessivo credito a quanto vi è narrato sui successi e sui miracoli del D. (significativo è il fatto che i Bollandisti, Acta Sanctorum Martii, lo abbiano inserito solo fra i Praetermissi), la legenda resta in ogni caso fonte preziosa per la ricostruzione della sua biografia, grazie anche alle informazioni che all'autore diede fra' Nicola, e testimonianza attendibile del culto, che stava sviluppandosi, della figura del De Apibus.

Anche la devozione popolare venne però presto meno. Una rivalutazione del D. si deve alla storiografia protestante, che in lui vide un maestro del misticismo tedesco e un precursore della Riforma. I domenicani ne conservano il culto (commemorazione il 28 marzo) ma, nonostante l'opera del Clementi, il cui scopo dichiarato era quello di contribuire alla beatificazione del D., la sua figura non è mai assurta agli onori della Chiesa universale.

Un'immagine del D. è conservata nella miniatura iniziale di una copia della Legenda (manoscritto del sec. XIV, riportato dal Belotti, p. 232), ma è probabilmente opera di fantasia, come pure quella di un'immagine devozionale a stampa (riportata dal Clementi, p. 461) del sec. XVIII, opera di Charles Landry (significativo resta il fatto che quella stampa fu fatta per essere venduta, segno dell'esistenza di un certo culto). Perduto è, invece, il dipinto del refettorio di S. Marta, cui si è già fatto riferimento, mentre una tela, forse del Ceresa, situata nella sacrestia della chiesa dei domenicani di Bergamo, lo raffigura in atto di mistico raccoglimento. Forse la sua figura è rappresentata anche in un'altra tela, opera di Francesco Zucchi, conservata nella medesima chiesa.

Del D. restano oggi undici epistole e alcuni trattatelli spirituali, per lo più riferibili al periodo dell'esilio in Provenza.

L'epistolario doveva essere originariamente assai più nutrito, poiché si hanno notizie di lettere certamente scritte dal D., di cui si è però persa ogni traccia: secondo la Legenda "multas" erano le missive spedite dal D. e "permulti" i loro destinatari, diffusi in Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna.

Una loro parziale raccolta, autorizzata dallo stesso D., fu curata da un amico, Dietrico di Colmar (frate domenicano) e comprende una decina di lettere, per lo più indirizzate a corrispondenti tedeschi. Questa raccolta fu trascritta nel 1368 da Giannicola di Neuilly, in un codice ora perduto, ma che fu visto alla Biblioteca del Collegio di Navarra, a Parigi, dall'Echard, il quale lo trascrisse "diligentemente" (com'egli stesso afferma) per intero e ne pubblicò alcuni estratti negli Scriptores Ordinis Praedicatorum. Alla fine del secolo scorso, il Clementi scoprì e pubblicò la copia dell'Echard, che costituisce l'unica fonte per nove delle dieci lettere che contiene. Per una, infatti, indirizzata a certa suor Margherita, è stata recentemente trovata una seconda redazione, pubblicata dal Grion (L'epistolario). A questo primo gruppo si è aggiunta una undicesima lettera, conservata in più manoscritti ed edita dal Kaeppeli, indirizzata ad un canonico di S. Friedeswide di Oxford e databile tra il 1332 e il 1334, unica precedente l'esilio del De Apibus. Le altre epistole sono databili fra il 1335 e il 1340.

La struttura delle lettere (da qualcuno ritenuta simile a quella della corrispondenza di s. Caterina da Siena) è piuttosto costante e risponde ad una precisa maniera letteraria. Più libere e letterariamente riuscite sembrano quelle scritte in risposta a missive ricevute.

Iniziano, tutte, con un'attestazione di umiltà dello scrivente: "fr. Venturinus peccator", o ille pauperculus Venturinus", "ille homo tepidus, homo peccator ignotus, velut rana loquax, praesumptuosus et garrulus", ed altre simili. Proseguono con una viva deplorazione della decadenza dei costumi dei conventi, prima di sviluppare il tema specifico. Si chiudono con un versetto biblico, o con una frase particolare e, dopo la firma, il D. disegnava le insegne della passione, usanza, questa, non dei tutto estranea all'epoca e il cui scopo era essenzialmente edificatorio.

L'epistolario, anche se fornisce alcune indicazioni biografiche, ha soprattutto il valore di uno scritto di ascetica, mentre sono quasi del tutto assenti riferimenti ad avvenimenti politici. Il D. sembra esercitare una specie di "direzione spirituale". Scrive per indirizzare i suoi corrispondenti ad una austera ascesi e ad una radicale riforma di sé. P, assai preciso e abbondante nei consigli pratici (le preghiere, le penitenze, le mortificazioni), mentre sono quasi del tutto assenti le trattazioni dogmatiche. Il metodo da lui preferito è quello di convincere il destinatario che la coscienza di ciascuno conosce già quale strada seguire per il proprio perfezionamento; si tratta di fare una scelta decisa e radicale e dar seguito a ciò che ognuno, per opera di Dio, ha già dentro di sé.

Un'analisi letteraria degli scritti del D. può essere solo approssimativa, poiché, se si esclude l'epistola edita dal Kaeppeli, non si dispone di testi criticamente accertati.

Certo il tono delle lettere non è, in genere, affettuoso, anche quando scrive a cari amici, mentre si può pensare che la lingua latina non creasse difficoltà di espressione al D. maestro di grammatica. Stese per lo più di getto (egli stesso racconta che una volta dovette alzarsi nel cuore della notte, spinto dall'irrefrenabile desiderio apostolico di scrivere), le epistole contribuiscono assai bene ad illuminare le caratteristiche dell'entusiasmo e dell'ardore ascetico del De Apibus.

Tutti gli scritti di cui si ha traccia sono in latino, ma le predicazioni avvenivano normalmente in volgare: il D. conosceva anche il provenzale e, un poco, il tedesco.

Il cosiddetto "influsso" del D. sui mistici tedeschi è affermato da tutti gli studiosi, senza che però il problema sia stato esaminato a fondo. Certo il D. ebbe contatti, attraverso Egnolfo di Ehenheim, suo corrispondente, con Giovanni Tauler e con Dietrico di Colmar e, attraverso quest'ultimo, con Giovanni di Dambach, che incontrò anche personalmente ad Avignone, alla corte di Clemente VI.

Oltre alle epistole, il D. scrisse, secondo alcune fonti, molti trattatelli spirituali (De humilitate, De profectu spirituali, De religione, De Spiritu Sancto, De remendiis contra temptaciones spirituales, De psalterio decachordo psallam tibi) e alcuni Sermones. Sull'autenticità dell'attribuzione di molte di queste opere esistono pero dubbi. Dei Sermones e del trattato De religione, certamente opera del D., che ne parla in un'epistola, si sono perse le tracce; fra i trattatelli conservati, gli unici di certa attribuzione sono il De humilitate (il testo, però, è assai lacunoso e forse addirittura una rielaborazione dell'originale) e il De Spiritu Sancto.

Scritto durante l'esilio, è dedicato ad alcune monache (è incerto se italiane o francesi) per le quali il D., richiestone, volle mettere per iscritto, in un latino facilmente comprensibile, i temi trattati in alcune conversazioni che aveva tenuto con loro tempo addietro. Molto ricco di citazioni bibliche e di riferimenti simbolici, il De Spiritu Sáncto offre un elenco di consigli sull'atteggiamento che occorre per rendersi disponibili a ricevere lo spirito consolator e sull'esercizio dell'umiltà spirituale necessaria per mantenerne la presenza dentro di sé. Non si tratta, dunque, di un'opera di teologia, ma piuttosto di uno scritto di carattere spirituale con intenti soprattutto morali e pedagogici, contrassegno d'altronde comune a tutta. la produzione del De Apibus.

Tractatus et epistolae spirituales dei D. sono state edite da G. Clementi, in Ilbeato Venturino da Bergamo..., II) pp. 73-145;altre Epistulae da A. Grion, in L'epistolario..., pp. 619-30, e da T. Kaeppeli, Lett. ined., pp. 194-98. La Legenda beatifratri Venturini Ordinis Praedicatorum è stata edita da G. Clementi, in Il beato V. da Bergamo..., II, pp. 5-60, e da A. Grion, La legenda del b. V. da Bergamo ..., pp. 50-110.

Fonti e Bibl.: Bergamo, Biblioteca civica, ms. MMB 309: B. Vaerini, Gli scrittori di Bergamo, II, pp. 138-42; G. Villani, Cronica, VI,Firenze 1823, pp. 60-62; B. De Peregrinis, Opusdivinum de sacra ac fertili Bergomensi vinea, Brixiae 1553, cc. 27b-28; G. M. Piò, Delle vite degli uomi ns illustri dell'Ordine di S. Domenico, Bononiae 1620, coll. 347-57; D. Calvi, Scena letter. d. scritt. bergamaschi, Bergamo 1664, pp. 496-500; J. Quétif-J. Echard, Scriptores Ordinis Praedicatorum, I,Lutetiae Parisiorum 1719, pp. 620-23; M. Muzio, Sacra istoria di Bergamo, Milano 1719, pp. 221-25; A. Pasta, Le pitture notabili di Bergamo, Bergamo 1775, pp. 100 ss., 110; G. Ronchetti, Mem. istor. d. città e Chiesa di Bergamo, V,Bergamo 1806, pp. 65 s.; S. Muzzi, Annali della città di Bologna, III,Bologna 1841, pp. 152 s.; J. W. Preger, Gesch. der deutschen Mystik im Mittelalter, II,Leipzig 1881, pp. 296 ss.; G. Clementi, Il b. Venturino da Bergamo dell'Ordine de' Predicatori ... Storia e docc., MI, Roma 1904; A. Mazzi, Il b. Venturino da Bergamo, Bergamo 1905; E. Hocedez, La Légende latine du b. Venturino de Bergame, in Analecta bollandiana, XXV (1906), pp. 298-303; XXVIII (1909), pp. 337 s.; D. A. Mortier, Histoire des ma itres généraux de l'Ordre des frères Précheurs, III,Paris 1907, pp. 102-13, 180, 204-16; G. Clementi, Un santo Patriota. Il b. Venturino da Bergamo, Bergamo 1909; Id., Un Savonarola del secolo XIV: il b. Venturino da Bergamo. Roma s. d.; G. Locatelli, L'istruzione in Bergamo e la Misericordia Maggiore, Venturino, i De Apibus e le borse di studio della Misericordia, in Bergomum, IV (1910), p. 83; B. Altaner, Venturino von Bergamo O. Pr. ... Eine Biographie, Breslau 1911; A. G. Roncalli, La "Misericordia Maggiore" di Bergamo e le altre istituzioni di beneficenza amministrate dalla Congregazione di carità, Bergamo 1912, pp. 62 s.; O. Günther, Die Handschriften der Kirchenbibliothek von St. Marien in Danzig, Danzig, 1921, p. 412; A. Foresti, La gita del Petrarca a Bergamo il 13 ott. 1359, in Bergomum, XVII (1923), pp. 61 s.; A. Sorbelli, LaLegenda del b. Venturino da Bergamo, Bologna 1925; G. Poletti, leggenda sfatata, in Bergomum, XX (1926), pp. 43-48; W. Ochi, Deutscher Mystikerbriefe des Mittelalters (1100-1550), München 1931, pp. 278-296; L. Angelini, Ilchiostro di S. Marta in Bergamo, Bergamo 1936, pp. 16 s.; Id., Le origini del monastero e della chiesa di S. Marta, in L'Eco di Bergamo, 8 giugno 1936; L. Dentella, I vescovi di Bergamo, Bergamo 1939, pp. 247 s., 251; A. Zucchi, Roma domenicana, IV,Firenze 1943, pp. 305-12; T. Kaeppeli, Lettera ined. di Venturino da Bergamo a un canonico di S. Friedeswide, Oxford (1332-1334), in Archivum fratrum praedicatorum, XXIV (1954), pp. 189-98; A. Grion, La legenda del b. Venturino da Bergamo secondo il testo inedito del codice di Cividale, in Bergomum, L (1956), pp. 11-110; Id., L'epistol. del b. Venturino da Bergamo (1304-1346), in Miscellanea Adriano Bernareggi, Bergamo 1958, pp. 595-630 (Monum. Bergomensia, I); B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, II, Bergamo 1959, pp. 230 ss., 259, 293, 376, 388; E. Suardo, Ilconvento di S. Stefano in Bergamo, in Bergomum, LIII (1959), pp. 134 s.; C. Gennaro, Venturino da Bergamo e la peregrinatio romana del 1335, in Miscell. Morghen, Roma 1974, 1, pp. 375-406; Acta sanctorum Martii, III, p. 710; Lexikon für Theologie und Kirche, X, col. 668 (s. v. Venturino von Bergamo); Enc. Ital., XXXV, p. 138 (s. v. Venturino da Bergamo); Enc. cattol., XII, coll. 1242 s. (s. v. Venturino da Bergamo); Bibliotheca sanctorum, XII, coll. 1013-16 (s. v, Venturino da Bergamo).

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