De Coelo

Enciclopedia Dantesca (1970)

De Coelo

Enrico Berti

. Opera di Aristotele, in quattro libri, collocata dagli editori, fedeli interpreti in ciò del pensiero dell'autore, al secondo posto nella serie degli scritti fisici, tra la Physica e il De Generatione et corruptione.

Nel Medioevo il De C. veniva incluso tra i cosiddetti Libri naturales e chiamato De Caelo et mundo, titolo derivante dalle versioni arabe, in cui esso era probabilmente confuso con l'apocrifo De Mundo. La prima traduzione latina fu fatta appunto su una versione araba a opera di Gherardo da Cremona, a Toledo, nella seconda metà del sec. XII, e fu detta in seguito translatio vetus. Pure dall'arabo deriva la seconda versione, compiuta da Michele Scoto nella prima metà del sec. XIII sul testo incorporato nel Commento Grande di Averroè. La prima versione dal greco in latino fu fatta, ugualmente nella prima metà del sec. XIII, da Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, e fu detta perciò translatio Lincolnensis. Essa è limitata ai primi due libri e all'inizio del III (sino a 299a 11) ed è conservata in un manoscritto contenente la traduzione del commento di Simplicio e in margine a una trascrizione della cosiddetta translatio nova. Questa è l'ultima versione latina medievale ed è stata condotta anch'essa sul testo greco a opera di Guglielmo di Moerbeke intorno al 1260, forse come revisione della translatio Lincolnensis, per la parte in questa contenuta. È questa la traduzione del De C. più diffusa alla fine del sec. XIII e nel XIV. Guglielmo di Moerbeke tradusse anche il commento di Simplicio. L'opera fu commentata, tra gli altri, da Alfredo Anglico, Adamo di Bocfield, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, il cui commento fu però portato a termine da Pietro d'Alvernia. Essa fu coinvolta nelle varie condanne dei Libri naturales di Aristotele pronunciate nel corso del sec. XIII, a causa della dottrina dell'eternità del mondo. Tuttavia nel 1255 ne fu resa obbligatoria la lettura nella facoltà delle Arti di Parigi. Essa divenne un punto di riferimento obbligato per tutta l'astronomia medievale, come esposizione complessiva della posizione assunta al riguardo da Aristotele.

D. cita il De C. undici volte, quasi sempre col titolo De Coelo et mundo. È fuori dubbio, per il modo di alcune citazioni, che egli aveva una conoscenza diretta dell'opera, anche se talora citava a memoria. La versione da lui usata fu sicuramente quella di Guglielmo di Moerbeke, come appare in Ep XIII 75 tanto habet honorabiliorem materiam istis inferioribus, quanto magis elongatum est ab hiis quae hic, che riprende pressoché alla lettera Coel. I 2, 269 b 15-17, t. c. 16 (" tanto honorabiliorem habens naturam, quanto quidem plus elongatum est ab his quae hic "); Quaestio 75 vel a multa stultitia vel a multa praesumptione procedunt, che parafrasa Coel. II 5, 287 b 30-31, t. c. 34 (" signum aut multae stultitiae aut multae promptitudinis "); Cv II III 6, che nel descrivere l'eclissi di Marte a opera della Luna traduce alla lettera Coel. II 12, 292 a 3-6, t.c. 60; e infine da Cv III V 4, che nell'esporre l'astronomia dei pitagorici, riferita da Aristotele, riporta il termine greco Anticthona, conservato in questa forma nella traduzione moerbekana di Coel. II 13, 293 a 24, t. c. 72.

Quest'ultima citazione fa parte di un'ampia esposizione della dottrina dei pitagorici (Cv III V 4-5) e del Timeo platonico (§ 6) circa la posizione e il moto della Terra, interamente desunta dal De C. (II 13, 293 a 20-b 1, t. c. 72-73; 293 b 30-32, t. c. 75), cui segue la presentazione della dottrina aristotelica e un accenno agli argomenti in favore di essa (III V 7) contenuti nella stessa opera (II 14, 296 a 24 - 297 a 8, t. c. 96-103), che sembrano escludere qualsiasi mediazione di commentatori (a meno che non si ritenga derivata da Alberto Magno [Coel. II 4 7] l'affermazione che la Terra nel muoversi è tarda, la quale però in Alberto è motivata diversamente che in Dante). Dalla combinazione di diversi passi del De C. sembra direttamente desunta la citazione di Cv III IX 1 1 avvegna che la stella... non riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, e cioè Coel. II 7, 289 a 13-16, t. c. 41 (gli astri sono formati dall'etere, che si muove circolarmente), e I 3, 270 a 12-14, t. c. 20 (l'etere non subisce generazione e corruzione, né aumento e diminuzione). Da un'interpretazione diretta dell'opera aristotelica sembra ugualmente derivare la citazione di Quaestio 25 Hoc enim intendo per grave et leve, quod sit mobile, che si richiama a Coel. I 3, 269 b 23-24, t. c. 17 (grave è ciò che si muove verso il centro, leve ciò che se ne allontana). Lo stesso dicasi per Quaestio 28 cum Deus et natura semper faciat et velit quod melius est, che cita Coel. I (forse 4, 271 a 33, t. c. 32 " Deus autem et natura nihil frustra faciunt "), ma sembra derivare piuttosto da II 5, 288 a 2-3, t. c. 34 " natura semper facit... quod optimum ".

Direttamente dal De C. sembrano derivare Quaestio 9 Nobiliori corpori debetur nobilior locus (cfr. anche § 81 e Cv III V 7), che parafrasa Coel. II 13, 293 a 30, t. c. 73; Quaestio 13 (sfericità della superficie dell'acqua), che sembra aver presente Coel. II 4, 287 b 4-14, t.c. 31; e infine Quaestio 37 (la gravità è tendenza verso il centro del mondo), che presuppone Coel. II 14, 296 b 9-18, t. c. 99-100.

Qualche mediazione è invece manifesta in Cv II III 3-4, dove si afferma che Aristotele ammetteva solo otto cieli, ritenendo che quello delle Stelle fisse fosse l'ultimo, e che il cielo del Sole fosse immediatamente contiguo a quello della Luna, e cioè fosse il secondo a partire da noi. Infatti nessuna di queste due tesi ha un riscontro preciso nel De C. (benché la prima sia sottintesa in II 12, 292 a 10-11, t. c. 61, o 292 b 31-32, t. c. 69, e la seconda in 292 b 35-293 a 3, t. c. 60), ma entrambe sono chiaramente attribuite ad Aristotele dai principali commentatori, cioè Averroè In De coel. II, s. 3, c. 2, qq. 5-6, Alberto Magno Coel. II 3 11, e Tommaso In De coel. 451 e 456.

Probabilmente la fonte di D. fu Alberto, come appare dal seguito del passo (Cv II III 5), dove si dice che le due tesi di Aristotele furono corrette da Tolomeo mediante l'aggiunta del Primo Mobile come nono cielo e la collocazione del Sole al quarto posto, sopra Mercurio e Venere. Benché infatti l'attribuzione della scoperta del Primo Mobile a Tolomeo, la cui opera probabilmente D. non conosceva direttamente, si trovasse già in Averroè e costituisse al tempo di D. un luogo comune, gli argomenti che D. attribuisce a Tolomeo sono in realtà, come ha dimostrato B. Nardi, di Alpetragio, e come opera di questo sono riportati da Alberto nel capitolo citato, come pure sono riportati da Alberto gli argomenti con cui Tolomeo avrebbe dimostrato che il Sole sta al quarto posto. Ugualmente da Alberto sembra mediata la citazione di Cv II III 6, in cui si descrive l'eclissi di Marte a opera della Luna con le stesse parole di Aristotele e con l'unica aggiunta che Marte riapparve verso occidente, osservazione che non è in Aristotele, ma si trova in Alberto (Coel. II 3 13). Attraverso Alberto è forse passata l'affermazione di Cv III V 7, ma con la riserva esposta sopra.

Altrove invece si ha l'impressione che il mediatore fra D. e Aristotele sia Tommaso d'Aquino, come ad es. in Cv II III 10 Questo loco è di spiriti beati... e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo 'ntende, nel primo De Coelo et Mundo, e in II IV 3 avvegna che nel primo di Cielo [Aristotele] incidentelmente paia sentire altrimenti che nella Metafisica, e cioè ammettere più sostanze separate di quanti siano i cieli; affermazioni che suppongono rispettivamente Coel. I 3, 270 b 1-10, t. c. 22, e I 9, 279 a 20-22, t. c. 100 (o entrambi il secondo), ma interpretati da s. Tommaso, il quale nel commento In De coelo 213 spiega, contro Alessandro, che le realtà " ibi ", cioè " extra coelum ", di cui parla Aristotele, sono Dio e le sostanze separate. Ugualmente da s. Tommaso potrebbe essere mediata la citazione di Cv IV IX 2 lo mondo... è a certo termine, sì come per lo terzo de la Fisica e per lo primo De Coelo et Mundo, che rinvia a Coel. I 5-7, dato che nell'Aquinate, In Phys. III VII, e In De coelo 126, si trova lo stesso accostamento tra le due opere. Dallo stesso Tommaso sembra infine derivare la correzione che in Quaestio 75 D. apporta al testo aristotelico (multa praesumptione anziché " multa promptitudine "), poiché nel commento In De coelo 364 è appunto detto: " multae promptitudinis, idest magnae praesumptionis ".

Benché D., nel trattare dei cieli, dell'Empireo e degli angeli, si riferisca ben cinque volte al De C., l'opera aristotelica non è, a questo riguardo, la fonte principale del suo pensiero, che si alimenta invece di teorie più recenti. Essa tuttavia rimane per lui un termine di confronto obbligato. Decisiva è invece l'influenza del De C. per le importanti dottrine dell'immobilità della Terra al centro del cosmo e della finitezza del mondo, dottrina, quest'ultima, connessa col problema dell'autorità imperiale.

Bibl. - P. Duhem, Le système du monde, III-IV, Parigi 1958; G. Lacombe, Aristoteles Latinus, Codices, I, Roma 1939, 53-54; II, Cambridge 1955, 787-788; D.J. Allan, Mediaeval Versions of Aristotle's " De c. " and of the Commentary of Simplicius, in " Mediaeval and Renaissance Studies " II (1950) 82-120; O. Longo, Sulla tradizione del " De c. " di Aristotele, in " Accad. Naz. dei Lincei, Rend. della cl. di sc. mor., stor. e filol. " s. 8, XIV (1959) 67 93; E. Moore, Studies in D., 4 voll., Oxford 1896-1917; C. Busnelli.

La cosmogonia dantesca e le sue fonti, in Scritti vari pubblicati in occasione del VI centenario della morte di D.A., Milano 1921; F. Groppi, D. traduttore, Roma 19622, 48-89; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, 3-39, 139-214.

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