DEL CHIARO, Anton Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DEL CHIARO, Anton Maria (Antonmaria)

Gino Benzoni

Assai scarsa di dati la biografia del D., solo lacunosamente e, anche, ipoteticamente ricostruibile per lo più, comunque, utilizzando i cenni a proprio riguardo da lui stesso forniti e spremendo ulteriori scarsissimi indizi. Nato a Firenze ("fiorentino" ama qualificarsi) dal "quondam signor Simeon" (così precisa, sottoscrivendo, il 19 nov. 1718, un atto a Venezia), supponibilmente dopo il 1660 e prima del 1680, il D. deve aver avuto una certa istruzione che lo sospinge a entrare, in qualche modo, in rapporto con intellettuali ed eruditi, che l'incoraggia a mettersi in contatto coi dotti. Il fatto poi, che l'esemplare marciano (segnatura: Misc. 2363.4) d'un anonimo Breve compendio della vita del ... santo Stefano protomartire..., uscito, non datato, a Venezia, pei tipi dello stampatore e libraio Domenico Lovisa, rechi la perentoria avvertenza di mano di "A. Z." da sciogliere in Apostolo Zeno, "dono e componimento del signore Antonmaria Del Chiaro fiorentino", autorizza ad assegnare senz'ombra di dubbio la paternità dell'opuscolo al D., che, appunto, come autore, viene registrato dal Cicogna.

Si tratta d'uno scrittarello - eccezion fatta per qualche sprazzo di popolaresca vivacità riscontrabile, ad esempio, nel bozzetto degli ebrei che "sbuffavano" contro il santo e "giornalmente ruminavano" come liberarsi di lui, "pruno" alquanto "fastidioso" - opaco, persino banale. Esso resta, ad ogni modo, prima traccia dell'attività del D. e induce, altresì, a ritenerlo composto a Venezia, essendo più che probabile sia stato Apostolo Zeno - impegnato, nel primissimo Settecento, nella stesura d'un breve catalogo dei manoscritti della biblioteca benedettina di S. Giorgio Maggiore e, come tale, non ignaro della Translatio s. Stephani protomartiris di Fortunato Olmo ivi figurante (G. Ravegnani, Le biblioteche ... di San Giorgio ..., Firenze 1976, p. 47 n. 134) - a ragguagliare il D. sull'arrivo del "sacro corpo" da Costantinopoli, sulla sua collocazione nell'isola di San Giorgio e la definitiva sistemazione, del 1581, nella basilica palladiana di questa, mentre - come scrive il D. - altre "reliquie" del martire appartengono al "tesoro ducale" (R. Gallo, Iltesoro di S. Marco...., Venezia-Roma 1967, pp. 108 s.). La dedica, inoltre, senza data, del Compendio... ai "confratelli" della Confraternita muranese del "Sollevo" - di cui, appunto, s. Stefano è "divin protettore" - da parte del "secondo consiglier di detto Sollevo" Lorenzo Barovier (1678 - m. dopo il 1712) fa arguire che questi - appartenente al ramo "della Campana" (l'insegna della fornace di Giovanni Barovier morto ancora nel 1595) della già gloriosa famiglia di vetrai - l'abbia commissionato al Del Chiaro. Situabile, allora, la stampa, nel primo Settecento, forse attorno al 1709, anno "verso la fine del quale" - così lo stesso D. - l'autore si congeda dai "molti eruditi soggetti" da lui frequentati per partire, con tutta probabilità da Venezia, alla volta della Valacchia, accompagnato dalle loro "premurose istanze... di raccogliere tutte le rimarchevoli notizie di quella provincia".

Portatosi a Sarajevo ove sosta, nel marzo del 1710, un paio di settimane e di lì raggiunta Belgrado, il D. arriva infine alla corte valacca per rimanervi oltre sei anni, un po' pedagogo e insegnante di italiano, un po' interprete e traduttore, un po' compilatore di lettere e suggeritore e consulente dietro le quinte. Tondeggiante d'aspetto, di corporatura grassoccia, dal volto rubizzo, è subito oggetto, da parte dei boiari, forse invidi della sua influenza, di grevi lazzi cui s'aggiunge il nomignolo di "tacchino". Magra soddisfazione per lui il divieto espresso di chiamarlo così. I boiari si rifanno mimando, ogni qualvolta il D. appare, il verso dell'animale quando fa la ruota. "Per lo spazio di quattro anni continui" segretario per la corrispondenza di Costantin Brâncoveanu e maestro di lingua italiana e latina dei suoi figli, il D. è spettatore privilegiato della ventata italianizzante da quello promossa - disegnati, stando anche alla sua testimonianza, all'italiana i giardini, arieggianti forme veneziane i palazzi, con ambizione di splendore rinascimentale i momenti più fastosi della vita cortigiana - fungendo, inoltre, nella sua fase finale, da consulente e mentore. Legato, altresì, ad una iniziativa editoriale d'un certo rilievo il nome del D., che, dalla sua traduzione in italiano, da lui dedicata al Brâncoveanu, della silloge, curata da Antoine Galland, Les paroles remarquables, les bons mots et les maximes des orientaux... (Paris 1694), l'amico Giovanni Avramios (nato, questi, a Venezia, da genitori provenienti da Creta e ivi allievo della scuola greca, dopo essere stato professore, nel 1699-1703, a Zante, era primo predicatore di corte) trae la sua raccolta Gnomikà palaion tinon philosophon (Tirgoviste 1713; seguirà, nel 1780, una ristampa a Venezia). E quest'ultima viene volta "nella valaca favella" da Antim Ivireanul - l'"arcivescovo di Valachia" cui il D., astenendosi dal giudicarne le "politiche procedure", riconosce, oltre al merito dell'erezione d'uno splendido monastero a Bucarest, il decisivo impulso dato alla "stamperia" e all'editoria sacra - il quale ne cura, non senza rimaneggiamenti ed arbitri, l'edizione (ibid., sempre 1713), appunto, romena col titolo di Pilde filosofescĭ.

Ma la vita culturale, cui il D. vorrebbe contribuire, non può dispiegarsi con agio laddove è angosciantemente precaria la stessa sopravvivenza politica d'una Valacchia autonoma. "Situata nel mezzo de' due imperi" - osserverà il D. con acume -, occorre che il principe la mantenga "in perfetto equilibrio". Un equilibrismo in ogni caso pericolosamente funambolico ché, non appena la "bilancia" pencola verso l'Impero e l'Occidente in genere, c'è, crudelissimo, l'intervento della Porta. Né un'oscillazione verso Costantinopoli è da quello tollerata, non esitando allora i "Tedeschi" a manomettere la "libertà" dello sventurato "principato". Sconcertante per il D. constatare da un lato la "suprema e dispotica autorità" principesca arbitrariamente disponente della vita e dei beni dei sudditi e dall'altro la fragilità d'un potere revocabilissimo a scorno della sua ostentata assolutezza. Infatti può ruzzolare "in un momento dal tutto al niente", bastando un subitaneo cenno da Costantinopoli ad intimare la "deposizione". La "tragedia" di Brâncoveanu, atrocemente decapitato Coi figli il 26 ag. 1714. sconvolge il D. che non può ricordare senza turbamento e commozione l'orribile fine dei "principi" coi quali ebbe "l'onore di conversare famigliarmente". Alla "terribil catastrofe" d'un uomo ammirato dal D. come "incomparabile" epperò indifeso di fronte alla barbarie vendicativa della "gelosia" turca, segue la rapida parabola di Stefan Cantacuzeno che, troppo di sé presumente, viene deposto e quindi, il 7 giugno 1716, strangolato assieme al padre. Gli subentra Nicola Maurocordato, attorniato da dignitari avidi e vessatori, per lo più di provenienza fanariota: "i Greci - commenta il D. -, spezialmente costantinopolitani, sono stati sempre fatali" a quella terra. Egli stesso ne sperimenta la durezza quando fa da "interprete" alla madre di Cantacuzeno che, spogliata di tutto e ridotta in miseria, implora un po' di "farina" da "un di quei ministri greci" installatosi nei suoi "villaggi". Stravolta l'amministrazione dai più sordidi taglieggiamenti, corrotto l'esercizio della giustizia che procede ferocemente arbitraria. Motivo di fierezza per il D. l'essere riuscito a liberare, vantando i favori di Maurocordato, il "maestro di casa" della sorella di Cantacuzeno nonché vedova del Rodolfo Dodescalo "strangolato" ad Adrianopoli. Indubbiamente il principe è migliore dei suoi "ministri" prepotenti e crudeli. È, secondo il D., uomo di cultura, "amatore de' virtuosi" specie "forestieri" e con loro affabilmente conversevole. Il D., da lui ben trattato, apprezza la sua sollecitudine per la puntuale corresponsione delle "assegnate provvisioni", riconosce allo "scudo" della sua "protezione" l'aver evitato l'altrimenti certo "strapazzo" da parte dei dignitari che, invece, lo hanno in antipatia. Ciò non toglie che più d'un "eccesso" sanguinario vada addebitato a Maurocordato, che a lui, in fin dei conti, risalga la responsabilità della "fine infelice" del metropolita Ivireanul, che per suo ordine sia stato rinchiuso in "tenebroso carcere" l'amico del D. Avramios, donde non sarebbe uscito vivo se egli - approfittando dell'intervento asburgico - non ne avesse ottenuta la liberazione da Dettin, un ufficiale bavarese comandante degli ussari dai quali Maurocordato "fu fatto prigioniero". Dopo che, il 25 nov. 1716, Bucarest viene occupata da 1.200 "rasciani" capitanati da Dettin, grava sulla città l'incubo della comparsa vendicativa dei Tartari. L'abbandonano, perciò, gli occupanti e il grosso della popolazione atterrita. Anche il D. la lascia e, con una cavalcata di due giorni, guadagna Tirgoviste. Di qui si porta a Sibiu, dove, dal 7 dicembre, risiede, in una sorta di custodia vigilata, lo stesso Maurocordato che il D. va a visitare "più volte", sempre accolto con "la solita sua bontà". Ma la situazione è troppo confusa perché il D. voglia prolungare il suo soggiorno in Valacchia. Parte, allora, nel 1717. forse all'inizio dell'anno, da Sibiu "alla volta di Vienna", donde raggiunge Venezia; e in questa, al più tardi entro l'aprile del 1718, ultima l'Istoria delle moderne rivoluzioni della Valachia con la descrizione del paese, natura, costumi, riti e religione degli abitanti.

Munito della "fede", rispettivamente del 1º e 2 maggio, del revisore Giovanni Maria Bertolli e dell'inquisitore Tommaso Maria Gennari, il D. chiede, il 18, il "privilegio" per lo stampatore Antonio Bortoli, che ottiene il 2 luglio, mentre a questo viene concessa il 18 la relativa "licenza" di stampa. L'opera cosi esce, avvalorata dalla dedica del 22 agosto ad Antonio Ferdinando Gonzaga duca di Guastalla e Sabbioneta e principe di Bozzolo, probabilmente entro la fine d'agosto o l'inizio di settembre, a spese dell'autore e annunciata dall'autorevole Giornale... zeniano che l'assicura lettura di fruttuoso "diletto" per ogni "curioso delle cose straniere". Veneziana, dunque, la stampa dell'Istoria, che verrà ripubblicata a Bucarest nel 1914 a cura di N. Jorga ed uscirà pure, nella versione romena di S. Cris-Cristian, a Jasi nel 1929, col titolo, appunto, di Revolutiile Valaliei. Un dato esterno, questo della sua comparsa a Venezia, che è, peraltro, congruo esito d'una venezianità interna alla sua vicenda compositiva: a Venezia si situano, infatti, gli stimoli alla stesura, i supporti eruditi ed informativi, gli stessi riferimenti valutativi. Non per niente il costume valacco di nozze concordate tra parenti senza che gli sposi si siano prima "mai veduti" è raffrontato con quello ancora in auge presso le più ragguardevoli famiglie del patriziato lagunare; e la disposizione dell'altare nelle chiese rimanda a quella riscontrabile nella basilica marciana e a S. Giorgio dei Greci. Esplicita, altresì, da parte del D. la menzione di quanti, a Venezia, l'hanno agevolato: Apostolo Zeno gli ha fornito "alcuni rari opusco i" risultati di "sommo giovamento"; Giacomo Pilarino, già protomedico a Bucarest nel 1684-87 e nel 1694-1908 (N. Vatamanu, Din ist. mediçinii românesti..., Bucuresti 1962, pp. 123 s.), traduttore in neogreco, per invito dell'allora logoteta Costantin Brâncoveanu, della Veridica raccolta de' giornali di Buda sino alla presa... (Venezia 1686), gli ha fatto circostanziata "relazione" dell'andata, nel 1703, di Brâncoveanu ad Adrianopoli e della "conferma" ivi da quello, malgrado le macchinazioni dei nemici, ricevuta; il gesuita Antonio Soffietti, predicatore e docente nonché fratello del vescovo di Chioggia, Giovanni, gli ha trasmesso "notizie degne d'ogni fede" sulla vicenda dello sfortunato Giovanni Crisoscoleo sospinto dall'avidità e dall'ambizione ad abbandonare la Compagnia di Gesù. A Venezia, infine, il D. ha consultato quegli autori - Giovanni Lucio, Antonio Bonfini, Aubert Miraeus, Enea Silvio Piccolomini, Michele Bocignoli (il raguseo da una cui lettera del 1524 al segretario di Carlo V il D. trae il brano relativo alla "nazione" valacca) - che mostra di preferire alla cronachistica esaminata in loco, a suo avviso, poco attendibile e di "fede sospetta".

Netta, nell'Istoria, la separazione in due parti. Introduttiva e a carattere etnografico la prima: delineato il quadro ambientale con le sue sembianze paesaggistiche, le suddivisioni amministrative, le produzioni tipiche, in questo viene schizzato - talvolta con vivacità di tratto e acume di sguardo - un profilo essenziale degli abitanti fissati nelle loro abitudini alimentari, nelle fogge delle vesti, nell'indole, nella diffidenza per la medicina specie per la "notomia" e nella preferenza accordata alle "virtù" curative dei semplici, nella tipologia abitativa, nella destrezza a cavallo, nell'uso dell'arco, nella potenziale ricettività all'apprendimento in fatto di "esercizi meccanici" e di "manifattura". Particolare l'attenzione serbata alle feste, alla liturgia, alla coreografia delle cerimonie di corte, agli edifici sacri e al loro corredo iconografico. Preciso il cenno dedicato alle comunità straniere: stenta la vita degli ebrei dediti a minuti commerci e alla vendita dell'acquavite; sassoni, in genere, gli orefici e i venditori di cordami e utensileria; abbienti e, talora, assai ricchi i mercanti greci e turchi che, forniti da Costantinopoli, monopolizzano la distribuzione di quanto il paese non sa o non può produrre. Storica la seconda parte: prese le mosse dal "modo" con cui la provincia diventa tributaria della Porta e dalla "politica" da questa adottata, trascorre sbrigativa sugli sbiaditi ritratti dei vari principi succedutisi sino a soffermarsi su quello, ben più inciso, di Serban Cantacuzeno, dalla statura gigantesca dalla voce tonante, accorto e crudele, fiero e determinato, per poi passare alle vicende dei tre principi successivi - i primi due giustiziati a Costantinopoli, il terzo prigioniero dei "tedeschi" - dal D. direttamente conosciute ("scrivo quel che ... ho veduto io medesimo", garantisce). Un excursus che si conclude col subentrare, per nomina del sultano all'imprigionato Nicola Maurocordato del fratello Giovanni, il quale, nel dicembre del 1717 (questo il termine estremo dell'Istoria), riesce ancora ad essere al potere, anche se ha arditamente contrastato i Tartari. Un finale della cui provvisorietà il D. è ben conscio, non essendo ancora chiaro il destino dell'"infelice provincia". Ci si chiede chi ne sarà il "padrone". Per il D., la cui opera esce immediatamente a ridosso della pace di Passarowitz del 21 luglio 1718, è auspicabile la vittoriosa spinta espansiva asburgica s'estenda su tutto il territorio. Ma non sarà certo l'irruzione dei "Tedeschi" ad alleviame il plurisecolare travaglio.

Unica sull'argomento e perciò, per quanto modesta, fonte preziosissima per la storia romena, l'opera del D. è come tale destinata a sistematiche letture e a costante utilizzo. A ciò concorre pure l'appendice finale sulla "valaca favella" decisamente accostata - e si tratta d'un'intuizione feconda negli studi di filologia romanza e linguistica comparata - all'italiano tanto nel lessico quanto, e più ancora, in fatto di verbi, nei "preteriti perfetti" e nell'uso dell'ausiliare avere. Duratura, pertanto, e ripercorribile la sua fortuna.

Si perdono, invece, le tracce dell'autore ché ad attestare la sua presenza dopo la stampa del 1718 resta solo una sua lettera, del 16 nov. 1726, da Portoferraio - dove, evidentemente, il D. s'è stabilito, non sappiamo se temporaneamente o definitivamente -, a Guido Grandi.

Vi scrive che, a causa delle piogge continue e della brevità della sua "dimora" a Firenze, ove, inoltre, lo suppone assorbito da "qualche particolare occupatione", non s'è recato a trovarlo. Gli raccomanda, perciò per iscritto, tal Lorenzo Griffi che, prossimo ad indossare il saio camaldolese, desidererebbe contare sulla sua "autorevole protezione". Vi aggiunge infine che, nel frattempo, Apostolo Zeno "sarà felicemente" giunto a Venezia, anche se - paventa - non potrà accettare "l'amorevole offerta d'alcuni nostri cavalieri primari fiorentini" di fare una scappata a Firenze ché "non vorrà sorpassare i limiti del tempo" prescrittigli dalla corte viennese. Poca cosa, in sé, questa lettera del D., ma, in mancanza d'altro, illuminante. Se ne deduce che professa una rispettosa ammirazione per Guido Grandi; che da Portoferraio è solito fare, quanto meno nella buona stagione, qualche puntata a Firenze; che si sente membro di quella "repubblica letteraria" (è un'espressione ch'egli stesso adopera nell'Istoria) collegante i dotti della penisola nella quale Apostolo Zeno spicca come astro luminoso, al punto che la possibilità - peraltro allora non verificatasi - d'una sua fugace riapparizione rappresenta un evento.

Ignoto è l'anno della morte del Del Chiaro.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Riformatoriallo Studio di Padova, 8: "memoriale" del D. del 18 maggio 1718; 294: "fede del revisore e dell'inquisitore del 1º e 2 maggio 1718; Ibid., Senato, Terra, filza 1528: "privilegio" del 2 luglio 1718; Giornale de' letterati d'Italia, XXX (1718), pp. 452-453; Documente privitoare la ist. Românilor, XIV, a cura di N. Jorga, 1-2, Bucureşti 1915-17, in nota rispettivamente alle pp. 542, 552 e 796, 927; La lotta... del popolo romeno per l'indipendenza... Docc., III, Roma 1979, pp. 207-208, 227-228, 237-238, 290-291; E. A. Cicogna, Saggio di bibl. ven., Venezia 1847, n. 552; P. Amat di S. Filippo, App. agli studi... sulla storia della geogr. in Italia, Roma 1884, p. 21; I. Bianu-N. Hodos, Biblografia românésca..., I, Bucuresci 1903, pp. 486-489; II, ibid. 1910, pp. 270, 326; L. Ferrari, L'epistolario... del padre G. Grandi, in Arch. stor. lomb., XXXIII (1906), 2, pp. 223 n., 228; notizia di U. Fortini sull'ed. del 1914 a C. Sorga dell'Istoria, in Arch. stor. it., LXXIII (1915), pp. 213 s.; E. Legrand, Bibl. hellénique... dixhuitième siècle, I, Paris 1919, pp. 106 s.; II, ibid. 1928, pp. 323-324; N. Jorga, Ist. Românilorprin călători, II, Bucureşti 1921, pp. 50-65; Id., Storiadei Romeni..., Milano 1928, p. 251; Id., L'Italia vista da un romeno, Milano 1930, p. 53; Id., Roumania..., München 1971, p. 175; V. Vasiliu, C. Brâncoveanue il cattolicismo..., in Ephemeris dacoromana, III (1925), pp. 117, 119, 120 n. 8, 122-123; M. Ruffini, L'influenza ital. in Valacchia nell'epoca di... Brâncoveanu..., Milano s. d., pp. 12-13, 23, 28, 42, 43, 44, 48, 56, 57, 64, 69, C. Isopescu, La stampa periodica romeno-italiana, Roma 1937, p. 11; Id., Saggi..., Roma 1943, pp. 28-29, 157; T. Oncialescu, G. Vegezzi Ruscella e i Romeni, in Ephemeris dacoromana, IX (1940), p. 359; R. Ortiz, Letteraturaromena, Roma 1941, p. 45; Id., ... cultura it. inRumania..., Roma 1943, pp. 139-151; D. B. Oikonomides, J. Avramos..., in Athina, LIV (1950), pp. 64 n. 5, 66, 67, 73; G. Natali, IlSettecento, I, Milano 1964, p. 521; Diz. enc. della lett. ital., II, Bari 1966, p. 241; M. Berza, Rel. culturelles entre les iles ioniennes et les pays roumains, in Pratika protu Panioniu Synedriou, Athine 1969, p. 5; C. Boroianu, Les sources... de D...., in Revue des études sud-est européennes, X (1972), pp. 323 s.; A. Camariano Cioran, Les académies... de Bucarest et... Jassy..., Thessaloniki 1974, pp. 6 n. 28, 686; O. Cicanei, Cârturari greci in tările române..., in Intelectualidin Balcani in România..., a cura di A. Dutu, Bucureşti 1984, p. 59 n. 412; Enc. Ital., XII., p. 516 (errata la data 1697 ivi proposta per la presenza a Bucarest del D.); G. Mazzatinti, Inventari dei mss. delle biblioteche d'Italia, XXIV, p. 13.

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