DELINQUENZA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)

DELINQUENZA (XII, p. 537; App. II, 1, p. 765)

Giovanni Busino
Franco Mencarelli

La specificazione e la caratterizzazione dipendono dalle definizioni che la legge dà della violazione della norma, dalla natura del conflitto, e dall'uso che di quelle definizioni viene fatto nel concreto agire degli organi punitivi. La d. non è la violazione d'una moralità astratta, né la trasgressione d'una norma sociale in vigore in una società storicamente determinata, ma piuttosto è la mancata obbedienza a un ordine legale o a una norma giuridica. Nel caso d'una trasgressione della norma sociale si usa parlare di devianza, e definire il trasgressore deviante, mentre nel caso di violazione della norma giuridica si parla di d. e di delinquente. Perché l'individuo entra in conflitto con la società e con le sue norme legislative) Le ricerche sulle cause della d. e la struttura mentale del delinquente hanno subito varie peripezie nella storia dell'analisi sociale. Si è ritenuto innanzitutto che la d. trovasse la sua causa e la sua ragione nella struttura biologica carente del delinquente. Poi si misero in luce le determinazioni sociali ed economiche sull'agire delinquenziale. E. Ferri e la sua "Scuola positiva" accertarono i fattori sociali che condizionano l'atto criminale nonché le interazioni esistenti fra quelli e i fattori biofisiologici. Il crimine, l'atto del delinquente diventa allora la risultante di condizionamenti individuali e sociali concomitanti. La sociologia della d. è stata fortemente influenzata da tale impostazione: una schiera foltissima di ricercatori ha, senza interruzioni, studiato empiricamente tutte le correlazioni possibili tra l'atto delinquenziale e numerose altre variabili. Le conclusioni di queste ricerche sfociano nella tesi che il fenomeno delinquenziale è constatabile in tutte le società, e che le variazioni nei tassi medi dipendono essenzialmente dal funzionamento delle società stesse. Quando le norme sociali si affievoliscono, i poteri costrittivi e repressivi s'indeboliscono e, per conseguenza, le possibilità d'impunità diventano maggiori, allora si ha un aumento della devianza e della delinquenza.

Partendo da queste conclusioni, uno studioso americano, E. Sutherland, in un libro fondamentale del 1930, intitolato Principles of criminology, tenta d'operare una sorta di rivoluzione negli studi sociologici del fatto delinquenziale. Criticati severamente i metodi statistici fino allora impiegati, il Sutherland mostra l'assoluta inutilità di queste tecniche per spiegare i fenomeni, che pure sanno mettere in evidenza. La statistica mostra che i ragazzi delinquenti hanno sovente padri dediti alle bevande alcoliche, ma non spiega punto la natura di questa correlazione. L'ubriachezza del padre indebolisce nel ragazzo le norme morali, impedisce al padre di provvedere all'educazione del figlio, ovvero turba nel ragazzo l'interiorizzazione dell'immagine paterna? L'ubriachezza è un fenomeno che appare più sovente negli ambienti poveri. Se è così, l'ubriachezza è semplicemente una variabile intermedia, mentre la povertà sarebbe la sola variabile esplicativa? Sutherland propone allora di studiare la d. come un processo socio-culturale intrinseco a tutte le società. Allorché le norme d'un gruppo non soddisfano i bisogni e gl'interessi d'un individuo, costui ne ricerca altre in altri gruppi. In uno di questi "altri i gruppi può realizzare, infatti, i suoi bisogni e interessi. Il comportamento criminale è, dunque, un processo analogo al comportamento normale: nell'un caso e nell'altro lo scopo è l'integrazione d'un individuo. È caratterizzato come delinquenziale perché i membri del gruppo dominante stabiliscono che solo le norme del loro proprio gruppo hanno vigore e puniscono con sanzioni quelli che seguono altre norme, applicano altri valori. La tesi di Sutherland distrugge la distinzione tra devianza e d., e implicitamente definisce comportamento delinquenziale anche comportamenti che tali non sono definiti dalle leggi e dai codici. Essa attira l'attenzione sul crimine come fatto socio-culturale da spiegarsi in funzione dei sistemi socio-culturali, ma allarga considerevolmente il raggio delle azioni delinquenziali e fa astrazione dalle motivazioni dell'atto. Su queste hanno attirato invece l'attenzione gli studiosi influenzati dalla psicologia del profondo, che dal canto loro hanno messo in evidenza i rapporti dinamici fra la frustrazione e la paura della punizione, fra le condotte criminali e certe carenze nella formazione della personalità affettiva dell'individuo. Tuttavia spiegazioni siffatte riducono la d. a fattore individuale e sottovalutano i determinanti sociologici.

Gli studiosi attuali tentano di stabilire la giunzione fra la sociologia e la psicologia, ma i risultati non sembrano concludenti. Comunque, tutti partono dal presupposto che la società è composta di gruppi, e che ogni gruppo è dotato d'una propria cultura, cioè d'un insieme di credenze, ethos, norme, ecc. Fra questi gruppi esiste comunanza di certi valori, ammessi in maniera permanente. Questi valori, generalmente accettati, determinano quando e come avviene la violazione e la trasgressione, qualificano le condotte definite criminali. A mano a mano che i gruppi culturali si autonomizzano, che i valori comuni diminuiscono o scompaiono, i conflitti culturali aumentano e le possibilità di violazione delle norme e dei valori s'ingigantiscono, e per conseguenza il livello globale di criminalità aumenta. Una tale prospettiva, che rispecchia la crisi d'identità delle società industriali, conduce a studiare il comportamento delinquenziale come una manifestazione di conflitto fra culture e come violazione di norme culturali imposte con la forza dalla maggioranza alla minoranza; ovvero a ritenere il delinquente come una persona incapace di stabilire l'equilibrio fra le sue pulsioni e le norme della cultura ambiente, quale il dominio di certe forze. riesce a tradurre nelle regole legislative. Non mancano tuttavia studiosi i quali ritengono che ogni ordine sociale produce d., e che questa va esaminata alla luce dei valori e delle norme che modellano il comportamento e in rapporto con la motivazione dell'atto criminale, considerato come espressione d'un problema personale.

Bibl.: E. De Greef, Introduction à la criminologie, I, Bruxelles 1946; D. Matza, Delinquency and drift, New York 1964; C. Clinard, Anomie and deviant behaviour. A discussion and critique, Glencoe 1964; T. Sellin, Culture, conflict and crime, New York 1965; T. Sellin, M. E. Wolfgang, The measurement of delinquency, ivi 1965; D. Chapman, Sociology and the stereotype of criminal, Londra 1968; D. Szabo, Déviance et criminalité, Parigi 1970.

Teorie e Problemi attuali. - Una delle conclusioni generalmente accolte dall'attuale scienza criminologica è che nello studio del fenomeno della d., accanto agli aspetti individuali di ordine fisico e psicologico, va considerato l'ambito in cui ha formato la personalità ed è venuto poi a operare colui che delinque o, a ogni modo, l'irregolare bisognoso di un intervento di recupero da parte della società. L'indagine si allarga così a un campo assai vasto e ricco di una quantità di sfumature da considerare in tutte le implicazioni sociali, politiche e giuridiche, tenuto conto altresì dello sfondo etico o ideologico in cui queste ultime vengono a collocarsi.

In tale prospettiva, determinata con tutta evidenza dalla necessità di non perdere l'aggancio con le profonde e incessanti trasformazioni che investono la società moderna, s'inseriscono gl'indirizzi che si ricollegano alla sociologia della devianza.

Essi muovono dalla considerazione che la d., in quanto fenomeno presente in ogni tipo di società, costituisce un fatto sociale, spesso fondato sul richiamo a precisi modelli culturali, economici e sociologici contrastanti o comunque difformi rispetto a quelli affermatisi nella società.

La devianza si configura quindi in primo luogo come comportamento non conforme ai modelli sociali prevalenti. Rappresentando una forma di elusione del conformismo sociale, la devianza assume un contenuto contrassegnato dalla relatività, giacché sono variabili nel tempo quei modelli sociali di cui s'impone il rispetto e altrettanto variabili risultano conseguentemente le forme di controllo sociale dirette al mantenimento del conformismo e al contenimento o annullamento della devianza.

Come si è accennato, la devianza non si fonda solo su un contenuto meramente negativo di contrapposizione ai modelli dati, ma assume - ed è qui l'originalità del concetto - anche un significato positivo, giacché con essa si tende a evidenziare come a fondamento della contrapposizione si debbano rintracciare spesso schemi che si pongono in alternativa per un aspetto, o anche globalmente, con la società conformistica.

È proprio da questa constatazione che ha preso le mosse l'elaborazione della teoria della devianza, come dimostrano in modo particolarmente evidente le esperienze che hanno accompagnato il suo grande sviluppo negli stati Uniti. Tali esperienze, collegate allo studio dei caratteri delle zone urbane delle grandi città, in ispecie gli slums, caratterizzate da alti tassi di disgregazione sociale e di distacco dagli standards della società americana, hanno poi condotto all'individuazione di vere e proprie aree sociali a prevalenza deviante contrassegnate dall'emergere delle cosiddette subculture (al riguardo va fatto un cenno alla scuola di Chicago).

Muovendo dai risultati delle indagini in questione si è successivamente evidenziato, specie per opera di R. K. Merton, come il comportamento deviante altro non sia se non un sintomo di una dissociazione tra le mete culturali (o lato sensu sociali) proposte dalla società e i mezzi da questa strutturati per l'accesso alle medesime. In effetti, posto che nella società si dà rilievo e importanza soprattutto agli obiettivi raggiunti (ciò avviene attraverso il meccanismo del successo che a tale raggiungimento ricollega status di prestigio, dignità o anche di sola soddisfazione personale) senza mettere con altrettanta forza l'accento sullo stretto nesso che essi debbono avere, anche per quel che concerne la loro valutazione, col processo necessario per il loro conseguimento, ne deriva facilmente una ricerca indiscriminata appunto del successo, sostanzialmente indifferente alla distinzione tra mezzi leciti e illeciti. Appare dunque evidente, secondo le teorie della devianza, che la dissociazione risulta da più fatti concorrenti: la massimizzazione delle mete, il cui raggiungimento - o successo - è considerato criterio definitivo di valutazione del valore individuale; la conseguente corsa generale verso il successo e il giudizio di disvalore che colpisce i rinunciatari o comunque chi resta tagliato fuori dal raggiungimento delle mete; parallelamente l'attribuzione dell'insuccesso alla responsabilítà individuale al di là di ogni serio approfondimento delle possibilità obiettivamente esistenti e logica tendenza a supplire con qualsiasi mezzo all'incontestabile esistenza di una disuguaglianza dei punti di partenza e delle opportunità per i singoli individui.

Quando in relazione a tutto ciò gl'individui respingono il quadro elaborato dal conformismo sociale per disciplinare le mete da conseguire e i mezzi da utilizzare, si delinea la devianza, che può concretarsi in varie situazioni, così descritte da qualche autore (cfr. di recente G. Milanesi): l'innovazione (consenso sulle mete, uso di mezzi non istituzionalmente consentiti), il ritualismo (rifiuto delle mete, fedeltà ai mezzi istituzionalizzati), la rinuncia (abbandono sia delle mete che dei mezzi), la ribellione (rifiuto dei fini e dei mezzi e loro sostituzione con altri).

Stando a quanto sopra si comprende l'interesse per l'utilizzazione di un concetto come la devianza allorché ci si trova in condizioni del genere di quella delineatasi da qualche anno in Italia, dove la sicurezza della convivenza civile è divenuta, secondo la relazione per il 1976 del Consiglio superiore della Magistratura al Parlamento sullo stato della giustizia, "un problema prioritario". Un problema caratterizzato sia dall'aggravamento dell'azione di forme tradizionali di d. organizzata (organizzazioni di stampo mafioso, dedite allo sfruttamento della prostituzione e al racket delle protezioni e degli appalti); dall'emergere di nuove forme di d. organizzata con il concomitante sviluppo di gravi figure delittuose quali la rapina, i rapimenti e lo smercio di sostanze stupefacenti; dall'affermarsi infine sempre più intenso di forme di disadattamento sociale - di cui tipico segno è l'abnorme incremento del numero dei furti - le quali sfociano ormai non di rado, da parte di ampie frange di contestazione, nell'attacco violento contro l'ordine costituito fino all'insorgere di una vera e propria criminalità politica.

In simili condizioni gli strumenti generalmente utilizzati per ricercare la spiegazione dei fenomeni criminosi e apprestare i rimedi necessari risultano naturalmente insufficienti. In particolare si pensi ai problemi che già in tempi normali sorgono anzitutto per l'individuazione del numero dei reati commessi e della loro specie, dalla quale discendono intuibili condizionamenti per le scelte fondamentali di politica criminale. Ora, com'è noto, gli organi di controllo sociale arrivano a conoscere solo una parte - per alcune fattispecie criminose la più limitata - di questi reati (le ragioni sono le più diverse: futilità del danno, per cui gl'interessati non si sentono spinti alla denuncia, vergogna, paura, omertà, ecc.). È la cosiddetta questione del "numero oscuro", cioè appunto del complesso di fatti criminosi che non vengono accertati e che si configurano come una costante ineliminabile di ogni sistema giudiziario. In quanto poi l'accertamento di tali fatti dipende dalla maggiore o minore efficienza dell'apparato preposto all'esercizio dell'azione penale, ben si comprende come il problema del numero oscuro si presenti ingigantito nei momenti in cui il sistema è sottoposto all'accentuarsi delle tensioni, proprio quando sarebbe maggiormente necessaria una conoscenza il più possibile accurata della realtà criminosa.

È pertanto giocoforza ricorrere a strumenti che consentano di superare l'impasse attraverso l'elaborazione di modelli teorici in cui il richiamo diretto alle radici sociali dei problemi criminali possa dare il necessario solido fondamento alla formulazione di ipotesi operative sulle origini dei fenomeni negativi che si vanno sviluppando e sui mezzi per combatterli o comunque incanalarli.

Così per quel che concerne l'Italia, dove i dati disponibili evidenziano, come si è detto, una grave crescita della criminalità, cui il sistema giudiziario non riesce a far fronte - basti ricordare l'alta percentuale di reati di cui resta ignoto l'autore (per citare alcune cifre, nel 1974 è rimasto ignoto il 94% degli autori dei delitti contro il patrimonio e l'88% di quelli dei delitti contro l'incolumità pubblica) e il fatto che i crimini di maggiore gravità sono aumentati in misura superiore a quelli lievi --, tale crescita è caratterizzata da punte particolarmente elevate nel campo della delittuosità giovanile e presenta una tendenza a rendere sempre più omogenei gl'indici di criminalità riscontrabili nel territorio nazionale. Il che richiama evidentemente ragioni sociali, economiche e politiche che non possono essere ignorate. Al loro approfondimento scientifico la teoria della devianza potrebbe portare utili contributi, con l'evidenziare il delinearsi di gruppi che in conseguenza dei processi di emarginazione legati alle profonde trasformazioni della nostra società sempre meno si riconoscono nei modelli di vita vigenti, favorendosi in questo modo l'emergere di condizioni per l'instaurarsi di fenomeni negativi di ribellione e di disadattamento sociale.

Bibl.: R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna 1959; A. K. C. Cohen, Ragazzi delinquenti, Milano 1963; F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante, Torino 1971; F. Mencarelli, Delinquenza minorile e disadattamento, Roma 1971; G. Milanesi, Devianza, in Dizionario di Sociologia, ivi 1976; P. Pittaro, Criminalità, ibid.; F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, Milano 1977.

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