Democrazia cristiana

Dizionario di Storia (2010)

Democrazia cristiana


Denominazione di partiti e movimenti politici di ispirazione cristiana. Prima che, nel corso del 20° sec., numerosi partiti politici europei e latino-americani, in varia misura radicati nei rispettivi mondi cattolici, assumessero la denominazione di democratico-cristiani o di cristiano-democratici, l’espressione «democrazia cristiana » fu ampiamente utilizzata per designare un insieme di movimenti di natura prevalentemente sociale, sorti nell’ultimo scorcio del 19° sec., in parte avallati e incoraggiati dalla Chiesa e dal papato.

La stessa espressione, tuttavia, si trova attestata, con un ampio spettro semantico, in precedenti fasi della storia europea. In senso generale la storia della D. c. costituisce, per un verso, un capitolo centrale del processo di modernizzazione dell’universo cattolico, avvenuto sotto la spinta delle trasformazioni strutturali e culturali delle società europee, e, per altro verso, una delle risposte del cattolicesimo ai fenomeni di secolarizzazione ideologica e politica connessi con lo sviluppo dei sistemi capitalistici, delle forme costituzionali e rappresentative dello Stato moderno, dei movimenti socialisti.

La nascita dei movimenti democratico-cristiani in Europa e in Italia. Dove già esistevano partiti cattolici, le tendenze democratico-cristiane ne risultarono inglobate. In Belgio la Ligue démocratique, sorta nel 1891, venne a imprimere al Partito cattolico, nato nel 1884 dalla fusione tra la destra parlamentare e le associazioni religiose ed elettorali cattolico-ultramontane, una più accentuata fisionomia nel campo della politica sociale, contribuendo a trasformarlo da partito parlamentare in partito di massa, in grado nel 1894, grazie all’introduzione del suffragio universale, di imporsi come partito maggioritario. Nel Reich tedesco, i gruppi dichiaratamente democratico-cristiani non cambiarono in maniera sostanziale la natura articolata, pragmatica, in prevalenza parlamentare, del centro, pur allargandone la presa elettorale, ma senza mutarne le predisposizioni conservatrici in campo politico e istituzionale. In Austria l’Unione dei cristiano-sociali sorta negli anni Novanta, che si segnalava ideologicamente per il suo integralismo corporativo, anticapitalistico e antisemita, dopo aver contrastato il Partito popolare cattolico conservatore lo aveva assimilato in un unico Partito sociale cristiano, che si era qualificato come rappresentanza di prevalenti interessi agrari e per una presa di distanza dai referenti democratici in campo politico. Dove, viceversa, si era venuto sviluppando un movimento sociale organizzato ma in assenza di un partito cattolico, come in Francia e in Italia, l’emergere di movimenti democratico-cristiani sul finire del 19° sec. agì quale fattore di sollecitazione e di accelerazione del processo politico immanente nei movimenti cattolici nazionali. Mentre in Francia il cattolicesimo sociale ebbe la sua massima espressione nell’Oeuvre des cercles catholiques d’ouvriers, cui dettero vita De Mun, La Tour du Pin e l’industriale Harmel, in Italia il suo sviluppo risultò particolarmente contrastato in ragione del persistente conflitto tra Chiesa e Stato, delle prescrizioni ecclesiastiche avverse alla partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche e dell’esistenza, dal 1875, di un’organizzazione cattolica nazionale, l’Opera dei congressi, che aveva fatto della propria estraneità e opposizione agli ordinamenti liberali la propria bandiera. Nel 1897 uno dei padri del cattolicesimo sociale italiano, Giuseppe Toniolo, intervenendo su Il concetto cristiano di democrazia, l’aveva definita, anticipando la Graves de communi, come «ordinamento civile» prescindendo da una sua determinazione politica. Nel caso del partito fondato all’inizio del 1919 in Italia, il termine «popolare», almeno nelle intenzioni di Luigi Sturzo, equivaleva, in sostanza, a democratico, ma nello stesso tempo adombrava un modello istituzionale di democrazia diversa da quella liberale o socialista. In altri termini, il Partito popolare italiano, mentre faceva proprio in maniera incondizionata il «metodo democratico», proponeva della democrazia una rappresentazione non individualistica né classista, desumendone un progetto istituzionale fondato sulla teoria dei corpi intermedi, sull’autonomismo a base regionale, sul contemperamento della rappresentanza individuale con quella dei corpi professionali, sulla libertà della Chiesa nel quadro di un più vasto sistema di libertà civili e religiose.

Il partito della Democrazia cristiana (DC) in Italia. La ricostruzione del partito cattolico avvenne tra il 1942 e il 1943, durante il fascismo, attorno ad ex dirigenti del Partito popolare (A. De Gasperi, A. Piccioni, G. Spataro, M. Scelba, P. Campilli ecc.) e a giovani cattolici (G. La Pira, G. Dossetti, A. Moro, A. Fanfani, G. Andreotti ecc.). La DC – che aderì al CLN e partecipò alla lotta di liberazione antifascista – propugnava nel suo programma la democrazia parlamentare e l’autonomia degli enti locali, mentre difendeva i valori e il ruolo della famiglia e rivendicava la libertà dell’insegnamento privato; sul piano sociale si impegnava a limitare l’accentramento della ricchezza capitalistica, a sostenere i piccoli produttori (artigiani, coltivatori ecc.), e a garantire i diritti fondamentali dei lavoratori dell’industria e del commercio. Essa partecipò con propri ministri ai governi Badoglio, Bonomi e Parri, finché nel dicembre 1945 fu varato il primo gabinetto De Gasperi; il leader della DC – che aprì la lunghissima serie dei presidenti del Consiglio democristiani – avrebbe guidato otto governi consecutivi fino all’agosto 1953, segnando fortemente il periodo della ricostruzione. La forza della DC si andava intanto costruendo nella società civile e politica: partito interclassista e popolare, la cui matrice cattolica si accompagnava a una visione della politica sostanzialmente laica, si configurò subito come forza di governo e di centro, costruendo la propria base soprattutto tra le masse contadine, i ceti medi e la borghesia imprenditoriale, mentre sul terreno ideologico si pose come forza avversa a ritorni reazionari e alla minaccia totalitaria del comunismo. Tendenzialmente repubblicana (primo congresso, apr. 1946), la DC ottenne per l’Assemblea costituente il 35,2% dei voti e la maggioranza relativa (giugno 1946), mentre problemi interni, riguardanti le scelte della ricostruzione, e internazionali (il dissolversi dell’alleanza che aveva vinto la guerra e l’inizio di una fase di tensione fra USA e URSS) spinsero De Gasperi a liquidare (maggio 1947) la formula di governo che aveva guidato i primi passi del dopoguerra, fondata sull’alleanza con socialisti e comunisti, e a inaugurare l’epoca del centrismo (1947-59), nella quale la DC avrebbe governato con i partiti laici minori (PRI, PLI, PSDI). Questa scelta sortì il successo delle elezioni dell’aprile 1948 che videro assegnati alla DC il 48,5% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi. La politica interna del periodo 1948-53 fu caratterizzata in senso liberista, ma promosse anche il rafforzamento dell’IRI e la creazione dell’ENI e della Cassa per il Mezzogiorno, mentre la politica estera vide l’adesione alla NATO (1949) e la nascita della collaborazione europea. Sul finire degli anni Quaranta si era formata, attorno alla rivista Cronache sociali diretta da G. Dossetti, una corrente interna «di sinistra», critica della politica degasperiana, che nel terzo congresso (1949) rappresentava circa un terzo dei consensi e confluiva (dopo il ritiro di Dossetti nel 1951) nella corrente di Iniziativa democratica guidata da Fanfani, P.E. Taviani e M. Rumor. La DC si presentò comunque unita nella competizione elettorale del 1953, anche nel sostenere la legge elettorale maggioritaria; il risultato della Camera (40,1%), ottenuto in una campagna particolarmente aspra, non fece scattare il premio di maggioranza e incrinò la politica centrista degasperiana. La seconda legislatura (1953-58) fu dunque caratterizzata dalla prevalenza di Iniziativa democratica, sulle cui posizioni convergeva la corrente di Base (G. Galloni, G. Marcora); questa prevalenza veniva sanzionata dal quinto congresso del partito (giugno 1954) che eleggeva Fanfani segretario. Questi lavorò alla riorganizzazione e al consolidamento del partito, mentre i governi, tutti guidati in quegli anni dalla DC, si caratterizzarono per l’accentuarsi della politica di intervento pubblico nell’economia e per una ancora netta chiusura a sinistra, scontando però una certa precarietà e difficoltà programmatica a motivo della stretta misura della maggioranza parlamentare. Da questa situazione Fanfani pensò di poter uscire dopo il risultato delle elezioni del 1958, che segnavano un leggero recupero della DC (42,3%), con la formazione di un governo DC-PSDI (giugno 1958), primo passo verso una più decisa apertura al PSI; ne derivarono però tali opposizioni interne che gli venne meno la maggioranza alla Camera ed egli fu costretto a dimettersi dalla presidenza del Consiglio (genn. 1959) e poco dopo dalla segreteria del partito. I nuovi equilibri interni (spaccatasi Iniziativa democratica, era nata la corrente dorotea, sostenitrice del partito come asse politico centrale e riequilibratore dei rapporti politici e sociali, facente capo a Rumor, A. Segni, F. Piccoli ecc.) portarono alla segreteria di A. Moro (marzo 1959), anch’egli convinto dell’esaurimento della politica centrista ma meno propenso di Fanfani a forzare i tempi, e alla formazione dei governi di Segni (febbr. 1959-marzo 1960) e F. Tambroni (marzo-luglio 1960), appoggiati dalle destre, quest’ultimo in particolare sostenuto dal voto determinante del MSI. L’opposizione nel Paese e nella stessa DC portarono alla rimozione di Tambroni e la legislatura venne conclusa da due governi Fanfani (luglio 1960-giugno 1963), monocolori democristiani sorretti da PSDI, PRI, e PLI il primo e da PSDI e PRI il secondo, entrambi con l’astensione socialista. Il varo del centrosinistra era stato preparato nell’ottavo congresso (genn. 1962), nel quale una mozione Moro-Fanfani aveva ottenuto l’80% dei voti, ma il risultato delle elezioni del 1963 (38,3%) rinfocolò le opposizioni interne al programma di apertura costringendo nuovamente Fanfani alle dimissioni dalla presidenza del Consiglio. Finalmente, nel dicembre 1963, Moro riusciva a formare il primo governo organico di centrosinistra con P. Nenni vicepresidente e ministri della DC, del PSI, del PSDI e del PRI. Con questa formazione, in tre successivi governi, Moro chiuse la legislatura, anche se il clima politico maturato nel partito (nel 1964, al decimo congresso, Rumor aveva sostituito Moro alla segreteria) spense rapidamente la carica riformatrice sotto i cui auspici il centrosinistra era nato. Le elezioni del 1968, pur vedendo un’affermazione della DC (39,1%), segnarono uno scacco per il centrosinistra a motivo del mediocre risultato del PSU (nato dall’unificazione di PSI e PSDI), dell’avanzata del PCI e del collocarsi all’opposizione di un nuovo partito nato da una scissione socialista, il PSIUP. L’instabilità politica (6 governi nel periodo 1968-72 e chiusura anticipata della legislatura) veniva inoltre accentuata da tutti quei fenomeni – dal movimento degli studenti all’«autunno caldo» – che contribuirono a inasprire il clima sociale e politico. La strategia della DC in questi anni non fu univoca: se l’undicesimo congresso (1969) affiancava al segretario Piccoli il presidente B. Zaccagnini, espressione delle aspirazioni di rinnovamento, nelle elezioni presidenziali del 1971 i parlamentari della DC preferivano al candidato ufficiale Fanfani il senatore G. Leone, che veniva eletto con l’appoggio della destra, per giungere infine alla liquidazione del centrosinistra e alla riedizione del centrismo con due governi Andreotti (febbr. 1972-luglio 1973) a cavallo delle elezioni politiche anticipate del 1972, che videro un leggero calo della DC (38,7%). A questa fase di stallo il partito rispose con un accordo tra le correnti (dodicesimo congresso, 1973) che prevedeva la riedizione del centrosinistra e la segreteria Fanfani. Questi utilizzò la ricostituita unità interna nella campagna referendaria per l’abrogazione della legge sul divorzio, referendum risoltosi però con la conferma con ampio margine della legge (1974). Con la segreteria Zaccagnini riprese vigore la linea di Moro, descritta come «strategia dell’attenzione» verso il PCI, allora in netta crescita, linea che uscì confermata dal tredicesimo congresso (1976), pur se dopo un duro scontro. Nelle elezioni politiche anticipate del 1976 la DC ottenne il 38,8%, ma il dato elettorale più significativo fu il 34,4% del PCI, risultato che imponeva un’accelerazione del confronto fra i due maggiori partiti italiani. Si ebbero così i due governi monocolore Andreotti (luglio 1976-marzo 1979) detti di «solidarietà nazionale»: il primo ebbe l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI. Nei mesi successivi, proseguirono gli incontri al vertice (anche tra Moro e il leader del PCI E. Berlinguer) per accelerare i tempi di un allargamento della maggioranza ai partiti laici e al PCI. Ma proprio il giorno in cui doveva presentarsi alle Camere il secondo governo Andreotti di «solidarietà nazionale», Moro, presidente della DC e principale artefice del dialogo con il PCI, fu rapito dalle Brigate rosse (16 mar. 1978). In Parlamento il governo ebbe il voto favorevole di PCI, PSI, PSDI, PRI e Democrazia nazionale. Si apriva intanto la drammatica fase dei «55 giorni» in cui, all’ansia per le sorti di Moro e il possibile precipitare della situazione, si affiancava un serrato confronto politico, sia nella DC sia tra quest’ultima e gli altri partiti, sulla strategia da attuarsi riguardo al sequestro di Moro e ai suoi protagonisti. Assieme ai comunisti, la DC sposò la linea detta «della fermezza», escludendo ogni trattativa con le BR, le quali il 9 maggio facevano ritrovare il cadavere di Moro a poca distanza dalle sedi di PCI e DC. L’esperienza della «solidarietà nazionale» proseguì ancora per più di un anno, ma di fatto fu spenta da questo tragico esito. Con la crisi del secondo governo di «solidarietà nazionale», dovuta al ritiro del PCI dalla maggioranza, si chiudeva il periodo dell’attenzione verso il PCI, che peraltro nelle elezioni anticipate del 1979 arretrava al 30,4%, mentre la DC manteneva il 38,3%. Ne seguì un governo Cossiga (DC, PSDI, PLI, con l’astensione di PSI e PRI), mentre il quattordicesimo congresso della DC (1980) approvava a maggioranza una risoluzione (il «preambolo») che dichiarava impossibile una collaborazione di governo con il PCI; Piccoli veniva eletto segretario. All’inizio degli anni Ottanta la DC cedette la presidenza del Consiglio con i governi Spadolini (giugno 1981-dic. 1982), che inaugurarono la formula del «pentapartito» (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI), e il congresso del 1982 eleggeva segretario C. De Mita, esponente della sinistra, col mandato di «moralizzare» alcuni settori del partito e renderlo più permeabile alle trasformazioni della società. Nelle elezioni anticipate del 1983 la DC arretrò vistosamente (32,9%), mentre la crisi del PCI lasciava emergere come contestatore dell’egemonia democristiana il PSI diretto da B. Craxi, cui la DC lasciava la guida del governo (gabinetti Craxi, ag. 1983-apr. 1987). De Mita veniva confermato alla segreteria nel 1984 e nel 1986, mentre le elezioni anticipate del 1987 segnavano un leggero recupero della DC (34,3%). Dall’apr. 1988 De Mita svolse anche il ruolo di presidente del Consiglio, ma nel congresso del 1989 si scontrava con una maggioranza a lui sfavorevole (e meno ostile verso il PSI) guidata da Andreotti, A. Gava e A. Forlani, che eleggeva quest’ultimo alla segreteria. Pochi mesi dopo (maggio 1989) entrava in crisi il governo e nel luglio la presidenza del Consiglio era affidata ad Andreotti; durante i due governi Andreotti il PRI passava all’opposizione ed emergevano nuovi fermenti anche nel mondo politico tradizionalmente legato alla DC. Le elezioni politiche anticipate del 1992 portavano la DC al 29,7% e la guida del governo passava al socialista G. Amato. Alle prese con una ormai evidente crisi dell’intero assetto politico, dovuta alla stagione di «tangentopoli», nell’ott. 1992 la DC affidava la segreteria a M. Martinazzoli. Il partito ebbe un vero e proprio crollo nelle elezioni amministrative del 1993, e nel 1994 si sciolse, dividendosi in tre tronconi principali: il Partito popolare italiano (PPI), guidato dallo stesso Martinazzoli e di impostazione centrista, il Centro cristiano democratico (CCD) di P.F. Casini e C. Mastella, interno al centrodestra, e i Cristiano-sociali di P. Carniti ed E. Corrieri, schierati a sinistra.

I partiti democratici cristiani in Europa. Forze di ispirazione democratico cristiana si sono diffuse dopo la Seconda guerra mondiale in vari Paesi dell’Europa occidentale. Nella Repubblica federale di Germania si sono affermate la Christlich-demokratische Union e la Christlich-soziale Union (Baviera); in Austria l’Österreichische Volkspartei; in Belgio il Christelijke volkepartij (fiammingo) e il Parti social chrétien (vallone); nei Paesi Bassi il Christen democratisch appèl (costituito nel 1980 come federazione di più movimenti); in Francia il Centre des démocrates sociaux (fondato nel 1976); in Irlanda il Fine Gael ecc. All’Unione Europea democratica cristiana (costituita nel 1965) aderiscono altresì partiti di più recente formazione quali il portoghese Partido do centro democrático social (fondato nel 1974), la spagnola Democracia cristiana (1982; a carattere regionale sono il Partito nacionalista vasco e l’Unió democrática de Catalunya), la greca Nea Demokratia (1974). I partiti democratici cristiani dei Paesi aderenti alla CEE hanno costituito fin dalle prime elezioni dirette del Parlamento europeo (1979) il gruppo denominato Partito popolare europeo, che ha in programma la graduale trasformazione dell’Europa in unione federale. I partiti democratici cristiani fanno capo all’Internazionale democratica cristiana (1982), con sede a Bruxelles, alla quale fanno riferimento anche varie formazioni politiche sviluppatesi dopo la fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale (1989).

I partiti democratici cristiani in America Latina. In America Latina si sono formati partiti democratici cristiani a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta per l’esigenza di fronteggiare da un lato le dittature militari, dall’altro i movimenti di ispirazione rivoluzionaria e castrista. Oltre al Partido social cristiano del Venezuela (fondato nel 1946), nel continente hanno svolto un ruolo rilevante i partiti democratici cristiani del Cile (1957), del Salvador (1960), del Guatemala (1968).

Si veda anche La democrazia cristiana in Europa

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