Democrazia

Enciclopedia del Novecento (1977)

Democrazia

Georges Burdeau

di Georges Burdeau

Democrazia

sommario: 1. Introduzione. 2. La democrazia come valore. 3. Evoluzione dell'esigenza democratica. a) Garanzia della libertà. b) Strumento di giustizia. c) La ricerca del benessere. d) La democrazia contestata. 4. La democrazia come forma di governo. a) lI popolo della democrazia. b) Democrazia governata e democrazia governante. c) Potere aperto e potere chiuso. d) Le possibilità della democrazia nelle società postindustriali. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Un tempo, quando la democrazia era ancora soltanto un ideale, era facile darne una definizione. Poiché si contrapponeva ai sistemi politici allora in vigore, che si fondavano sul principio d'autorità, sembrava che essa dovesse realizzarsi nel momento in cui gli affari comuni fossero gestiti dai governati. Il ‟governo del popolo da parte del popolo per il popolo" sembrava rispondere in modo soddisfacente a tale esigenza. Senza dubbio tale formula implicava una filosofia politica, giacché il popolo poteva reclamare l'esercizio del potere, solo in quanto ne era il titolare. Ma di fatto questo postulato veniva considerato come implicito nella strutturazione dei meccanismi del potere popolare. La democrazia era essenzialmente una forma di governo.

Questa concezione statica, che identifica la democrazia con uno schema costituzionale, si è rivelata insufficiente una volta che gli uomini non si sono più limitati a rappresentarsi la democrazia ma hanno cominciato a viverla. Risultò allora evidente che il concetto puramente formale della democrazia era veramente troppo angusto per dar conto di un'esigenza il cui contenuto si ampliava al ritmo dell'evoluzione sociale. Ne consegue che l'analisi della democrazia porta a considerarla più una tendenza che una forma. D'altronde, anche considerando esclusivamente le istituzioni politiche in cui essa prende corpo, risulta evidente come la pratica abbia spezzato l'unità concettuale che aveva contrassegnato la democrazia presso i suoi primi teorici. ‟Il governo del popolo da parte del popolo...": sta bene, ma quale popolo? e a quali fini? Lo stesso principio del governo democratico poneva ineluttabilmente tali interrogativi. La discordanza delle risposte che ad essi sono state date rende inevitabile la costatazione che democrazia è un termine che, se si vuol render ragione della realtà, va scritto al plurale. Tuttavia, tutte queste differenti immagini della democrazia hanno visibilmente una caratteristica comune: si professano tutte al servizio dell'uomo. Il dramma è che esse non ne hanno una stessa concezione; cosicché, prendendo le mosse dall'esame di una formula di governo, ogni riflessione sulla democrazia porta a un inquietante interrogativo metafisico: che cosa è l'uomo?

2. La democrazia come valore

Nessuna testimonianza è più probante dell'odierna politicizzazione della sfera sociale quanto l'estrema varietà dei fenomeni che oggi vengono qualificati con l'aggettivo democratico. Sono detti democratici uno spettacolo, un ristorante o un mezzo di trasporto, alla stessa stregua, del resto, di certi metodi d'insegnamento, certe tecniche di distribuzione dei prodotti, certe concezioni urbanistiche o dell'arte musicale. Dall'empireo della teoria politica, l'idea democratica è discesa nella prosaicità dell'universo più quotidiano per servire come termine di riferimento per situazioni o comportamenti che non hanno nulla a che fare con l'organizzazione o il funzionamento dei poteri pubblici.

Contrariamente alle apparenze, ciò non rappresenta una degradazione della nozione di democrazia. All'opposto, il suo intervenire nei fenomeni più diversi rivela ch'essa è utilizzata come un criterio del loro valore. Un valore che si connette alla posizione della maggioranza rispetto ai fatti o ai rapporti considerati: questi, infatti, saranno ritenuti democratici nella misura in cui sono promossi dalla maggioranza o suscitati in suo favore. Per banale che possa apparire, questa osservazione assume tutta la sua portata se si tiene presente che tale evocazione del numero va molto al di là del dato aritmetico: essa introduce nell'aggettivo ‛democratico' un'implicazione morale. In effetti, oggigiorno, nessuno si sognerebbe di porre apertamente in dubbio che, là dove la maggioranza è il motore o la beneficiaria di un'istituzione, là dove essa sceglie e decide, là dove si tien conto delle sue aspirazioni, là non sia il Bene.

Ci porremo in seguito il problema dell'origine e dello sviluppo di tale credenza o postulato. Ma ciò che va fin d'ora sottolineato è che tale valorizzazione della democrazia, in base agli atteggiamenti e alle aspirazioni della massa, non rappresenta una frattura nel modo di intendere l'idea democratica. Certo, è facile contrapporre il fenomeno contemporaneo dell'avvento delle masse all'originaria concezione della democrazia, che si radicava in una determinata immagine dell'uomo considerato come portatore, nella sua natura individuale, di un valore universale; ma in realtà non vi è quella contraddizione che alcuni si ostinano a denunciare. La democrazia del numero non si oppone - nel suo fondamento - alla democrazia individualista, ma ne costituisce una continuazione ampliandone la prospettiva, estendendo, cioè, a tutti gli uomini, nelle contingenze della loro situazione concreta, il privilegio di partecipare alla dignità umana. Forse che il numero sarebbe degno di rispetto, se si potesse mettere in dubbio la qualità degli elementi che lo compongono? So bene che talvolta la massa può offuscare tale dignità umana; ma è precisamente in quel momento che la massa cessa di essere un criterio di democrazia; essa non è più un modo d'essere degli uomini tra loro, ma è soltanto una forza bruta, senza volto e senza coscienza, una forza in cui le personalità umane si dissolvono e di cui si sa anche troppo bene come sia facile volgerla contro la stessa democrazia.

Che la democrazia sia il Bene, è una convinzione di cui, su un piano filosofico, si può discutere l'esattezza. Ciò che sembra invece impossibile contestare è la considerevole forza che viene all'idea democratica dal significato morale che le si attribuisce. L'etica che essa incarna le conferisce, come forma politica, un'efficacia senza pari, che rasenta l'invulnerabilità. E, in realtà, nel conflitto che contrappone le varie forze politiche, i fautori della democrazia beneficiano di una superiorità, loro esclusiva, che consiste nel poter disonorare l'avversario. Attribuendo infatti alla loro lotta un significato morale, potranno - se sono i più forti - mitigare la brutalità della forza presentandola come strumento del Bene e, se sono i più deboli, imputare la loro sconfitta a una congiura di forze malvage. Vincitori, saranno degli eroi; vinti, dei martiri. E poiché il sangue dei martiri non è mai versato invano, l'idea democratica trova, nelle sue stesse sconfitte, la premessa di immancabili rivincite. Tutto ciò dipende dal fatto che, nella mentalità comune, l'idea democratica esprime imperativi di coscienza che nessuna forza potrebbe mai cancellare. Al contrario, al suo confronto, gli avversari non rappresentano che interessi, ambizioni, bramosie di dominio. Sopra la loro coalizione, il cielo è vuoto: nè il Diritto nè la Giustizia assistono con la loro presenza di numi tutelari l'esercito dei combattenti, la loro unica risorsa consiste nel profittare delle circostanze, nello sfruttare rancori o nello stimolare appetiti. Nel campo degli avversari della democrazia, tutto si colloca al livello della mediocrità umana, laddove, in virtù di un paradosso che soltanto la fede può spiegare, la democrazia, che pretende di avere come criterio di misura l'uomo, mobilita al proprio fianco gli dei.

Si comprende quindi l'accanimento con cui movimenti sociali e regimi politici si proclamano democratici. Se tentano di farsi scudo di quel nome, anche quando ne ripudiano le forme, essi non lo fanno tanto per sedurre il popolo e ottenerne l'appoggio - il popolo sa distinguere benissimo l'etichetta dalla merce - quanto per evitare le conseguenze politiche della riprovazione morale che colpisce ogni sistema che metta in dubbio l'eccellenza della democrazia. Per convincersene, basta considerare l'insistenza con cui i regimi autoritari cercano di ingannare l'opinione internazionale sulla propria vera natura.

Tale omaggio indiretto, resole dal realismo dei dittatori, prova - se ancora ce ne fosse bisogno - che la democrazia attinge la propria forza più dall'ideale che incarna che dalle istituzioni in cui si manifesta. Le istituzioni possono sbagliare: il loro errore sarà imputato alle circostanze; il numero può ingannarsi nel valutare il bene collettivo: il suo errore apparirà come conseguenza di un difetto di informazione; la massa può lasciarsi trascinare ad atteggiamenti demagogici: i suoi eccessi saranno imputati alle manovre di un agitatore diabolico. In nessun caso l'ideale sarà offuscato e sempre, dopo i disinganni della pratica, tornerà a farsi sentire l'invito persuasivo: ‟E se ricominciassimo?". Il fatto è che l'idea democratica trova nell'ideale su cui si fonda non soltanto la fonte della propria invulnerabilità, ma anche il motore della propria dinamicità.

Se l'ideale democratico è sempre sopravvissuto ai disinganni che hanno non di rado accompagnato il suo attuarsi, se non è stato offuscato dalle miserie dell'esperienza vissuta, se nel corso della storia non gli sono mai mancati i sostenitori, anche quando le folle si abbandonavano inebetite all'oppressione, ciò si deve al fatto ch'esso si fonda su di una convinzione imperitura: la fede nella grandezza dell'uomo. Certo, la democrazia raggiunge la sua dimensione più vera soltanto sul piano politico, in quanto determina il fondamento del potere. Ma quella sovranità del popolo ch'essa proclama è persuasiva solo in quanto il popolo è la sintesi dei valori umani che riunisce in sé. Il popolo è portato ad assumersi la responsabilità del proprio destino, in quanto ogni uomo è chiamato a una medesima responsabilità in ciò che lo concerne personalmente. Tale responsabilità lo nobilita, giacché testimonia della sua libertà. Ed è in questo senso che l'uomo è libero agli occhi dei filosofi dell'antichità: la ragione che dimora in lui lo affranca, anche quando sia di condizione servile. Ed è ancora in tal senso ch'è possibile parlare del fermento democratico del messaggio evangelico: che cosa varrebbero, infatti, agli occhi di Dio un'adorazione e una fede che non fossero libere? E nella stessa prospettiva la scuola giusnaturalista, dopo aver vanamente perseguito un compromesso con l'assolutismo, doveva approdare alla filosofia democratica, giacché i diritti che l'uomo ha per natura possono realizzarsi pienamente solo nella misura in cui il potere, che procede dalla sua volontà, non rischi di lederli.

Il fondamento della democrazia è dunque la fiducia nell'uomo. Questo ottimismo può derivare da fonti diverse: può ispirarsi al razionalismo laico, come agli insegnamenti della rivelazione divina; può spiegarsi con l'innata generosità di colui che lo professa o giustificarsi mediante una interpretazione della storia. Poco importa l'eterogeneità delle fonti dal momento ch'esse, convergendo tutte nell'affermazione della dignità della persona umana, postulano la democrazia come l'ambiente necessario al suo esplicarsi.

Ma il carattere estremamente generale del fondamento della democrazia e la diversità delle correnti di pensiero cui essa appare come l'unica soluzione valida dei problemi posti dalla vita in società, se spiegano indubbiamente la risonanza universale dell'idea democratica, non spiegano la forma esteriore che essa assume nelle sue incarnazioni storiche. Per comprenderne le metamorfosi, gli scacchi e i successi, occorre tener presente che la democrazia non si limita a postulare astrattamente il valore originario dell'uomo, ma è un'esigenza che mira a iscrivere questo valore in un momento concreto della storia. E, poiché l'oggetto di tale esigenza è funzione di un ambiente, di un'epoca e di una cultura, essa è di necessità soddisfatta in modo sempre contingente e provvisorio. Più oltre avremo occasione di ricostruire l'evoluzione del contenuto di questa esigenza. Ma ciò che ora interessa osservare è ch'essa, a mano a mano che viene soddisfatta, si amplia; va sempre oltre ciò che ha ottenuto, perché non è mai appagata. È cosa ben nota che un democratico troverà sempre qualcuno più democratico di lui, pronto a rimproverargli, appunto, la sua tiepidezza di democratico. Quando viene praticato dai partiti, questo continuo rilancio può apparire spiacevole e sospetto. Ma bisogna ammettere che esso ha le sue radici nella stessa idea democratica, che tende ad arricchire incessantemente i propri dettati con nuove speranze. Il fascino della democrazia sta proprio nel suo non esser mai pienamente realizzata. E non si tratta di uno slogan: si è voluta la democrazia nello Stato, e si è avuta la democrazia politica; la si è voluta nei rapporti economici, ed è stata la democrazia sociale; la si è voluta nell'impresa, ed ecco l'obiettivo della democrazia industriale; la si vuole ora nella scuola, nella famiglia, nell'esercito e addirittura, come testimoniano recenti incidenti, nelle prigioni! Tale progressione, lungi dall'essere una degenerazione patologica dell'idea democratica, ne rivela l'essenza. Essa è in relazione con quell'inquietudine di fondo che porta gli uomini a pensare di valer più di quanto non sia loro concesso dalla loro situazione attuale. Sul piano filosofico si affermerà il concetto che l'idea democratica conferisce alla persona umana una dimensione che supera sempre, per qualche aspetto, le condizioni della sua esistenza; a livello sociologico si vedrà in essa un appello per liberare gli individui dalle alienazioni che gli derivano dall'ordine sociale costituito; e infine, sul terreno psicologico, se ne troverà la radice in un sentimento di frustrazione dal quale la democrazia, realizzandosi, libererà l'uomo portandolo a una pienezza sia materiale che spirituale.

Quali che siano i punti di vista che determinano queste convinzioni, è tuttavia chiaro che l'eticà democratica non è separabile dal movimento che suscita. Entro questo quadro, non può sorprendere che l'ideale democratico non abbia mai cessato di costituire per gli uomini il punto di riferimento nel lento cammino che, malgrado le tortuosità del corso storico, deve condurli a raggiungere, su tutti i piani, la pienezza del loro essere. Per colui che accetta questa prospettiva ottimistica, il valore morale della democrazia viene rafforzato da una giustificazione finalista, che ne accentua il dinamismo: l'idea democratica è il motore che, nel corso dei secoli, spinge l'uomo a realizzare la propria vocazione.

Ci si può tuttavia domandare se, in quanto tecnica di governo, la democrazia riscuota un'adesione pari a quella che le procura il suo incontestabile valore etico. Scartare una risposta negativa significherebbe non tener in alcun conto i fatti. La democrazia contemporanea è un regime di dubbia efficacia: genera con frequenza disordini e le politiche cui dà luogo difettano di coerenza. La sua sensibilità agli umori popolari la rende inadatta alle prospettive di lungo periodo, che sole - si afferma - garantirebbero la stabilità di un paese. Ne è prova il fatto che, ogniqualvolta uno Stato si trova di fronte a una crisi interna o internazionale, la cui gravità metta in giuoco la sua esistenza, le istituzioni democratiche sono, se non abolite, perlomeno messe tra parentesi, sì da permettere ai governanti di esercitare, senza controlli, l'autorità necessaria. Queste critiche sono talmente note che non è necessario insistervi. Ma il fatto più grave è che ci si può chiedere se sia possibile piegare la pratica politica, cioè l'esercizio del potere, al rispetto del principio democratico. In mancanza di una tale coordinazione, il regime democratico sarebbe, nel migliore dei casi, solo una approssimazione molto imperfetta a quel principio e, nel peggiore dei casi, un'ipocrisia mirante a mascherare, dietro il prestigio di un grande nome, una realtà molto meno rispettabile.

Ma, anche senza arrivare a questi estremi, è giuocoforza riconoscere che, come forma di governo da parte del popolo, la democrazia trova la sua collocazione in regimi equivoci. Certo, a una delle sue forme - la democrazia marxista - l'attributo dell'equivocità sembra difficilmente applicabile. Sia a livello della dottrina che della pratica politica quotidiana, in URSS, in Cina e nelle democrazie popolari l'eliminazione dei centri di potere economico lascia posto solo a un potere politico che si incarna, totalmente ed esclusivamente, nel popolo. Non è infatti quest'ultimo che detiene tutto il potere ovunque, nelle assemblee, nelle fabbriche e nei campi? I valori, le istituzioni e gli obiettivi acquistano un carattere di certezza che esclude in partenza qualsiasi ambiguità. Tuttavia, vista dal di fuori, questa sicurezza non è completamente convincente. Dov'è il potere? Nelle masse popolari o nel Praesidium del Soviet Supremo? Nel partito o nell'uomo che se n'è assicurato il dominio? E, allora, non emerge forse l'equivoco dalle fluttuazioni che, a seconda delle circostanze, fanno passare l'autorità dalle masse al partito, e dal partito alla cerchia ristretta dei suoi dirigenti? E una democrazia che tollera l'incertezza circa la sede del potere politico non è già di per sé ambigua? Il dubbio si aggrava quando si confronti la filosofia con la struttura del regime. In teoria, si tratterebbe di eliminare la subordinazione dei governati mediante la cancellazione del potere statale, secondo la teoria marxiana del deperimento dello Stato; ma, nella realtà pratica, i vincoli coercitivi si rafforzano e, di fronte a un potere esoterico, l'individuo non è meno disarmato di quanto fosse un tempo di fronte alla volontà sovrana del monarca. Che cosa, dunque, bisogna prendere in considerazione: la meta lontana o le realizzazioni presenti? È evidente come il significato del regime risulti completamente diverso a seconda che ci si collochi nell'una o nell'altra prospettiva.

Interrogativi siffatti posti dalle democrazie marxiste hanno senso soltanto per i non credenti. Per chi possiede la fede comunista, essi non mettono in causa la struttura fondamentale del sistema, giacché la logica di questo è, da un punto di vista puramente concettuale, impeccabile. Nel caso delle democrazie di tipo occidentale, specialmente di quelle europee, la situazione è diversa, giacché si può dire che in esse l'equivoco è istituzionalizzato. In questi regimi, tutto - i fini non meno che le procedure, la filosofia non meno che la tecnica costituzionale - rivela un'impotenza a scegliere. Troviamo dappertutto opzioni e mai principî irreversibili. Ogni cosa vi è salvaguardata e promessa, sicché l'ordine giuridico, lasciato in balia del fluttuare delle contingenze, si presenta come un accampamento provvisorio, allestito in attesa di eventi. Gli elementi di stabilità, di solidità, di coerenza, sono inseriti in un quadro di sviluppo che il minimo incidente mette in crisi.

L'equivoco ha radici profonde, legate da un lato all'impossibilità per il popolo di fare a meno di mediatori a livello politico, e dall'altro all'ambiguità della nozione di autorità quando si tenti di inserirla nelle modalità democratiche di esercizio del potere.

Che il popolo abbia bisogno di mediatori, è cosa evidente. Non c'è democrazia realizzata senza partiti politici. Ma i partiti non sono semplici intermediari: essi sono anche organismi forniti di obiettivi propri. Che questi obiettivi coincidano, alla lunga, con la volontà di una parte del popolo, è cosa possibile; ma rimane il fatto che la strategia di partito impone direttive alla cui formulazione è raro che i governati abbiano preso pienamente parte. Poiché, infine, tutti gli organismi costituzionali sono lottizzati dai partiti, tra la volontà popolare e i meccanismi destinati alla sua piena attuazione si introduce uno iato. La frattura è tanto più netta in quanto i partiti, richiamandosi al popolo di cui sono i mandatari, pretendono di governare in suo nome. È a questo punto che si pone il problema dell'autorità. Come emanazione di partiti, essa sarà legittima soltanto agli occhi di chi ne viene soddisfatto e, poiché è impossibile governare accontentando tutti, l'autorità sarà sempre contestata. E, tuttavia, la democrazia ha bisogno dell'autorità più di ogni altro regime, giacché la gran quantità di progetti che il popolo vuol realizzare lo condanna a non poterli realizzare in prima persona. Nel momento stesso in cui giunge a comandare, è necessario che elegga dei capi. L'ambiguità si installa allora nel cuore delle istituzioni, giacché le leggi che le regolano vogliono governanti forti quando si tratti di realizzare la volontà del popolo e disarmati quando si tratti invece di resisterle. Emerge, per questa via, l'intera questione dei rapporti tra parlamento e governo, questione che non ammette soluzione, giacché il primo si rifà a ciò che è auspicabile, mentre il secondo si attiene a ciò che è possibile. I testi costituzionali non lesinano alle assemblee le prerogative del potere, poiché esse rappresentano il popolo sovrano; ma la vita politica rivela la loro debolezza, sia perché la divisione del popolo in fazioni rivali le condanna all'inerzia, sia perché la loro struttura e il loro modo di lavorare sono inadatti ai problemi delle società contemporanee. Quanto al governo, esso è allo stesso tempo sospetto, in quanto le sue responsabilità lo costringono a deludere l'attesa di ciò che è auspicabile, e fortissimo, allorché le assemblee, constatata la propria impotenza, si rassegnano a lasciargli realizzare il possibile. Alcune norme rafforzano la sua autorità, mentre altre la stemperano. La loro contraddittorietà rispecchia l'atteggiamento della democrazia dinanzi al potere: lo teme, ma sa di essere del tutto impotente senza di esso. Da qui quegli artifici costituzionali con cui si tenta di conservarne la virtù purificandolo dai vizi.

Le costituzioni democratiche contengono articoli che hanno un vero e proprio valore di esorcismi, come quelli che sanciscono la sovranità popolare, mentre ne contengono poi altri il cui fine è di mantenere aperte certe possibilità: ad esempio le norme che autorizzano la delega del potere legislativo al governo. Altri ancora hanno come unico eventuale effetto di tenere a freno nostalgie (si pensi al caso delle disposizioni relative alla separazione dei poteri). Ce ne sono infine altri che procedono per eufemismi: consacrando, ad esempio, la supremazia della legge quando in realtà è la burocrazia che, mediante i regolamenti vigenti e con decisioni di ogni genere, orienta la vita collettiva e impone ai governati i gravami più pesanti. Ma, in tutto questo groviglio di organi e di procedure, dove sta l'autorità vera, la forza animatrice dell'intero meccanismo? Nel popolo, risponde la teoria. Ma di quale popolo si tratta? Quello che manifesta le proprie tendenze nelle urne elettorali, o quello che si esprime mediante scioperi, blocchi stradali, dimostrazioni spettacolari? Niente di tutto ciò - risponderà l'osservatore che si vuole realista - l'autorità risiede nella tecnostruttura, che dissimula la propria forza nell'anonimato del suo modo di influire. Ma si crede che i gruppi di pressione sarebbero così audaci se gli individui non ne fossero complici? La verità è che in una società democratica l'autorità non è mai definitivamente localizzata. Essa sta ora là dove si tratta di difendere una situazione costituita, ora là dove emerge un'esigenza che vuole soddisfazione. Parlare della volontà del popolo significa accontentarsi di una formula molto astratta, giacché, in pratica, il più delle volte accade che il popolo si lasci influenzare piuttosto che esprimere una volontà propria e, quando vuole, non sempre vuole la stessa cosa; e, del resto, non si vale sempre degli stessi interpreti per esprimere le proprie aspirazioni.

Non può dunque sorprendere che la tecnica democratica si rassegni a istituzioni aperte a tutte le eventualità. Al filosofo, amante di sistemi meglio strutturati, allo storico, esperto nel discernere il giuoco di forze meno incerte, al giurista ortodosso, cui sono familiari costruzioni più coerenti, a tutti costoro i regimi democratici offrono un volto piuttosto sconcertante. E tuttavia, se si trattasse di giudicarli (come non è qui intenzione), sarebbe opportuno far precedere a qualsiasi valutazione la riflessione che le loro contraddizioni sono innanzitutto proprie della vita stessa. Certo, un tale regime ha poco stile; la vaghezza dei contorni e l'accumularsi di buone intenzioni lo rendono confuso, pudibondo e grigio. Ma potrebbe, se avesse una maestà maggiore, rimanere fedele a quel popolo di cui consacra politicamente l'avvento?

L'idea democratica trae il proprio valore dall'immagine generosa che essa ha degli uomini; la debolezza delle tecniche democratiche va imputata alla mediocrità di questi ultimi. È proprio per questo che, tra l'ideale e il reale, s'intreccia una dialettica la quale, al di là dei disinganni, continua sempre a far brillare la speranza.

3. Evoluzione dell'esigenza democratica

Se questo dinamismo dell'idea democratica viene considerato non più in astratto, ma nei fenomeni concretamente osservabili, si constata ch'esso ha dato luogo a un'evoluzione in cui sono distinguibili numerose fasi. In ciascuna di tali fasi la democrazia è apparsa come risposta a un problema posto da una situazione di fatto nettamente delimitata nel tempo dai fattori sociali, economici e morali che la determinavano. Se si può dire dunque che la democrazia è stata successivamente intesa come una garanzia della libertà, come uno strumento di giustizia e come una gestione del benessere, va però anche immediatamente sottolineato che queste interpretazioni, da un lato, corrispondono, per ciascuna società, a un determinato momento della sua storia, dall'altro, non si escludono reciprocamente. Per rilevare come il contenuto dell'idea democratica sia condizionato dall'ambiente e dalle circostanze è sufficiente un minimo di osservazione. I coloni della Virginia o del Massachusetts non concepivano la democrazia allo stesso modo in cui l'intenderanno, due secoli dopo, i negri di Harlem o i portoricani di Chicago. Né oggi il senso della democrazia è eguale sulle rive del Nilo e a Torino fra gli operai delle officine Fiat. La democrazia cambia aspetto a seconda del tenore di vita, del bagaglio intellettuale e della cultura dell'individuo che la crea. Di più, essa non è realizzabile secondo le medesime modalità per l'elettore che, a Londra, vota conservatore o laburista e per il contadino indiano che dà il suo suffragio al Partito del Congresso. Ci si può, certo, dolere del carattere contingente delle esigenze democratiche, che conferisce ai regimi ad esse ispirati una duttilità ribelle a ogni costruzione dogmatica. Ma si deve comprendere che è appunto a questa facoltà di adattamento all'ambiente che l'idea democratica deve non soltanto la sua vitalità, ma anche la sua unità profonda. L'idea democratica è una grande dispensatrice di istituzioni che, considerate isolatamente, possono apparire eteroclite, ma che, in essa, trovano il loro principio di coerenza. Le immagini della democrazia sono indubbiamente molteplici; sono però tutte momenti della medesima impresa che, prendendo a proprio fondamento il valore dell'uomo, mira a renderlo padrone del suo destino.

Ne deriva che l'evoluzione del contenuto dell'esigenza democratica, più che realizzarsi per successive mutazioni, segue un processo di addizione. È dunque inesatto affermare: la democrazia fu dapprima la libertà, poi la giustizia, quindi il benessere. La verità è che, se in un primo tempo essa fu certamente ricerca della libertà, divenne in seguito libertà più giustizia e infine libertà più giustizia più benessere. Questa osservazione è importante, perché spiega quell'arricchimento del concetto di democrazia che lo ha fatto slittare dal piano strettamente politico, dove si collocava quando gli uomini erano essenzialmente in cerca di libertà, al piano sociale, al quale si è allargato quando la democrazia è stata intesa come strumento di giustizia e di benessere. D'altronde, il fatto che l'evoluzione si sia prodotta non per sostituzione, ma per sedimentazione di esigenze che venivano ad aggiungersi le une alle altre, permette di comprendere come mai la pratica della democrazia divenga sempre più difficile. Più l'obiettivo è ambizioso, più sono disagevoli le strade che vi conducono. Finché la democrazia fu solo una formula politica, la sua realizzazione fu relativamente facile. Ma, non appena ha avuto di mira la trasformazione delle strutture sociali, essa s'è scontrata con resistenze che non ha potuto superare senza talvolta contraddire il proprio principio. Da qui la necessità di seguire cammini tortuosi e di giungere addirittura a rinnegare i principî, cosa che apparirebbe condannabile se non si tenesse presente che la ragion d'essere della democrazia non consiste nel conformarsi alla coerenza logica di una teoria, ma nel fornire agli uomini la possibilità di elevarsi sino all'alta idea che hanno di se stessi.

a) Garanzia della libertà

La democrazia è inseparabile dall'idea di libertà. Se viene definita come il governo del popolo da parte del popolo è in ragione di ciò che questa formula esclude: vale a dire il potere di un'autorità che non promani dal popolo. È quindi chiaro che prima esigenza della democrazia è un sistema di governo in cui le relazioni tra chi comanda e chi obbedisce siano fondate sul consenso dei governati. L'autorità permane ma, promanando dall'adesione di coloro che le sono sottomessi, risulta compatibile con la loro libertà.

Il fatto è però che la libertà ha più di un volto. Quello cui s'è inizialmente ispirata la democrazia è la libertà considerata quale prerogativa inerente a ciascun essere umano. L'uomo la porta in sé in quanto è persona autonoma. Si tratta in questo caso della ‛libertà-autonomia'. Ma, poiché tale autonomia è vulnerabile, gli uomini si sono preoccupati di proteggerla, se non contro tutti i pericoli, perlomeno contro quello ch'era il più temibile e di cui avevano un'esperienza immediata: il pericolo costituito dal carattere arbitrario del potere politico. Da qui la comparsa di un altro volto della libertà: quello che possiamo qualificare come ‛libertà-partecipazione', giacché consiste nell'associare i governati all'esercizio del potere per evitare che questo divenga oppressivo. Questa partecipazione è assicurata tramite i diritti politici: mediante il suffragio, ovviamente, ma anche mediante quelle prerogative che rendono quest'ultimo effettivo, come le libertà di stampa, di associazione, di riunione, ecc. Con questi diritti, di cui la Dichiarazione del 1789-1791 è l'espressione più alta, l'individuo sfugge alla più pesante delle servitù: la servitù politica, giacché la norma cui è vincolato promana dalla sua volontà.

È tuttavia essenziale notare che, in questa prospettiva, la libertà-autonomia e la libertà-partecipazione non si collocano sul medesimo piano. Esiste tra esse un rapporto gerarchico, in cui l'autonomia occupa il primo posto. La libertà politica non è fine a se stessa; essa non ha altra ragion d'essere che quella di garantire l'autonomia dei governati. Da qui il corollario - implicito ma di capitale importanza - secondo cui la libertà politica cessa d'essere legittima quando si propone altri fini. È per questo che la concezione originaria della democrazia è legata alla filosofia liberale. L'uomo ‛è' libero, e perché lo rimanga l'esercizio della funzione politica viene regolato in modo ch'egli possa averne il controllo. In altri termini, il diritto politico poggia sulla libertà individuale: non si giustifica che tramite essa e non ha altro oggetto che garantirne la piena realizzazione.

È su questo postulato che fu innalzato l'edificio della democrazia liberale. Si può certo contestarne la solidità, ma non è lecito tuttavia dimenticare che esso è stato il prodotto di un lungo sforzo di emancipazione spirituale, nel corso del quale - a partire dalla Riforma sino ai philosophes del XVIII secolo - è venuto emergendo il riconoscimento della libertà originaria della persona umana.

Evidentemente né la fede nella preesistente libertà dell'individuo nè la sua coscienza politica sono sufficienti ad assicurargli l'effettivo conseguimento della situazione che egli vagheggia. La democrazia liberale non pretende di essere un paradiso sotto ogni aspetto, né ritiene che tutto vada per il meglio nel migliore dei mondi: ciò ch'essa afferma in compenso è che, se nessun ostacolo è frapposto dal potere all'esercizio delle libertà individuali, particolarmente in campo economico, la condizione umana non potrà che diventare migliore. Il diritto alla felicità (the pursuit of happiness) figura nel novero dei diritti dell'uomo; ma è compito di ciascuno raggiungerla mediante un uso accorto della propria libertà. Si tratta quindi anche di una forma di resistenza al potere: se infatti i governati vi partecipano, è per limitarlo e non per servirsene. (V. libertà)

b) Strumento di giustizia

Fondata su tale prospettiva ottimistica, la scommessa risultò inevitabilmente perduta quando apparve chiaro, con i primi effetti della rivoluzione industriale, che se la libertà è una dignità che appartiene a tutti, non è però concesso a ognuno di poterne far uso. Divenne evidente il contrasto tra la libertà metafisica dell'uomo e l'asservimento cui lo sottopongono le costrizioni sociali ed economiche ch'egli sopporta. Di conseguenza, ciò che importa è introdurre nella società una giustizia che impedisca che la libertà sia soltanto privilegio di alcuni. La libertà politica, se non è associata all'eguaglianza, è solamente una mistificazione giacché, come Marx dimostrerà senza difficoltà, essa è soltanto una libertà formale destinata a servire da alibi a coloro che, detenendo il potere economico, sono i soli in grado di utilizzarlo per consolidare il proprio dominio. Per gli altri, vale a dire per tutti coloro che dispongono soltanto della loro forza-lavoro, la libertà politica è solo una prerogativa sterile. A che serve infatti che l'uomo sia libero di pensare, se l'esprimere la propria opinione lo espone all'ostracismo della società? Cosa importa che sia libero di discutere le proprie condizioni di lavoro, se la sua situazione economica lo costringe a piegarsi ai dettami del datore di lavoro? O anche che sia libero nella sua scelta quando depone nell'urna la scheda elettorale, se i mezzi di propaganda, la stampa e gli stessi candidati sono infeudati ai detentori del capitale?

Così, non appena i governati presero coscienza della forza insita nel loro diritto di voto, una buona parte di essi comprese anche ch'esso non esauriva l'esigenza democratica. Divenne chiaro che la libertà non è un dato preesistente, ma una facoltà che occorre conquistare. Al godimento di una libertà intemporale si sostituì l'attesa di una liberazione. Il concetto di democrazia assunse nel contempo una dimensione nuova. Da un lato, poiché la liberazione che si attendeva era inseparabile da una trasformazione delle strutture economiche esistenti, l'idea di una democrazia sociale venne ad arricchire l'imperativo democratico inserendolo nella stessa società e non più solamente nei rapporti tra governanti e governati. Dall'altro, questo nuovo obiettivo conduceva a una revisione del ruolo di un potere democratico. Anziché essere limitato al rispetto delle libertà preesistenti, esso diveniva strumento per la creazione di una libertà effettiva. Al potere garante imparziale dell'ordine costituito si sostituiva l'immagine di un potere creatore di realtà sociali.

La democrazia sociale mira all'emancipazione dell'individuo da tutte le catene che l'opprimono. Essa estende a tutti i campi il principio che caratterizza la democrazia politica: vale a dire, la partecipazione di chi obbedisce all'elaborazione delle norme che è tenuto a osservare. Ciò significa che la democrazia sociale comporta che, in qualsiasi settore essa operi, il potere sia subordinato al controllo di coloro che lo subiscono. E, poiché è in campo economico che tale potere grava più pesantemente sull'individuo, ciò che occorre intraprendere è l'eliminazione delle strutture di dominio. La giustizia sociale postula l'introduzione di un'eguaglianza reale tra gli uomini. Ora, è chiaro che tale eguaglianza può realizzarsi soltanto se tutti beneficiano, nelle medesime condizioni, dei vantaggi della vita sociale. La giustizia è il primo frutto della disalienazione. E poiché i fattori essenziali dell'alienazione stanno nell'assetto della proprietà, nel lavoro salariato, nelle forme di remunerazione, nell'insicurezza del posto di lavoro, nell'assenza di garanzie dinanzi all'infortunio, alla malattia o alla vecchiaia, la democrazia sociale coincide con l'avvento di un tipo di società dalla quale siano eliminate queste cause di servitù.

Un programma del genere amplia considerevolmente l'ambito dei diritti dell'uomo, giacché più che di garantire diritti ch'egli già possiede e di cui basta dunque riconoscergli la facoltà d'esercizio, si tratta di agire sull'ambiente che lo circonda per permettergli di esercitarli davvero. Si parla quindi di diritti sociali, in un duplice senso: da un lato, essi sono riconosciuti non a un essere astratto, ma all'uomo collocato in un ambiente determinato, che lo rende quale è; e, dall'altro, tali diritti si risolvono in crediti dell'individuo rispetto alla società. Mentre il diritto individuale protegge l'uomo contro il potere, il diritto sociale, il quale, tirate le somme, altro non è che la consacrazione giuridica del bisogno, richiede l'intervento dei governanti. Da questi ultimi appunto ci si attende che agiscano sulle strutture economiche e sociali al fine di renderle confacenti a quell'imperativo di giustizia che conferisce alla democrazia la sua dimensione reale.

La legittimità democratica di questo slittamento dell'ideale di libertà verso l'esigenza di giustizia è stata contestata. Cos'è mai questa giustizia - si è detto - la quale, per provvedere ai bisogni degli uni, esige che si attenti alla libertà degli altri? E quale politica, quale programma, quale legge potrebbero vantarsi di enunciare la giusta soluzione in un mondo così complesso in cui il giusto può essere ottenuto soltanto mediante ingiustizie che si compensino reciprocamente? L'obiezione sarebbe, a rigore, fondata se si trattasse di una giustizia assoluta, sul tipo di quella che, nella città platonica, assicura l'armonia tra esseri egualmente perfetti. Ma qui non si tratta di un ideale di questo genere. La giustizia, l'appello alla quale ha caratterizzato l'evoluzione dell'idea democratica, non è in contraddizione con la libertà: essa ne è piuttosto la condizione, giacché non si dà libertà senza possibilità di scelta. Non v'è libertà dove manchino le possibilità. Di conseguenza, perché tutti godano della libertà, è necessario che le loro possibilità siano eguali e dunque che gli ostacoli a questa eguaglianza, in primo luogo quelli che derivano dail'asservimento economico, siano eliminati. (V. eguaglianza)

Che il tendere verso la giustizia sia inerente all'idea democratica è talmente vero che, all'epoca in cui la borghesia dominante pretendeva, sotto la maschera del liberalismo, di porla esclusivamente al servizio della sola libertà formale, i beneficiari dell'ordine costituito poterono sostenere la loro tesi soltanto fingendo di ignorare la miseria fisica e morale delle classi lavoratrici. Naturalmente, essi non contestavano l'esistenza della condizione proletaria; ma negavano che potesse costituire un dato dell'azione politica. Un'ipocrisia elevata a sistema metteva tra parentesi ciò che si chiamava la ‛questione sociale' per indicare che essa non apparteneva al campo della politica. Ciò che, in fin dei conti, ha condannato il liberalismo è proprio questa arbitraria limitazione dell'ambito di competenza della politica e, per conseguenza, della finalità della democrazia. Era inevitabile che così avvenisse, giacché la politica non è, necessariamente, tale quale è definita dalle dottrine: essa è ciò che gli uomini vogliono che sia. E poiché la democrazia è la testimonianza del loro rifiuto di subire, fa parte della sua stessa essenza il procurare agli uomini il mezzo per assicurarsi la giustizia che li emancipi. Non si può riconoscere il potere del popolo e, contemporaneamente, vietargliene l'impiego in certe direzioni.

Ora, nel momento in cui l'idea di democrazia sociale esercitava sulle masse un grande fascino, questo uso del potere si collocava per molti in una prospettiva rivoluzionaria: rivoluzione per via legale, se la situazione parlamentare lo permetteva; rivoluzione per via violenta, se questa risultava essere l'estrema risorsa. Poste tra riformismo e rivoluzione, le vie che conducono alla democrazia sociale esigono una scelta estremamente impegnativa. In paesi come la Francia e l'Italia, in cui la rivoluzione avrebbe significato l'instaurazione di un regime comunista, l'equilibrio dei partiti ha rimandato questa scelta; ma la sua possibilità non ha cessato di pesare sulla vita politica negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. La democrazia politica di tipo pluralistico (v. sotto, cap. 4, § c, 2) potè così incamminarsi solo timidamente verso quella democrazia sociale della cui realizzazione proclamava tuttavia con forza la necessità.

c) La ricerca del benessere

L'idea di democrazia ha la sua origine in una psicosi di povertà. Poiché la quantità dei beni consumabili è limitata, si impone la costituzione di un'autorità capace di ripartirli equamente. Che si proceda secondo giustizia è sempre cosa auspicabile ma, in un mondo votato alla penuria, quest'imperativo diviene ancor più perentorio. È esattamente a questo modo che gli economisti classici - Smith, Malthus, Ricardo - vedevano la società. Ed è sempre per mitigarne la miseria che i socialisti lanciarono i loro appelli. Si comprende, in tali circostanze, l'asprezza della vita politica. Essa è, infatti, focalizzata sulla conquista del potere, giacché appunto da questo si attende la creazione di una società giusta, in cui il benessere che verrà agli uni sarà ottenuto mediante ciò che sarà strappato agli altri.

A questa immagine di una democrazia sociale, che si instaura al termine di una lotta di tipo rivoluzionario, era certo possibile contrapporre una visione meno aggressiva. L'esempio americano non mostrava forse che il livellamento delle classi, l'elevazione del tenore di vita, la liberazione dei lavoratori dall'insicurezza economica - in una parola tutti i contrassegni esteriori di una democrazia sociale - erano suscettibili di venire realizzati senza alcun trasferimento dell'autorità da un gruppo all'altro, senza che l'ascesa degli uni poggiasse sull'impoverimento degli altri, senza sostituire una nuova struttura sociale a quella su cui era stata edificata la potenza americana, senza che i progetti del potere schiacciassero gli sforzi dell'iniziativa individuale? Senza dubbio. Ma si riteneva che questa evoluzione fosse legata al peculiare ambiente americano, il quale beneficiava dei fattori favorevoli all'instaurazione di una democrazia sociale tramite la prosperità. Nei vecchi paesi europei, invece, impoveriti dalla guerra, privi ditali possibilità, l'avvento della democrazia sociale non si sarebbe realizzato senza un profondo travaglio.

Ora, l'accelerazione del progresso tecnologico e il vigoroso sviluppo economico - verificatosi a partire dagli anni cinquanta - hanno reso meno evidente l'esattezza di questa convinzione. Indubbiamente diversi fattori hanno contribuito a che, nell'agitato periodo postbellico, la prospettiva di estendere il potere popolare a tutti i settori della vita nazionale non abbia avuto un esito rivoluzionario. Da un lato la presenza americana e l'equilibrio delle forze contrapposte rendevano incerta una tale via e dall'altro molta gente, anche tra quanti avrebbero avuto tutto da guadagnarne, pensava che, se il prezzo di una giustizia futura dovevano essere le libertà presenti, esso era troppo alto. Di fatto, comunque, lo scontro non ebbe luogo. I preliminari della battaglia si stemperarono in un'atmosfera di attesa durante la quale, a prescindere dalle dottrine e dalle strategie dei politici, il rapido accrescersi della produzione industriale venne a mutare i termini del problema.

Sarebbe certo eccessivo prendere per abbondanza ciò che era soltanto una diminuzione della penuria e parlare di prosperità là dove non si poteva constatare che un regresso della miseria. Ma in politica l'immagine che ci si fa dei fenomeni conta più della loro realtà. Orbene, in un breve periodo di anni, all'incirca alla metà del nostro secolo, è andata generalizzandosi una nuova visione del mondo, che smentiva il pessimismo precedente. Nell'universo delle credenze diffuse, l'abbondanza finì col sostituire la povertà. Perché mai la penuria dovrebbe essere ineliminabile, dal momento che gli uomini sono ormai intellettualmente e tecnicamente in grado di ottenere che la natura provveda ai bisogni di tutti? Sostenuta dallo spettacolo dello sviluppo delle società industriali, che dalle rovine della guerra fecero sorgere il ‛miracolo' della loro ripresa, incoraggiata dai progressi della scienza economica, che appariva in grado di garantire la crescita, verificata da molti in base all'elevarsi del tenore di vita, questa convinzione ha raggiunto le proporzioni e la risonanza delle vecchie ideologie di cui segnava il declino.

Ci si potrebbe ovviamente domandare se si tratti di una convinzione fondata e indagare se il compiacimento con cui è sostenuta dai beneficiari dell'ordine costituito non celi secondi fini tutt'altro che disinteressati. Ma qui ci basta rilevare come la promessa di una società opulenta - per quanto lontana ne appaia ancora la realtà - conferisca alla vita politica uno stile che rivela una nuova trasformazione del significato attribuito all'idea democratica.

Si tratta cioè non più tanto di conquistare il potere affinché questo, promanando dalle categorie sociali più sfavorite, redistribuisca la penuria, quanto invece di ottenere da esso che accresca la prosperità. Infatti, una volta ammesso che la torta non è irrimediabilmente insufficiente, ma che può crescere sino a soddisfare gli appetiti di tutti, ciò che conta è non più lo spartire, ma il produrre. Certo, da questo calcolo la giustizia non rimane esclusa, ma si ritiene che la si raggiungerà più facilmente distribuendo un profitto accresciuto piuttosto che mediante le restrizioni imposte da un'economia stagnante. Il potere diviene così il promotore di un benessere che non esige più che gli abbienti siano sacrificati a vantaggio dei diseredati. Il problema non è più quello di eliminare il capitale, ma quello di farlo fruttare in modo che la totalità del gruppo possa godere dei suoi prodotti. L'esigenza democratica viene così a confondersi con una volontà di benessere. Ci si preoccupa più che dell'origine del potere e delle sue tecniche di esercizio, dei vantaggi materiali che esso procura ai governati.

L'assunzione di una tale meta riserva naturalmente il ruolo principale ai tecnici, la cui preoccupazione è la produttività. La via della democrazia non passa più per il sogno, ma per la riflessione sulle statistiche. Tuttavia un tale mutamento di prospettiva non sarebbe stato possibile se la gran massa degli individui - quelli che ancora poco tempo fa si sentivano ai margini della società, in cui erano inseriti solo fisicamente - non fosse giunta a ritenere che questa poteva essere anche la loro società. Si tratta di una mutazione spirituale cui hanno contribuito tutti i fattori dell'evoluzione tecnica, economica e culturale che tramite i mezzi di comunicazione di massa accelerano il processo di integrazione sociale. Non è certo possibile affermare che tale integrazione sia già un fatto compiuto; non vi è del resto qui la possibilità di accertarsi se non si rischi di raggiungerla a prezzo di un avvilimento della condizione umana. Ciò che ci interessa rilevare è soltanto che, se si prescinde dai contestatori - raggruppati, per comodità di discorso, sotto la denominazione di gauchistes - la maggioranza dei membri della società tecnologica accetta i suoi meccanismi di funzionamento. Ciò non vuol dire che gli uomini considerino questa come la loro società perché vi si trovano bene, ma significa che la società ch'essi immaginano come più accogliente o più generosa è soltanto un'estrapolazione dei caratteri di quella presente. Ch'essa non soddisfi le aspirazioni di tutti è cosa evidente, ma quella concepita come capace di soddisfarle non sarebbe altro che la società attuale arricchita dal realizzarsi di tutte le virtualità materiali in essa racchiuse. In altri termini, tra la società esistente e quella che si auspica non c'è differenza di natura, ma soltanto una differenza di grado nella realizzazione degli obiettivi.

Senza dubbio i conflitti d'interesse non sono stati eliminati e neppure i conflitti di classe; ma si è venuta costituendo, al di là di questi antagonismi, una solidarietà fondata sulla volontà di mantenere - e se possibile di accelerare - lo sviluppo economico. Accettata questa finalità, tutti hanno l'impressione di trovarsi sulla stessa barca. Certo tra i passeggeri vi sono quelli di prima e quelli di terza classe; ma poiché si è d'accordo sullo scopo del viaggio, nulla impedisce di estendere a tutti le comodità di alcuni. Per di più, se la nave va a fondo, tutti finiranno annegati.

In questa prospettiva, la lotta per la conquista del potere appare a un tempo sorpassata e sterile. Sorpassata perché, in una società a sviluppo avanzato, la gestione degli affari pubblici lascia ai governanti solo un margine di decisione estremamente ridotto. Se, quindi, non c'è possibilità di una politica di ricambio, a qual pro battersi per insediare nelle cariche di governo uomini che sarebbero costretti a fare ciò che facevano i loro predecessori? Sterile perché l'agitazione creata dalla competizione politica genera un'incertezza e un disordine che pregiudicano il rendimento dell'apparato economico.

Esclusa la competizione in senso più pieno, la democrazia non lascia aperta altra via che quella di una partecipazione all'esercizio del potere. Ed è appunto questo lo slogan fondamentale di cui si servono i governanti odierni per associare gli individui alla loro politica. Ovviamente gli organi costituiti per consentire tale partecipazione offrono il vantaggio di trattare i problemi a un livello tale che i governati se ne sentano direttamente investiti e possano apportar loro soluzioni concrete: habitat, ambiente, formazione professionale, sviluppo regionale, ecc. Ma la decisione può intervenire soltanto nel quadro delle scelte fissate dal potere; cosicché per molti partecipare significa rendersi complici dell'ordine costituito. Questo stato d'animo, unito al fatto che la partecipazione è, per la dedizione quotidiana che esige, meno esaltante della lotta, spiega come mai la partecipazione abbia trovato sinora ben scarso seguito nelle masse operaie.

d) La democrazia contestata

Sembrerebbe proprio che, con la concezione che vede nella democrazia il regime generatore e dispensatore del benessere, l'esigenza democratica sia giunta al suo limite. Ci si può persino domandare se le vie che conducono a soddisfarla non siano, in ultima analisi, incompatibili con l'obiettivo che ha sempre stimolato il movimento democratico, vale a dire la piena esplicazione della dignità umana. È comunque giocoforza constatare che proprio la coscienza di questa incompatibilità è, almeno in parte, all'origine della forma contemporanea di critica della democrazia, così come viene espressa non soltanto dalla contestazione gauchiste, ma anche da numerose persone le quali, pur fondamentalmente democratiche, temono che la virtù della democrazia sia compromessa dall'eccesso delle sue pretese.

Non si tratta qui di un riemergere della critica tradizionale, la quale ha costantemente denunciato, da E. Burke sino a Ch. Maurras, passando per J. de Maistre e L. G. A. de Bonald, la vanità delle volontà umane quando queste pretendano di rifare il mondo a dispetto delle leggi immutabili che presiedono all'ordinamento delle società. Né tanto meno si tratta di una riabilitazione delle dottrine fasciste, con la loro esaltazione del culto del capo e la loro contrapposizione del carattere virile del vincolo diretto tra uomo e uomo alla fiacchezza delle istituzioni, il cui anonimato sarebbe solo e soltanto la copertura di interessi particolari, di egoismi e di viltà. Ciò che è in causa non è né la natura dell'ordine sociale né il fondamento dell'autorità, ma, hic et nunc, l'incapacità di un potere, quale che sia l'ideologia cui si richiami, a procurare agli individui le possibilità di una vita piena e libera, e ciò proprio nel momento in cui esso si vuole fedele al loro appello. Il potere della democrazia del benessere è asservito alla società esistente e, per democratico che possa esserne l'esercizio, tale servitù lo condanna.

In tal modo sono messi sotto accusa non tanto i governanti, quanto la società al cui servizio essi si pongono. La verità è che la società in questione non è una società qualsiasi, ma quella specifica società in cui siamo inseriti e che viene chiamata società dei consumi se si fa riferimento all'ideale che la guida, società fondata sul mercato se ci si attiene ai suoi meccanismi economici, e società industriale se si pone l'accento sulle forze che mette in opera. Ma tutte queste qualifiche derivano da un unico fenomeno, ossia l'importanza del ruolo assunto dalle tecniche. Sarebbe indubbiamente puerile affermare che le tecniche siano una scoperta del nostro secolo; la storia infatti non offre esempi di società che le abbiano ignorate. La novità è data dal fatto ch'esse hanno cessato di svolgere il ruolo subalterno che, per secoli, le ha rese uno strumento per realizzare le finalità concepite dallo spirito umano. La tecnica impone oggi agli uomini di servire gli obiettivi a lei propri. Un tempo il potere dei monarchi si appropriò dell'invenzione della polvere da sparo, facendo del cannone lo strumento delle proprie decisioni. Oggi la situazione è rovesciata: sono la scissione dell'atomo o le imprese dell'astronautica che determinano i programmi politici. In una parola, la finalità sociale è concepita in funzione delle esigenze del progresso tecnico.

Data l'estrema varietà delle tecniche, ci si potrebbe domandare se non sia una forzatura pretendere ch'esse convergano tutte verso un unico obiettivo. Ma si dimenticherebbe così che le tecniche sono tutte guidate da un'unica preoccupazione: il continuo progredire dello sviluppo economico. Si è avuta così, all'interno delle società, la nascita di quella che J. K. Galbraith ha chiamato la tecnostruttura, vale a dire un sistema di poteri che traggono dalle tecniche di cui dispongono in tutti i campi gli strumenti per il controllo di tutti i meccanismi sociali. Ha scritto H. Marcuse che ‟l'apparato tecnico di produzione e di distribuzione [...] funziona non come la somma di semplici strumenti, che possono essere isolati dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un sistema che determina a priori il prodotto dell'apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 13).

A parte il tono eccessivo, è innegabile che quest'analisi è, nel suo insieme, esatta. Ma in che misura l'idea democratica viene ad esserne intaccata? Non c'è dubbio che, nelle società altamente sviluppate, l'estensione degli obiettivi del potere, la preoccupazione di accrescere il prodotto nazionale lordo e il timore di una recessione comportino la creazione di tecnostrutture come luogo d'incontro di governanti e di dirigenti delle imprese private, visto che i loro interessi sono solidali; ma, si dirà, questa tecnicizzazione del potere è meramente strumentale e non altera l'autonomia della sfera politica, giacché il potere, le cui scelte rimangono libere, resta padrone dei propri fini. E poiché la scelta dei fini rimane aperta, la volontà popolare può determinarne la sostanza.

È questa un'illusione, alimentata dalla formidabile potenza dello Stato moderno che appare, più ancora del Leviatano di Hobbes, come il dio alla cui volontà la società nel suo insieme deve il proprio stile e ciascuno di noi, in particolare, la possibilità di vivervi. Occorre però tener presente che il moderno Leviatano è incatenato dalle sue stesse pretese. La tecnica gli detta gli obiettivi, come una truppa mercenaria in rivolta che imponga al generale sia il nemico da combattere sia il luogo della battaglia. Poiché la crescita è l'ipotesi di base - la cui realizzazione condiziona tutti i programmi statali - lo Stato è vincolato agli imperativi tecnici dello sviluppo. Consideriamo, ad esempio, la pianificazione, che costituisce dappertutto - ufficialmente o implicitamente a seconda dei vari paesi - la struttura portante dei progetti politici: sembrerebbe ragionevole attendersi che lo Stato, in teoria completamente libero di determinare le linee future di intervento, includa nel piano la soddisfazione dei bisogni trascurati dalla tecnostruttura. Dovrebbero cioè figurare nel piano le esigenze dei servizi pubblici non remunerativi, la salute, la lotta contro l'inquinamento, l'umanizzazione dei trasporti collettivi, l'organizzazione dei luoghi di riposo e di svago, l'aspetto estetico della vita quotidiana, ecc. E indubbiamente preoccupazioni di questo tipo non sono totalmente assenti dai documenti elaborati dalle équipes di pianificatori. Ma è ben chiaro che esse vi sono inserite alla stregua di mere clausole retoriche. I mezzi destinati a soddisfare tali esigenze rimangono nell'indeterminato, oppure sono caratterizzati da una pericolosa elasticità. Ma il prodotto nazionale lordo, il tasso di sviluppo e il volume degli investimenti produttivi non sono soggetti da trattare in modo così disinvolto. Essi sono al centro del sistema. Qui, è la tecnostruttura a comandare.

E i suoi imperativi sono tanto più tassativi in quanto non hanno bisogno di ricorrere alle forme brutali con cui, un tempo, il capitalismo trionfante imponeva ai governanti i propri punti di vista. Essa agisce con la mediazione delle mentalità individuali. Plasmate dalla pubblicità, dai mezzi di comunicazione di massa, dalle mode intellettuali, queste esprimono, in maniera anonima ma con un'enorme efficacia, i bisogni da cui la tecnostruttura trae la sua legittimità. L'uomo socializzato non è più in grado di agire nella e sulla società. È la società che agisce tramite lui. E poiché egli deriva dalla società gusti e pensieri, aspettative e delusioni, non può evitare di fare propri i simboli che essa venera e di aderire alle finalità da essa concepite. In una simile situazione è vano attendersi che i governati aiutino il potere a emanciparsi dallo stato di subordinazione in cui lo tiene la società tecnologica. Le istituzioni democratiche ne risultano snaturate sino al punto di divenire un mezzo di espressione del conformismo generale. L'asservimento degli uomini fa sì che il potere sia vincolato. E dunque, si giunge a dire, la democrazia non può liberare gli uomini. Al contrario: determinati dai bisogni e dai desideri che la società tecnologica alimenta in essi, gli uomini esigono e ottengono dal potere che esso metta in opera per soddisfarli l'intero apparato della sua potenza. Né a livello della comunità né a livello dei progetti del potere vi sono margini per una libera scelta degli obiettivi politici. Un'unica finalità impone scopi e mezzi: quella che, sotto il nome di progresso, mira a impedire l'arresto dell'enorme e schiacciante meccanismo sociale.

Non è questa la sede per discutere la fondatezza di tale analisi. Basti rilevare come sia essa che conduce una parte dell'opinione pubblica, i giovani in particolare, a considerare le istituzioni democratiche come strumenti di oppressione, oppressione che non nascerebbe più, come un tempo, dall'arbitrio dei governanti, ma sarebbe esercitata anonimamente da una società che non rispetta la vocazione dell'uomo. Questo atteggiamento racchiude uno dei pericoli più gravi cui la democrazia possa andare incontro, giacché la priva dell'energia necessaria al suo funzionamento. Poiché non si crede più nell'efficacia delle armi, si finisce col disertare la battaglia.

4. La democrazia come forma di governo

L'idea di porre nella collettività stessa il fondamento dell'autorità che la regge è antica quanto il pensiero politico. Ma, se presuppone necessariamente l'origine popolare del potere, la democrazia esige anche che il popolo, supporto dell'autorità politica, sia messo in grado di esercitarla o, perlomeno, di controllarne l'esercizio. In pratica il problema si risolve nella creazione di istituti costituzionali in virtù dei quali la volontà del gruppo possa determinare l'atteggiamento dei governanti. Non è però lecito pensare che l'elaborazione di meccanismi di governo democratici comporti soltanto la scelta delle procedure tecniche mediante le quali il popolo farà conoscere la sua volontà. Prima di organizzare l'espressione di questa volontà, occorre sapere dove essa risieda. La democrazia è il governo del popolo. Sia pure! Ma che cos'è il popolo che governa?

a) Il popolo della democrazia

1. Il popolo di cittadini. - Nella concezione originaria della democrazia, che vuole la libertà-partecipazione complemento della libertà-autonomia, il popolo è un'entità omogenea costituita dall'insieme dei cittadini. La sua volontà risiede nell'entità collettiva ‛nazione'. Essa è qualificata come sovranità nazionale ed è a tale titolo che s'impone ai governanti. Questa tesi ebbe il suo riconoscimento ufficiale in Francia dai membri della Costituente, che la inclusero nell'articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789: ‟Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione". Senza dubbio a questa concezione, che vedeva nel popolo un'entità indivisibile proprio ad evitare che la sovranità potesse essere frazionata, sembra opporsi la differente interpretazione di Rousseau secondo la quale la sovranità ha per sua sede ciascun individuo facente parte del gruppo nazionale e, di conseguenza, la sovranità del popolo non può essere altro che una somma di sovranità individuali. Prendendo atto di questa apparente contraddizione, gli esegeti hanno creduto di poter distinguere tra l'allegoria nazionale, concepita dall'assemblea costituente perché fosse il fondamento del potere (sovranità nazionale), e il popolo così come lo concepiva Rousseau, ossia un'accolta di individui ciascuno dei quali detiene una particella della sovranità (sovranità popolare).

In realtà tale opposizione si risolve nel concetto di cittadino, che costituisce - per Rousseau come per i costituenti del 1791 - il vero fondamento del potere. In effetti l'individuo in cui il Contratto sociale colloca l'origine della sovranità non è un essere di carne e sangue, la cui volontà sia determinata dalla condizione sociale o dal genere di vita, ma un individuo che - puro spirito e coscienza pura - ascolta in se stesso i dettami della ragione. In una parola, esso è il cittadino, che non coincide, come ci chiariscono le Considerazioni sul governo di Polonia, con l'‛uomo di natura'. Sono Licurgo, Mosè o Numa che lo formano dandogli ‛costumi e usanze', vale a dire modellandolo mediante l'educazione civica. Prodotto di un'ascesi spirituale non molto dissimile da quella che Ignazio di Loyola imponeva ai suoi discepoli, il cittadino ascolta in se stesso la volontà generale. Scrive Rousseau: ‟ogni individuo può, in quanto uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare può parlargli in modo molto diverso dall'interesse comune" (Contrat social, lib. I, cap. VII; tr. it. in: Scritti politici, vol. II, Bari 1971, p. 96). Se si piega a questa voce particolare, l'individuo non è più sovrano. Egli è infatti tale, soltanto in quanto aderisce alla volontà generale la quale esprime ciò che, razionalmente, è il bene della collettività, senza fare posto alcuno alle differenze di aspirazioni o ai conflitti di interessi che dividono i membri del gruppo. Ne risulta che l'individuo, membro della sovranità, non ha più diritto di far valere la propria volontà individuale (quella che Rousseau chiama, per respingerla, la sua volontà particolare) di quanto non l'abbia l'individuo membro della nazione nella teoria della sovranità nazionale. In ambedue i casi, l'individuo è oggetto dell'alienazione denunciata da Marx: nell'un caso si aliena nella volontà generale, nell'altro nella nazione. Se la democrazia classica accetta ch'egli corra questo rischio, è perché i suoi teorici ritengono opportuno pagare un tale prezzo per l'unità primordiale del potere e, di conseguenza, della collettività che ne è il fondamento.

2. Democrazia diretta e democrazia rappresentativa. - C'è tuttavia un punto in cui la tesi di Rousseau porta a una conseguenza originale: ossia circa il modo di espressione della volontà del popolo. È chiaro che, se si ammette che ciascun cittadino detiene una particella della sovranità e che non può delegarla senza alterarla (Contrat social, lib. II, cap. I), la decisione sovrana - e, in primo luogo, la legge - sarà valida soltanto se ciascuno avrà espresso personalmente il proprio assenso al riguardo. Questo intervento dei membri della collettività che deliberano, senza intermediari, sui problemi che impegnano l'avvenire del gruppo, realizza la ‛democrazia diretta'. In teoria essa è - si afferma - la sola formula che soddisfi realmente l'esigenza democratica, giacché per suo mezzo si attua quella identificazione di governanti e governati che è l'asintoto di ogni sistema democratico. Ma una soluzione del genere è, di fatto, impraticabile, non fosse che a causa dell'impossibilità di mobilitare il popolo in permanenza e di convocarlo tutto nello stesso luogo per chiamarlo a deliberare. È per questo che la democrazia diretta non ha mai avuto un'applicazione integrale. Ma, non potendo eliminare completamente i mediatori, il popolo può almeno iscrivere nella costituzione il proprio diritto a intervenire direttamente in certe circostanze e per le decisioni più gravi. L'iniziativa legislativa popolare, il veto e il referendum gli garantiscono appunto tale facoltà.

Questi istituti sono estremamente diffusi. Oltre che in Svizzera (dove si riserva loro così largo spazio, ai vari li- velli comunale, cantonale e federale, che si è potuto dire che le votazioni chiamano i cittadini elvetici all'esercizio di una seconda professione), il referendum e l'iniziativa legislativa popolare sono previsti dalle costituzioni dei singoli Stati membri degli Stati Uniti, dalle costituzioni australiane, da quelle dei Länder della Repubblica Federale Tedesca, da quelle dell'URSS e di alcune democrazie popolari. In Francia è stato frequentemente utilizzato il referendum costituente ma, in materia di leggi ordinarie, l'istituto referendario fu introdotto soltanto con la costituzione della Quinta Repubblica.

Questo generalizzarsi degli istituti della democrazia semidiretta non deve però creare illusioni. Da un lato gli interventi diretti del popolo sono rari, tranne che in Svizzera, dall'altro, ed è ciò che più conta, il loro fondersi con il sistema rappresentativo ne altera il significato originale. Essi finiscono per costituire, più che uno strumento destinato a permettere al popolo l'espressione spontanea della sua volontà, un'arma utilizzata dagli organi elettivi per far prevalere questa o quella particolare opinione nei conflitti che li dividono.

In realtà è illusorio credere che, nello Stato moderno, il popolo possa esercitare il suo potere senza delega. Non a caso, in tutti i paesi in cui vige la democrazia, questa esiste soltanto sotto la forma rappresentativa, appena temperata in qualche caso, ma più in teoria che in realtà, dal referendum o dall'iniziativa legislativa popolare. Va peraltro sottolineato che, nel suo significato originario, la rappresentanza non si giustificava esclusivamente per la sua necessità pratica. Essa si richiamava a un fondamento razionale, che svela il senso profondo della democrazia rappresentativa. Infatti lo scopo della rappresentanza, così com'essa fu originariamente concepita e applicata, consiste non già nel permettere la manifestazione di una volontà preesistente nel corpo nazionale, ma piuttosto nel dotare il popolo di una volontà. Secondo l'espressione che torna incessantemente nei discorsi pronunciati dinanzi alle assemblee della Rivoluzione francese, la funzione dei rappresentanti è di ‛volere per la nazione'. Ciò significa che la volontà esiste soltanto dal momento in cui un atto dei rappresentanti ne fa conoscere la sostanza. Designando i suoi rappresentanti la collettività non delega loro il potere di interpretare le proprie aspirazioni, ma li autorizza a dire ciò ch'essa vuole, a esprimere una volontà che, una volta formulata, le sarà imputata. La rappresentanza attua non già una traslazione, ma una dichiarazione di volontà.

Torneremo presto sulle conseguenze di questa teoria in materia di assetto e di funzionamento delle istituzioni politiche. Ma ciò che occorre sottolineare è ch'essa è stata concepita non tanto per promuovere la democrazia, quanto per prevenirne gli eccessi. Il problema che la media borghesia portata al potere dalla Rivoluzione doveva risolvere era chiaro. Si trattava da un lato di scalzare l'autorità monarchica, ciò che fu ottenuto affermando la sovranità del popolo, e dall'altro di impedire che questo popolo, elevato all'autorità suprema, ne abusasse per imporre le proprie demagogiche decisioni. Innalzata come uno schermo tra le esigenze del popolo nella sua realtà sociologica e le volontà ad esso attribuite, la rappresentanza rispondeva bene a questa preoccupazione. Essa fu costituita infatti per fungere da correttivo a quella che Sieyès chiama la ‟democrazia pura".

3. L'avvento del popolo reale. - È oggi di moda denunciare, nell'immagine del popolo che fu così proposta, una sorta di simbolo mistificatore, destinato a scongiurare gli effetti del potere popolare. Ma chi considera l'allegoria nazionale null'altro che un'impostura escogitata dalla classe dominante per riservarsi l'esclusiva dell'espressione dei desiderata della nazione, trascura un aspetto essenziale della realtà. La verità è che, nel corso del XIX secolo, le istituzioni democratiche poterono progressivamente insediarsi soltanto perché il popolo rassomigliava davvero alla sua immagine. Essere un popolo di cittadini gli era sufficiente, perché le prerogative connesse a questo titolo apparivano ancora apprezzabili. Certo, in una siffatta democrazia formale, il cittadino non può esigere tutto; egli è vincolato dall'abnegazione impostagli dal civismo. Ma il ricordo del tempo in cui l'uomo era soltanto un suddito era abbastanza recente perché, per contrasto, ci si sentisse liberi partecipando con la scheda elettorale all'esercizio del potere sovrano.

E tuttavia nel momento stesso in cui la democrazia di cittadini diveniva il regime giuridico comune alle nazioni civilizzate, le esigenze della libertà si facevano più ambiziose. Il popolo s'è impadronito del potere per proteggere la propria libertà; perché non gli sarebbe possibile utilizzare questo stesso potere per portare la libertà a coloro che ne sono ancora privi? Poiché la libertà propria del cittadino l'ha liberato dall'arbitrio politico, l'individuo si serve ora dei suoi diritti di cittadino per emanciparsi dalle altre forme di oppressione e specialmente da quelle di ordine economico e sociale. Lo sviluppo del suffragio universale abituò l'elettore all'efficacia della scheda elettorale e, risvegliato dalle nascenti dottrine socialiste, egli prese coscienza della disparità esistente tra la nobile condizione del cittadino e la situazione del lavoratore asservito dalle necessità economiche.

È allora che, nella concezione della democrazia, all'allegoria nazionale si viene a sostituire un popolo che possiamo affermare come interamente nuovo. Dopo diversi tentativi prematuri, del cui fallimento il cartismo in Inghilterra, la Rivoluzione del 1848 e la Comune del 1871 in Francia sono altrettante tappe, l'avvento di questo popolo reale si attuò attraverso le istituzioni vigenti, mediante l'accesso per via legale dei rappresentanti delle masse operaie ai parlamenti della democrazia borghese. La struttura istituzionale ne fu appena incrinata, ma la spinta che animava il sistema amministrativo era di natura talmente nuova che tutto il funzionamento ne fu influenzato. Il fatto è che, con l'avvento del popolo reale, entra sulla scena politica un essere nuovo: l'uomo concreto, definito non dalla sua essenza, dalla sua parentela con un tipo ideale o dalla ragione che ha sede in lui, ma dalle particolarità ch'egli deve alla situazione contingente in cui si trova. Quest'uomo, che è un prodotto del suo modo di esistere, è l'uomo che chiameremo ‛situato': è quello stesso che incontriamo nelle relazioni della vita quotidiana, quale è caratterizzato dalla sua professione, dai suoi mezzi e dal suo modo di vivere, dai suoi gusti, dai suoi bisogni e dalle possibilità che gli si offrono. In una parola, è l'uomo condizionato dal suo ambiente, che viene rivelato non da una riflessione metafisica sul suo essere, ma dall'osservazione della sua maniera di essere. Ora, tra la varietà infinita dei fattori che determinano questa situazione, ce n'è uno che svolge un ruolo preponderante: il lavoro. In un universo in cui un uomo è valutato solo in funzione della quantità di beni di cui può disporre, scompare la distinzione tra l'individuo e il lavoro che svolge. Fino a un'epoca recentissima (v. sotto, § d), l'uomo si identificava con il lavoratore, giacché senza lavoro cessava di essere. A ciò si deve se il popolo degli uomini ‛situati' s'è affermato da principio come il popolo dei lavoratori. E poiché si trattava non tanto genericamente di tutte le specie di lavoro, quanto eminentemente del lavoro manuale, le società nate dalla prima rivoluzione industriale furono società operaie.

A differenza di quanto era avvenuto per il cittadino, l'avvento dell'uomo ‛situato' non è stato preparato da alcuna dottrina. Esso s'è imposto con l'evidenza brutale dei fatti, come conseguenza delle trasformazioni sociali dovute al rinnovarsi delle tecniche produttive e allo sviluppo del sistema capitalistico. Ma, malgrado questa sua spontaneità, il fenomeno è stato colto da una filosofia sociale - il marxismo - con una comprensione così esatta della sua portata innovatrice e un'intuizione così acuta delle sue conseguenze che, per una circostanza rara nella storia delle idee, fatto e dottrina si sono compenetrati al punto da divenire inseparabili. Non è evidentemente il caso di esporre e neppure di ricordare qui la dottrina di Marx; ma è perlomeno necessario constatarne, indipendentemente da ogni giudizio di valore, l'ascendente sulle masse. Tale ascendente poggia non tanto sull'esattezza di questa o quella analisi economica, quanto su una presa di coscienza della realtà umana delle masse operaie. Prima d'essere rivolta o profezia, il marxismo è testimonianza: è l'espressione degli uomini ‛situati'. Esso implica una trasformazione nel modo di concepire l'origine della forza politica e di prospettare i fini del potere. Da tale trasformazione l'idea democratica e le tecniche della sua attuazione uscirono rinnovate. Anche là dove il quadro formale della democrazia rappresentativa è stato conservato, nel momento in cui ha dovuto accettare il popolo reale come motore e l'uomo ‛situato' come fine di ogni dinamica politica, esso ha assunto un significato radicalmente nuovo.

b) Democrazia governata e democrazia governante

Fatta eccezione per i paesi di osservanza marxista, questa trasformazione del potere popolare ha avuto ripercussioni solo marginali sui testi delle costituzioni. A leggerli, si potrebbe crederli atemporali, tanto le formule odierne assomigliano a quelle che furono adottate più di un secolo fa. Una tale permanenza delle istituzioni (suffragio politico, parlamento, governo responsabile, ripartizione delle competenze tra i diversi organi) sarebbe stupefacente se non vi si scorgesse chiaramente una cecità voluta. Fingendo di credere che le tecniche tradizionali siano in grado di adattarsi a un potere popolare altrettanto nuovo nella sua struttura che imperioso nelle sue ambizioni, si spera di poter conciliare, per non so quale virtù che sarebbe riposta nelle istituzioni tradizionali, il potere delle masse con la libertà dell'individuo. Ma la verità è che la democrazia contemporanea è stata mal servita dalla mancanza di coraggio o di immaginazione dei costituzionalisti (compilatori di costituzioni e teorici), i quali non hanno saputo rinvenire le forme istituzionali in cui essa potrebbe esprimersi e concretarsi.

Per mettere in evidenza la cesura, mal dissimulata dalla continuità delle istituzioni, io ho proposto di qualificare come democrazia governata il regime di un tempo, fondato sul potere della nazione, e come democrazia governante quello odierno, in cui domina la volontà del popolo reale. Sarebbe naturalmente possibile discutere circa l'adeguatezza di queste denominazioni, ma la realtà delle differenze che esse indicano rimarrebbe comunque inalterata.

La democrazia governata, forma prima della democrazia rappresentativa, è un regime in cui il popolo è incontestabilmente sovrano, giacché i governanti promanano da lui e inoltre esso è signore dell'opera compiuta dalle istituzioni dello Stato. Solo che la maniera in cui viene chiamato a costituirsi - mediante il suffragio - e quella in cui i meccanismi costituzionali fanno emergere la sua volontà - mediante un compromesso tra le tendenze reali - fanno sì che il popolo sia il supporto di un insieme di valori oggettivamente determinati e indifferenti agli impulsi della folla come alle fantasie individuali. La molla morale di questa democrazia, costruita razionalmente perché nata non da una rivolta degli umili, ma dalla speculazione degli scrittori politici, è il civismo, la più eroica delle virtù; la sua molla politica è il cittadino, vale a dire un tipo d'uomo prodotto esclusivamente dalla ragione e dalla cultura. Ne risulta che, in un tale sistema, è il cittadino che governa, mentre gli uomini reali - con le loro personali predilezioni, i loro bisogni, i loro interessi e le loro ambizioni - sono governati. Ma questo regime è democrazia governata in misura anche maggiore a causa dell'indipendenza di cui godono in esso i governanti. Certo, a termini di legge, le loro decisioni debbono ispirarsi ai desiderata popolari. Ma di fatto essi sono indipendenti, perché sono stati investiti del potere non già per essere i portavoce di una classe o di una tendenza sociale determinata, ma per dire ciò che la nazione vuole nella sua unità e indivisibilità. Il mandato che ricevono è la testimonianza di una fiducia che li libera e non già di un sospetto che li paralizzerebbe. ‟Il parlamento - diceva Burke agli elettori di Bristol che lo avevano eletto nel 1774 - non è un congresso di ambasciatori rappresentanti interessi diversi e ostili; esso è l'assemblea deliberante di una nazione, che ha di mira un solo e medesimo interesse, quello del paese [...]". Nello stesso spirito, J. Madison scriveva nel Feaeralist, questa bibbia della democrazia americana prima maniera, che ‟l'effetto della rappresentanza è di purificare e render più aperto lo spirito pubblico filtrandolo in un ambiente formato da un corpo scelto di cittadini, la cui saggezza saprà distinguere il vero interesse della loro patria, e che saranno meno disposti, in virtù del loro patriottismo e del loro amore di giustizia, a sacrificare questo interesse a considerazioni transitorie o parziali". Ed è sempre per sottolineare l'assenza di subordinazione giuridica dell'eletto ai suoi elettori che in Francia l'Instruction dell'Assemblea Nazionale dell'8 gennaio 1790 disponeva, a proposito della formazione delle assemblee rappresentative, che ‟il deputato non rappresenta né dei collegi elettorali né dei cittadini in quanto tali, e neppure una qualsiasi accolta di individui ut singuli, bensì la nazione in quanto corpo unitario, considerata nella sua universalità globale [...]".

Indubbiamente si potrebbe obiettare che i testi appena citati risalgono a un'epoca in cui la democrazia era ancora soltanto una promessa. Ma la realtà è che dal momento in cui gli uomini l'introdussero, timidamente, nelle istituzioni, la sua fisionomia è rimasta sostanzialmente immutata per più di un secolo. La mancanza del mandato imperativo, che di questa fisionomia è il tratto essenziale, non è forse sopravvissuta fino ai nostri giorni? Così quando, nel 1789, Sieyès dichiarava che ‟il popolo non può avere che una voce, quella della legislatura nazionale", egli annunciava la confusione tra la volontà del popolo e il potere ufficiale, fondava l'egemonia parlamentare, giustificava l'autorità della legge presumendola come conforme ai desideri del popolo: in una parola, enunciava i principî che sono serviti da struttura portante per il governo democratico sino al primo quarto del nostro secolo.

A livello di attuazione pratica la democrazia governata è stata realizzata mediante una particolare tecnica di formazione delle decisioni statali: la tecnica del ‛governo deliberativo'. Con ciò bisogna intendere non soltanto che ogni decisione deve essere stata sottoposta a discussione, ma anche che essa deve la propria autorità appunto all'esistenza di questa discussione. Il governo deliberativo ha per scopo di evitare l'effetto brutale della legge del numero, pur consentendo di ascrivere al popolo la soluzione che, alla fine, sarà prevalente. La necessità di una deliberazione organizzata, autentica e leale rende impossibile a ogni volontà popolare, quale che sia la sua veemenza o l'importanza del gruppo numerico di cui è emanazione, di pretendere di imporsi ai governanti senza passar prima per il crogiuolo della discussione. Con porte e finestre chiuse a ogni fermento del mondo esterno, l'assemblea discute, non diversamente da come farebbe un'accademia scientifica, esclusivamente preoccupata di accertare la verità e insofferente a qualsiasi pressione che non proceda dalle argomentazioni. Certo, tutte le tendenze dell'opinione debbono avere accesso al dibattito. Ma, come elementi della controversia, esse sono ancora delle mere ipotesi rispetto alla decisione che infine prevarrà. Esse non beneficiano di alcuna preponderanza. Tale è l'articolazione della logica del governo deliberativo e in base ad essa si può affermare non soltanto che tutto il popolo è stato ascoltato, ma anche ch'esso ha ‛voluto' la norma che viene approvata. A seguito del dibattito diviene infatti decisione dello Stato non questa o quella rivendicazione della tale o della talaltra classe o categoria sociale, questo o quell'articolo di un programma di partito e neppure questo o quel punto programmatico di una maggioranza elettorale o parlamentare. Quella che è emersa nel corso della discussione, a cui il popolo tutto intero si presume aderisca (grazie appunto alle garanzie offerte dal governo deliberativo), è una volontà interamente nuova.

Beninteso, non si vuole qui pretendere che nel suo funzionamento il regime deliberativo abbia riprodotto rigorosamente la neutralità razionale dello schema teorico. Né interessi né passioni sono stati assenti dalle assemblee dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento. Ma occorre notare ch'essi non vi avevano accesso che con il pretesto di una riflessione disinteressata mirante al bene pubblico nella sua totalità. E ancora più importante è il fatto che la trasformazione che essi subiscono nel corso della discussione ha per effetto di neutralizzarli. Interessi e passioni hanno potuto bensì esprimersi nel corso della discussione, ma, una volta avvenuta la deliberazione, è il popolo che si è pronunciato. Nessuna forza esterna può contestare la sua legale volontà. Tutta la vita politica si accentra interamente negli organi dello Stato, la cui autorità pertanto non conosce rivali.

Far dipendere ogni decisione dall'esito di un dibattito, da cui appunto essa deriverà la propria forza, non solo significa affermare in linea di principio l'eccellenza della discussione, ma presupporre anche che è sempre possibile giungere a una decisione. Ora, tale possibilità implica che si escludano dal dibattito le questioni su cui non è pensabile alcuna intesa. Perché il dibattito possa aver luogo occorre che sia accettato un linguaggio comune, vale a dire che per tacita convenzione un certo numero di principî fondamentali sia considerato fuori discussione. È per tutto ciò che la democrazia governata e il regime deliberativo, che ne è la formula di governo, si confanno perfettamente alla filosofia liberale. Su di un piano politico il liberalismo vieta al potere qualsiasi pretesa di rifare il mondo: esso non lo autorizza che a gestire la società esistente e soltanto nella misura in cui non sia in grado di provvedervi la libera iniziativa individuale. È chiaro che i governi non potrebbero attenersi a una funzione così limitata qualora si ammettesse che il popolo può esigere una trasformazione dell'ordine sociale esistente al fine di correggere le ingiustizie sociali. Il principio per cui il suffragio esprime soltanto delle volontà di cittadini risponde a questa considerazione. Ne consegue che sono argomento di discussione soltanto opinioni esenti da qualsiasi istanza di classe. La deliberazione è possibile perché non concerne ciò che è essenziale nella vita quotidiana dell'individuo. La gestione della società esistente non coinvolge i valori fondamentali cui si rifanno le ideologie; essa non mette in discussione le convinzioni su cui sarebbe impossibile transigere. Ciò spiega come mai il regime della discussione si confaccia alla modestia di questa attività di gestione: esso provvede ai bisogni di una società considerata omogenea dal punto di vista politico. Il regime della discussione non implica sconvolgimenti delle strutture economiche e non coinvolge il destino dell'uomo nella sua totalità. Esso si colloca a livello dei metodi, delle tecniche, delle procedure, in una parola di tutto ciò di cui è possibile discutere per la ragione appunto che non tocca l'essenziale. La democrazia governata è inseparabile dalle modeste finalità che il liberalismo assegna al potere. (V. liberalismo)

Sul piano delle tecniche di governo, la democrazia governata ha trovato il suo strumento più appropriato nel regime parlamentare. Certo, si potrebbe osservare che quest'ultimo sopravvive oggi nel contesto di numerose democrazie governanti. Ma in effetti ciò che vi permane è la lettera, non lo spirito del parlamentarismo. La comparsa del regime parlamentare ebbe luogo al punto d'incontro di due linee evolutive: da un lato quella che segnava l'accrescersi del prestigio dell'organo della rappresentanza nazionale, il Parlamento, e dall'altro quella che vedeva l'indebolimento del potere regio. Al punto d'intersezione tra la curva ascendente del potere parlamentare e la curva discendente dell'autorità monarchica, i due poteri risultavano equivalenti; la gestione degli affari pubblici esigeva, come ebbe a sottolineare Montesquieu, che essi ‟procedessero di concerto". L'essenza del parlamentarismo sta appunto in questo dualismo del potere, che, senza escludere la volontà del popolo, permette di decantarne le esigenze. E a ciò si deve se il regime parlamentare è stato il mezzo per adattare il liberalismo alla democrazia. Tuttavia non si è trattato che di un regime di transizione. Nel momento in cui non ha più trovato nell'autorità del capo dello Stato un punto d'appoggio per resistere alle Camere, il governo è caduto in loro balia. Un potere unico per quel che riguarda l'origine e le esigenze - il potere dei partiti - decide la politica da seguire. Certo, in Inghilterra la solidarietà che lega il Gabinetto alla maggioranza parlamentare assicura all'esecutivo una possibilità d'iniziativa e una libertà di movimento che il partito di maggioranza è costretto a tollerare, perché al momento delle elezioni gli elettori giudicheranno lui non meno che il governo. Ma in tutti gli altri paesi, il proliferare dei partiti riduce il governo al ruolo di agente di una coalizione precaria. Malgrado la sopravvivenza dei meccanismi del parlamentarismo - scioglimento o voto di fiducia - è un regime di assemblea quello che così si instaura, che è poi quello voluto dalla logica della democrazia governante.

Avendo escluso dai propri mezzi di sostegno il soccorso delle ideologie consolatorie, rifiutando l'appoggio delle risorse emotive delle masse, non facendo appello che al suo valore razionale per definire l'interesse di una collettività unificata in quanto astratta, il governo deliberativo non è potuto sopravvivere alla smentita che i fatti hanno dato al suo ottimismo. Esso aveva fidato sulla ragione e sul progresso di cui questa sarebbe immancabilmente promotrice. Agli occhi del popolo, la sua legittimità si dissolse quando la volontà popolare, nutrita dei disinganni e delle aspirazioni degli individui reali, cessò di riconoscersi in norme e decisioni risultanti da procedure il cui vero scopo era di tenerli lontani. L'avvento politico del popolo reale, per il fatto stesso che esso rendeva impraticabili le sottigliezze del regime della discussione, impose un nuovo modo di intendere la democrazia, secondo il quale il popolo non ha più bisogno né di chi interceda per lui né di mentori: la democrazia governante.

Ciò che distingue la democrazia governante dalla democrazia governata non sono le differenze di organizzazione costituzionale o per lo meno queste non svolgono che un ruolo secondario, e neppure contrastanti tecniche di governo, ma, fondamentalmente, il fatto che nei due regimi la volontà popolare non è la stessa. Essa differisce a un tempo per la sua origine, per la sua sostanza e per il suo modo di manifestarsi. La sua origine è il popolo degli uomini e ‛situati', realtà sociologica e non entità artificiosamente costruita per preservare l'unità nazionale. La sua sostanza è data dalle esigenze derivanti dal disagio delle situazioni individuali e non da un compromesso tra le aspirazioni degli uomini e i limiti che ad esse imporrebbero gli obblighi di un ordine sociale ostile al loro esplicarsi. La sua manifestazione è quella che le dà direttamente il popolo e non risulta da decisioni discusse, meditate ed elaborate da organismi che parlano in suo nome. Con la democrazia governante la volontà risiede nel popolo e vi resta. Mentre con la democrazia governata tutto ciò che era legge era considerato senza riserve volontà del popolo, ma non ogni volontà del popolo era legge, la democrazia governante eleva a legge la vox populi. Ciò che essa vuole importa poco; basta che voglia.

Costruita su un siffatto fondamento, la democrazia governante tende naturalmente all'instaurazione della democrazia sociale. Pur non essendo essa stessa la democrazia sociale, ne è per lo meno lo strumento. In effetti, dato che è la maggioranza che comanda e che, all'epoca in cui questa formula ebbe origine, la maggioranza la impose proprio perché constatava l'impotenza della sola libertà politica a emanciparla da tutte le forme di oppressione economica e sociale, è inevitabile che la parte meno favorita del gruppo nazionale cerchi di utilizzare il potere per trasformare la società. Trasformazione che sarà possibile soltanto quando il popolo avrà instaurato il proprio controllo su tutti i centri decisionali. Ed è così che alla democrazia governata, che era una garanzia delle libertà già acquisite, si oppone la democrazia governante, che è piuttosto un processo di liberazione.

Ed è perciò che quest'ultima è, nella sua essenza, un regime di lotta. Regime di lotta innanzi tutto sul piano sociale, perché ripudia il mito dell'omogeneità nazionale per considerare soltanto ciò che per essa è l'unica realtà: il conflitto delle classi. Il motore della politica è il conflitto permanente tra i difensori dell'ordine costituito e l'immagine di un futuro desiderabile: cioè quello di una società giusta. Ma regime di lotta essa è anche sul piano politico, perché questa visione di un avvenire migliore suscita poteri di fatto che si pretendono qualificati a realizzarlo. Contro questi, altri poteri di fatto si organizzano per la resistenza, talché tutta l'energia politica viene assorbita da tali forze che si costituiscono a livello della collettività. Il potere statale non è più protagonista: esso è soltanto la posta in giuoco. La sua autorità non gli appartiene in proprio: è solo quella che i partiti sono disposti a consentirgli, ed essi se ne appropriano là dove essa maggiormente si manifesta: nelle fabbriche, nei campi e nelle piazze. È qui infatti che bisogna conquistarla per imporla poi ai poteri pubblici. Ne deriva che la democrazia governante è infine un regime di lotta anche a livello delle stesse istituzioni costituzionali. Tutti i meccanismi creati per dar corpo alla democrazia governata vedono il loro funzionamento alterato dall'energia nuova che li utilizza. La rappresentanza non è più uno strumento destinato a designare i più saggi, ma un mezzo per sapere chi sono i più numerosi. I parlamenti non sono più le sedi dove si confrontano le opinioni perché ne emerga una decisione accettabile per tutti, ma arene in cui si affrontano forze costituitesi già al di fuori. La separazione dei poteri, concepita per garantire all'esecutivo la libertà indispensabile al suo compito, degenera in una gerarchia in cui un'assemblea onnipotente subordina a sé un governo da essa nominato e revocato a discrezione. Le stesse procedure vengono stravolte quando rischiano di ritardare la soddisfazione delle rivendicazioni maggioritarie. Certo, la democrazia governante non si ritrova intatta nella pratica che ad essa si richiama, più di quanto si ritrovi la democrazia governata. La vastità stessa di ciò che il popolo vuole, condanna quest'ultimo a non poterlo fare in prima persona. Di conseguenza riappaiono coloro che intercedono per lui. L'identificazione di governanti e governati è ricollocata in una prospettiva lontana. Ma almeno è questa la prospettiva che guida il sistema, come del resto ne spiega le difficoltà di funzionamento.

c) Potere aperto e potere chiuso

I sistemi di governo vigenti si richiamano ufficialmente al dogma del primato della volontà popolare, che emana direttamente dal popolo reale e che effettivamente governa. Solo che, mentre nei paesi occidentali il potere che promana dalla collettività nazionale è aperto a tutte le aspirazioni presenti del popolo e a tutte le innovazioni che nel futuro possono trasformarne la volontà, nei paesi di osservanza marxista il potere trova le sue radici in una volontà popolare monolitica che esclude nel presente qualsiasi pluralismo e qualsiasi contraddizione e la cui ortodossia si oppone a qualsiasi modificazione futura.

La democrazia del potere aperto è quella in cui la volontà popolare, che detta ai governanti gli imperativi che ne guidano l'azione, è accettata nella sua complessità reale. Essa viene chiamata democrazia pluralista, perché poggia su una società di cui ammette l'eterogeneità. La varietà delle sue strutture, la molteplicità delle famiglie spirituali, la contraddizione degli interessi contribuiscono a fare della voce popolare un coro dalle stridenti dissonanze piuttosto che un canto monocorde. Indubbiamente il ‛pro' prevarrà perché in suo favore giuoca la potenza del numero, ma il ‛contro' sarà stato ascoltato, perché non gli si contesta il diritto di farsi sentire. Più ancora, la sua esclusione dal potere non è definitiva, giacché gli resta la speranza di conquistare alle sue idee la maggioranza. In altri termini il criterio obiettivo di una democrazia di questo tipo è la presenza di un'opposizione la cui esistenza è costituzionalmente garantita dalla facoltà riconosciutale di esprimersi apertamente e di reclutare adepti. In un regime siffatto, l'elemento motore della dinamica politica sta nel confronto tra maggioranza e opposizione. Certo, questo confronto può manifestarsi come dialogo o irrigidirsi sino a giungere alla lotta extraparlamentare; ma è in ogni caso evidente che con il potere aperto la partita non è mai chiusa, perché è sempre possibile rientrare in giuoco.

Al contrario, il potere chiuso è quello che poggia su una volontà popolare la cui sostanza non conosce incrinature né divergenze. È il potere che trova il suo fondamento in una società omogenea. Ed è proprio perché l'omogeneità sociale è la condizione prima della sua esistenza ch'esso si afferma soltanto nei paesi in cui il marxismo s'è imposto per via rivoluzionaria. Con l'eliminazione delle classi la rivoluzione realizza l'unità del popolo. Questa unità è, a sua volta, consacrata dalla soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione. A questo punto, avvenuta cioè l'unificazione della struttura a livello economico, la sovrastruttura - vale a dire, secondo la lezione del materialismo storico, le idee, le credenze, le aspirazioni - converge verso un unico obiettivo: la costruzione della Città socialista. Non esistono più divergenze. Il gruppo diviene comunità con una fede unanimemente condivisa. Ora, questa unanimità fa della democrazia marxista una monocrazia popolare. Il potere che si rifaccia ad essa non può essere che un potere chiuso. La sua ispirazione, il suo programma e i suoi piani sono determinati secondo le esigenze di un'ideologia assimilata, per ipotesi, al volere popolare.

Il potere chiuso è dunque un potere partigiano, poiché la strutturazione dell'esercizio del potere statale è tale che tutti i suoi organi sono sottoposti al controllo del partito, custode dell'ideologia ufficiale. Esso è anche un potere dogmatico, giacché l'essere a esclusivo servizio di questa ideologia gli impedisce di considerare le concezioni divergenti altrimenti che come eresie da distruggere. In realtà infatti nella prospettiva marxista l'opposizione è l'incarnazione dell'errore. Escludendola, il potere chiuso si rinserra nell'assolutismo della propria verità.

1. La democrazia marxista. - Il carattere democratico di un regime fondato su simili premesse è senza dubbio contestabile. Eppure non si può non rimanere colpiti dall'indifferenza mostrata dai suoi sostenitori verso le argomentazioni che vengono loro opposte. La verità è che affrontare il dibattito partendo dal criterio della democrazia significa condannarlo a non avere sbocchi. Ciò su cui, in realtà, si dissente è la natura dell'uomo. Ebbene, per il marxismo l'uomo raggiunge la pienezza del suo essere solamente quando, emancipato da tutte le forme di alienazione, ritrova la sua vera natura, che lo fa eguale tra eguali. E poiché tale eguaglianza non è una prerogativa metafisica, ma una condizione reale, essa si realizza soltanto in un regime comunista. Se giudicato in funzione dei valori che esprimono le convinzioni dell'uomo alienato, questo regime può essere considerato come non democratico; ma agli occhi dell'uomo comunista esso è la sola forma autentica di democrazia. (V. comunismo).

Ci sono in realtà due modi di concepire l'imperativo democratico dell'identificazione di governanti e governati: fare discendere il potere verso il popolo o elevare il popolo verso il potere, dove i due termini ‛discesa' ed ‛elevazione' vanno presi nel loro senso letterale di abbassamento e di esaltazione. Ora, dato che la prima soluzione compromette la riuscita della causa socialista per l'insufficienza di un potere soggetto agli impulsi di masse inesperte, è indispensabile trasformare radicalmente le mentalità perché possano raggiungere quel livello di iniziative e di responsabilità che la prospettiva marxista giudica come proprio del potere. Solo a questo prezzo le istituzioni democratiche potranno funzionare senza rischiare di arrestare l'avvento della società socialista. Non serve a nulla obiettare a chi crede nel comunismo che il prezzo è pesante, giacché comporta l'abdicazione all'autonomia personale; per il credente la trasformazione che si prende in considerazione porta in se stessa la propria giustificazione. Tale trasformazione consiste nella presa di coscienza da parte dell'individuo della sua vocazione umana e, risvegliando la volontà di emancipazione da ogni forma di alienazione, è strumento della liberazione dell'uomo.

Si comprende quindi come l'obiettivo principale dei regimi marxisti vada, nella sua essenza, molto al di là del rovesciamento delle strutture sociali o del rinnovamento dei meccanismi economici. Loro obiettivo è la creazione dell'uomo comunista. Ne consegue, oltre alla propaganda dottrinale, la mobilitazione costante delle masse, la quale, sia nelle democrazie popolari che in URSS, mantiene gli individui sotto pressione nei diversi organismi sociali cui la loro situazione concreta li porta ad appartenere. Senza dubbio questi organismi hanno ufficialmente lo scopo di assicurare la partecipazione diretta dei loro membri all'esercizio di quelle funzioni di controllo di cui gli organi statali dovrebbero essere progressivamente spogliati. In tal senso questa tendenza si colloca nella prospettiva del deperimento dello Stato, che - per lontana che possa apparirne la realizzazione - rimane pur sempre uno dei punti fondamentali della dottrina marxista. Ma a breve termine tale mobilitazione delle masse ha un obiettivo ancora più ambizioso: essa mira a una socializzazione integrale dell'individuo, il quale, persa l'abitudine all'azione individuale, si abituerà all'idea che non vi è per lui altro destino che quello collettivo. La nascita dell'uomo comunista è legata al generalizzarsi di questa mentalità.

Ma questo atteggiamento spirituale può nascere soltanto da una disciplina dei modi di comportamento. E la necessità di tale disciplina giustifica, a sua volta, il ruolo del partito, la cui missione consiste nell'innalzare il gruppo tutto intero alla comprensione degli imperativi indispensabili all'edificazione della Città socialista. Che il partito sia composto di un numero ristretto di membri, che sia forte mente gerarchizzato, che le sue decisioni siano avvolte nel mistero: queste sono particolarità che non compromettono, agli occhi di un marxista, il suo carattere democratico. Infatti, nella concezione marxista, il partito non è un'organizzazione destinata a raccogliere adesioni in vista delle elezioni. Esso ha un significato a un tempo storico e metafisico. Storicamente, esso è stato l'avanguardia del proletariato: il piccolo gruppo degli uomini che, per primi, hanno impegnato battaglia contro gli oppressori e si sono organizzati in vista della lotta. Strumento di guerra, il partito non è - per sua stessa essenza - una forza spontanea (Lenin ha incessantemente schernito la vanità delle sollevazioni popolari): esso è una vera e propria unità militare addestrata e disciplinata in vista del combattimento. Una volta conseguita la vittoria, il partito ha il ruolo metafisico di coscienza del proletariato: ne è, su di un piano spirituale, l'ala marciante, ne incarna la missione e i valori. Certo questi tratti, molto marcati al tempo della clandestinità, hanno dovuto, alla lunga, ammorbidirsi. Vittorioso, il partito divenne la forza ufficiale del regime. Esso dovette adattarsi alla scomparsa del proletariato in una società in cui la rivoluzione aveva eliminato le classi. Divenne la coscienza della collettività nel suo insieme. Ma rimane un'aristocrazia aperta soltanto agli elementi migliori del popolo. Lungi dall'attenuarsi, il suo magistero spirituale si rafforza a causa dei pericoli che potrebbe far correre all'ortodossia un successo che, offrendo la tentazione della facilità, favorisca le deviazioni. In quanto gruppo di capi, il partito è un educatore. È chiaro quindi che il senso della democrazia marxista non può essere compreso che alla condizione di vedervi, oltre che una forma del potere popolare, una forma di redenzione dell'uomo che partecipa all'esercizio di questo potere. Essa si ricongiunge per questa via, al di là della separazione dovuta alle sue temporanee incarnazioni, a un'esigenza basilare che caratterizza il pensiero democratico. Aristotele escludeva gli schiavi dal godimento dei diritti civili, Montesquieu pensava che il godimento di tali diritti dovesse essere legato alla ‛virtù', Rousseau non attribuiva alcun valore alla volontà dell'‛uomo di natura', e gli stessi fondatori della democrazia classica immaginarono, quale suo suppprto, la severa figura del cittadino. Non s'impone quindi la constatazione che la democrazia, non diversamente da qualsiasi altro regime, sceglie il tipo d'uomo per cui è fatta, quello della cui intelligenza e della cui adesione possa vivere? Essa mira ad un'unanimità che non si realizza mai se non nell'ascetismo.

Sul piano della vita politica concreta, questa filosofia si concilia con la necessaria partecipazione degli individui al processo di elaborazione delle decisioni mediante l'attuazione di un principio ideato dai teorici sovietici: il principio del ‛centralismo democratico'. Quando si pensi che appunto da questo principio si attende la scomparsa della differenziazione - generatrice di oppressione - tra governanti e governati, se ne comprenderà agevolmente l'importanza nella teoria costituzionale dell'URSS e delle democrazie popolari.

Il centralismo democratico è la formula che qualifica il duplice movimento che, dalla base al vertice, assicura l'unità politica del gruppo. Alla base è accordato un ampio potere di iniziativa e di discussione; quindi la volontà del gruppo risale, di gradino in gradino, verso l'autorità centrale, decantandosi e precisandosi, attraverso i molteplici organismi in cui via via si esprime. L'autorità centrale ne fissa infine la sostanza, che, da questo momento in poi, vincola imperativamente l'insieme del popolo.

Se vi si vedesse soltanto una tecnica di formazione delle decisioni in seguito a discussione, questo processo apparirebbe ben poco originale. Risulterebbe imparentato con il regime deliberativo di tipo liberale. Ma in realtà l'accosta- mento è infondato, poiché il centralismo democratico deve essere considerato nel contesto marxista, in cui gli imperativi della Città socialista delimitano la discussione. E questi imperativi sono formulati dall'autorità centrale. Il dibattito non può dunque vertere che sulle modalità della loro applicazione e sul modo di adattarli alle circostanze. Cioè nel centralismo democratico si instaura, sin dall'inizio del processo, un rapporto di collaborazione tra la base e il vertice. Ma l'apporto fornito rispettivamente dall'una e dall'altro non è identico, giacché mentre il vertice emana direttive che esprimono prese di posizione autonome, le ‛iniziative' della base sono legittime soltanto nella misura in cui rivelano una presa di coscienza delle esigenze obiettive della costruzione del socialismo. La volontà della base non trae validità solo dalla sua origine; essa è presa in considerazione esclusivamente nella misura in cui è il risultato di uno sforzo di riflessione sulla dottrina. Date tali premesse, è evidente che il significato del processo varia a seconda che si ponga l'accento sul centralismo o sulla democrazia: sino a che punto è tollerabile l'autonomia della base? Nell'Unione Sovietica fu originariamente il centralismo ad avere la meglio (cfr. le risoluzioni dell'VIII e IX Congresso del Partito, citate da M. Lesage, Les régimes politiques de l'URSS et des pays de l'Est, Paris 1971, pp. 52 ss.). Successivamente fu tollerata una certa libertà d'espressione, ma alla condizione di non cadere nel frazionismo o nel deviazionismo. Ora, si sa che queste eresie vengono definite dopo una prova di forza tra le istanze superiori del partito, prova in cui, secondo ogni apparenza, la discussione democratica non ha praticamente alcuna occasione di farsi valere. In Cina, invece, il centralismo democratico, elevato a norma dallo statuto del Partito Comunista Cinese adottato dal IX Congresso (14 aprile 1969), sembra riservare uno spazio di gran lunga maggiore alle iniziative della base. L'articolo 5 dispone infatti che ‟gli organi direttivi, a tutti i livelli del partito, devono [...] raccogliere costantemente, all'interno e all'esterno del partito, l'opinione delle masse e accettare il loro controllo. Tutti i membri hanno il diritto di rivolgere critiche e suggerimenti alle organizzazioni e ai dirigenti del partito. Tutti i membri che non condividano le risoluzioni o le istruzioni delle organizzazioni del partito sono autorizzati a mantenere le proprie opinioni e hanno il diritto di rivolgersi direttamente alle istanze superiori, sino al Comitato centrale e al presidente del Comitato centrale [...]". È tuttavia assai dubbio che questa libertà giunga sino ad autorizzare la messa in discussione del pensiero del presidente Mao.

Denunciare nella teoria del centralismo democratico una soperchieria destinata a mascherare lo spodestamento delle masse è senza dubbio facile. Nella misura in cui si applica alle decisioni prese all'interno del partito, è certo che tale teoria non riserva ai governati la parte che sarebbe lecito attendersi da una partecipazione democratica: la linea politica è affare esclusivo dell'Ufficio politico, il quale non è tenuto a render ragione delle sue decisioni. Per quanto concerne invece la procedura di elaborazione delle leggi, la discussione estremamente ampia cui danno luogo i progetti di legge riveste un incontestabile carattere democratico. Vengono convocate innumerevoli riunioni alle quali partecipano, nel quadro delle varie organizzazioni di appartenenza, milioni di cittadini (cfr. C. A. Jampolskaja, Les organisations sociales et le développement de la socialisation de l'Etat, Strasbourg 1968).

Solo che - ed è il punto essenziale - la democrazia che stiamo considerando è una democrazia marxista, vale a dire una democrazia in cui l'individuo e i gruppi non hanno potere che nella misura in cui sono comunisti. È questo il postulato fondamentale che delimita a un tempo le prerogative politiche dell'individuo e l'ambito dei suoi diritti. Il potere non è organizzato in modo arbitrario per essere esercitato in una società qualsiasi. Si tratta del potere della Città socialista. Soltanto i credenti sono ammessi a parteciparvi. Il vero problema - sollevato dappertutto, dalla Cecoslovacchia alla Cina - diviene allora quello di sapere quale parte debbono avere i credenti nella definizione dell'ortodossia.

2. La democrazia pluralista. - È proprio questo ascetismo spirituale che la democrazia pluralista ripudia. In essa il potere non è l'organo di una verità preliminarmente stabilita, ma lo strumento di una società diversificata in cui interessi e rappresentazioni dell'ordine auspicabile si intrecciano e talvolta si scontrano. Questo pluralismo è sociale e spirituale a un tempo. Esso ammette come un dato di fatto l'eterogeneità delle categorie sociali, con i valori propri a ciascuna, ed esce rafforzato dall'adesione a una filosofia che pretende di salvaguardare l'interesse delle correnti spirituali e, per tale via, di proteggere le particolarità individuali dall'asservimento a un ordine totalitario. Purtuttavia questa sollecitudine per l'autonomia personale è diversa da quella che ispirava la democrazia classica. Il rapporto politico non si istituisce più su una relazione diretta tra l'individuo e il potere. È per il tramite del gruppo cui appartiene che l'uomo è chiamato a controllare il governo. Ciò è tanto vero che la democrazia pluralista può essere descritta nel modo più efficace dicendo ch'essa sostituisce all'individualismo tradizionale un individualismo di gruppi.

Vedere in questa filosofia pluralista il risultato di una scelta effettuata dai mentori dottrinali del regime sarebbe eccessivo. Essa può indubbiamente rifarsi sia al pensiero cristiano, sia a un certo liberalismo intellettuale di cui furono impregnati, in opposizione al marxismo-leninismo, le scuole socialiste francesi e italiane non meno che il laburismo britannico. Tuttavia determinanti, più dell'ascendente delle idee, sono stati gli avvenimenti; sono essi che hanno deciso del patrocinio spirituale sotto la cui autorità si sono poste le democrazie occidentali. Queste ultime hanno insomma fatto una filosofia dell'atteggiamento imposto da una necessità storica.

Gli antagonismi sociali, infatti, sono stati tali, almeno nell'Europa continentale, che, per evitare i rischi di una lotta estremamente brutale, è parso opportuno elevare a regola di condotta una coesistenza che si poteva infrangere solo al prezzo di impegnarsi in un'avventura drammatica. Il pluralismo fu quindi chiamato a dare veste filosofica a ciò che in effetti altro non era che l'equilibrio delle forze politico-sociali. Fatte le debite proporzioni, esso può considerarsi l'equivalente, sul piano interno, della coesistenza pacifica nell'ambito delle relazioni internazionali. In Inghilterra il rispetto tradizionale del comportamento altrui, il valore riconosciuto alla libertà e le garanzie che la proteggono forniscono al pluralismo un fondamento meno labile. Ma è altrettanto certo ch'esso sarebbe risultato inattuabile se non avesse posto le proprie radici su un fondo comune di tradizioni verificate dall'esperienza (bipartitismo, alternanza al governo, tolleranza) e che nessuno pensa di mettere in discussione, secondo quella che è una regola fondamentale della vita politica britannica. Quanto agli Stati Uniti, la democrazia pluralista è un retaggio dell'epoca in cui la politica si svolgeva principalmente a livello locale. Allora la decisione scaturiva da una contrattazione tra i gruppi. Ma, a partire dal momento in cui il potere, a causa delle sue responsabilità sia interne che internazionali, si è centralizzato, il pluralismo è divenuto la dottrina che nobilita la rivalità dei gruppi di pressione. Anche in questo caso dunque le circostanze hanno avuto un ruolo preponderante rispetto alla pura speculazione intellettuale nella determinazione della filosofia del regime.

Non è il caso di analizzare qui le forme particolari assunte nei singoli Stati da una forma di esercizio del potere il cui principio generale ispira istituzioni e stile di vita politica di un insieme di paesi che posseggono, sul piano economico, più di due terzi della ricchezza mondiale. Un potenziale di tale portata basterebbe da solo a far comprendere che i problemi politici connessi non sono riducibili a meccanismi stereotipati. Più fecondo - pur se alquanto arrischiato - è invece procedere alla ricerca dei caratteri fondamentali della democrazia pluralista. Ed è questo il nostro tentativo. Tali caratteri possono compendiarsi in tre parole: equivoco, conflitto, impotenza.

La democrazia pluralista è equivoca perché l'essere numerosi non risolve nulla, se non si sa a che cosa si tende, se alla lotta o all'accordo. Certo, nella prospettiva democratica è inevitabile che le differenti tendenze dell'opinione propongano ai governanti atteggiamenti divergenti. Ma, se si rimane nell'ottica della democrazia governata, tali tendenze non sono che semplici indicazioni. Non avendo quindi esse carattere di forze, l'indipendenza dei governanti permette di conciliarle, e la soluzione di compromesso sarà la sola ad avere autorità. Con la democrazia governante, le cose vanno invece diversamente: infatti le esigenze dei vari raggruppamenti si impongono al potere a titolo di imperativi. O il potere cede a una di esse, e allora il pluralismo non è più che una facciata, oppure tenta un arbitrato e in tal caso rimane vittima di una congiura di tutte le forze, nessuna delle quali ha avuto soddisfazione.

Occorre infatti riconoscere che il ruolo di arbitro, che i teorici della democrazia pluralista si compiacciono di attribuire allo Stato, non è di quelli che si possano assolvere disarmati. Ma di quale forza potrebbe disporre il potere ufficiale, dal momento che tutte le volontà popolari sono polarizzate dai poteri di fatto? Per assolvere la sua funzione, il potere statale ha bisogno di una base sociale omogenea: certo non proprio di quella sorta di unanimità ossequiente che è il sostegno di un ordine totalitario, ma almeno dell'adesione dei governati ad alcuni valori fondamentali, non suscettibili di essere scossi dalla rivalità dei partiti. Ora, nel quadro della democrazia governante il pluralismo contemporaneo non riunisce già le legittime divergenze che distinguono l'una dall'altra le mentalità individuali, ma oppone tra loro concezioni del mondo diverse. Talché la democrazia pluralista presuppone un'autorità che è compromessa dal suo stesso fondamento: le volontà popolari cui si richiama sono, infatti, le stesse che ripudiano l'accordo ch'essa dovrebbe realizzare.

Ne risulta che nella sua forma governante la democrazia pluralista è un regime conflittuale. Essa istituzionalizza la lotta per la conquista del potere più di quanto non instauri la pace necessaria al suo esercizio. Indubbiamente una tale lotta è inerente a ogni società dinamica e sarebbe dar prova d'irrealismo misconoscerne sia il carattere permanente che la fecondità. Solamente va aggiunto che, affinché l'assetto politico non ne sia gravemente scosso, è opportuno che tali caratteri si mantengano entro limiti che ne escludano ogni esito rivoluzionario.

A tale proposito è particolarmente istruttivo il confronto tra l'interpretazione americana del pluralismo e il significato di questo nei paesi europei dove i partiti socialisti svolgono un ruolo importante. Gli Stati Uniti non hanno mai accettato la tesi razionalista che fonda la democrazia sull'esigenza di una volontà perfettamente omogenea. La concezione americana ha un fondamento sociologico, e risale ai primi anni dell'Unione. Per i Federalisti, permeati dalle idee di Locke e di Montesquieu, la realtà sociale non è formata da individui che dovrebbero fungere da supporto di una volontà unanime, ma è costituita da una pluralità di gruppi che talora si contrappongono, talora si trovano a convergere. Il fine di un'organizzazione democratica è di instaurare tra essi, mediante la competizione, un equilibrio che ne salvaguardi la vitalità impedendo al contempo che uno solo di essi assuma un ruolo egemonico per lungo tempo. La democrazia è dunque il regime politico che, impedendo la paralisi conseguente al predominio di una sola delle tendenze che costituiscono la società nel suo insieme, risponde alle specifiche esigenze di una collettività in perpetua trasformazione.

È a questa immagine della democrazia che corrisponde la denominazione di poliarchia, introdotta da alcuni autori (v. Dahl, 1956). Il potere del popolo non ne è certo escluso, giacché i leaders possono imporsi all'interno dei gruppi in competizione soltanto col consenso dei loro membri. Ma rimane il fatto che motore del sistema è la contrattazione portata avanti dai leaders. Sono essi che, in definitiva, detengono il potere reale; ma, proprio grazie al loro competere non si corre il rischio che il potere divenga oppressivo. A questo schema di una democrazia poliarchica bisogna in effetti aggiungere che, nella prospettiva americana, le tensioni che rendono vitale il sistema non presentano pericoli gravi per i gruppi minoritari, giacché da un lato la mobilità sociale e dall'altro l'esistenza di un consenso profondo circa la finalità della funzione politica impediscono sia la cristallizzazione dell'autorità in un'ortodossia oppressiva, sia la sua esclusiva appropriazione da parte di un qualche leader momentaneamente vittorioso.

Che in questo modo di intendere la democrazia sia presente una preoccupazione di render conto di ciò che accade realmente, è incontestabile. Che la tesi poliarchica tenda a legittimare l'azione dei gruppi di pressione, è altrettanto certo. Ma a parte il fatto che tale tesi è stata criticata negli stessi Stati Uniti da alcuni sociologi (v. Wright Mills, 1956), essa ha validità solamente in un contesto socioeconomico in cui la contrattazione tra i gruppi possa avere senso. È necessario, cioè, il presupposto che tutte le parti possano sperare di avvantaggiarsene, ciò che avviene quando la società sia ricca abbastanza da soddisfare almeno in parte le richieste che le vengono rivolte.

Ma il pluralismo può essere nient'altro che un eufemismo che mascheri un conflitto irriducibile, com'è il caso di quei paesi, si pensi all'Italia e alla Francia, in cui il comunismo raccoglie un numero considerevole di suffragi. Ed è questo stesso conflitto che porta il regime all'impotenza, poiché, se esso agisse, rischierebbe di infrangersi contro la resistenza dei partiti che non accontenta. L'esempio più chiaro di tale impotenza è stato fornito dalla Quarta Repubblica francese, a proposito della quale si è potuto affermare che la dottrina della maggioranza dei suoi uomini di governo era nient'altro che l'immobilismo.

La verità è che democrazia governante e pluralismo sono difficilmente conciliabili, perché la dialettica dell'ordine e del movimento, che è l'essenza della funzione politica (v. Burdeau, 19702, t. III, pp. 449 ss.), viene paralizzata dall'incompatibilità delle contrapposte ideologie. Nondimeno, a fil di logica, la democrazia governante dovrebbe trovare la sua concreta forma costituzionale nel regime assembleare. In esso, la lotta delle forze politiche si incentra sulla conquista del potere e il partito o la coalizione vittoriosa, insediatisi nell'assemblea, impongono le loro vedute a tutti gli altri organi dello Stato. L'onnipotenza del parlamento deriva da una forte politicizzazione della vita collettiva. I governati s'impegnano a fondo, perché la politica appare loro come l'unico mezzo atto a porre rimedio all'ingiustizia della loro condizione. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale l'Italia, la Francia, l'Inghilterra (con l'avvento al potere del Labour Party) e, in misura minore, la Germania occidentale hanno conosciuto un momento di tal genere in cui alle assemblee elette tutto sembrava possibile. Le assemblee egemonizzavano e subordinavano a sé i governi, i quali del resto promanavano da esse e ne erano considerati gli strumenti.

L'esperienza doveva dimostrare che, nato da un'euforia democratica portata al parossismo, il regime assembleare non era vitale, almeno nelle società pluraliste. A prescindere dagli argomenti tecnici ch'è possibile invocare contro di esso, ciò che lo condanna alla radice è il fatto che esso delude i governati. Una volta realizzate le riforme più urgenti, occorre provvedere alle necessità della vita quotidiana dello Stato. Si rendono necessarie misure che non sempre sono popolari e sulle quali le maggioranze si spaccano. L'agitazione fomentata da organizzazioni irresponsabili s'impadronisce della piazza. Di fronte a un disordine che non riescono più a controllare, i parlamentari s'intimoriscono. L'esecutivo, sino ad allora relegato in un ruolo secondario, appare come la risorsa estrema; e la democrazia governante, accettando l'abdicazione della rappresentanza nazionale, ripristina l'autorità del governo per consentirgli di far fronte a difficoltà che l'assemblea non ha potuto o saputo risolvere. Il controllo parlamentare si attenua, le deleghe del potere legislativo si moltiplicano, i partiti si fanno meno aggressivi. Al regime d'assemblea si sostituisce una formula senza nome, pragmatica, caratterizzata da una maggiore indipendenza dei governanti rispetto alle esigenze popolari.

Questa evoluzione, conosciuta in gradi diversi da tutte le democrazie occidentali, s'era manifestata, sino a un'epoca recente, soltanto nei periodi di crisi. Ciò che veniva chiamato il ‛rafforzamento dell'esecutivo' era considerato solamente come una misura provvisoria, destinata a far fronte a una situazione eccezionale. Invece, da qualche anno a questa parte, il provvisorio e l'empirico tendono a istituzionalizzarsi. Il primato dell'esecutivo va affermandosi dappertutto. Ma il fatto davvero importante è che, per una gran parte dell'opinione corrente, esso non è più qualcosa di tollerato come una necessità passeggera, ma è considerato come la sola formula adeguata per la conduzione degli affari politici nelle società giunte a un alto grado di sviluppo economico e sociale.

Partendo dalla constatazione fatta in precedenza e che sembra ineccepibile - ossia che l'esigenza democratica è sempre stata contrassegnata dai caratteri della società in seno alla quale veniva formulata - non c'è ragione di pensare che oggi le cose vadano altrimenti. Nelle società contemporanee si può notare che le due tendenze che in passato furono foriere di conflitti - quella a render massima la produzione e quella a perequare le condizioni - tendono a incontrarsi anziché a combattersi. Ciò avviene perché, pur senza che si sia raggiunto uno stadio di totale prosperità, il sistema economico-sociale è tale che, nell'insieme, le diseguaglianze da un lato sono sopportabili e, dall'altro, sono percepite come suscettibili di una progressiva riduzione. Sembra dunque possibile attendersi dallo sviluppo economico ciò che, ancora poco tempo fa, appariva realizzabile soltanto nella prospettiva di un sovvertimento dell'ordine costituito. D'altronde si ritiene che i progressi della scienza siano tali da permettere ai gruppi umani non soltanto di affrontare - e da una posizione di forza - gli ostacoli materiali che si frappongono allo sviluppo, ma anche di avere una conoscenza dei meccanismi economici e sociali sufficientemente oggettiva da garantire, mediante una regolamentazione razionale, la continuità del movimento ascendente di tutta intera la società.

Non si vuol sostenere che quest'analisi sia esatta, è certo tuttavia ch'essa, nella misura in cui esprime una convinzione dominante nel gruppo, contribuisce a modificare sensibilmente il senso della democrazia governante. Che questa continui a esistere in quanto i valori ispiratori dei partiti politici promanano dalla collettività stessa è indubbio; è essa che determina le finalità delle limitazioni imposte necessariamente alla vita comunitaria; i governanti, prescelti in funzione della loro capacità di raggiungere tali obiettivi, non potrebbero mantenere le loro cariche se venissero meno a questo dovere. Ma, per tutto ciò che concerne il loro concreto agire, nonché i modi e il contenuto della legislazione, la volontà popolare si astiene dall'intervenire. È ai dirigenti che spetta scegliere i mezzi, fissare le tappe, calcolare costi e ricavi: in una parola, controllare l'insieme del meccanismo di produzione del benessere.

Con ciò non si vuol dire tuttavia che in un simile conte- sto tutti i conflitti sociali siano riassorbiti. Essi rimangono virulenti, giacché le diverse categorie sociali si contendono i benefici della crescita. Si tratta però di un'agitazione non più rivoluzionaria, ma soltanto rissosa. Ci si batte non per mutare la società esistente, ma per conquistarvi una collocazione più favorevole. Non si rifiuta, ma si rivendica.

A questo sistema - cui l'esistenza di un consenso di fondo conserva un carattere democratico, ma in cui la passività dei governati lascia mano libera ai governanti nella gestione degli affari - si potrebbe dare il nome di democrazia consenziente se fosse plausibile qualificare come democratico un regime in cui l'individuo trova nei benefici ch'esso gli procura un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità.

d) Le possibilità della democrazia nelle società postindustriali

Fino a pochi decenni fa, gli Stati Uniti erano il solo paese in cui l'alto grado di sviluppo dell'economia permettesse alla democrazia di essere considerata come un regime di gestione della prosperità, controllato dalla concorrenza dei vari gruppi, egualmente interessati al suo mantenimento. Ora, pur senza arrivare a eguagliare la ricchezza americana, il progredire della produzione tende ad avvicinare i paesi europei alla situazione esistente oltre Atlantico. Abbiamo già osservato che questa evoluzione non ha lasciato inalterata la mentalità degli individui, ma li ha portati a concepire la democrazia come l'amministrazione del benessere. Ci si domanda dunque: in che misura questa trasformazione dell'esigenza democratica rischia di pregiudicare il funzionamento delle istituzioni politiche della democrazia? È questo il problema del nostro tempo, cui tuttavia sarebbe presunzione rispondere se non con semplici ipotesi.

La democrazia governante, nata dalle tensioni interne al gruppo nazionale, ha avuto per conseguenza di istituzionalizzare i conflitti, facendo dei meccanismi costituzionali gli strumenti della lotta per il potere. Le elezioni esplicitano una contrapposizione di classi, i parlamenti sono arene in cui si misurano forze in lotta, il governo si batte per la propria conservazione, l'opposizione mira a rovesciarlo e i partiti - che sono gli animatori di tutte queste battaglie - elaborano la loro strategia in funzione della conquista o della conservazione del potere. Questa atmosfera di mobilitazione permanente non è favorevole allo sviluppo della società tecnologica. Quando la crescita economica, l'incremento del reddito nazionale nonché il conseguente miglioramento del tenore di vita vengono considerate finalità supreme dell'organizzazione della vita collettiva, la politica nel senso stretto del termine, con le rivalità personali fra i suoi protagonisti, i suoi programmi demagogici e il suo verbalismo, appare come un'attività insieme futile e pericolosa. Futile perché il mondo dell'economia ha le sue leggi, contro le quali non hanno possibilità di prevalere gli imperativi di un'ideologia partigiana; pericolosa perché lo sviluppo economico potrebbe essere compromesso da fermenti provocati dalle lotte politiche.

Affermare che convinzioni di questo tipo siano oggi unanimemente diffuse tra i governati sarebbe indubbiamente eccessivo; ma sarebbe altrettanto imprudente non tener conto del favore che vanno riscuotendo presso una parte dell'opinione pubblica. Sono queste convinzioni che costituiscono il supporto delle cosiddette ‛maggioranze silenziose', le quali sono in grado, a dispetto della loro scarsa rumorosità, di determinare l'orientamento del regime. Del pari, il declino dell'istituto parlamentare - fenomeno comune a tutte le democrazie europee - testimonia anch'esso lo smarrimento della classe politica, posta di fronte a compiti che le assemblee non sono in grado di assumersi. La funzione legislativa va sfuggendo alle assemblee, perché la società tecnologica esige una regolamentazione che risponda esclusivamente a esigenze di razionalizzazione, il che esclude il confronto ideologico; e il controllo sull'attività governativa diviene loro impossibile, perché esigerebbe strumenti più sofisticati del semplice rovesciamento della compagine che è al potere. Questa sorta di paralisi si estende infine ai partiti, giacché i problemi di gestione non lasciano che scarso spazio a politiche alternative, tanto che, se si prescinde dalle soluzioni rivoluzionarie, tutti i programmi si rassomigliano. Tale è l'origine del discredito che colpisce le formazioni politiche agli occhi dell'opinione pubblica, avida più di realizzazioni che di promesse. Quanto poi all'opinione pubblica, essa a sua volta è preda del conformismo instillato dai mezzi di comunicazione di massa, agenti più o meno clandestini della società dei consumi.

Ne risulta così che l'attività degli organi statali non può più essere subordinata alle esigenze - spesso contraddittorie e passionali - espresse dalle reazioni popolari. L'origine del potere non è più sufficiente per abilitarlo ad assolvere il compito che gli incombe, giacché, pur ammettendo che la sua provenienza democratica lo renda legittimo, non per questo essa gli conferisce le competenze tecniche necessarie. Si è allora indotti a ritenere che, in una collettività in cui benessere e progresso futuro dipendono interamente dallo Stato, questo assolva una funzione il cui contenuto e il cui stile sono determinati da dati oggettivi, cui sarebbe senz'altro dannoso sostituire l'ossequio alle passioni delle masse. La decisione politica deve dunque venire sottratta ai fattori passionali che turbano le folle e obbedire esclusivamente alla razionalità dell'analisi e del calcolo. Eravamo abituati a scorgere i fondamenti del potere nella domanda secolare: ‟Chi ti ha fatto re?". Ma ora, nelle società sviluppate del nostro tempo, la questione non è più di sapere chi vuole, ma di determinare ciò ch'è possibile volere e di scegliere il procedimento più sicuro per raggiungere i fini perseguiti. Posti in questi termini, i problemi politici escludono i conflitti di legittimità. L'autorità dipende più dalla capacità di realizzare i fini sociali che dal fondamento cui essa può richiamarsi. È meno importante domandarsi chi ha fatto il re che prendere in considerazione ciò ch'egli è capace di fare.

Le premesse di questa concezione di una politica passibile di un approccio razionale possono essere agevolmente rintracciate nelle profezie del sansimonismo o nella fisica sociale cara ad A. Comte. Essa si riconnette per altro verso a certe considerazioni di Marx sulla società comunista, la quale non avrà bisogno di un'autorità dirigente, perché si governerà mediante il solo giuoco della sua logica interna. Ma, a dispetto di un tale impressionante patrocinio, sembra lecito domandarsi quale posto possano ancora pretendere di avere i meccanismi della democrazia in un sistema organizzato secondo una logica così rigorosa.

Bisogna ammettere che, a livello delle opzioni fondamentali, essi non svolgono più alcun ruolo. Non si tratta infatti di scegliere il tipo di società in cui gli uomini vorrebbero vivere, ma soltanto di sviluppare e di utilizzare al massimo il potenziale di benessere materiale implicito nell'assetto economico esistente. Nello Stato funzionale la democrazia deve adeguarsi al postulato secondo cui il dinamismo e le possibilità delle società postindustriali sono tali da soddisfare le esigenze della collettività. Tuttavia una gestione razionale della società esistente è concepibile soltanto da parte di un potere che goda di un largo consenso popolare. Si sarà quindi indotti a trovarne la realizzazione nella fiducia accordata dal popolo a un uomo o a un gruppo. La democrazia sarà così salva per il fatto che il potere verrà dal popolo. Ma una tale fiducia significherà anche l'abdicazione, giacché ciò che i governati riconoscono è non tanto l'autorità dei governanti che si sono dati - ché questo tratto è comune a tutte le forme di democrazia - quanto la propria impotenza a intervenire nel processo di formazione della decisione politica. Forte della sua sovranità, il popolo ne affida l'uso a gestori cui lascia la cura di servirsene nel modo migliore.

È in effetti questa la situazione verificatasi in Francia quando era al potere il generale De Gaulle. Forte di una legittimità personale ch'egli doveva al suo ruolo storico e che a partire dal 1962 gli sarà confermata dall'elezione a suffragio universale diretto, il capo dello Stato si faceva consegnare dal popolo - mediante il referendum - un mandato in bianco che l'autorizzava a perseguire una politica di cui egli era il solo a determinare gli obiettivi e a fissare i mezzi. L'unica denominazione, atta a definire il regime allora in vigore, è quella di democrazia plebiscitaria.

Una formula del genere è applicabile in pieno soltanto nel caso di una personalità dotata di un carisma che le permetta di sottrarsi al controllo quotidiano dei governati. Ma, anche senza arrivare a una forma così accentuata, il disinteresse dei cittadini per gli affari pubblici può condurre la democrazia a non rappresentare più che un sistema in cui il ruolo del popolo si limiti all'investitura dei governanti. Si giungerebbe così a una sorta di democrazia passiva, di democrazia consenziente.

Non si può escludere tuttavia che i cittadini ritrovino la parola, una volta che i governanti comprendano l'opportunità di farli partecipare all'elaborazione delle decisioni, giacché va notato che questa democrazia consenziente, se non è rivoluzionaria, è però litigiosa. Non è rivoluzionaria perché non mette in discussione i capisaldi fondamentali dell'ordine sociale costituito; ma - come aveva previsto Tocqueville osservando la società americana - è litigiosa perché i diversi gruppi sociali si contendono i benefici dello sviluppo economico. Ciascuno di essi mira a trarre il massimo profitto dallo sviluppo e ad ottenere dallo Stato, ch'è il promotore dell'espansione, che questa sia indirizzata a proprio vantaggio. In quest'atmosfera di mercanteggiamenti, in cui ciascuna categoria sociale si considera come un avente diritto, una guida autoritaria non riuscirebbe che a inasprire le rivendicazioni e di conseguenza a compromettere il buon funzionamento dei meccanismi economici. A ciò si deve se il potere preferisce, piuttosto che impartire ordini, negoziare con quelli che le necessità oggettive qualificano come suoi partners sociali. Ne derivano le procedure di azione concertata e le formule di partecipazione che vediamo oggi proliferare e il cui scopo è di coinvolgere nell'elaborazione della norma coloro che vi saranno soggetti.

Certo, si tratta in tali casi di istituzioni indubitabilmente democratiche, che presentano il vantaggio di spingere gli individui a pronunciarsi sui problemi concreti posti dalla vita quotidiana. Ma si converrà ch'esse escludono la discussione sulle principali scelte. Questa discussione non la si può infatti concepire se non a un livello elevato, dove gli interessi, pur senza scomparire, si articolino in termini di dottrina e dove al prendere in considerazione le rivendicazioni si accompagnino costantemente soluzioni globali atte a conciliarle. La sede in cui venivano elaborate le scelte politiche, nel senso ampio del termine, è stata sino a poco tempo fa il parlamento. È per il suo tramite che il popolo prendeva parte alle scelte che decidevano del suo destino. Ma allorché questo destino è definitivamente segnato dall'accettazione di un tipo di società - la società tecnologica e mercantile - che detta le leggi inesorabili dei meccanismi economici ai quali deve la sua vitalità, il ruolo del parlamento risulta considerevolmente indebolito. Per emanare la complessa normativa necessaria, gli uffici governativi sono più qualificati del parlamento, così come, per difendere gli interessi settoriali delle diverse categorie sociali, sono più efficaci i gruppi di pressione. I governi sono più vulnerabili di fronte a un'agitazione di piazza che a un voto parlamentare e una legge ha migliori probabilità di essere adottata se è sostenuta da uno sciopero che se è difesa da un discorso, per quanto convincente possa essere.

Se i parlamenti sono in tal modo ridotti al ruolo accademico di comparse, ciò avviene perché la concertazione e la partecipazione trovano la loro collocazione a livello della gestione, vale a dire a livello di ciò che, per convenzione, si chiama l'amministrazione. E in effetti se la democrazia ha ancora qualche possibilità di sopravvivere nelle società postindustriali, è proprio nella misura in cui, eliminando l'esoterismo dell'apparato amministrativo e rifuggendo dall'arbitrarietà delle decisioni unilaterali, lo stile democratico riuscirà a rinnovare lo spirito dell'amministrazione. ‟Vietato l'accesso al pubblico" si legge oggi sulle porte dietro le quali si decidono l'organizzazione e il funzionamento dei servizi pubblici. Ma, nel momento in cui l'amministrazione assume su di sé il destino della collettività nazionale nella sua totalità e mira a disciplinare e a razionalizzare i comportamenti di ogni suo singolo membro in vista di un fine comune, l'esigenza democratica richiede un capovolgimento della consegna. ‟Qui i cittadini sono a casa loro": questa dovrebbe essere la scritta per esprimere la necessaria trasformazione del mondo dell'amministrazione. Ormai, è all'interno di questo mondo che occorre introdurre il controllo democratico.

La democratizzazione del potere amministrativo non è certo un compito facile, in nessun paese. Oltre a una trasformazione della mentalità dei pubblici funzionari, essa presuppone nei governati una volontà di collaborazione con i vari servizi e un'autodisciplina tali da rendere superflua la tecnica degli ordini tassativi. Si tratta di condizioni realizzabili soltanto in un gruppo spiritualmente omogeneo, in cui non si discuta più della finalità del potere, ma soltanto dei mezzi più idonei al suo conseguimento. Ora, è perfettamente evidente che questa omogeneità implica l'accettazione dell'ordine sociale costituito, ossia quel regno del conformismo che la società tecnologica e mercantile instilla negli animi tramite una molteplicità di canali, dalla pubblicità all'importanza data a un certo tenore di vita. Sono proprio questi aspetti che fanno mettere in dubbio il valore autenticamente democratico di una tale democrazia consenziente, in cui i governati sono sì chiamati a partecipare alla gestione di un sistema ma non a metterne in causa il valore. La loro collaborazione assume l'aspetto di una complicità che, pur accettata e volontaria, annulla di fatto la loro libertà. Il nodo del problema non sta nei rapporti tra governati e potere e cioè nelle modalità con cui questo viene esercitato, ma va individuato direttamente nella natura della società, di cui il potere è un prodotto. Se la società obbedisce soltanto agli imperativi della crescita, se è asservita alla tecnologia, la cui ragion d'essere è il motore stesso della sua espansione (cfr. E. Jantsch, Prospective et politique, OCDE 1971, p. 57), allora davvero ‟la produzione e la distribuzione di una crescente quantità di beni e servizi fanno dell'ubbidienza un atteggiamento tecnologico razionale" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 68).

In una tale situazione, importa poco che l'uomo possa stabilire le regole della vita comune mediante procedure democratiche, se poi egli stesso, condizionato dal suo ambiente fisico e spirituale, è asservito a una società che gli detta, oltre che i comportamenti, persino i sogni. Se ciò fosse vero, la democrazia non sarebbe ormai altro che lo strumento mediante il quale, grazie alla sonnolenta docilità degli individui e alle innumerevoli tecniche del comfort e del consumo, la tecnostruttura contemporanea si assicura il controllo del potere politico. Beninteso, una tale analisi presuppone il permanere di una situazione economica favorevole. Una crisi riaccenderebbe la lotta, giacché è nella giungla che nascono le belve; nelle fertili praterie pascolano grandi e pacifiche mandrie in attesa soltanto di pastori evoluti, abili nel mungerle a suon di musica.

Un quadro simile non è rassicurante. Esso è appena delineato e già fa paura. Paura ai partiti, i quali temono che l'illanguidirsi dello spirito di lotta porti loro via una clientela che ne costituiva la forza. Paura ai moralisti, timorosi che una protettiva gestione statale lasci negletti i valori etici. Paura agli amici della libertà, spaventati dal regno di una tecnocrazia tanto più temibile in quanto maschererà la propria potenza sotto le apparenze della realtà. Non vediamo forse già i futurologi fingere di lasciare ai politici la scelta dell'avvenire auspicato, quando, in effetti, le loro anticipazioni, sotto la maschera di previsioni scientifiche in realtà nient'affatto neutrali, non fanno che proiettare nel futuro i valori attuali della società tecnoburocratica? Tutte queste paure convergono verso una preoccupazione comune, cioè quale sia il posto cui la democrazia possa ancora aspirare in un mondo ossessionato dall'ideologia della crescita.

Il problema, certo non vano, è tuttavia espressione di una tendenza a minimizzare la duttilità dell'idea democratica. La democrazia designa, a un tempo, l'adesione a un insieme di valori e la pratica di certe tecniche politiche. Ora, abbiamo visto come sia questi valori che queste tecniche assumano il loro significato soltanto in relazione a un ambiente e a un momento determinati. La democrazia non aveva certo lo stesso senso e non era subordinata alle stesse procedure per i minatori di Carmaux o di Anzin all'epoca del Germinal di Zola e per i membri di una colonia puritana nella Pennsylvania del XVII secolo. Sarebbe quindi altrettanto sorprendente che, in una società altamente industrializzata, dove l'economia è orientata dai consumi di massa e la cui omogeneità spirituale tende a costituirsi tramite la generalizzazione delle attività del tempo libero e delle tecniche di comunicazione audiovisive, le esigenze democratiche fossero analoghe a quelle che esprimevano le speranze del popolo all'epoca della prima rivoluzione industriale e potessero essere soddisfatte negli stessi modi.

Una volta esclusa l'ipotesi rivoluzionaria, è giuocoforza rinunciare alla concezione romantica della democrazia, quella che associava democrazia e barricate. Si tratta di una trasformazione non dissimile da quella intervenuta nel campo della difesa nazionale. Un tempo la leva in massa era considerata come una panacea: la nobiltà della causa, l'ardore delle truppe e la loro volontà di vincere dovevano bastare a tutto. Ebbene, come le caratteristiche della guerra moderna hanno portato all'abbandono di questa fiducia nell'efficacia degli assalti eroici, allo stesso modo i dati sociali, economici e politici che sono alla base delle collettività contemporanee altamente sviluppate esigono l'abbandono di una visione certo generosa, ma troppo sommaria, della democrazia. La piena conquista del potere è meno importante del suo esercizio. Occorre dunque accettare l'idea di una democrazia di gestione, di una democrazia che richiede, un giorno dopo l'altro, nella monotonia di un compito modesto, quell'impegno di vigilanza e di applicazione che sono propri del corretto esercizio di un mestiere. Certo, la prospettiva non è esaltante, ma è necessario comprendere come sia anacronistico, in una società che ha rinunciato ai pennacchi, che l'impegno politico pretenda di conservare il suo.

Ciò che ancora non sappiamo è se la gestione di una società la cui unica finalità è quella di dispensare a tutti un benessere standardizzato non finirà per scontrarsi con una contestazione generale di questo tipo di organizzazione sociale. E, pur ammettendo che la contestazione rimanga un fatto marginale, non è affatto certo che un ordine economico e sociale animato esclusivamente dalla ricerca delle soddisfazioni materiali sia in grado di stimolare gli individui ad assumersi la responsabilità del proprio destino. Tutto dipende da loro: il nostro tempo ha bisogno non tanto di istituzioni democratiche quanto di democratici. Se gli uomini si accontenteranno, volenti o nolenti, di essere clienti del potere, la democrazia, ammesso pure che se ne rispettino i riti, non sarà che una cornice formale vuota di ogni contenuto spirituale.

Ogni riflessione sulla democrazia porta dunque all'uomo e, più precisamente, a ciò ch'egli si attende o è in diritto di attendersi dalla politica. Ora, è evidente che sotto questo profilo le sue esigenze sono sempre crescenti. Torna alla mente l'iscrizione che nel maggio 1968 si poteva leggere sui muri dei locali occupati dagli studenti: ‟Vogliamo nient'altro che la felicità". La felicità? Ma la felicità di chi? E a qual prezzo? Non occorre sottolineare l'ambiguità che un tale obiettivo riverbera sulle istituzioni e la situazione non agevole in cui pone i governanti. Certo, si potrebbe sostenere che questi altro non fanno che assumere il ruolo del potere; energia di una rappresentazione dell'ordine desiderabile (v. Burdeau, 19702, t. I, pp. 263 ss.), il potere è appunto il promotore di essa nell'ordinamento giuridico positivo. Nella democrazia questa rappresentazione è esplicita, perché viene apertamente formulata dal popolo. Il potere è tenuto a ispirarvisi abrogando le norme corrispondenti alle strutture sociali sorpassate e garantendo contemporaneamente, con l'introduzione di nuove norme, la sicurezza di quelle relazioni che la vita comune comporta. Così facendo il potere obbedisce alla dialettica dell'ordine e del movimento che, come sappiamo, è il ritmo normale dell'azione politica.

Ciò è verissimo. Solo che il compito dei governanti delle democrazie contemporanee viene complicato dal fatto che l'ordine e il movimento non s'incarnano in due campi nettamente differenziati. Certo, forze risolutamente conservatrici o incondizionatamente rivoluzionarie esistono ancora; ma la maggioranza dei governati vuole insieme l'ordine e il movimento. Questa duplice esigenza inoltre non esprime un'aspirazione più o meno vaga e discreta.

Nei confronti dell'ordine si propende spesso proprio per ciò che questo ha di più arcaico, di più impermeabile al mutamento, foss'anche incontestabilmente benefico. E, analogamente, il movimento auspicato non si risolve in una correzione dell'ordine costituito, ma mira a un rinnovamento totale delle strutture sociali esistenti: è il movimento proprio di un progetto rivoluzionario.

Questa contraddizione è intrinseca alla democrazia governante: essa, infatti, attribuendo una sovranità effettiva al popolo reale, riconosce con ciò stesso all'individuo il diritto di far valere politicamente la pluralità delle tensioni che lo costituiscono quale esso è. Ma va anche detto che la contraddizione emerge nel regime politico, perché esiste innanzitutto nell'uomo. Certo, la scienza politica non ha atteso la nostra epoca per scoprire la dualità degli esseri che portiamo in noi stessi. Per convincersene basti ricordare la distinzione fatta da Rousseau tra cittadino e ‛uomo di natura'. D'altra parte, se Rousseau e con lui i teorici della democrazia governata avevano ben individuato i due personaggi, era per impedire a uno di essi l'accesso alla scena politica: l'‛uomo di natura' era infatti bandito da questa proprio perché avrebbe rischiato di introdurvi le contraddizioni connesse con la sua situazione concreta. Il cittadino, inoltre, il solo qualificato a volere politicamente, era un essere la cui dignità era commisurata al suo disprezzo per le contingenze. Ben diverso è l'uomo cui la democrazia governante dà la parola. Egli non solo è l'uomo totale, cui non si domanda di distaccarsi dai condizionamenti deterministici che lo modellano nella vita quotidiana, ma è anche un uomo nel quale l'appartenenza alla società tecnologica sviluppa una coscienza dilacerata.

In quanto trova la sua collocazione nella società nella sua interezza, quest'uomo è conquistato all'euforia ch'essa produce. Diversamente dalle società tradizionali, le società contemporanee altamente sviluppate non schiacciano i loro membri sotto il peso di una eredità; esse li stimolano piuttosto a costruirsi da sé la loro prigione. Li incatenano con i godimenti ch'essi ricercano e si assicurano così la loro docilità. Condizionato dai sogni che tali società alimentano in lui, nonché dal modesto benessere ch'esse gli procurano, l'individuo ne accetta i valori, ne condivide le credenze, è pronto a difenderne l'ordine. Ma, nel contempo, egli è anche l'uomo prigioniero di una situazione specifica: quella del lavoratore di fabbrica, quella dell'intellettuale inquieto, quella del piccolo commerciante minacciato dalle concentrazioni industriali. Egli è cioè ancora l'uomo di una classe e in quanto tale avverte i disagi propri di questa situazione e ne prova un sentimento di frustrazione. È appunto in questo ambiente che immediatamente lo circonda che l'individuo è maggiormente sensibile all'appello del movimento. Ma non si tratta di un appello decisivo, perché è controbilanciato dal conformismo spirituale e dall'indolenza politica che la società globale impone ai suoi membri.

Sarebbe dunque un errore rappresentare l'opposizione tra l'ordine e il movimento come un vallo profondo che divida coloro che protestano da coloro che accettano. Se così fosse, nella pratica della democrazia tutto sarebbe semplice: una frontiera separerebbe i due campi e i governanti, soggetti al rapporto di forze esistente, sarebbero gli strumenti del vincitore. Una tale dicotomia fu certamente valida per le lotte politiche di ieri. Ma ha cessato di esserlo oggi, giacché, a parte casi che, per numerosi che siano, sono pur sempre marginali, la linea di demarcazione non separa più fisicamente due collettività: essa passa all'interno di ciascuno di noi, lasciandovi l'uno accanto all'altro l'uomo dell'adesione e l'uomo del rifiuto. È questa l'ambiguità della democrazia contemporanea: il popolo, che in essa è padrone, in essa vive nell'irresolutezza.

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