Desolforazione

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Operazione con la quale si riduce, talora fino all’eliminazione completa, il tenore dello zolfo o dei composti solforati presenti in una determinata sostanza.

La d. ha grande importanza in metallurgia, in quanto la presenza in metalli e leghe di quantità anche modeste di zolfo ne peggiora sensibilmente le caratteristiche (soprattutto meccaniche). La ghisa si desolfora già nell’altoforno per l’azione esercitata da varie sostanze presenti o aggiunte al bagno (manganese, ossido di calcio) sul solfuro di ferro in esso presente. Il manganese infatti si combina con lo zolfo (del solfuro di ferro) e passa come solfuro di manganese nella scoria (nella quale ha, rispetto al solfuro di ferro, solubilità maggiore); qui reagisce con l’ossido di calcio trasformandosi in solfuro di calcio e dando ossido di manganese, il quale, in presenza di riducenti (carbone o ossido di carbonio), rigenera manganese metallico che rientra in ciclo. È chiaro pertanto che un’elevata basicità della scoria, la presenza di manganese e un ambiente riducente sono i fattori determinanti per la d. della ghisa all’altoforno. Se per ragioni particolari di marcia queste condizioni favorevoli non si possono realizzare, la d. si può attuare nel canale di colata o in siviera per aggiunta di carbonato sodico (che reagendo con il solfuro di ferro si trasforma in solfuro di sodio).

Altrettanto importante è la d. nel petrolio, poiché lo zolfo presente nel petrolio grezzo, nelle frazioni di prima distillazione e in quelle ottenute nei processi termici o termocatalitici (sia come zolfo elementare sia come idrogeno solforato sia come mercaptani, solfuri a catena aperta, disolfuri, solfuri ciclici saturi, tiofeni), sarebbe fonte, ove non venisse eliminato, di vari inconvenienti sia nel corso della lavorazione sia nello stoccaggio e nell’impiego dei prodotti petroliferi. Abbandonati ben presto i processi di d. puramente chimici (a base di lavaggi con soda e simili), semplici ma costosi, si affermarono i processi catalitici, i quali tutti conducono all’eliminazione dello zolfo come idrogeno solforato. Dopo la Seconda guerra mondiale, si è imposto il processo di idrodesolforazione (➔ idrocracking), correntemente adoperato per la raffinazione delle benzine di prima distillazione, dei distillati medi di topping e di cracking e per il trattamento preliminare delle cariche di reforming catalitico; infine, per desolforare le benzine di cracking catalitico, di coking ecc. L’impiego della idrodesolforazione è previsto anche per gli oli lubrificanti e per i residui e i grezzi pesanti, al fine di ottenere maggiori quantità di gasoli.

Per i combustibili fossili, nei quali la presenza di zolfo comporta problematiche di tipo ambientale (per es., piogge acide) e di tipo tecnologico (per es., corrosione di tubazioni e di apparecchiature, avvelenamento di catalizzatori usati nella raffinazione e nella combustione), presenta alcuni aspetti di notevole interesse l’applicazione delle biotecnologie: favorevoli condizioni di esercizio in termini di temperatura, pressione, pH; capacità di numerosi ceppi batterici di desolforare molecole organiche aromatiche (per es., il dibenzotiofene), tra le più scarsamente reattive negli impianti di idrodesolforazione tradizionale; limitato impatto ambientale. La d. microbiologica del petrolio e dei suoi derivati può avvenire secondo percorsi biochimici tali da portare al distacco soltanto dello zolfo, cioè senza perdita del potere calorifico associato alle molecole così trattate. Esperienze su scala pilota basate sull’impiego di ceppi di Arthrobacter o di Rhodococcus rhodocrous, effettuate su petroli greggi e frazioni di distillati medi, hanno dimostrato la possibilità di conseguire livelli di d. variabili dal 40 all’80%. La d. microbiologica del carbone, dove lo zolfo è presente in forma inorganica (pirite e solfato) o come zolfo organico (dibenzotiofene e benzotiofene) finemente disperso, utilizza diverse varietà di batteri (per es., Thiobacillus ferroxidans, Leptospirillum ferroxidans) per la rimozione dello zolfo piritico, mentre i risultati più promettenti di rimozione dello zolfo organico derivano dall’impiego di specie batteriche termofile (cioè in grado di lavorare a temperature anche di 70-80 °C), come Sulfolobus acidocaldarius. Il trattamento biologico consente il recupero di carboni ad alto tenore di zolfo altrimenti inutilizzabili.

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