MELE, Diego

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)

MELE, Diego

Luciano Carta

MELE, Diego. – Nacque a Bitti, presso Nuoro, il 22 genn. 1797 da Salvatore e Anna Casu, in una umile famiglia di contadini.

Perduto il padre nel 1808, apprese i rudimenti della lingua latina presso la scuola di grammatica tenuta nel villaggio di Gorofai (ora un quartiere di Bitti) dal sacerdote M. Ghisu. Solo all’età di 18 anni il M. poté procurarsi una formazione più regolare: dapprima a Cagliari, dove si mantenne agli studi facendo il precettore presso famiglie nobili, e successivamente a Sassari, dove frequentò il corso di teologia e conseguì la laurea il 12 ag. 1826.

Negli anni degli studi teologici il M. strinse un profondo legame di amicizia con Giovanni Spano, il fondatore dell’archeologia e degli studi linguistici in Sardegna, che fu non solo suo grande estimatore, ma anche il primo divulgatore delle sue composizioni poetiche in sardo, altrimenti destinate a essere perdute per il loro carattere di improvvisazione. Come ricorda Spano nella sua autobiografia, egli e il M. gareggiavano nell’invenzione di composizioni poetiche, eccellendo il primo in lingua latina mentre il M., per talento e arguzia, in lingua sarda logudorese.

Il M. fu ordinato sacerdote nel marzo 1827, esercitando il ministero in piccoli villaggi della Barbagia lungo l’arco dell’intera esistenza. Coadiutore del parroco di Bitti nel 1827, alla fine dell’anno fu inviato come viceparroco a Oliena e, dal 1830, a Mamoiada.

Erano gli anni in cui, in applicazione dell’editto delle chiudende (1820) – che dava la facoltà a chi ne avesse i mezzi di recintare i terreni pubblici, adibiti agli usi comunitari –, la monarchia sabauda intendeva modernizzare le arcaiche strutture produttive dell’isola. In tal modo si creavano le basi per una prima diffusione della «proprietà perfetta» della terra e si favoriva la nascita di una moderna borghesia agraria. Intorno agli anni Trenta l’applicazione da parte dei possidenti dello strumento delle chiusure dei terreni diede luogo a vasti fenomeni di accaparramento (le «tancas serradas a muru, fattas a s’afferra afferra», secondo i celebri versi tramandati dalla tradizione), mettendo in crisi i ceti più poveri della popolazione rurale che, legati per motivi di sussistenza all’arcaico sistema dell’uso comune della terra e alla pastorizia brada, scatenarono una rivolta contro le chiusure.

Il M., viceparroco di Mamoiada, si schierò dalla parte dei ceti più poveri, incitando contadini e pastori ad abbattere le chiusure e a ripristinare le forme tradizionali di conduzione agricola («torrare a su connottu», ossia tornare al conosciuto, alla tradizione). A seguito di questi moti, tra il dicembre del 1832 e il febbraio del 1833, il M. fu mandato a domicilio coatto presso il convento dei cappuccini di Ozieri e, al termine della detenzione, fu spedito come prorettore nello sperduto paesello di Lodé, non lontano da Bitti, già oggetto dei suoi strali satirici per la rozzezza degli abitanti.

Si riferiscono a questa duplice dolorosa esperienza le due prime composizioni poetiche a noi pervenute, di cui la prima (

O pena dolorosa) redatta secondo i modelli dell’Arcadia.

Riuscito vincitore del concorso per la parrocchia di Olzai, il M. fu ininterrottamente «rettore» di questo piccolo centro barbaricino dal 1836 fino alla morte, avvenuta a Olzai il 16 ott. 1861.

La fama del M. come poeta satirico in vernacolo logudorese era già consolidata dalla metà dell’Ottocento sia a seguito della pubblicazione di undici sue canzoni nelle raccolte di poesia popolare del canonico Spano, sia per la traduzione di alcune di esse in francese e in tedesco a opera di due studiosi di tradizioni popolari, Auguste Boullier (1865) e il barone Heinrich Fr. von Maltzan (1869). Alla fine dell’Ottocento l’opera poetica del M. fu oggetto di attenzione nelle ricerche demologiche giovanili della scrittrice nuorese Grazia Deledda. L’edizione completa delle opere vide però la luce solo nel 1922, per cura del medico olzaese P. Meloni Satta.

Recentemente la produzione del M. è stata riproposta, anche con la pubblicazione di alcuni inediti, nel quadro del rinnovato fervore di studi sulla cultura e la lingua della Sardegna dal Settecento a oggi, dei suoi rapporti con la cultura italiana, del recupero della tradizione orale e della improvvisazione poetica, nel cui ambito i più accreditati studiosi ritengono debba essere collocata l’opera del Mele.

La prima maniera della poesia del M., ispirata ai canoni letterari dell’Arcadia, si muove sulla falsariga delle opere di Pietro Pisurzi, Baingio Pes e, soprattutto, del padre scolopio Luca Cubeddu: una poesia tenue nei toni, ricca di erudizione mitologica, leggera nella versificazione e nel metro, fondamentalmente lirica nei temi. Nelle opere della maturità il M., abbandonato l’originario modello, andò, viceversa, sempre più immedesimandosi nei problemi delle popolazioni rurali delle zone interne della Sardegna e ne adottò il metro espressivo con l’utilizzazione dell’ottava con rima, propria della poesia di improvvisazione caratteristica delle gare poetiche della tradizione contadina e pastorale, che sono in genere tramandate oralmente. Genuina espressione di questa tradizione poetica fondata sull’oralità, viva ancora oggi nella Sardegna dell’interno, la diffusione dell’opera poetica del M. tra le popolazioni locali nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento dovette essere assai più cospicua di quanto possa ritenersi, e non certo limitata alle poche «canzoni» che la tradizione scritta è riuscita a salvare e a trasmettere fino ai nostri giorni.

Il barone von Maltzan ha giustamente definito il M. «principe dei satirici sardi». Si tratta di una satira che, per la profonda conoscenza e per l’assidua frequentazione degli autori latini, si inscrive a giusto titolo nel solco della tradizione letteraria oraziana, che castigat ridendo mores, irride senza offendere, denunzia senza odiare, sorride sui vizi pubblici e privati in modo bonario, con l’intento di ricavarne utili insegnamenti, sempre prendendo spunto dal vissuto quotidiano delle persone e dal contesto locale, senza la pretesa di ergersi a veicolatore di principî astratti, nonostante il particolare ruolo dell’autore, sacerdote in cura d’anime, dotato di una fortissima carica di autoironia.

La capacità di burlarsi di se stesso caratterizza due note satire sull’esilio a Lodé (Como sì chi piango cun rejone [Ora sì che ho una buona ragione per piangere]) e sulla beffa giocatagli da un falso calzolaio cagliaritano, che gli sottrasse senza restituirglielo un paio di scarpe, tra i lazzi degli amici e dei padri conventuali di cui era ospite (Amigos iscurtade attentamente [Amici, ascoltate con attenzione]), per concludere con bonaria autoironia sulla sua dabbenaggine: Già chi tantu coglione so istadu / como cammino isculzu che molente (Poiché sono stato così stupido / ora devo camminare scalzo come l’asino). L’ironia raggiunge effetti esilaranti e di forte impatto comico nelle satire dedicate a temi del vissuto quotidiano delle comunità di villaggio, quali le disavventure matrimoniali delle parrocchiane e i mariti maneschi (Dogni mala fortuna est contr’a mie [Tutto è contro di me]; Como chi so giompid’a s’intentu [Ora che ho raggiunto il mio scopo]), le lotte di campanile (In Olzai fiuda e nen baiana [In Olzai né vedova né nubile], sulla difficoltà per le donne di Olzai di trovar marito per la concorrenza di quelle di Ottana), le gustosissime diatribe tra comari (’Eo puru felice mi creìa [Anch’io mi credevo felice]), lo scorno per intraprese economiche mal riuscite (Como diventat riccu su rettore [Adesso il parroco si fa ricco]), i sotterfugi e le beffe di amori traditi (Non ti cheres faeddadu [Non vuoi che ti si parli]), l’irrisione per la taccagneria di un amico sacerdote (Eccoti s’ebba tua frisca e sana [Eccoti la tua cavalla fresca e sana]).

In altre composizioni, la satira è veicolo di problemi squisitamente politico-sociali, come in Su populu de Ula est fortunadu (Il popolo di Ula Tirso è fortunato), sull’epidemia di colera del 1855, e In Olzai non campat pius mazzone (A Olzai non campa più la volpe), la più celebre delle poesie del Mele. In essa, attraverso un linguaggio metaforico e assai criptico, il M. prende le difese dei contadini e dei pastori, fieramente avversi all’editto delle chiudende, il cui unico scopo era stato quello di modernizzare l’economia della Sardegna sulla base dei principî del liberismo economico. Le riforme, riflette il M., non possono farsi sulle spalle dei ceti più deboli della società. Si tratta di una satira, dunque, che è robusta poesia civile, anche se l’autore non si nasconde il rischio di passare tra i benpensanti per «retrogadu e codinu». Si trattava non di mentalità retrograda e codina, ma di immedesimazione nei problemi reali della povera gente e nella difesa dei suoi diritti.

Le prime edizioni parziali delle poesie del M. sono in G. Spano, Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese, I, Canzoni storiche e profane, Cagliari 1863, pp. 54-61, 108-113; Id., Canzoni popolari inedite… Appendice alla parte prima delle canzoni storiche e profane, ibid. 1865, pp. 42 s., 59-64, 75-77, 159-163, 165-171; Id., Canzoni popolari inedite…, III, Canzoni storiche e profane, Cagliari 1872, pp. 92-96, poi in Id., Canzoni popolari di Sardegna, a cura di S. Tola, prefaz. di A.M. Cirese, II, Nuoro 1999, pp. 257-299. Per la prima edizione completa delle opere del M., si veda: Il Parnaso sardo del poeta bernesco estemporaneo teologo D. M., ordinato ed illustrato dal prof. P. Meloni Satta, Cagliari 1922. Alcune composizioni tradotte in francese e tedesco sono in: A. Boullier, ­L’île de Sardaigne. Dialecte et chants populaires, Paris 1865, p. 190; H. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig 1869, pp. 433 ss. Per le più recenti edizioni delle poesie del M. si vedano: Il meglio della grande poesia in lingua sarda, con introd. di M. Pira, Cagliari 1975, pp. 171-193; D. Mele, Satiras e poesias varias, a cura di B. Porru, Cagliari 1981; Id., Satiras: con due composizioni inedite, a cura di S. Tola e con un contributo di B. Porru, Cagliari 1984.

Fonti e Bibl.: Per notizie biografiche sul M. si rimanda alle introduzioni premesse alle raccolte delle sue opere e alla prefazione del nipote Salvatore Mele alla ristampa di una delle raccolte di canzoni popolari del canonico Spano: Poesie popolari sarde…, cit., 1883; si veda anche G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di S. Tola, Cagliari 1996, pp. 81, 93, 152.

L. Carta

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