VELÁZQUEZ, Diego Rodríguez de Silva y

Enciclopedia Italiana (1937)

VELÁZQUEZ, Diego Rodríguez de Silva y

Elias TORNIO y MONZO

Pittore, nato a Siviglia il 6 giugno 1599, morto a Madrid il 7 agosto 1660. Il padre lo mise agli studî letterarî, ma ben presto si accorse che la vocazione di Diego era per l'arte e acconsentì a fargli cambiare genere di studî. Era appena adolescente quando ebbe per primo maestro Herrera il Vecchio. L'audacia coloristica e appassionata delle tele di questo pittore ribelle e anticlassico suggestionarono definitivamente il V. ancora fanciullo e gli diedero, prima ancora ch'egli sapesse dipingere, il sentimento assoluto della libertà artistica e l'orientamento al naturalismo e al colorito.

Il secondo maestro, presso cui il V. stette cinque anni come apprendista, fu Francisco Pacheco, il quale, tutto ordine e dottrina, era o aspirava ad essere un classicista, e adorava Raffaello. Il V. di fronte a lui si arrogò una piena autonomia, e il maestro con magnanimità e chiaroveggenza lasciò ch'egli si educasse da sé stesso artisticamente ed esteticamente in totale opposizione ai suoi ideali. L'allievo altro non fece che dipingere col modello innanzi, prima oggetti, poi persone e poi scene di cucine o di taverne, che allora in Italia e nella Spagna si chiamarono "bambocciate", ma sempre di grande formato, oltre a ritratti e alcuni quadri religiosi, trattati con lo stesso scrupolo nel copiare il modello vivente. La cronologia di questi lavori mostra un procedere senza nessuna titubanza, senza velleità di classicismo o di manierismo di chi calca una via tutta propria. Il giovane caravaggesco di Siviglia non rassomiglia mai a nessun altro pittore di Spagna o d'Italia: segue passo passo il proprio cammino, in cui qualche volta coincide col Zurbarán suo coetaneo e suo compagno a Siviglia.

Il Pacheco, contraddicendo alle proprie idee ed opere, gli accordò il più fervido plauso, gli diede in moglie sua figlia e si adoperò a facilitargli il successo a Madrid, incitandolo a fare quel viaggio. Quando vide che l'affermazione della personalità artistica del ventiduenne V. coincideva con l'ascesa al trono, a diciassette anni d'età, di un amico delle arti, quale fu Filippo IV, che aveva avuto persino un maestro di pittura nel Mayno (domenicano milanese divenuto spagnolo per la lunga dimora a Toledo), il Pacheco decise che Diego andasse a ritrarre il sovrano, certo del suo successo. In un primo viaggio il giovane pittore non ottenne di poter fare il ritratto. Ma poco più tardi, mercé l'opera di cortigiani entusiasti, fu chiamato a Madrid dall'onnipotente Olivares per ritrarre il re. I ritratti del re e del ministro favorito e quelli di regine, di principi e d'infanti saranno per quasi quarant'anni di vita di corte il soggetto artistico principale del V., l'opera sua in una serie meravigliosa che non doveva essere retribuita che col titolo comprensivo di "pittore di corte".

Nella Siviglia della giovinezza del V., città grande e ricca, monopolizzatriee del commercio con l'America, già si conosceva il Ribera e qualche opera del Caravaggio e vi era stato il Greco - già toledano - ed ora vi andava il Borgianni. Il Roelas soprattutto stava per esservi quasi continuatore del grande Iacopo Tintoretto, in quel suo stile proprio ben diverso da quello di Domenico Tintoretto. Nei suoi viaggi a Madrid, il V., di passaggio, anche per Peoldo, per Yepes, per Illesca, studiò certamente le opere del Greco e i lavori del suo discepolo Tristán. Ma Madrid nei suoi palazzi, nel vicino Escorial e nel Prado possedeva creazioni insigni, meravigliose, del Tiziano, con alcune altre opere, forse di non minor valore, del Veronese e del Tintoretto. Tutto vide, studiò e meditò il V., senza però abbandonarsi mai all'imitazione diretta di qualche stile. Nel 1628 giungeva a Madrid il Rubens; del suo primo viaggio del 1603 restavano opere della sua splendida gioventù, ma questa volta egli ne portava molte del suo grande stile personale in magnifico dono a Filippo IV. Il V. lo accompagnò nelle visite d'arte, fu il suo unico amico tra i colleghi; e dipinse sotto gli occhi del fiammingo la sua prima grande opera di composizione, i Bevitori, totalmente estranea a ogni influenza fiamminga. Fu il Rubens che convinse il V., e senza dubbio anche il re, della necessità indiscutibile di un viaggio in Italia.

Il primo viaggio del V. in Italia, dal 1629 al 1631, non era precisamente quello di un "pensionato"; egli portava lettere commendatizie della corte di Madrid e aveva segretamente qualità di "diplomatico". Visitò Genova e Milano, sempre accompagnato dal grande Spinola della Resa di Breda. Visitò Venezia, dove ammirò le opere del Tiziano, del Veronese e del Tintoretto, copiandone due di quest'ultimo pittore. Visitò pure a Ferrara il cardinale legato Giulio Sacchetti, già nunzio a Madrid, al quale lasciò il suo autoritratto, improvvisazione rapida che dovette dipingere là stesso, ed è quello che con tutta la collezione Sacchetti, allora formata, costituisce il nucleo principale della Pinacoteca Capitolina. Visitò Cento, dove avrebbe potuto intrattenersi col Guercino, del quale si scorge qualche influenza in alcune figure del quadro La tunica di Giuseppe che il V. dipinse a Roma poco dopo. Visitò inoltre Loreto senza passare questa volta per la Toscana.

A Roma si destò in lui l'amore del paesaggio luminoso; a Roma, senza subire l'influenza di nessun maestro determinato, la sua genialità riuscì a penetrare nell'anima del Rinascimento.

Cortese, amabile, incapace d'invidia, libero da passioni, poté stringere amicizia con tutti i maggiori artisti, essendo stato incaricato di procurare 12 quadri molto omogenei per il nuovo palazzo madrileno del Buen Retiro e per il suo Salone del regno. Dando prova, come critico, di grande comprensione e di tolleranza eclettica, mentre era sì unilaterale ed intransigente nel suo ideale artistico come pittore, fece lavorare il Reni e il Lanfranco, il Domenichino e il Sacchi, il vecchio D'Arpino e il giovane Pietro da Cortona, tutti in certo modo d'una stessa scuola, ma totalmente diversa dalla sua; e diede pure commissioni ad Orazio Gentileschi, al Guercino e a Massimo Stanzioni, e anche ai due francesi Poussin e Valentin, sì opposti tra loro, e finalmente al tedesco Sandrart. Le opere ordinate furono dipinte, ma non tutte, e, salvo alcune, non vennero pagate, e alla.fine il Salone fu decorato da pittori spagnoli, compreso il V. (Le Lance), con scene guerresche invece delle mitologiche e allegoriche ch'erano state commesse a Roma.

Per ordine del re, il V. passò a Napoli per dipingere il ritratto della sorella di quello, Maria. In quella città trattò col Ribera; e a Napoli (Pinacoteca) si conserva una replica a grandezza naturale, in un immenso acquarello, dei Bevitori del V., certamente di sua mano, quantunque egli fosse ancora inesperto e disadatto a dipingere in quella tecnica che cambia col disseccarsi a differenza di quella ad olio.

Il primo viaggio del V., in Italia durò circa un anno e mezzo, il secondo, dal 1649 al 1651, quasi due e mezzo, e in questo egli visitò nuovamente Genova, Milano, Padova, Venezia, Roma, Napoli, un'altra volta Roma, e per la prima volta Bologna, Modena (il cui duca era stato da lui ritratto a Madrid), Parma e Firenze. Per farlo tornare in Spagna molti sforzi dovette fare e ripetuti ordini dovette impartire il re, che si lamentava della sua nota "flemma". Per incarico di Filippo IV comprò pregevoli tele del Veronese e otto del Tintoretto; ordinò a Roma le forme di un numero considerevole di statue classiche da lui scelte, per essere fuse in bronzo a Madrid, dove stanno ad ornamento del palazzo; e siccome i pittori spagnoli non usavano la pittura a fresco, cercò d'indurre il Cortona e riuscì a convincere i frescanti bolognesi Mitelli e Colonna ad andare nella Spagna. Strinse amicizia con artisti, fu acclamato accademico di S. Luca per il ritratto del suo servo, o schiavo, Pareja, anch'esso pittore della sua scuola. Fece questo ritratto per allenarsi, per "sciogliere la mano" avendo abbandonato i pennelli in quei lunghi mesi, prima di dipingere il ritratto di papa Pamphily, già nunzio nella Spagna: l'Innocenzo X del palazzo Doria a Roma. Disgraziatamente non v'è quasi più speranza di ritrovare gli altri ritratti ch'egli fece ai cortigiani e familiari del papa, compreso quello della "Pimpaccia di Piazza Navona", ossia di Donna Olimpia cognata del pontefice. In questo viaggio, ravvivatosi in lui il sentimento del paesaggio luminoso, fece i due piccoli quadri meravigliosamente impressionístici, presi a Villa Medici: novità di formula d'arte, che doveva avere continuatori solo nel sec. XIX: l'uno sembra un Corot, l'altro un Pissarro.

Taciturno, molto riservato, faceva in Italia la stessa impressione dei personaggi da lui ritratti. Al veneziano Boschini, pittore, poeta ed eccellente critico, il V. sembrò un "cavalier che spirava un gran decoro, quanto ognun'altra autorevole persona" e sappiamo che a Roma, fatto già conoscitore di tutte le opere dei grandi artisti del Rinascimento, egli, interrogato su Raffaello d'Urbino, non avrebbe taciuto ciò che al Boschini dovette dire a Venezia: "A dire il vero (piasendomi esser libero e sincero) stago per dir, che nol me piase niente", ma per aggiungere, paragonando, quale era la sua predilezione: "A Venezia se trova el bon, e 'l belo; mi dago el primo luogo a quel penelo: Tixian xe quel che porta la bandiera" A Roma il V., amico ed entusiasta anche dell'Algardi, del Bernini e di Salvator Rosa, fu ammirato a sua volta dal Bernini.

Più tardi, nel 1657, il pittore spagnolo desiderava tornare a Roma, ma il re non volle più permetterglielo.

Il secondo viaggio in Italia non ebbe l'importanza del primo: il V. fu nominato quasi subito maresciallo di Palazzo (Aposentador Mayor), e nei nove ultimi anni della sua vita dovette dipingere pochi quadri, e dipingerli anche più rapidamente di quanto soleva, quantunque, appunto per tale circostanza, siano veri prodigi del pennello: Las Meninas, Le Filatrici, La Venere e i ritratti dell'infanta Margherita con i fiori, e di Felipe Prospero con un cagnolino (ambedue a Vienna).

Quando si supponevano di questo tempo molte delle sue più belle opere (Nani; Coronazione di Maria; S. Antonio e S. Paolo; Esopo; Menippo), i due viaggi in Italia erano come vere pietre miliari nel cammino della vita artistica del V. che, a parte l'opera giovanile (taverne, bambocciate, ecc.), veniva così distribuita. Primo stile, analitico: capolavoro finale, I Bevitori. Secondo stile, dopo il primo viaggio in Italia: opere principali, La Fucina, Le Lance (Resa di Breda). Terzo stile, dopo il secondo viaggio, stile abbreviato: opere culminanti (anche assolutamente), Las Meninas, Le Filatrici. Rettificando la cronologia come si è detto, si divide ancora bene in tre periodi la sua evoluzione artistica, che dal primo all'ultimo dei quadri conosciuti fu sempre progressiva con processo gradualmente accelerato, e che non solo non decadde mai, ma non ebbe nemmeno deficienze accidentali o temporanee. Il suo progredire è così sicuro, che di pochi artisti riesce più interessante e allo stesso tempo più possibile il riconoscere la cronologia delle opere anzi talvolta quella dei ritocchi di qualcuna di esse. Sempre meglio si va chiarendo la cronologia definitiva, come anche la discriminazione fondamentale tra copie e originali.

Il V. - ben diverso in ciò da Raffaello e dal Rubens - non volle mai collaboratori. Egli ci ha lasciato poco più di un centinaio di quadri (quelli conosciuti per suoi sono oggi meno di 120), dei quali più di 80 rappresentano una sola figura. Ma in nessuna delle sue opere si nota fatica o stanchezza o affettazione e nemmeno improvvisazione: egli dipingeva con pura gioia creatrice. Il V. non dovette lottare per la vita. Prima in casa del suo maestro, poi in quella del re trovò sempre risolto il problema economico. La vita dell'artista rivela il suo carattere e il suo ideale sociale, nobiliare e di fedeltà monarchica. Senz'ombra di avidità di ricchezze la sua arte fu il compito d'un nobile, d'un gentiluomo, che mise nobiltà in tutti i suoi ritratti, anche - con profondo senso di umanità e di carità cristiana - in quelli dei buffoni, vagabondi, nani, ecc., di quella corte: nobiltà sovrana, serenità (l'ideale di Filippo IV) nel ritrarre la realtà, senza ricorrere ad allegorie, simboli, armi, blasoni, segni di potenza o di ricchezza d'indumenti di nessun genere.

Il profondo senso realistico ch'egli ebbe, non gli permise mai di tradurre in pittura altra cosa che gli aspetti reali. I soggetti mitologici furono da lui trattati con ironia delicata, ma come fatti del giorno, come scene di vita contemporanea. Anche negli stessi soggetti religiosi si scorge la sua brama di realismo: sono devoti e profondamente sacri, non contengono particolari vani, e tuttavia la sua Immacolata degli anni giovanili è Maria e nello stesso tempo è la sua promessa sposa; la Vergine dell'Adorazíone dei magi è la Madre di Dio, ma pure la sua giovane sposa; e il Bambino è la sua figlioletta. Il suo Crocifisso, gran quadro eseguito sopra uno schema del suocero Pacheco, ha raggiunto nella Spagna una popolarità devota, che si manifesta nei "ricordi" funebri. Deve essere un ritratto il suo S. Tommaso consolato dopo la tentazione, meravigliosa creazione, delicata e commovente, di quadro religioso narrativo. La Madonna incomparabilmente eccelsa della Coronazione pare che sia, ma pieno di castità santificata, il ritratto di sua figlia. Neppure una volta il V. derogò alla sua spontaneità "realistica".

Disegnò molto, in Vaticano, da Raffaello e da Michelangelo; ma non copiò né imitò mai nessuno, nemmeno da giovane. Fu innamorato del Tiziano, fu amico del Rubens, subì qualche influenza dal Greco, ma in tutto questo si tratta solo di lezioni di tecnica apprese, modificate, senza che lavori di altri abbiano improntato i suoi quadri.

Disegnatore insuperabile e profondo analizzatore di fisionomie, ebbe la mano sovrana di vero pittore. Nel secolo del Barocco, egli non cade nel barocchismo; e pur vivendo in una Spagna d'arte patetico-popolare, non ebbe nulla di patetico: tutto in lui è sereno.

Per cinquant'anni continui la sua pittura fu retta da un'alta coscienza artistica. Incominciò col dipingere solo vasi di terracotta e maioliche, nelle cucine, e piatti meravigliosi per la loro verità; poi cuoche e convitati in quelle cucine; poi ritratti con la stessa accuratezza; e finì con dipingere ritratti raggruppati in interni, Las Meninas, Le Filatrici, in cui tradusse l'ambiente in modo insuperabile.

Che il capolavoro di tecnica della pittura, Las Meninas, dipinto all'età di 56 anni, gli agitasse vagamente lo spirito fin da ragazzo, lo dimostra il suo Cristo in casa di Marta (propriamente non è che una delle sue bambocciate) dipinto a 19 o 20 anni. La soluzione della prospettiva aerea, quantunque allora non riuscita, è la stessa: pluralità di ambienti e di luci.

Lavori giovanili a Siviglia (dai 17 ai 23 anni): Scene di taverne (Bodegones): quelle conosciute sono dodici (coll. Beit, Ermitage, museo di Budapest, coll. Wellington, musei di Oslo, di Berlino, coll. Cook, museo di Londra); l'Immacolata, già ricordata, e S. Giovanni a Patmos (coll. Frère), Adorazione dei Magi del 1619 (Prado). Primi ritratti firmati e datati, a corpo intero, di Cristobal Suarez de Figueroa orante (Siviglia) e di Sor Geronima de la Fuente (Toledo), ambedue del 1620; il supposto Pacheco (Prado); La Vergine di S. Ildefonso (Siviglia); due ritratti di un Apostolado incompleto (Barcellona, Orléans); Cena di Emmaus (New York). Dipinto a Madid: ritratto di Gongora, del 1622 (Boston).

Primo stile dai 23 ai 28 anni d'età: I Bevitori (Bacco incoronato con i più devoti al vino); primi nudi e tipi meravigliosi di malandrini, soldati, vagabondi. Sincerità e coscienza nell'espressione artistica; ma anche secchezza, ombre non trasparenti, contorni pronunziati, ancora mancanza di atmosfera e di piani; luce laterale, fondo alquanto oscuro. La preparazione della tela è rossiccia.

Il Crocifisso del Prado. I due primi Filippo IV del Prado (1628, non 1623), Olivares (New York, Hispanic Society), Il Geografo (museo di Rouen), il probabile Autoritratto (Monaco di Baviera), il pazzo Calabacillas (coll. Coolt).

Secondo stile: La Fucìna (Apollo il Sole che ha sorpreso Venere con Marte ne dà la notizia al marito Vulcano). Si noti il valore dell'ironia del V. in tema d'adulterio, precisamente nella Madrid calderoniana delle imprescindibili tragedie del punto d'onore. Tono generale già bigiastro, atmosfera con maggiore trasparenza dell'ombra; maggiore libertà nelle figure in confronto con I Bevitori. La preparazione della tela è già grigia, ma ancora un po' rossiccia.

Le Lance (1634-1635; Prado. Ambrogio Spinola riceve con affettuosa cavalleria la resa di Breda dall'eroico Giustino di Nassau). Il ritratto del generale, dipinto a memoria, è di gran lunga superiore agli altri del medesimo eroe (del Rubens, del Van Dyck, del Pereda, ecc.). Il V. aveva vissuto con lo Spinola cinque anni prima, durante un lungo viaggio. Tela suggestiva, piena di nobiltà e magnanimità. Dipinta senza conoscenza del paesaggio olandese e senza che il pittore si fosse deciso per l'aria libera in piena luce; notevole per i toni squisiti, come quello del verde, bianco e giallo, che dominano nel gruppo degli Olandesi.

S. Tommaso consolato dopo la tentazione (Orihuela). Cristo flagellato e l'anima cristiana (Londra), forse quadro votivo per la morte di una figlioletta del pittore. Tre ritratti equestri (tra il 1634 e il 1636; Prado): Olivares, Filippo IV, Principe Baltasar Carlos. In quest'ultimo, di coloritura chiara e limpida come di acquarello, essendo stato ideato come soprapporta in mezzo ai ritratti dei genitori, si vede in scorcio e dal basso in alto il corpo del cavallo. Altri tre ritratti equestri (al Prado) solo in parte dipinti dal V., ma prima disegnati da lui ed eseguiti da altri durante la sua assenza in Italia: Filippo III, la Regina Margherita e la Regina Isabella. Tre ritratti in abito di cacciatore (tra il 1632 e il 1636, al Prado): Filippo IV, l'Infante Fernando e il Principe Baltasar Carlos. In tutti questi quadri i paesaggi, dipinti a base di grigio argento, sono presi dal Prado e le lontananze dal Guadarrama, gli alberi hanno un tono severo, verde smorzato quando non è scuro, la luce generale diffusa.

Partita di caccia di Hoyo, paesaggio e piccole figure (Londra).

S. Antonio e S. Paolo eremiti (Prado) del 1634 (prima creduto dell'ultimo tempo). Paesaggio con molte nubi di meravigliosa fattura, di color lieve in opposizione con la finezza minuziosa delle figure e con la precisione botanica della betulla e delle altre piante. Tre ritratti di buffoni (Prado), quello detto Don Giovanni d'Austria, Pablillos e Pernia-Barbarroja. Ritratti a figura intera: Filippo IV, abito di colore (Londra), Baltasar Carlos solo (coll. Wallace); lo stesso principino col Fanciullo di Vallecas (Boston); la Ipinarrieta, Corral al Prado; Baltasar Carlos (Vienna). Altri ritratti: Anonimo (coll. Wellington), la Olivares, ritenuta la moglie del pittore (Berlino); Sibilla, che è sua moglie, Mateos (Dresda); Martínez Montañés (e non Alonso Cano Prado); Autoritratto (Valenza).

Quinto decennio della vita di V. (1640-1650), in cui incomincia il suo ultimo stile: Coronazione di Maria, mirabile per il colorito nella stessa dissonanza ardita dei rossi e dei violacei ripetuti con l'azzurro. Esopo, Menippo, d'influenza somma su Manet; Marte, questi tre, ora al Prado, completano le serie di Rubens per la Torre de la Parada, per la quale furono anche dipinti i tre cacciatori. Nani (Prado): Morra; Primo; il Fanciullo di Vallecas. Un secondo Calabacillas (Prado), pseudo Stupido di Coira.

Ritratti: Baltasar Carlos (Vienna); Filippo IV, del 1644 (coll. Frick); il Cardinale Pamphily, che poi dimesso il cardinalato sposò Donna Olimpia, e una Bambina, creduta la nipote di V. (ambedue a New York, Hisp. Society); la Dama dal Ventaglio, supposta figlia dell'artista (coll. Wallace). Del secondo viaggio a Roma sono i ritratti di Pareja (Radnor), di Innocenzo X, di cui dicemmo sopra (gall. Doria, Roma) e la sola testa dello stesso (Ermitage).

I due paesaggi di Vïlla Medici e di Villa Borghese (Prado), prima creduti del primo viaggio.

Terzo stile: ritratti: Castel Rodrigo (Pío); Maria Teresa, futura moglie di Luigi XIV (coll. Lehman, Vienna, Louvre e New York); la Regina Anna (Prado); l'Infanta Margherita, quella de Las Meninas (Louvre, tre a Vienna di anni diversi, e Prado, forse ultimo lavoro del pittore); Filippo IV a busto (Prado e Londra); Venere con lo specchio (Londra), ora creduta del 1657, da altri del 1642. È il quadro più ricco di colore e l'unico nudo femminile dell'arte spagnola del sec. XVII; forse rappresenta l'attrice Damiana, amata dal figlio del primo ministro Haro, causa di notevoli scandali. Mercurio e Argo (Prado); era una soprapporta della Sala del Trono nell'Alcázar di Madrid con altri tre quadri del V. periti nell'incendio del 1734. I due capolavori Las Meninas e le Filatrici (Prado) sono una vera poesia di "interno". Nelle Meninas il pittore ritrae il proprio studio in Palazzo, con amore di cosa sua; si sente onorato per la presenza del suo re e signore ch'egli ama, dipingendone il ritratto (i sovrani si riflettono solo nello specchio del fondo); è ammaliato dalla grazia della piccola infanta Margherita, accompagnata dalle sue damine (meninas, parola portoghese), dal suo nanerottolo e dalla mostruosa Mari Bárbola. La figura che si allontana è José Nieto Velázquez, cugino del pittore che lo nominò direttore della Fabbrica reale di arazzi. È questo, dunque, nettamente, un quadro che simboleggia la sua casa, compendia la sua vita, infine proclama la sua nobiltà, quella nobiltà che rifulgerà col gesto del re, il quale in occasione appunto dî questo quadro gli accorderà la croce di Santiago, come premio al valore e alla lealtà del pittore, già "hidalgo" ed ora ancor più nobilitato. Dopo una prima apparenza di freddezza v'è una sensibilità finissima ed intima in questa come nelle altre opere del realista classico, pittore insuperabile, colorista di gamma fredda basata su infinite armonie di grigi.

Le Filatrici rappresentano un laboratorio d'industria artistica, quella degli arazzi, che dipendeva dal V. per il suo ufficio in Palazzo.

La lunga via percorsa in quarant'anni di vita artistica, perseguendo quelle soluzioni che finalmente venivano raggiunte con Las Meninas e con Le Filatrici, è tutta segnata da opere belle che, prese ciascuna a sé o a gruppi coevi, supponevano un problema da risolvere, o, risolutolo, da perfezionare e superare.

Si ritengono opera del V. una specie di miniatura della Regina Isabella, una sola acquaforte ritoccata col bulino e una sola incisione a bulino (?), ambedue piccoli ritratti di Olivares. Di lui sono pochissimi i disegni, molto preliminari, fuorché una testa del Cardinale Borja (Accademia di S. Fernando) per ritratto, noto per le sue belle copie (Toledo, Francoforte). Un suo testo descrittivo di 41 quadri, per la maggior parte italiani, portati all'Escoriale, ci è noto per essere stato riportato con le sue stesse parole da uno storico di quel convento (P. Santos, edizione del 1657) e in una sospetta edizione del Tintoretto (La lavanda dei pìedi) è riflesso l'ideale che il V. aveva della pittura d'ambiente. Delle pitture delle quali si è perduto l'originale, la più importante storicamente è il ritratto del Quevedo (bella copia nella coll. Wellington); vengono poi i ritratti dell'ammiraglio Pulido Parcja (Londra), di Baltasar Carlos con armatura (Londra, L'Aia) e di Filippo IV, anch'esso con armatura (Londra, Prado), nonché quello di Maria Teresa, del 1645 (coll. Pierpont Morgan).

Riprodussero ritratti del V. lavorando con lui Juan de la Corte, Puga, Carreño, Alfaro e principalmente il suo genero Juan Bautista del Mazo, che gli sopravvisse di pochi anni e fu anch'egli pittore di corte e dipinse i ritratti della famiglia reale, come il Carreño. La grande arte d'insieme del V. ebbe nella pittura spagnola una continuazione degnissima in un quadro solo, ma magnifico, La Ostia Santa (1685-90?) dell'Escoriale, che fu l'ultimo lavoro di Claudio Coello. (V. tavv. I-VIII e tav. a colori).

Bibl.: Fonti letterarie: J. Sandrart, Accademia, Norimberga 1638; F. Pacheco, Arte de la pintura, Siviglia 1649; Boschini, L'arte del navegar pittoresco, Venezia 1660, Madrid 1724; J. Martínez (amico del V., morto nel 1682), Discursos practicables, ivi 1866 (nuova ediz., curata da Sanchez Cantón e dal Palomino: Fuentes literarias, 1735, 1736); Palomino de Castro y Velasco, Museo Pictórico, III, Vida 106° (13 capitoli; si basa sull'opera più estesa dell'allievo Alfaro, ora perduta; trad. inglese, tedesca, francese, del sec. XVIII).

Fonti di archivio: Zarco del Valle, Documentos inéditos, Madrid 1870; Madrazo, Discurso (Accademia di S. Ferdinando), 1870; id., Catálogo descriptivo e histórico del Museo del Prado, 1872 (pp. 586-643); Cruzada Villaamil, Informaciones de V., in Revista europea, 1874; id., Anales de la Vida de V., Madrid 1885; Uhagón, Nuevos documentos..., in Revista de Archivos, 1902.

Monografie: K. Justi (fondamentale), Bonn 1888; 2ª ed., 1903; 3ª ed., 1921; 4ª ed., 1933 (le due ultime con note di L. Justi); Beruete (padre) ed. fr., Parigi 1898; ingl., 1909; ted., Berlino 1911 (inedita in spagnolo; fondamentale); A. L. Mayer, Berlino 1909, 1913, 1925; in italiano, Bergamo 1933; in inglese, 1936 (son libri differenti); Gensel (Klassiker der Kunst), 1ª ed. 1905 (in tedesco, italiano, francese); 3ª ed., 1914 (discriminazioni e cronologia dell'opera di V., di V. don Loga; 4ª ed., 1925 (id. id. di Allende Salazar: fondamentale); E. Tormo, Madrid 1911.

Tra i libri sulla pittura spagnola: C. Blanc, L'École espagnole, Parigi s. a.; Sentenach, La pintura en Madrid, Madrid 1907; Beruete (figlio), The School of Madrid, Londra 1909; A. L. Mayer, Die Sevillaner Malerschule, Lipsia 1911; Sentenach, Los retratistas de España, Madrid 1914; J. Sanchez Cantón, Pintores de Cámara, ivi 1914-16; A. L. Mayer, Geschichte der spanischen Malerei, 1922; in spagnolo, 1928; V. von Loga, Die Malerei in Spanien, Berlino 1923; Beruete (figlio), Conferencias de Arte, Madrid 1924; Kehrer, Spanische Kunst von Greco bis Goya, Monaco 1926; Lafuente, La pintura española del siglo XVII, Madrid 1936 (soltanto nell'ediz. spagnola della Propyläen-Kunstgeschichte).

Varie: V. von Loga, Hat V. radiert?, in Jahrb. der preuss. Kunsts., XXIX (1908), pp. 165-168; G. Frizzoni, Il ritratto di V. dei due milioni, in L'Arte, XII (1909), pp. 443-47; V. von Loga, Las Meninas, in Jahrb. d. kunsth. Samml. d. allerh. Kaiserh., XXVIII (1909-10), pp. 171-199; id., Zur Zeitbestimmung einiger Werke des V., in Jahrb. d. preuss. Kunsts., XXXIV (1913), pp. 281-91; A. L. Mayer (nuove attribuzioni, ecc.), in Der Cicerone, 1910, 1927; Monatsh. für Kunstw., 1911, 1915; Zeitschrift f. b. K., 1913, 1918, 1921, 1924; Art in America, 1913, 1914, 1915, 1926; The Burl. Mag., 1922, 1925, 1926, 1927, 1929, 1935; Münchener Jahrb., 1927; Pantheon, 1929; Belvedere, 1923, 1929; id., Zur Chronologie der Gemälde des V.s, in Kunstchronick, 1914; G. Frizzoni, Intorno al I° viaggio del V. in Italia, in Nuova Antologia, 1917; A. Muñoz, Le impressioni romane del V., ibid., 1917; G. Frizzoni, Intorno al 2° viaggio del V. in Italia, in Rass. d'arte, IV (1917), pp. 106-116; Beruete (figlio), La Paleta de V., Madrid 1922; G. Cantalamessa, Un dipinto di V. nella Gall. Borghese?, in Bollettino d'arte, n. s., II (1922-23), pp. 97-100; A. Bredius, in The Burl. Mag., XLVI (1925), pp. 120-27; Sanchez Cantón, La librería de V., Madrid 1926; L. Justi, Die Landschaften des V., in Rep. für Kunstw., XLVIII (1927), pp. 81-104; id., Das Jagdbild des V., ibid., L (1929), pp. 255-259; T. Borenius, in The Burl. Mag., LIX (1932), pp. 153-54; H. Voss, in Jahrb. d. preuss. Kunsts., LIII (1932), pp. 38-56.