DEL GARBO, Dino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DEL GARBO, Dino (Aldobrandino, Dinus de Florentia)

Augusto De Ferrari

Nacque a Firenze intorno al 1280 da Bono (o Bruno), della nobile famiglia del Garbo, che aveva dato il nome ad una strada del quartiere di S. Croce. Fu il padre, noto medico e chirurgo fiorentino, autore di una apprezzata Chirurgia, ad affidare il giovane alle cure del famoso Taddeo Alderotti, suo cognato, perché apprendesse l'arte medica; ma si può supporre che la sua influenza diretta sia stata non secondaria. Il D. studiò a Bologna con l'Alderotti per un breve periodo, successivamente proseguì gli studi a Firenze, dove si laureò presumibilmente nel 1300 (alcuni invece propongono il 1305). È certo che per un breve periodo insegnò a Bologna, da cui dovette allontanarsi quando, nel 1306, il legato di papa Clemente V a Bologna, Napoleone Orsini, fu costretto a fuggire da tumulti popolari e venne scagliato l'interdetto sulla città e sulla sua università. Il D. si recò allora a Siena, attratto da condizioni molto favorevoli per lui (300 fiorini) e per i suoi scolari, che lo seguirono numerosi. Tuttavia si trattenne a Siena solo un anno, anzi forse si recò saltuariamente a Bologna incurante dell'interdetto, che fu comunque revocato nel 1308. Insegnò ancora a Bologna fino al 1311 commentando i testi di Avicenna, il che gli guadagnò il soprannome di "espositore".

Non mancarono al D. l'avversione e l'invidia dei colleghi, che lo accusarono d'essersi appropriato delle opere di Torrigiano de' Torrigiani, in particolare del commento a Galeno. L'episodio è raccontato da G. Villani. Pare che i colleghi bolognesi, invidiosi dei successo delle lezioni del D., lo facessero spiare da un suo allievo che abitava con lui; questi scoprì che il professore preparava le sue lezioni sui manoscritti del Torrigiano, da lui custoditi in uno scrigno segreto. Reso pubblico il plagio (Cecco d'Ascoli ci fece ridere sopra i suoi allievi), il D. dovette vergognosamente allontanarsi dalla città. Già il Tiraboschi e il Colle notarono le incongruenze cronologiche (il Torrigiano, coetaneo e collega del D. alla scuola dell'Alderotti, si fece certosino in tarda età, e solo allora o dopo la sua morte nel 1327 il D. avrebbe potuto appropriarsi dei suoi manoscritti); tuttavia l'episodio può essere indice dell'atmosfera ostile che circondava il D. a Bologna, per cui è comprensibile che egli prendesse in considerazione l'allettante offerta dello Studio padovano, alla ricerca di insegnanti di fama dopo la crisi dovuta alla guerra contro Enrico VII di Lussemburgo, che aveva avanzato pretese anche sullo Studio.

Il D. proseguì a Padova le lezioni su Avicenna, ma poco tempo dopo, "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo commento ad Avicenna), dovette riprendere la sua peregrinazione da un'università all'altra, nella quale non è agevole seguirlo, anche per le contraddittorie notizie fornite dai biografi e per l'assenza di documenti. Il corso su Avicenna, iniziato diversi anni prima, fu portato a termine a Firenze nel 1319, dove ritornò per qualche tempo.

In casa di un ecclesiastico suo amico incontrò Albertino Mussato, che probabilmente aveva già conosciuto a Padova e che, ambasciatore di Padova a Firenze, vi si era ammalato. Nella città natale la sua immagine di "dottore in fisica e in più scienze naturali e filosofiche", come lo definisce F. Villani, che fa di lui un ritratto cordiale, poté riprendersi dai colpi bolognesi. Dotto ma non scontroso, affabile e umano nel visitare i malati, acuto ricercatore dei segreti della natura, di carattere gioviale, "in que' tempi il più famoso medico, non che di Firenze, ma di tutta la Italia,... il quale, mentre che vivea, niuno vostro pari vi potea guadagnare niente" (Sacchetti, nov. CLV): così appariva ai concittadini. Anche il Petrarca, ch'egli non conosceva direttamente, ma che fu in contatto col figlio Tommaso (si era infatti sposato prima del 1305 e aveva avuto due figli: Tommaso, il famoso medico, e Morello, che fu anche priore di Firenze), lo ricorda in due aneddoti, in cui gli viene riconosciuto uno spirito arguto: nel primo gli è attribuita una risposta simile a quella famosa di Guido Cavalcanti nel Decameròn (VI, 9), in quanto ad alcuni vecchi che lo volevano burlare, presso un cimitero, avrebbe risposto: "Questa disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché siete a casa vostra" (Rerum memorandarum libri, II, 60). E un'altra volta, ad un tale che lo derideva per il suo piccolo cavallo con le parole: "Tu gli insegni a camminare, ma dove hai imparato quest'arte?", rispose: "A casa tua". Il Villani sottolinea anche la sua distrazione, nel senso che "quasi estatico pareva che si trovasse", quando era immerso in qualche meditazione.

Su sollecitazione dello Studio di Siena e dei suoi ex scolari di Bologna, ritornò intorno al 1321 a Siena, col "salarium" di 350 fiorini d'oro annui come lettore di medicina teorica, più 100 fiorini per la lettura di medicina pratica che teneva a casa sua, alla sera.

Si occupò soprattutto del secondo canone di Avicenna e scrisse l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae (Venetiis 1514) terminata entro il 1325 e dedicata al re Roberto di Napoli, che lo protesse e lo trattò sempre benevolmente.

Ma nel 1325 il D. era nuovamente a Firenze (l'ultimo pagamento a Siena è documentato il 9 giugno 1323), quindi a Siena non si sarebbe fermato per più di un paio d'anni; vi scrisse anche le Recollectiones in Hippocratem de natura foetus, stampata a Venezia nel 1502 insieme con l'Expositio super capitula de generatione embryonis del figlio Tommaso, e con l'Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrionis di Giacomo Della Torre.

Tale scritto dimostra una certa dipendenza dell'astrologia araba, ma contiene comunque una interessante distinzione tra anatomia e fisiologia. Indagando la causa delle malattie ereditarie, afferma che esse sono dovute ad un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che il seme paterno comunica al nascituro. Tratta anche della trasmissione dell'intelligenza nell'atto della generazione, dell'origine del calore animale, della nascita di piante e animali per fermentazione, temi molto dibattuti negli scritti medici del secolo. Il ritorno a Firenze non sarebbe dovuto, come afferma lo stesso D. nell'Expositio citata, alla crisi dello Studio senese, ma ad altri motivi non documentabili. Così come non è documentata, anzi è assai improbabile, la presenza del D. alla corte papale di Avignone al seguito del papa Giovanni XXII, della cui salute egli si sarebbe occupato e che lo avrebbe colmato d'onori e ricchezze, come sostiene il Marini. Secondo il Tiraboschi e il Colle non si sarebbe mai allontanato dall'Italia, mentre De Sade afferma che proprio ad Avignone egli avrebbe incontrato Cecco d'Ascoli, sulla cui fine avrebbe avuto una parte decisiva. È questa la seconda grave colpa di cui si sarebbe macchiato il D. insieme con il figlio Tommaso, dopo il già ricordato plagio, nel giudizio dei posteri. Sospeso dall'insegnamento a Bologna nel 1324 con l'accusa di eresia, Cecco giunse a Firenze accompagnato da una clamorosa fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di Calabria, figlio del re Roberto. I suoi Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco, che secondo alcuni sarebbe il famoso Libro del comando che Cecco portò con sé sul rogo, fu criticato dal D. e dal figlio Tommaso, "gravemente accesi di rabbia e d'odio contro di lui", come riferisce il Mazzuchelli, anche per essere stato lo Stabili preferito a loro come medico dal duca Carlo. Essi lo accusarono prima davanti al vescovo d'Aversa, poi lo denunciarono all'Inquisizione. Ciò indusse il duca di Calabria ad allontanare Cecco dalla sua corte; arrestato dall'inquisitore Accursio Bonfantini con l'accusa di essere "alieno dal vero dogma della fede", per cui "tutta Firenze riempiva de' suoi errori" (Mazzuchelli, p. 1153), il 16 sett. 1327 fu arso sul rogo. Già l'Ammirato notava la diretta responsabilità del D. in questa esecuzione, "per invidia e non per zelo alcuno di religione haver Dino condotto un huomo così illustre alla morte" (p. 258), ipotesi accettata anche dal Davidsohn: "Egli si ritenne indubbiamente in diritto di avere il posto di medico personale del figlio del suo regale protettore, ma si vide preferire l'astrologo, e si vendicò procurando la sua rovina" (IV, p. 1114). Parecchi vollero vedere nella morte del D., avvenuta pochi giorni dopo quella dello Stabili, una sorta di vendetta postuma o di giusta nemesi storica: "Cicchi necem non diu sibi gratulatus est praecipuus tanti criminis author Dinus de Garbo, qui eodem mense pauculis post diebus, morbo ex pudore, atque aegrimonia contracto expiravit" (Appiani, p. 453).

Il D. morì a Firenze il 30 sett. 1327, senza una malattia evidente, e fu sepolto nel vecchio cimitero di S. Croce, ora distrutto.

Tra le opere a lui sicuramente attribuibili ci sono-ricettari, commenti, trattati; si è già citato il Dilucidatorium Avicennae (Ferrariae 1492); ricordiamo poi l'Expositio super tertia et quarta Fen quarti Canonis Avicennae (Venetiis 1496); l'Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae, pubblicata a Ferrara nel 1489 da André Beaufort, uno dei primi stampatori francesi in Italia; i Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur (Venetiis 1514), dedicata agli studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis (Ferrariae 1485, Venetiis 1536) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna e ad altri medici arabi come Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, in cui segue le indicazioni di Taddeo Alderotti, rileva parecchie inesattezze di Avicenna e parla con ammirazione dei medici greci. Talvolta gli è stato attribuito De coena et prandio (Romae 1545), che invece è di Andrea Turrino. Tra le opere non stampate: De militia complexionis diversae (Vat. lat. 4454, cc. 50-52v e Vat. lat. 4464, cc. 74-82) di cui un saggio è pubblicato da Puccinotti (II, pp. 89-106); una quaestio sulla flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica, ms. Lambda I, 17); Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena, Bibl. Estense, Fondo Estense, ms. 710, Alpha V, 7, 21); Tractatus podagre (San Candido, Bibl. della Collegiata, ms. VIII, b, 15). Infine non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi prega" di Guido Cavalcanti: Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus (Bibl. Apost. Vat., Chig. lat., V, 176; un'ediz. a stampa, col titolo De natura et motu amoris venereis cantio cum enarratione Dini de Garbo, Venetiis 1498, è introvabile). Tale commento, tra i molti che produsse la canzone cavalcantiana ad opera di Egidio Colonna, Marsilio Ficino, Plinio Tomacelli, Francesco de' Vieri detto il Verino e molti altri, considera l'amore da un punto di vista patologico, come passione venerea, e anche se a volte tende a sovrapporsi alla canzone, esponendo le idee sull'amore del D. più che di Guido, resta un importante documento della cultura del tempo. Il D. suddivide il testo in tre parti: nella prima (vv. 1-14) "si dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si dicono"; nella seconda (vv. 15-69) parla "di quelle, che esser ne determina"; nella terza, la chiusa (vv. 70-74) "dimostra la sufficienza di quelle cose, ch'egli ha dette". Nella seconda parte, la più importante, si segue la dimostrazione di Guido sulle otto caratteristiche dell'amore: dove ha stanza (nella memoria, anzi nell'appetito sensitivo); chi lo genera (la disposizione naturale del corpo e gli influssi degli astri); quale virtù abbia, dato che è passione d'appetito; i suoi effetti, che giungono fino alla morte, quando impedisce le operazioni della virtù vegetativa; la sua essenza di passione oltre i termini naturali; le alterazioni che provoca (infermità, malinconia ecc.); che spinge a parlare di esso, dato che non si può celare la passione; infine se l'amore si dimostri visibilmente o non. È evidente che il D. parla come medico, anche se non cita l'autorità di medici ma di filosofi, da Aristotele ad Avicenna e ad altri arabi come Alī ibn al-'Abbās; da rigoroso arabista cita Aristotele solo quando è accettato dagli arabi. Per lui l'amore è una malattia, una passione dell'appetito, che può causare a sua volta molte altre malattie, e come tale va curata, con la dimenticanza e l'allontanamento. Come in altre sue opere, anche in questa è evidente l'influsso dell'astrologia araba, come nell'affermazione che l'"accidente fero" di Guido è il maligno influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova nella "casa" di Venere.

Indipendentemente dal valore che possono rivestire complessivamente le sue opere nella storia della medicina, la figura del D. campeggia nel sec. XIV, se non come il più grande (anzi egli si definiva "minimus inter medicinae doctores"), certo il più nominato (nel bene e nel male) medico di Firenze, al punto da rappresentare, nell'opinione comune, quasi il tipo ideale del medico, con i suoi pregi e i suoi difetti. Così lo dipinse l'Orcagna nel suo Trionfo della morte inS. Croce (oggi distrutto), con il berretto rosso e il lucco ornato di pelliccia di vaio dei medici.

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