DIONISIO I il Vecchio tiranno di Siracusa

Enciclopedia Italiana (1931)

DIONISIO I il Vecchio (Διονύριος o πρεσβύτερος) tiranno di Siracusa

Arnaldo Momigliano

Figlio di Ermocrate, nato a ziracusa intorno al 432 a. C. Compare per la prima volta nella storia quale partigiano di un altro Ermocrate (v.), figlio di Ermone, che, già prima della grande spedizione ateniese in Sicilia, aveva sostenuto una politica di accentramento di tutte le forze greche esistenti in Sicilia. Morto Ermocrate nel 408-7 in un tentativo fallito di tornare con le armi in Siracusa, D., che in questo tentativo era stato gravemente ferito e che aveva potuto solo a stento evitare una condanna, fu il continuatore della sua opera: e tale fu riconosciuto, quando egli sposò la figlia di Ermocrate. La minaccia impellente non era più, come alcuni anni prima, l'intervento ateniese, ma la rinnovata aggressione dei Cartaginesi, che approfittavano della situazione rovinosa, per i dissensi interni, per lo sperpero di uomini e di denari, lasciata dagli Ateniesi nella Sicilia greca. Questa situazione particolare non faceva del resto che aggravare i mali cronici, a cui aveva tentato di reagire la tirannide di Gelone e di Gerone quasi un secolo prima. Il tenace attaccamento alla propria autonomia impediva a ogni città di legarsi durevolmente con le altre in un saldo blocco che permettesse di contrastare validamente all'omogenea potenza cartaginese e di sottomettere in modo definitivo quegl'indigeni (Sicani, Siculi ecc.), che di per sé innocui diventavano pericolosi, perché infidi, a ogni conflitto. Né poteva avvenire che in regime costituzionale una città si assicurasse una stabile egemonia sulle altre città, perché era essa stessa all'interno indebolita dai conflitti dei partiti, ognuno dei quali si valeva dell'aiuto dei partiti corrispondenti in altre città, quando non ricorreva ai Cartaginesi stessi. L'unico rimedio conosciuto era la tirannide, che sopprimeva con violenza le lotte interne, preponeva a ogni problema il problema militare e quindi era in grado di espandersi e d'imporre con la forza il concentramento delle città greche: era peraltro rimedio, come si capisce, inviso, perché, con lo scopo di salvare la civiltà greca, impediva lo svolgersi di quelle attività che costituivano per i Greci il nucleo stesso della loro civiltà. Ciò spiega l'odio tenace che accompagnò tutta l'opera di D., fin da quando, poco dopo la morte di Ermocrate, oltrepassò i limiti che questi probabilmente si sarebbe imposto, se la sua impresa fosse stata fortunata, e si avviò risolutamente verso la tirannide: ciò spiega soprattutto la trista fama che rimase nei secoli, per opera soprattutto della tradizione elaborata in Atene o per influenza ateniese, intorno a questo uomo di stato che pure fu il più geniale e instancabile difensore della civiltà greca in Occidente e non fu insensibile nemmeno alle forme più raffinate di questa civiltà, se fu poeta, specialmente tragico.

Gli elementi su cui la tirannide nel mondo greco si poteva fondare erano due: i soldati legati alla fortuna del loro capitano e perciò generalmente mercenarî; le classi diseredate che dalla tirannide si aspettavano con ragione un rivolgimento economico, perché la tirannide aveva interesse a deprimere le forze aristocratiche. A entrambi gli elementi D. si rivolse, fin dal 407-6, quando l'occupazione cartaginese di Agrigento sollevò, insieme con i timori, l'indignazione dei Siracusani, che accusarono i loro strateghi di tradimento. D. propose la nomina di nuovi strateghi e fu scelto tra questi, ma riuscì facilmente a liberarsi dei colleghi, accusandoli a sua volta e facendosi nominare solo comandante: poi, per un vero o simulato attentato contro la sua persona, ottenne anche una guardia personale di 600 soldati, naturalmente poi accresciuta, che gli assicurò in modo definitivo la dittatura. Tante concessioni non gli sarebbero venute con facilità l'una dopo l'altra, se egli nello stesso tempo non avesse dimostrato le migliori intenzioni democratiche, soprattutto con un intervento a Gela in favore della democrazia, che lo rese celebre in tutta la Sicilia greca. La nomina di D. non impedì tuttavia che i Cartaginesi continuassero nei loro successi, occupando anche Gela e Camarina, la cui popolazione si rifugiò in massa a Siracusa, perché tutta l'organizzazione militare dei Greci era da ricostituire; né era possibile farlo immediatamente durante una guerra e con l'ostilità del partito aristocratico. Di questa ostilità l'episodio più grave fu, appunto in seguito alla perdita di Gela, la ribellione della cavalleria siracusana formata, come ogni cavalleria, dai giovani aristocratici. Essa nella ritirata si distaccò da D., si precipitò a Siracusa, facendo strazio dei famigliari e della moglie di D., e credette di potergli chiudere le porte davanti; ma la fanteria rimasta fedele aiutò D. a rientrare in Siracusa e costrinse i cavalieri a rifugiarsi in Etna. Intanto, approfittando di queste lotte intestine, i Cartaginesi stavano ponendo l'assedio a Siracusa; ma un'epidemia violenta li persuase alla pace. La quale fu conclusa alle condizioni che la parte occidentale della Sicilia con gli Elimi e i Sicani rimanesse ai Cartaginesi: le città greche evacuate e occupate dai Cartaginesi (Gela, Camarina, Selinunte, Agrigento, ecc.) fossero di nuovo consegnate ai Greci, ma con l'obbligo del tributo ai Cartaginesi; Messina e Leontini, insieme con i Siculi, fossero autonome, e Siracusa rimanesse nelle mani di D. esplicitamente riconosciuto dai Cartaginesi (404 a. C.). Era per il momento quanto occorreva a D., che aveva bisogno di una tregua per riorganizzare l'ordinamento della città e per ricostituire l'esercito e la flotta. In linea teorica D. era solo il generale in capo, non sappiamo se eletto a vita o (il che è meno probabile) continuatamente rieletto; ma poi di fatto, come si capisce, egli poteva dominare a piacere l'assemblea popolare, che ancora rimaneva accanto a lui, sebbene con poteri limitati, perché D. non solo la presiedeva, ma aveva egli solo il diritto di farvi proposte, e tutte le altre magistrature erano designate da lui. In tali condizioni gli fu assai facile di apportare radicali modificazioni alla cittadinanza, spossessando i cavalieri fuorusciti, distribuendo i loro beni fra i suoi partigiani e ammettendo nella cittadinanza con minori diritti schiavi emancipati o forse meglio i servi della gleba ancora rimanenti (i cosiddetti Cillirî). Intanto si fabbricava la roccaforte nell'isola di Ortigia, ostruendo con un muro l'istmo che la congiungeva alla città. Il consolidamento all'interno si poteva dire avvenuto. Poteva allora iniziarsi la riconquista della Sicilia libera dai Cartaginesi; condizione essenziale per poter poi rivolgere queste forze contro i Cartaginesi stessi. Ma l'inizio fu disgraziatissimo. Se l'opposizione politica era fiaccata all'interno, restava forte al di fuori fra i cavalieri asserragliati in Etna, fra gli altri fuorusciti dispersi per la Sicilia e per la Grecia, che erano riusciti a trarre dalla loro parte anche la madre-patria di Siracusa, Corinto. Perciò, quando D. tentò un primo attacco a una cittadina sicula, Erbesso, si vide respinto da un esercito di Siracusani esuli e di Corinzî, i quali lo costrinsero a ritirarsi in Siracusa e lo assediarono. Solo l'aiuto di 1200 mercenarî campani, già al soldo dei Cartaginesi, e le discordie degli avversari permisero a D. di liberarsi dall'assedio. L'esperienza lo persuase quindi a riconciliarsi, per mediazione dei Corinzî, con gli esuli e soprattutto a rinnovare il suo piano di sottomissione della Sicilia. Non più attacchi a città minori, attacchi che lasciavano libere di accorrere in loro aiuto le città maggiori, bensì rapide sorprese su queste città stesse, e non solo per sottometterle, ma per trasformarle in modo che fosse evitato ogni pericolo di ribellione e fosse assicurata la capacità di resistenza contro i futuri attacchi cartaginesi: in altre parole, le città dovevano essere trasformate in colonie militari, mentre la vecchia cittadinanza era dispersa, in parte trasferita a Siracusa, in parte lasciata al suo destino. Così vennero trattate Nasso, Catania, Leontini ecc., instaurando un sistema che fu poi normale per tutto il governo di D. e ricoprì la Sicilia e in seguito la Magna Grecia di una serie di colonie militari, delle quali alcune appositamente fondate, come Adranon presso l'Etna a sorveglianza dei Siculi. In Siracusa fervevano contemporaneamente i preparativi per la lotta contro i Cartaginesi, si fortificava la città e si costruiva una flotta di 200 navi, fra cui molte tretere e pentere, che erano la massima novità tecnica del tempo. Tali preparativi erano concomitanti con una di quelle epidemie, che in quegli anni a periodi intermittenti facevano strage di Cartaginesi, e costituiranno sempre le occasioni più favorevoli per gli attacchi di D. Appunto per questa epidemia D. poté aver mano libera in tutta la Sicilia per un anno intero (398 a. C.), in cui solo alcune delle maggiori colonie fenicie poterono resistere, mentre altre, quale Motia, cadevano, e si faceva in ogni parte una caccia spietata all'elemento semita. Ma l'anno dopo, Imilcone sbarcava con una flotta potente e riconquistava rapidamente tutto il terreno perduto, fino a giungere a sottomettere Messina. Infine si scontrava nelle acque di Catania con la flotta siracusana e la distruggeva in gran parte. D. era costretto a ritirarsi in Siracusa una seconda volta ed era qui assediato. Insieme con l'aiuto spartano e corinzio di 30 triere comandate da Farace, veniva in soccorso dei Siracusani una nuova recrudescenza della peste nel campo cartaginese. D. poteva uscire dalla città e assalire, con pieno successo, l'esercito d'Imilcone. Anche nel resto della Sicilia la resistenza punica era minima, e la rioccupazione di tutta la Sicilia greca insieme con alcune colonie fenicie, quale Solunte, poteva procedere rapidamente: sorgevano nuove colonie militari, tra cui sulla costa settentrionale Tindaride, popolata di Messenî venuti dal Peloponneso.

Ma questo nuovo e difficile trionfo non poteva placare i malcontenti, aggravati dalla situazione economica disastrosa. Mentre alcune delle più fiorenti città greche erano state distrutte e spopolate, creando migliaia di fuggiaschi, le spese militari che la politica di Dionisio comportava erano enormi e imponevano un fiscalismo che avrebbe da solo rovinato un'economia anche florida: oltre ai tributi (evidentemente limitati in caso di guerra) che, come dice Aristotele (Polit. V, 1313, b, 26), assorbivano le intere sostanze in cinque anni, un complicato sistema di dazî, di decime, ecc. sopperiva ai bisogni del bilancio, senza contare le entrate straordinarie (bottino di guerra, spoliazione di templi, confische) e l'alterȧzione del valore della moneta, a cui D. ricorse più di una volta. Tutti questi malcontenti facevano capo a Reggio, fiera della sua tradizione di libertà, aperta agli esuli politici siracusani e soprattutto nemica ereditaria di Locri, che era strettamente legata con D.: tanto che perfino ci narrano, con discutibile simbolismo, che D. aveva sposato nello stesso giorno una donna di Locri e una di Siracusa. Un'improvvisa aggressione al castello di Mile (Milazzo), preparata da esuli di Nasso e di Catania, ma aiutata da Reggio, provocava l'apertura delle ostilità. Del che naturalmente approfittavano i Cartaginesi, tornando a sbarcare con Magone in Sicilia (393 a. C.). Dopo un vano tentativo contro Reggio, D. stipulava una tregua di un anno con questa città e si rivolgeva contro i Cartaginesi, ma gli ammutinamenti del suo esercito lo costringevano a trattare con i nemici a condizioni per noi abbastanza oscure. È probabile tuttavia che la regione nord-occidentale della Sicilia con gli Elimi e parte dei Sicani fosse riconosciuta ai Cartaginesi. Dopo di ciò D. tornava contro Reggio, a cui s'era unita tutta la lega delle città italiote (Crotone, Caulonia, Sibari, ecc.), infine consapevole che l'intervento di D. nella Magna Grecia significava la sua volontà di sottometterla tutta. Dopo varie vicende, una vittoria presso il fiume Eleporo dava in mano a D. Caulonia e Reggio: i cittadini della prima erano trapiantati a Siracusa; quelli della seconda, già risparmiati, erano poi per insubordinazione fatti schiavi in massa, e la città fu distrutta (386 a. C., l'anno del saccheggio di Roma per parte dei Galli, secondo un celebre sincronismo, capitale nella cronologia antica).

Era ormai chiara la posizione politica di D. La sua tirannide si poteva sostenere solo in quanto egli riuscisse a dominare tutta la grecità occidentale: ogni città libera era per necessità sua avversaria e valeva a concentrare intorno a sé tutti i nemici della tirannide, provocando interventi cartaginesi. Ma questo grande stato non poteva giustificarsi se non liberando la grecità da tutti i suoi nemici tradizionali: insieme con i Cartaginesi, gli Etruschi e i pirati (spesso gli Etruschi medesimi), che ne impedivano il dominio del mare e la sicurezza dei commerci. Mentre si veniva preparando la nuova guerra contro i Cartaginesi, che avrebbe dovuto essere definitiva, era iniziata una vasta colonizzazione militare nell'Adriatico, ed erano occupate Lissa, Lesina, Curzola ecc., fondata Ancona, colonizzata Adria, dove sarà inviato pressoché in esilio quale governatore uno dei principali collaboratori di D., Filisto (v.), quando in un conflitto tra D. e il fratello Leptine, risoltosi poi felicemente, Filisto prese le parti di quest'ultimo. E anche di questo periodo una dimostrazione militare contro gli Etruschi, senza conseguenze rilevanti, se non il grosso bottino con il saccheggio di un tempio presso Pirgi. La potenza di D., amata da alcuni, odiata dai più, s'imponeva alla stessa Grecia, dove D. non mancava d'intervenire ovunque potesse in favore della sua alleata Sparta; e un suo aiuto di 20 navi durante la guerra corinzia fu uno dei principali motivi che decisero Atene alla pace di Antalcida (387-6).

La nuova guerra con Cartagine scoppiò infine nel 383-2 con un duplice attacco cartaginese in Sicilia e nella Magna Grecia. Dopo una grande vittoria siracusana a Cabala (luogo ignoto) con la morte del generale cartaginese Magone, D. credette di poter imporre ai cartaginesi l'abbandono della Sicilia, ma questa condizione fu rifiutata e un ritorno offensivo dei Cartaginesi portò alla loro vittoria a Cronio, dove morì il fratello di D., Leptine. Si venne quindi alla pace, sfavorevole ai Siracusani. Essi dovettero pagare 1000 talenti, e il confine fu portato al fiume Alico, che lasciava in mano dei Cartaginesi Selinunte e parte del territorio di Agrigento: tale confine rimase poi sino alla conquista romana. Né valse a mutarlo l'ultima guerra che D. ormai vecchio, ma tenacemente fedele al suo ideale, mosse contro i Cartaginesi, approfittando di una nuova pestilenza, nel 368-7, dopo aver adoperato il decennio di relativa pace per proseguire l'occupazione della Magna Grecia, conquistando Crotone, e per aiutare Sparta contro i Tebani, soprattutto dopo la battaglia di Leuttra (370-69), con ciò riconciliandosi per un momento gli Ateniesi, alleati di Sparta, che gli concessero la cittadinanza onoraria, gli premiarono una sua tragedia rappresentata nelle Lenee del 367 e infine conclusero una formale alleanza con lui in quell'anno. È dubbio se quest'alleanza avrebbe dovuto portare in futuro a un'effettiva collaborazione politica tra D. e il blocco anti-tebano non solo nelle cose della Grecia, ma anche nella lotta contro i Cartaginesi. D., dopo aver liberato Selinunte ed Entella ed aver subito forti perdite navali per una sorpresa nelle acque di Erice, che lo costrinse a una breve tregua, morì nello stesso anno 367 senza aver potuto nulla concludere. Risultato del suo sforzo di quarant'anni era la salvezza della civiltà greca in Sicilia; ma la sua costruzione politica, ripugnante a quella stessa civiltà che voleva difendere, era destinata a crollare rapidamente.

Fonti: L'unico racconto continuato (da Timeo) è quello di Diodoro XIII, 75 segg., XIV. Per le fonti minori, numerosissime, ma in genere solo aneddotiche, cfr. Cambridge Ancient History, VI, p. 574.

Bibl.: Fondamentale, J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., III, Lipsia e Berlino 1922-23, i, p. 110 segg.; ii, p. 185 segg., che primo ha inteso il significato dell'opera di D. e l'ha ricostruita nei particolari. Cfr. inoltre: A. Holm, Storia della Sicilia, trad. it., Torino 1901, II, p. 212 segg.; O. Meltzer, Geschichte d. Karthager, Berlino 1879, I, p. 249 segg.; E. Freeman, The History of Sicily, Oxford 1894, IV, p. 1 segg.; E. Meyer, Gesch. d. Altert., V, Stoccarda e Berlino 1902, p. 122 segg.; J.B. Bury, in Cambr. Anc. Hist., VI, 1927, p. 108 segg.; B. Niese, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 882 segg.

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