DIONISO

Enciclopedia Italiana (1931)

DIONISO (Διόνυσς o Διώνυσος, Dionȳsus, Bacchus)

Giulio GIANNELLI
Giulio Quirino GIGLIOLI

Una delle più importanti, se non forse la più importante, delle divinità terrestri (ctoniche) della Grecia antica. È il dio che rappresenta e riassume in sé tutta la vita vegetale della natura, nelle sue molteplici manifestazioni; e della natura egli riproduce, nel suo mito, così la gioia della rinascita primaverile e del vigoroso rigoglio estivo, come la tristezza del tardo sopore autunnale e del lungo e gelido letargo invernale. La religione di D. si estende pertanto, com'è stato giustamente osservato (Preller), a tutta la natura; è un vero panteismo, al quale s'ispira e s'informa una folla di manifestazioni artistiche: dal ditirambo e dal dramma alla musica, alla danza, a innumeri motivi della pittura e della plastica.

Diverse teorie si hanno intorno alla patria d'origine di questa divinità. È un fatto che nella figura e nel culto di D. sono manifesti elementi estranei alla civiltà greca, elementi di evidente derivazione straniera, importati dal settentrione e specificamente dalla Tracia: la questione sta nel decidere se si debba riconoscere in D. un dio straniero, tracio, disceso dalla sua patria d'origine in Grecia e ivi trasformato con elementi proprî della cultura ellenica, oppure un dio nazionale dei Greci, sul culto del quale vennero a innestarsi pratiche rituali e credenze proprie della religiosità dei Traci. Parte degli studiosi moderni ha preferito la prima teoria, cui già diede forma K.O. Müller; altri preferiscono la seconda: tra questi, il Preller, il Gruppe, che anzi crede che i coloni greci abbiano trapiantato in Tracia il culto di D., il Beloch e il Pettazzoni.

Alla figura di D. si ricollega un complesso mitico che è forse il più ricco e il più vario di quanti si accompagnano alle singole divinità degli antichi Greci. Secondo la leggenda greca più diffusa, D. era nato a Tebe. da Semele, figlia di Cadmo; amata da Zeus, Semele, per istigazione della gelosa Era, aveva voluto vedere il dio in tutta la maestà della sua potenza, fra tuoni e lampi, e, avvolta dalle fiamme, era morta miseramente. Zeus aveva però salvato il fanciullo, non ancora maturo per la nascita (e perciò πυριγενής "nato dal fuoco"), tenendolo, per il rimanente tempo della gestazione, cucito in una coscia (onde l'epiteto di μηρορραϕής). Datolo poi alla luce, aveva affidato il neonato a Ermes: perché lo portasse alle Ninfe di Nisa, che dovevano curare la sua educazione. Nisa fu, in origine, un sito immaginario, un monte coperto di boschi e ricco di sorgenti, ove si favoleggiò che D. fosse cresciuto in fresche grotte e sotto boschi fronzuti; più tardi fu localizzata in varie parti della Grecia, ma, prima che altrove, in Tracia. Il nome stesso di Nisa sembra significare il luogo fertile per eccellenza; e D. non sarebbe, secondo alcuni, che lo "Zeus di Nisa": uno Zeus tracio, dunque, personificazione dell'annua vicenda della natura che nasce e muore; fatto poi, come dio greco, figlio dello Zeus ellenico.

Divenuto adulto, D. trova la vite e apprende a coltivarla; e tosto s'inebria dell'umore che cola dai frutti della nuova pianta, e ne inebria le sue nutrici e i genî della selva, e col numeroso corteo delle Ninfe, dei Satiri, dei genî, incoronato di edera e di alloro, passa da un luogo all'altro, facendo echeggiare le foreste e i campi degli schiamazzi dell'ebbra comitiva (ϑίαρος). Sotto quest'aspetto, di dio del vino e dell'ebbrezza, D. porta i nomi di Bromio, Bacco, Iacco, Evio (Βρόμιος, Βάκχος, "Ιακχος, Εὔιος). Il dono del vino a tutti egli dispensa, agli amici e ai nemici; a quelli cagione di dolcezza e di gioia, a questi di selvaggia follia; e la spedizione continua fino agli estremi confini del mondo, e il corteggio si fa sempre più numeroso di Satiri, di Sileni, di Pani, di Centauri, di Menadi (v.).

Nella penisola greca, due regioni si vantavano di aver ricevuto, per prime, il dono della vite: l'Etolia e l'Attica; e nell'Attica due comunità (demi) si contendevano questo vanto: Icaria, sul declivio settentrionale del Pentelico, non lungi da Maratona; Eleutere, sui contrafforti meridionali del Citerone. Da Eleutere derivava il soprannone di 'Ελευϑερεύς, col quale il dio era designato ad Atene. Del suo arrivo a Icaria, si raccontava che Icaro (l'eponimo della città), avendo amichevolmente accolto il dio, ne aveva ricevuto in cambio la vite, ma che, dato a gustare il vino ai pastori e ai contadini, era stato ucciso da questi, che avevano scambiato per veleno quel succo misterioso: la figlia Erigone, conosciuta la sorte del padre, s'era per disperazione impiccata; ma i due infelici erano stati poi, per volontà del dio, levati al cielo fra gli astri, mentre i contadini di Icaria, per placare la collera di D., che desolava la regione con pestilenze e follia, avevano dovuto istituire in suo onore feste e sacrifici, con danze popolari su otri (ἀσκωλιασμός), che si seguitarono poi sempre a celebrare al tempo della vendemmia. Altre due leggende famose erano legate al passaggio di D. nelle Cicladi e a Creta. Viaggiando il dio dall'isola di Icaria a quella di Nasso, fu catturato dai pirati tirreni, i quali tosto, avvintolo in legami, si apprestavano a portarlo a vendere in Italia; ma ecco che le catene cadono infrante, tralci di vite s'avviticchiano su per l'albero della nave e intorno alle vele, D. stesso si trasforma in leone; e i predoni, folli di spavento, si gettano in mare e son trasformati in delfini.

La leggenda sembra dunque simboleggiare la potenza del dio, non meno grande sul mare che sulla terra; così com'egli signoreggiava anche il fuoco e il suo dio Efesto, di cui si narrava che solo D., fra tutti gli dei, avesse saputo placare col vino lo sdegno suscitato dal brusco trattamento inflittogli da Zeus (v. efesto) e, restituitagli l'allegria con la dolce bevanda, ricondurlo all'Olimpo e rappacificarlo con Era. Al passaggio di D. per Creta si riconnetteva la leggenda di Arianna (v.), diffusasi poi da Creta nelle altre isole e specialmente a Nasso, ov'era localizzato l'episodio culminante. Oltre che nel culto di Creta e di Nasso, si festeggiavano D. e Arianna anche ad Atene, specie nella festa delle Oscoforie.

Se in queste leggende D. è il trionfatore del mondo, al quale ha donato, con la vite, la gioia e l'oblio dell'ebbrezza, un'altra serie di miti svolgeva invece il motivo dei dolori e delle pene di D.: in essi D. appare, come lo Zeus cretese, un dio perseguitato, tormentato e infine ucciso, per risorgere poi a nuova vita: raffigurazione simbolica, anche questa, della vita della natura, simile a quella offerta dal mito di Persefone, ma al tempo stesso anche ricordo e allegoria delle persecuzioni incontrate dal culto tracio dionisiaco a penetrare nelle diverse regioni della Grecia. Due delle leggende più note di questo ciclo sono quelle di Licurgo e di Penteo. La prima, già conosciuta da Omero e spesso trattata dai tragici, narrava che Licurgo, re della Tracia, cacciò le Ninfe nutrici di D. da Nisa ove il fanciullo veniva allevato: il dio si salvò saltando in mare ove fu accolto da Tetide; ma Licurgò fu accecato o, secondo un'altra versione, reso pazzo da Zeus, sicché uccise il proprio figlio con un'accetta scambiandolo per un tralcio di vite. Il mito di Penteo, localizzato in Beozia, raccontava che questo re di Tebe, figlio di Cadmo (v.), volle opporsi alle feste bacchiche celebrate da D. col suo tiaso sulle balze del Citerone: il tiaso è assalito e disperso, D. stesso imprigionato; ma la madre di Penteo, che s'era aggiunta alle Baccanti, scambia il figlio per un cinghiale, lo insegue e lo uccide (cfr. le Baccanti di Euripide). In miti siffatti, i nemici di D., come Licurgo e Penteo, sembrano simboleggiare l'inverno, che avanza dal settentrione con i geli e le tempeste a distruggere la festa estiva della natura, finché anch'esso soggiace alla morte.

Al doppio aspetto del dio, quale si rivela nelle due specie di miti esaminati, corrispondeva un duplice e distinto rituale nel culto: al primo si riferiscono i riti semplici e popolari della primavera e della vendemmia, i cui elementi però si manifestano tutti genuinamente greci; al secondo le feste orgiastiche e mistiche dell'inverno, celebrate ogni due anni (e per ciò dette trieteriche), di preferenza sui monti più impervî ed esclusivamente dalle donne, sul modello delle cerimonie tracie, lidie, frigie, delle quali evidentemente non furono che una riproduzione adattata, fin da tempo molto antico, all'ambiente ellenico. L'Attica, come conobbe il massimo sviluppo del culto primaverile e vendemmiale di D. (v. dionisie), altrettanto poco accolse le feste trieteriche dell'inverno e i riti orgiastici settentrionali, all'infuori di pochi elementi che penetrarono nei misteri eleusini, nobilitati anch'essi dalla fusione del culto di Demetra (cfr. Preller-Robert, Griech. Mythologie, p. 660).

Ma anche il culto di D. perseguitato, tormentato, e anche ucciso per poi risorgere a nuova vita era penetrato in varie regioni della Grecia: in questa concezione, il mito del dio procedeva similmente a quello di Persefone, e infatti troviamo spesso D. posto nel culto a lato delle due dee (v. demetra; persefone), specialmente col nome di Zagreus, col quale si designava normalmente un D. distinto da quello tebano, figlio di Cadmo e di Semele, un D. figlio di Zeus e di Demetra (o di Persefone) oppure figlio del dio dell'oltretomba, chiamato esso pure Zagreo. Centro principale di questo culto di D. infero fu Delfi, ove egli veniva venerato in contrapposto ad Apollo, il dio della luce: Apollo signoreggiava su Delfi durante tutta la buona stagione, ma nei tre mesi invernali, quando si credeva che egli soggiornasse nel paese degl'Iperborei (v. apollo), Delfi rimaneva sacra a Dioniso.

Dovunque il culto orgiastico di D. si svolgeva con le stesse forme, salvo il carattere più o meno selvaggio dell'orgia. La festa era sempre notturna e generalmente trieterica, celebrata cioè (in base ad un antico ciclo d'intercalazione) ogni due anni, al principio del terzo nell'epoca del solstizio d'inverno. Alla festa prendevano parte esclusivamente le donne, dette Menadi, Tiadi, Baccanti, Lene (Μαινάδες, Θυιαδες, Βάκχαι, Λῆναι), le quali, in fragorosa processione, agitando fiaccole e tirsi (ϑύρσοι, cioè bastoni attorcigliati d'edera e di pampini, con una pina infilata all'estremità superiore), si slanciavano pei fianchi boscosi dei monti, fra una musica assordante di tamburi e di flauti; e, nell'estasi mistica, si abbandonavano a danze vorticose e a movimenti incomposti, sbranavano gli animali del bosco e invocavano ad alte grida D. in figura di toro (ταυρό μορϕος;). Molti poeti ci hanno lasciato vive rappresentazioni di questa festa bacchica, come quella famosa delle Baccanti di Euripide (v. 660 segg.). A ragione, peraltro, si è osservato da alcuni (p. es. A. Rapp, F.A. Voigt) che il tipo della Menade, quale ci è stato tramandato dall'arte e dalla poesia, e il tumulto orgiastico delle feste bacchiche risultano in evidente contrasto col tono di vita e coi costumi della donna greca nei secc. VI e V e nei successivi; e che pertanto in quelle ben note rappresentazioni e descrizioni non può mancare il solito, inevitabile miscuglio di realtà storica e di fantasia, e che, in ogni modo, in età storica, il culto (p. es. quello di Delfi) dové limitarsi a un'imitazione, a una riproduzione "scenica" di ciò che fu la realtà dell'orgia dionisiaca nel periodo delle origini e di ciò che probabilmente si mantenne in varie regioni, alla periferia del mondo greco.

Forme diverse e peculiari del culto di D. si svilupparono nei paesi del settentrione e dell'Oriente - in Macedonia, in Tracia, in Asia Minore - dove le leggende e i riti indigeni si fusero con quelli greci: in Tracia e in Macedonia prevalsero gli elementi selvaggi del culto, in Asia quelli molli e voluttuosi; nelle regioni dell'Asia Minore, specialmente in Lidia e in Frigia, il culto di D. venne subito in contatto con la religione della Gran Madre (v. cibele) e i due riti si compenetrarono e si fusero l'uno con l'altro, rifluendo poi, così amalgamati, nella Grecia propria. Tale fu specialmente il culto del monte Tmolos in Lidia. Anche la figura fisica del dio ne risultò notevolmente trasformata e orientalizzata nell'aspetto, nel vestito e negli altri attributi (si ricordi la Βασσάρα, la lunga veste variopinta delle Baccanti lidie e tracie, dette perciò Βασσαριδες; cfr. Eschil., Edon., framm: 59). Fin nell'India arrivarono, con la spedizione di Alessandro, la figura e il culto di D., che del resto già le antiche leggende avevano fatto giungere in Media e in Arabia, grazie soprattutto alla tendenza dei Greci d'identificare gli dei e gli eroi di altre genti con i proprî. Nelle Dionisiache di Nonno (c. 400 d. C.) sono narrate appunto le leggendarie imprese di D. nell'India.

Infine, le leggende e i miti relativi alla religione orgiastica di D. furono accolti dagli Orfici, i quali ne trassero anche il nome del loro Zagreo, il figlio di Zeus e di Persefone, dilaniato e divorato, fanciullo, dai Titani, dal cuore del quale Zeus rigenerò un altro D., il dio tebano (v. orfismo; zagreo).

I molteplici aspetti della figura di D. fecero venire questo dio in stretti rapporti mitologici con altre divinità dell'Olimpo greco, ma specialmente con Demetra e con Apollo; con Apollo soprattutto, in quanto il vino desta nell'animo quelle facoltà che erano poste sotto la speciale protezione del dio di Delfi: il sereno equilibrio, immune da ogni preoccupazione, la voglia del canto, l'ispirazione poetica, e anche l'arte della divinazione.

Fra i simboli di D., il più noto e il più diffuso - così nel culto dei misteri come nelle feste della vendemmia e della primavera - era il membro virile (ϕαλλός), rappresentazione della forza generativa della natura, impersonata da D.; s'intende perciò come venisse fatto spesso suo compagno, o anche figlio suo e di Afrodite, Priapo (v.). Tra le piante, gli era sacra l'edera, così come l'alloro ad Apollo; corone di edera si usavano nelle sue feste, e di edera s'immaginava coronato il dio stesso (κισσοχαίτης, κισσοκόμης). Tra gli animali, gli erano sacri il toro, la pantera, l'asino, il becco, la capra. Altri suoi attributi erano il tralcio di vite, i vasi da bere di varie forme (spesso simili alla cornucopia), e i simboli ordinarî del culto orgiastico: il tirso, la pelle di cerbiatto (abbigliamento comune delle Baccanti: νεβρίς), i serpenti, la cassa contenente gli arredi misteriosi del suo culto (cista mystica), le fiaccole, i flauti, i cembali.

Bibl.: Ch. A. Lobeck, Aglaophamus sive de theologiae mysticae Graecorum causis, Königsberg 1829; G. Welcker, Griechische Götterlehre, I, Gottinga 1857, pp. 424-51; II, 1860, pp. 571-653; A. Rapp, Beziehungen des Dionysoskultus zu Thrakien, Stoccarda 1882; O. Ribbeck, Anfänge und Entwickelung des Dianysoskultus in Attika, Kiel 1869. Per un completo apparato delle fonti, si veda: L. Preller, Griech. Mythologie, 4ª ed., di C. Robert, II, pp. 659-718; F. A. Voigt, in Roscher, Lexikon d. griech. u. röm. Mythol., I, coll. 1029-1089; O. Kern, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, coll. 1010-1046; O. Gruppe, Griech. Mythologie und Religionsgeschichte, Monaco 1906, II, pp. 1407-1440; W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte, 2ª ed., II, Berlino 1906, pp. 61 segg., 136 segg.; J. G. Frazer, The Golden Bough, 3ª ed., Londra 1912, specialmente i voll. VI-VIII, Spirits of the corn and of the wild, passim; E. Harrison, Themis, Cambridge 1912, passim; R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, Bologna 1921; specialmente capitoli 3, 4 e 5; C. Lanzani, Religione dionisiaca, Torino 1923; J. G. Frazer, Publii Ovidii Nasonis Fastorum libri sex, con trad. e commento, Londra 1929, II-IV, passim.

Dioniso nell'arte. - La tradizione letteraria ellenica ci ricorda parecchi simulacri di Dioniso, i quali dovettero essere antichissimi: hanno varî epiteti, come Dionysos Eleuthereus quello del tempio presso il teatro di Atene. Il Dionysos Perikionios di Tebe era un feticcio, un pezzo di legno che si credeva caduto dal cielo, quando il fulmine colpì il talamo di Semele, poi rivestito di una lamina di bronzo (Paus., IX, 12,4). Questo tronco primitivo ebbe più tardi forma di colonna e vi si adattò una maschera del dio. Il culto di questo idolo deve essere stato trasportato in Attica ed è identificabile con quello di Dionysos orthos. L'idolo è rappresentato su una serie di vasi attici del sec. VI-V a. C., nei quali si vede che esso venne, in progresso di tempo, sempre più assumendo, almeno nelle festività, forma antropomorfa per un vestito, la maschera, rami e focacce che vi si adattavano. Nel periodo più arcaico dell'arte greca Dioniso è spesso rappresentato in pitture vascolari: ha aspetto virile, severo e solenne, con lunga barba, ed è vestito di un ampio chiton poderes, sul quale è un mantello; i capelli sono stretti da una benda e più spesso coronati di edera. In mano reca talvolta uno scettro, perché solo più tardi compare quello che sarà la caratteristica del dio e del suo seguito, il tirso. È più comune però il caso che il dio tenga in una mano un tralcio di vite e nell'altra il cantaro o un corno potorio. Negli ultimi tempi di questa fase arcaica compare anche la pardalis, pelle di pantera che il dio porta sul petto come vestito. Nel complesso quindi Dioniso non differisce dal tipo della divinità virile d'età matura e piena di dignità.

È naturale poi che, siccome in queste opere di arte industriale sono generalmente rappresentate scene mitiche, il dio vi intervenga come parte della rappresentazione o come divinità spettatrice, quando non è in mezzo al suo corteo di Satiri e Menadi. Così lo troviamo, per limitarci ai vasi firmati, in parecchi vasi attici trovati a Vulci, quello di Amasi ora a Parigi (Bibliothèque Nationale), quello di Andocide a Castle Ashby, di Exechia a Londra e a Monaco di Baviera, di Nicostene al Louvre e in Vaticano, di Panfeo a Londra e a Parigi. È celebre la coppa di Exechia, in cui il nume traversa il mare in una barca, nella quale ha piantato un albero di vite; un'altra coppa da Falerii, ora nel Museo di villa Giulia, ce lo rappresenta sdraiato sulla cline a suonare la lira: vicino è un caprone.

Quando, nei vasi con figure rosse, la vivacità delle scene ha un nuovo impulso, Dioniso continua ad avere grande parte nelle rappresentazioni, in attitudine sia calma, sia danzante, spesso perfino barcollante per l'ebbrezza, in compagnia del suo tiaso; ma è pur sempre fondamentalmente la stessa figura solenne, barbata, dal lungo vestito. Diventa sempre più abituale l'uso del tirso. Così si possono citare opere dei più grandi maestri di questa pittura vascolare attica, da Andocide (a Madrid) con il dio nell'aspetto più arcaico, a Epitteto del British Museum, Chelide di Monaco, Cacrilione del British Museum (da Vulci), Finzia e Olto del Museo di Tarquinia, Duride di Boston (da Orvieto), Gerone del Museo di Villa Giulia (Coll. Castellani) e di Berlino (da Vulci) senza contare la grande quantità di vasi non firmati. Questo tipo arcaico dovette figurare anche nei simulacri. Certo le statue del nume si fanno comuni e caratteristiche solo nei tempi posteriori; ma non poterono mancare nei più antichi. Di una abbiamo una rozza copia di età romana (se pure non si tratta addirittura di un'imitazione arcaistica) in una statua di villa Albani a Roma, dai capelli espressi, come la barba, in modo convenzionale e stilizzato e dal lungo chitone. Essa viene infatti a somigliare all'aspetto che prende l'idolo di Dioniso Perikionios in alcuni vasi della prima metà del sec. V, come nella già ricordata coppa di Gerone, da Vulci, ora a Berlino. Aspetto anche più primitivo, per ragioni cronologiche, dovette avere il nume in due celebri opere dell'antica plastica, delle quali possediamo descrizioni, il trono dell'Apollo di Amicle, e l'arca di Cipselo (Paus., v, 19,6). Importante è pure la sua presenza in terrecotte, come quelle arcaiche della Beozia (Winter, I, p. 181), e nelle monete, come in quelle bellissime di Nasso in Sicilia. Il tetradramma d'argento del 460 circa ci rappresenta infatti la sua testa nel rigido schema arcaico, inghirlandato di edera. Nel nuovo tipo del 450-440 i tratti sono già ingentiliti, la ghirlanda è sostituita da una fascia (stefane) con edera e l'aspetto è quello che ha anche Zeus in opere fidiache. La tradizione ci ha conservato ricordo di un Dioniso in piedi, di Mirone, sull'Elicona, che Pausania (IX, 30) dice assai bello. Era prima ad Orcomeno, di dove fu rimosso da Silla. Non ci è restata notizia di statue del nume fatte da Fidia, ma egli deve riconoscersi con ogni probabilità, nel fregio del Partenone, vicino a Demetra, nel giovane dio seduto che si appoggia mollemente sul dorso di Ermete. È un giovane fiorente, imberbe, ed è rappresentato nudo, avvolto in un mantello solo nella parte inferiore. Completamente nudo è invece nel frontone orientale del tempio, come divinità spettatrice alla nascita di Atena: la mirabile scultura, già detta Teseo, è al British Museum: Dioniso è qui un efebo fiorente di bellezza, dalle forme perfette: nella mano alzata doveva tenere un cantaro.

In questo periodo dunque (3° quarto del sec. V) esisteva già il tipo giovanile del nume, che, a giudicare dalle monete che lo riproducono, doveva essere quello del simulacro di Calamide a Tanagra, ricordato da Pausania (IX, 20,4), simulacro tuttavia che alcuni attribuiscono a Calamide il giovane, del sec. IV. In ogni modo, oltre che al Partenone, per la fine del sec. V il tipo imberbe ha altri esempî sicuri, p. es. i tetradrammi di Cheronea. Invece barbuto era il Dioniso di Alcamene, nel suo santuario più recente presso il teatro di Atene. Era crisoelefantino e sedeva in trono: dovette perciò ispirarsi al simulacro di Giove Olimpio di Fidia. Il tempietto che lo conteneva fu costruito da Nicia verso il 420 a. C. (Paus., I, 20,3). Non sappiamo come fosse nella mensa di Olimpia, opera di Colote (Paus., v, 20,1). Dunque alla fine del sec. V i due tipi coesistevano e il tipo barbato si prolungò anche in seguito. Così è infatti nei tetradrammi di Taso (411-390) e negli stateri di Lampsaco (394-350), come pure in quelli più tardi di Sybrite in Creta (350 circa). Imberbe è la bella statua del Museo Nazionale Romano, trovata a Villa Adriana, che ce lo rappresenta nudo con la nebride sulla spalla destra. Il dio ha assunto un tipo gentile e quasi effeminato; bellissima la testa con i lunghi capelli e lo sguardo in basso. È certo la replica romana d'un capolavoro della prima metà del sec. IV, e il Furtwängler pensò a una statua di Eufranore, una copia della quale era a Roma sull'Aventino, come attesta un'epigrafe. Imberbe probabilmente, per l'analogia con la testa di una redazione posteriore di cui parleremo, era il bel Dioniso acefalo di Ny Carlsberg a Copenaghen, con chitonisco, nebride, alti calzari, creato intorno al 375.

Giungiamo così all'età di Cefisodoto il vecchio, al quale si è attribuito da alcuni il celebre Dioniso barbato, noto col nome di Sardanapalo da un'iscrizione di età imperiale apposta alla copia di Monte Porzio Catone, ora nella Sala della Biga al Museo Vaticano. Questa meravigliosa creazione, nella quale (nonostante il nome dovuto evidentemente alla denominazione data da qualche collezionista di età imperiale o meglio da qualche mercante che voleva così aumentare la rarità del soggetto) già E. Q. Visconti riconobbe una rappresentazione del nume, è però, come ormai è stato da molti riconosciuto, piuttosto una creazione di Prassitele, figlio di Cefisodoto. Di essa restano più copie (una da Posillipo al British Museum, una, trovata recentemente, al Museo Naz. Romano, una al Museo Naz. di Palermo, un'erma con la parte superiore al Museo Naz. di Napoli): Dioniso è rappresentato nel vecchio aspetto, tutto avvolto in un ampio mantello, che gli nasconde la mano sinistra, con il chitone fino ai piedi, appoggiato al tirso o a uno scettro. Ma notevoli specialmente sono la barba fluente, la lunga chioma, e più di tutto l'aspetto mite e dolce sl, ma nello stesso tempo maestoso di chi è ben superiore alle miserie della vita comune. Ugualmente solenne e drappeggiato, ma imberbe (nonostante il viso sia molto rovinato), è il Dioniso che con le Nikai adorna le facce d'un pilastro trovato nella via dei Tripodi ad Atene, opera di Prassitele o della sua cerchia. Un simulacro del nume sicuramente di Prassitele era in Elide, come ci attesta Pausania (VI, 26,1); e di un altro ci dà notizia Callistrato (in Strab., 8); così pure sono ricordati un Dioniso di Scopa e un altro di Briasside, ad Efeso. Della scuola peloponnesiaca, mentre ignoriamo se Policleto abbia mai scolpito immagini del nume, la cosa ci è attestata per Lisippo. Contemporaneamente a questi scultori e ad altri, come Prassia, scolaro di Calamide il Giovane, che lo raffigurò nei frontoni del nuovo tempio di Apollo a Delfi, Dioniso era rappresentato in opere pittoriche. Era celebre il Liber pater di Parrasio, evidentemente barbato, quale lo vediamo, raggiante di bellezza, partecipare al tiaso in un vaso attico di stile fiorito (ora al Louvre di Parigi, n. 433). Lo rappresentarono pure Aristide e Nicia, e certo rimontano a questo sec. IV o all'età ellenistica gli originali di molte rappresentazioni del nume in dipinti pompeiani.

Delle sculture all'inizio dell'età ellenistica si trovano più opere insigni. Sotto la chiara influenza prassitelica è la bella erma, di cui esemplari sono agli Uffizî, nella Galleria delle carte geografiche al Vaticano, ecc., con cornetti bovini, simbolo di fecondità; così pure la statua, di cui un esemplare intero è all'Ermitage di Leningrado (da Tuscolo) e una replica squisita della testa nella Sala del Gladiatore al Museo Capitolino. Il dio è nel fiore degli anni, vestito di corto chitone, sul quale è la pardalis, di un mantello e di alti calzari. In mano teneva il cantaro e il tirso. Ma ciò che colpisce maggiormente è la mirabile testa dall'aspetto benigno e tanto raffinato che essa fu creduta femminile e rappresentante Arianna. Grazioso e gentile è pure il piccolo Dioniso di bronzo trovato a Pompei (ora nel Museo Nazionale di Napoli) e conosciuto col nome di Narciso, splendido di forme, coronato di edera, vestito di nebride e con alti calzari. Il dio leggermente ebbro è col torso piegato indietro, e scherzava verosimilmente con una pantera. Che si tratti della replica impiccolita di un originale al vero, ce lo dice il torso di marmo degli Uffizî a Firenze, restaurato nel '500, si dice, da Michelangelo. Pure prassitelici sono quei Dionisi giovanili, effeminati, fiorenti di salute e beatitudine, che sono in tutti i musei, spesso aggruppati con altri esseri divini: con Eros alato nel Museo di Napoli, con un Satiro (gruppo di dimensioni colossali) nella Collez. Ludovisi al Museo delle Terme e in altre repliche, ecc.

La tendenza a ringiovanire i numi, iniziatasi con Prassitele, si adattava al personaggio di Dioniso: in età ellenistica sono perciò frequenti le graziose statuine del nume, divenuto un giovanetto fragile e grazioso, generalmente rappresentato nudo. Senza elencare i singoli pezzi di età ellenistica e di età romana, ricorderemo quelle di Priene e Berlino, il Dioniso di bronzo del Museo Nazionale Romano, trovato intatto nel Tevere, completamente nudo, con nella mano il tirso, opera, con ogni probabilità, di arte campana del sec. II a. C.; assai spesso il nume compare in rilievi ed erme di arte arcaistica (come quella firmata da Boeto e trovata nel mare di Tunisia a Mahdia) e poi, durante l'impero, d'arte eclettica. In questo periodo è ormai come fissato il tipo di Dioniso, un grande e fiorente giovane, imberbe, nudo, con chiari caratteri di conservazione del tipo prassitelico. Quindi egli, riconoscibile per le lunghe chiome e per gli attributi, ha comuni con gli Apollini e i Satiri prassitelici molte pose, da quella del giovane leggermente ebbro che si appoggia a un sostegno, a quella in attitudine di riposo con il braccio piegato e appoggiato sul capo.

Ma per Dioniso, ancor più che la rappresentazione isolata, è comune il gruppo o la rappresentazione mitica. In molte figurazioni egli ha parte, a cominciare dalla nascita miracolosa dalla coscia di Zeus: come in un bassorilievo del Vaticano e in uno specchio etrusco ora al Museo Nazionale di Napoli. L'episodio del neonato portȧto da Ermete alle Ninfe di Nisa ha dato origine a un capolavoro dell'arte antica, l'Ermete di Prassitele a Olimpia, ritrovato nel tempio di Era dove l'aveva notato Pausania (V, 17,3). Se in questo gruppo la figura di Ermete domina, interessante è anche il bambino, espresso tuttavia con minore perfezione dell'efebo. Più bello è il bimbo del Museo Nazionale Romano, probabile resto di altro gruppo con Ermete, che pare attribuibile a Cefisodoto il vecchio. La consegna stessa alle Ninfe è rappresentata dal cratere policromo di Vulci, ora al Museo Vaticano, uno dei più superbi esemplari della pittura vascolare attica della prima metà del sec. V a. C. Il piccolo Dioniso è avvolto in un panno purpureo, ed Ermete lo consegna a Sileno, che siede su un masso con in mano il lungo tirso che sarà poi l'attributo del dio. La rappresentazione è ripetuta in altri vasi come in uno da Agrigento, ora a Palermo, della stessa età, e, nell'età neoattica, nel celebre cratere di marmo di Salpione trovato a Gaeta, ora nel Museo Nazionale di Napoli. In uno dei più bei dipinti della Casa della Farnesina, del tempo augusteo (ora al Museo Nazionale Romano), il piccolo Dioniso è sulle ginocchia della ninfa Leucotea, che gli aggiusta in capo una corona di pampini, mentre due altre Ninfe guardano con amore la scena, e appoggiato al muro è un alto tirso con una benda. Le amorose cure di Sileno per il dio fanciullo hanno ispirato una bella creazione della prima età ellenistica. Del gruppo, in cui si vede il canone lisippeo con tratti di gentilezza prassitelica, esiste una celebre replica già Borghese al Louvre a Parigi, un'altra è in Vaticano, nel Braccio Nuovo, una terza nella Gliptoteca di Monaco. Bella è l'affettuosa maniera con la quale Sileno tiene e quasi culla il bambino affidato alle sue cure. Più grandicello è Bacco quando gioca sulle spalle d'un satiro e col tirso lo stimola quasi fosse il suo destriero. Un bell'esemplare è nel Museo Nazionale di Napoli.

Se, come è probabile, si riferisce ai misteri dionisiaci la grande pittura della villa dei Misteri a Pompei, vediamo in essa Dioniso giovanetto iniziato: così pure negli stucchi della Casa della Farnesina al Museo Nazionale Romano. Non in superbe opere d'arte, ma nella serie dei rilievi Campana e nell'urnetta cineraria del Museo delle Terme, raffiguranti l'iniziazione ai misteri eleusini, si trova la figura di un sacerdote che offre una libazione, la quale presenta nell'espressione della faccia e nell'acconciatura del capo una stretta somiglianza con quel meraviglioso bronzo ercolanese del Museo Nazionale di Napoli, già detto Platone e poi Dionysoplaton, dall'aspetto singolarmente forte e maestoso, opera della seconda metà del sec. V a. C., che potrebbe essere tanto il frammento di una statua rappresentante questo sacerdote, quanto anche il dio stesso nell'atto di compiere un rito. In questo caso questa solenne testa barbata andrebbe a prendere un posto cospicuo nell'iconografia di Dioniso del sec. V a. C.

Dell'avventura di Bacco giovanetto caduto in potere dei pirati la rappresentazione più nota è quella ad Atene nel fregio del monumento coregico di Lisicrate, del 335-34 a. C.; il dio è figurato nei tratti di un giovane assiso su una roccia, nell'atto di carezzare una pantera, circondato da Satiri che gli versano il vino. Gli altri Satiri inseguono i pirati che si gettano in mare e vengono tramutati in delfini.

Altri episodî della vita di Dioniso sono rappresentati nell'arte: 1. la cena presso Icario, che accolse il dio quando giunse nell'Attica per diffondere la coltivazione della vite. La rappresentazione che abbiamo è di età ellenistica, e il dio è del tipo barbato e solenne del "Sardanapalo". Entra nella sala (dove Icario è sdraiato sul letto insieme con una donna) già ebbro e sorretto da un satiro. Molte repliche sono a noi giunte, e una delle più belle è nel Museo Nazionale di Napoli. È noto che dall'esemplare su un cratere nel Camposanto di Pisa si ispirò Nicola Pisano per l'Erode del suo pulpito. 2. Il trionfo dopo il viaggio in India, che si diceva essere durato più anni. Il mito ebbe vasta diffusione e divenne quasi simbolico dopo le vittorie orientali di Alessandro Magno. È particolarmente amato nei sarcofagi di età romana imperiale: in uno del Laterano il dio sta su un cocchio tirato da due elefanti: ha nella destra il tirso, nella sinistra un cantaro verso il quale si volge una pantera che guizza tra gli elefanti. Vicino a lui è Nike che pone sul capo del vincitore una corona. Sulla groppa degli elefanti seggono ragazzi indiani. Davanti al carro del dio folleggia il tiaso. Certamente allude al viaggio nelle Indie la rappresentazione d'un vaso della Lucania, ora al Museo Britannico, del sec. IV, dove Dioniso, circondato da Persiani e Frigi e da Menadi danzanti e suonanti, procede seduto su un alto cammello.

Amato, specialmente nell'arte arcaica, è il mito in cui Dioniso riporta, insieme col suo tiaso, Efesto all'Olimpo. Lo troviamo già rappresentato nel celebre vaso François da Chiusi, ora al Museo Archeologico di Firenze. Per la partecipazione di Dioniso alla Gigantomachia o agli episodî di Licurgo e di Penteo v. alle voci corrispondenti. Ricordiamo invece le avventure con Arianna, dall'incontro con la bella addormentata e abbandonata da Teseo nell'isola di Nasso (soggetto rappresentato in più pitture pompeiane) alla partecipazione insieme con lei alle feste del tiaso, soggetto amatissimo dagli antichi artisti, dai pittori vascolari ai decoratori di sarcofagi romani. (v. tavv. CLXXXIX e CXC).

Bibl.: Fondamentale è sempre l'art. di E. Thramer nel Lexikon del Roscher (I, 1089-1153). Cfr. pure O. Kern, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I (1903), coll. 1023-46. Per le altre opere diamo solo qualche citazione di facile consultazione.

Per Dionysos Perikionis: G.Q. Giglioli, Una nuova rappresentazione del Culto Attivo di Dionysos, in Ann. R. Sc. Arch. di Atene, IV-V; per i vasi: J.C. Hoppin, Black-figured Vases, Parigi 1924: id., Attic red-figured vases, Cambridge 1919, passim; S. Reinach, Rép. vases peints, 2ª ed., Parigi 1924, passim; per le figure fidiache del Partenone: P. Ducati, Arte classica, 2ª ed. Torino 1927, pp. 297-98, figg. 364, 370; per il Dioniso di Villa Adriana al Museo Nazionale Romano, Mon. Inst., XI, 51; R. Paribeni, Terme Diocl. e Mus. Naz. Rom., Roma 1928, n. 513 (fig.); per il "Sardanapalo" del Vaticano: Ducati, op. cit., p. 408, fig. 509; per il Bacco di Pietroburgo e l'"Arianna" del Museo capitolino: D. Zancani, Della testa di Dionysos del Museo Capitolino e del tipo statuario al quale appartiene, in Bull. Comm. Arch. Com. di Roma, LII, p. 65; per il Dioniso e Satiro Ludovisi al Museo Naz. Romano: R. Paribeni, op. cit., n. 522; per il cratere policromo Vaticano con D. portato da Ermete alle Ninfe v. attici, vasi, tav. a colori; per il dipinto del Museo Naz. Rom.: Mon. Ist., XII, 18; R. Paribeni, op. cit., n. 4577, fig. a p. 221; per le rappresentazioni della Villa dei Misteri: G.E. Rizzo, in Dionysos Mystes, in Mem. Accad. Arch. di Napoli, 1914; A. Maiuri, La villa dei Misteri, Roma 1931; per gli stucchi della Farnesina: Ducati, fig. 710, p. 575.

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