Diritto dell'economia

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Diritto dell'economia

FRANCESCO GALGANO

sommario: 1. Il diritto e l'economia nelle esperienze storiche: a) la società comunale; b) le monarchie assolute; c) la società liberale. 2. L'esperienza del primo Novecento. 3. L'esperienza dei paesi socialisti. 4. Liberismo e dirigismo negli enunciati costituzionali. 5. Il problema centrale: attività economiche pubbliche, criterio di economicità, principio di legalità. □ Bibliografia.

1. Il diritto e l'economia nelle esperienze storiche

L'economia è, da sempre, terreno sul quale si esercita l'intervento regolatore della comunità politica. Mutano, nel tempo, solo l'intensità e l'estensione dell'intervento, più accentuato in alcune epoche, fortemente contrastato in altre, sicuramente imponente nel nostro secolo, la cui nota dominante è, per questo riguardo, la faticosa ricerca del giusto punto di equilibrio fra liberismo e dirigismo, fra le opposte visioni di un'economia governata solo da leggi di natura, quali sono le leggi economiche, e immune da ogni coercizione giuridica - secondo la visione dominante fra il Settecento e l'Ottocento - e per contro di un'economia guidata dalla volontà politica e minuziosamente regolata da norme giuridiche, secondo quella che fu la visione secentesca dell'economia e, prima ancora, quella della società comunale.

a) La società comunale

Il fenomeno si delinea nettamente agli albori del capitalismo, nell'epoca della cosiddetta accumulazione originaria; e si delinea in forme che già presentano forti analogie con quelle del nostro tempo.

Alla crescente potenza economica del capitale commerciale si accompagna, all'interno del Comune, l'ascesa politica della classe mercantile: talvolta è la sola detentrice del potere politico, talaltra deve condividerlo, come accade a Milano e in altre città italiane, con la nobiltà cittadina. La politica del Comune è, in ogni caso, resa funzionale alle esigenze di accumulazione del capitale commerciale (della quale rendere partecipe, dove è necessario, la classe nobiliare): alla nuova istituzione politica si domanda, soprattutto, di mantenere ferme le condizioni obiettive dell'accumulazione. Più precisamente, la prima delle sue condizioni obiettive, quella che attiene all'approvvigionamento delle merci: l'altra condizione obiettiva dell'accumulazione, quella riguardante la distribuzione delle merci, si realizza oltre i confini della comunità politica e, perciò, fuori di ogni possibile intervento di questa.

Il Comune è, per il capitale commerciale, strumento di controllo politico del mercato di produzione cittadino. Gli statuti comunali garantiscono alla classe mercantile diritti di monopolio sulla produzione locale: agli artigiani cittadini, come agli agricoltori del contado, è fatto divieto di vendere i propri prodotti a forestieri; e sullo stesso mercato locale essi non possono vendere se non al minuto, essendo il commercio all'ingrosso riservato ai membri della corporazione dei mercanti (v. Luzzatto, 19672, p. 155; v. Dobb, 1946; tr. it., pp. 126 ss.). La separazione del produttore dalle materie prime e dal consumatore, che è la fonte del profitto commerciale, viene così giuridificata: il monopolio della commercializzazione dei prodotti locali, dapprima conquistato di fatto, diventa monopolio di diritto della classe mercantile, difeso contro ogni possibile trasgressore con la forza di coercizione delle autorità comunali. Il controllo è, oltre che sul prodotto, sulla persona dei produttori: con misure che ricordano la repressione feudale della fuga dei servi, è fatto divieto agli artigiani locali, sotto pena di gravi sanzioni, di cercare lavori fuori del territorio comunale (v. Luzzatto, 19672, p. 155; v. Cipolla, 1974, p. 237).

Al controllo della produzione cittadina si accompagna, spesso, la sua incentivazione, attuata anche questa per il tramite dei pubblici poteri. Se per il controllo la mediazione pubblica è resa utile dalla forza coercitiva dell'autorità municipale, per l'incentivazione della produzione essa è, piuttosto, consigliata dall'opportunità di rendere ‛pubblico', ossia ripartito fra tutte le classi sociali, il costo che l'incentivazione comporta. Quantunque gravata, in massima parte, dagli impegni militari per la difesa o per l'espansione dei confini comunali (che per la classe mercantile è difesa o espansione del proprio controllo sul mercato della produzione), la spesa pubblica dei Comuni conosce, pressoché ovunque, impieghi ‛sociali', giustamente considerati da C. Cipolla come ‟investimenti in capitale umano": spese per l'istruzione pubblica, per l'annona pubblica, per la pubblica assistenza sanitaria (v. Cipolla, 1974, pp. 77 ss.).

Talvolta la spesa pubblica assume il carattere di una vera e propria politica economica di sviluppo: un caso emblematico, ma non certo l'unico (ibid., pp. 79 ss., 132 ss., 148), è quello del Comune di Bologna, che nel 1230 stanzia un'ingente somma per favorire lo sviluppo delle manifatture tessili nella città. Agli artigiani che vi fossero immigrati per esercitare l'arte della tessitura il Comune erogava un contributo a fondo perduto, un'esenzione fiscale per quindici anni, un mutuo agevolato per cinque anni. Ciò che colpisce, in questa politica di sviluppo economico, non è solo la ‛modernità' degli strumenti impiegati; colpisce, soprattutto, la propensione che la classe mercantile già allora manifestava a ‛socializzare' i costi dell'accumulazione capitalistica. Dallo sviluppo della tessitura avrebbero tratto diretto vantaggio i mercanti del settore; e, tuttavia, essi non se ne fanno promotori e finanziatori in proprio: l'iniziativa è pubblica, la relativa spesa è addossata all'intera comunità.

Nel Comune medievale sono già visibili, in conclusione, alcuni caratteri che, in progresso di tempo, saranno propri del capitalismo industriale: il Comune garantisce, con i suoi poteri di coercizione, il mantenimento delle condizioni obiettive dell'accumulazione; sviluppa, con una politica ‛sociale', la capacità produttiva della forza lavoro; interviene, con misure di politica economica, nel processo di accumulazione del capitale. Sebbene se ne parli spesso come di una città-Stato, il Comune medievale non è, tuttavia, una entità politica paragonabile allo Stato moderno: non ne ha per intero la dimensione economica, nè quella politica; non dispone di un territorio che permetta al capitale il controllo politico, oltre che del mercato di produzione, di quello della distribuzione; non ha la possibilità, nè la pretesa, di accentrare in sè tutti i poteri di governo della società comunale. Questa ha, sopra di sé, l'autorità dell'Impero e quella della Chiesa; ha, al suo interno, poteri concorrenti con quelli del Comune cittadino, soprattutto i poteri delle corporazioni.

b) Le monarchie assolute

Alla fine del Medioevo la scena politica è dominata dagli Stati monarchici, a grande base territoriale, nazionale o regionale. La borghesia ha perso, con la scomparsa delle sovranità comunali, ogni forza di direzione politica, della quale intraprenderà poi un lento e contrastato ricupero all'interno delle istituzioni monarchiche, quale terzo stato nel parlamento dei regni. L'accentramento monarchico converte rapidamente le corporazioni in istituzioni ausiliarie dello Stato, simili ai collegia della Roma imperiale: esse permangono entro la nuova struttura politica con funzioni di polizia sulle attività professionali, che esercitano secondo minuziosi regolamenti statali.

Alla perdita di potere politico della classe mercantile non corrisponde, tuttavia, una diminuzione del ritmo di accumulazione del capitale commerciale. Questo tende, anzi, a intensificarsi a misura che, nel corso del Seicento, l'accentramento monarchico raggiunge le forme estreme dello Stato assoluto. La politica assolutistica ha nell'espansione dei traffici una delle principali basi di appoggio: ‟I re traggono la più grande utilità dal commercio - constata, sotto il regno di Luigi XIV, J. Savary (Le parfait négociant, vol. I, Paris 1675, p. 2) - sia per i diritti che i mercanti pagano loro quando entrano nel regno e ne escono, sia perché tutto il danaro contante si raccoglie nelle mani dei banchieri e mercanti, che dispongono di somme immense delle quali i re hanno bisogno per le loro grandi imprese". Persino gli strumenti del commercio, come la lettera di cambio, sono utili ai re: ‟Per suo mezzo in guerra essi trovano ovunque danaro per i loro eserciti".

La classe mercantile non dirige più lo sviluppo economico, lo dirigono, all'insegna delle dottrine mercantilistiche, le monarchie assolute; ma nella misura in cui la politica mercantilistica degli Stati sollecita il massimo sviluppo dei traffici, il successo di quella politica è anche la fortuna della classe mercantile. Luigi XIV - sono ancora parole di Savary - ‟invita il maggior numero possibile dei suoi sudditi a dedicarsi al commercio o a interessarsene attraverso le società in accomandita"; egli ‟accorda grandi privilegi ai commercianti".

La monarchia assoluta ha una propria politica del diritto commerciale, che in Francia dà vita alla prima legislazione organica della materia, con le Ordinanze sul commercio (1673) e sulla marina (1681). L'idea ispiratrice dell'Ordonnance du commerce è che per conquistare i mercati occorre anzitutto riscuoterne la fiducia: per questo l'Ordonnance vuol essere, come si esprime l'editto che l'accompagna, un regolamento capace di assicurare presso i mercanti la buona fede contro la frode e di prevenire gli ostacoli che li sviano dal loro ufficio". L'esercizio del commercio è concepito come privilegio concesso dal sovrano: condizione necessaria per esercitarlo è di ottenere l'iscrizione alle corporazioni, che sono tante quante i settori dell'attività mercantile. La tenuta dei libri contabili, che in precedenza era stata null'altro che una regola tecnica di buona amministrazione, viene resa obbligatoria, e secondo una serie di minuziose prescrizioni (titolo III). La bancarotta fraudolenta è punita con la morte (titolo XI, art. 12); l'omessa o irregolare tenuta dei libri contabili può dal giudice essere considerata bancarotta fraudolenta (art. 11).

Ciò che muove l'intento regolatore dello Stato è l'interesse politico (anche se convergente con l'interesse economico della classe mercantile) ad accrescere la potenza finanziaria dello Stato (e gli agi delle classi dominanti) e, poiché ciò essenzialmente dipende dal gettito fiscale, l'interesse a espandere la vita economica, a sviluppare i traffici, a moltiplicare il volume della produzione nazionale e, soprattutto, il volume delle esportazioni, giacché opera ‟la tendenza a considerare il profitto del commercio internazionale come la sola vera fonte di eccedenza, e quindi come la sola fonte sia dell'accumulazione che delle rendite statali" (v. Dobb, 1946; tr. it., p. 246).

La regolamentazione legislativa della materia commerciale mira all'efficienza dell'apparato economico; essa è solo un aspetto di quel più generale intervento dello Stato assoluto nella vita economica che va sotto il nome di politica mercantilistica e che si manifesta in forme molteplici: nelle tariffe protezionistiche, nei divieti di importazione, nei piani, nelle licenze, negli ordini di produzione, nelle assegnazioni controllate, nei calmieri, nei salari legali, nei prezzi di produzione, nelle sovvenzioni, nei contributi, nelle esenzioni e agevolazioni fiscali, nei monopoli di fabbricazione, anche nella diretta gestione statale di ‛manifatture regie' (per un'ampia documentazione v. Boissonade, 1927, pp. 241 ss.; 19322, pp. 33 ss.; v. anche Germain-Martin, 1899 e 1900). Domina - scrive Dobb (v., 1946; tr. it., p. 235) - ‟la convinzione che la regolamentazione economica fosse la condizione essenziale perché le attività commerciali e industriali potessero dare un qualsiasi profitto". Intrinsecamente falsa o esatta che fosse in rapporto alle esigenze di sviluppo dell'economia del tempo, essa è comunque la filosofia che consentiva alla monarchia di tenere la classe mercantile sotto il proprio ferreo controllo e di erigersi ad arbitra delle fortune di questa, che sono fortune legate a un sistema di coazioni e di privilegi e, come possono d'autorità essere costruite, così possono d'autorità essere demolite.

Se la monarchia assoluta è mercantilistica, la borghesia è però già fisiocratica; se la prima è interventista, la seconda è già liberista. Quando Colbert, ministro di Luigi XIV, domandò agli uomini d'affari: ‟Che cosa lo Stato può fare a vostro favore?", si dice che essi pronunciassero la frase innalzata poi a vessillo delle scuole economiche del Settecento: ‟Laissez faire, laissez passer". Gli uomini d'affari francesi rifiutavano i favori di uno Stato che appariva, ai loro occhi, portatore degli interessi di una classe a essi antagonista e del quale erano, perciò, portati a diffidare. La borghesia mira già a un autonomo sviluppo della classe, e a questo obiettivo cospirerà tutta la cultura del Settecento: la dottrina fisiocratica e la sua pretesa di collocare l'economia nel regno, inviolabile, della necessità naturale; più in generale, il nascente liberalismo, fondato su una concezione della libertà dell'uomo come ‛libertà dallo Stato'; il giusnaturalismo, la concezione del diritto privato, regolatore dei rapporti interni alla borghesia, come ‛diritto naturale', intangibile da parte dello Stato, perchè ‛creato dal popolo' secondo la ‛natura dell'uomo', costituiranno altrettanti schermi ideologici, al riparo dei quali la classe borghese possa nuovamente essere artefice della propria fortuna. La nuova cultura darà i suoi frutti già all'interno della vecchia struttura politica, nell'ultimo periodo dell'assolutismo monarchico: ‟Quando l'interesse particolare - dirà Turgot, ministro di Luigi XVI - è esattamente lo stesso che l'interesse generale, ciò che di meglio si può fare è di lasciare ciascun uomo libero di fare ciò che vuole" (v. Germain-Martin, 1899, pp. 354 ss.).

c) La società liberale

L'ascesa della borghesia al potere si compie all'interno della preesistente realtà politica dello Stato nazionale, e di questa realtà politica sollecita la più rapida formazione dove, come in Germania o in Italia, la borghesia è costretta all'interno di Stati regionali. È la dimensione del potere mancata alla borghesia comunale, fondata dalle monarchie assolute, trovata dalla borghesia del XVIII e del XIX secolo.

È l'arte di governo sperimentata dalle monarchie assolute: un potere politico tanto più forte in quanto concentrato; e in quanto dislocato, formalmente, al di fuori dell'organizzazione di classe del gruppo dominante. Il monarca assoluto non si era considerato l'esponente supremo dell'aristocrazia, ma il titolare di una sovranità originaria, autonoma rispetto a tutte le classi sociali; lo Stato borghese è in continuità con questo modello, anche se la sovranità cessa di essere attributo di una persona fisica e diventa - ciò che è solo un perfezionamento del modello - l'attributo di un ente astratto, della nazione o dello Stato come persona.

Il potere politico della borghesia si separa dal suo potere economico; dalla classe mercantile si distingue una classe politica, attraverso la quale la borghesia può guardare oltre il proprio immediato interesse economico, può coordinarlo con l'interesse degli altri gruppi sociali, può elaborare una visione ‛nazionale', e non più corporativa, dei propri interessi di classe. La mediazione nei rapporti fra le classi era stata - il giudizio è di Friedrich Engels - funzione storica delle monarchie assolute, che ‟mantennero l'equilibrio tra nobiltà e borghesia"; sarà nella Francia postrivoluzionaria la funzione del bonapartismo, che la eserciterà nel rapporto fra borghesia mercantile e borghesia terriera, mentre il bonapartismo del Secondo Impero - aggiunge Engels (v., 1884; tr. it., p. 172) - si varrà ‟del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato". Poi essa diventa compito istituzionale dello Stato borghese, e le istituzioni rappresentative saranno la sede permanente di questa mediazione. Sede di una mediazione esercitata entro la borghesia, fra i diversi ceti borghesi detentori di ricchezza, fino a quando lo Stato resterà Stato monoclasse, lo Stato della dittatura della borghesia; sede di una mediazione più estesa, fra borghesia e ‛quarto stato', quando suffragio universale e principio proporzionalistico porteranno le classi popolari alla ribalta parlamentare.

L'accentramento monarchico era stato, essenzialmente, un accentramento amministrativo, attuato con la graduale sostituzione di apparati burocratici periferici, dipendenti dall'esecutivo centrale, alle giurisdizioni della nobiltà feudale. Nel campo del diritto l'accentramento monarchico aveva messo capo al principio, mai integralmente attuato, della statualità e, quindi, della nazionalità del diritto, e dato avvio a un processo, rimasto incompiuto, di statualizzazione delle fonti di produzione giuridica (su questo processo v. Tarello, 1973, pp. 175 ss.). La borghesia al potere prosegue e porta a compimento questo processo: con il Code Napoléon diventa diritto dello Stato anche il diritto civile, fino ad allora vissuto come ‛diritto di ragione' o ‛diritto naturale', e come tale sottratto all'arbitrio del sovrano, oppure come diritto particolare di classi o di terre, garantito dalle superstiti immunità di origine feudale.

È una rivoluzione profonda nelle concezioni politiche, giuridiche, economiche della borghesia, che scuote dalle fondamenta la costruzione che essa aveva in passato edificato dei rapporti fra società civile e Stato, fra economia e politica, fra diritto privato e diritto pubblico. L'autonomia della società civile dallo Stato, e dell'economia dalla politica, era stata il grande disegno rivoluzionario della cultura borghese del XVII e del XVIII secolo; la astatualità del diritto privato ne era stata il corollario nel mondo del diritto. Il giusnaturalismo aveva rivendicato l'esistenza di diritti ‛naturali' dell'uomo, e di diritti, appunto perché naturali, solo ‛trovati' dallo Stato; aveva puntato all'emancipazione politica della proprietà e dell'iniziativa economica, alla loro trasformazione da privilegio in diritto, e in diritto dell'‛uomo naturale'. Allo Stato, accettato come ‛macchina' che mantiene l'ordine sociale, economico, religioso, la cultura borghese aveva contrapposto la società civile, che è ‛società naturale' nel linguaggio dei giusnaturalisti, pensata come una società retta da proprie leggi, che sono leggi di ‛natura' o di ‛ragione', inviolabili da parte dello Stato.

L'avvento della borghesia al potere cancella l'immunità della società civile dal diritto dello Stato. Dalla classe deposta la nuova classe dominante ha appreso che la legge può essere un formidabile strumento di politica economica; ora è la borghesia che sollecita l'intervento regolatore dello Stato nei rapporti sociali; e, anzi, la codificazione civile è fra i primi obiettivi del programma delle forze rivoluzionarie. ‟Il capitalismo si è detto liberale - scrive al riguardo G. Ripert (v., 19512, p. 13) - perché era nato sotto il segno della libertà e perché giudicava per sé utile vivervi. Ma se si fosse dovuto accontentare del diritto comune, non avrebbe potuto svilupparsi. La libertà non gli bastava".

Il giusnaturalismo non è rinnegato: la Dichiarazione dei diritti del 1789 riafferma solennemente l'esistenza di diritti naturali dell'uomo; lo stesso progetto del Code Napoléon, nell'art. 1 di un Libro preliminare, poi soppresso nel testo definitivo, dà atto dell'esistenza di un diritto naturale ‟universale e immutabile". E, tuttavia, allo Stato la borghesia riconosce una funzione nuova, in passato disconosciutagli: lo erige a ‛interprete' ma a interprete unico e inappellabile - del diritto di natura (su questa, che è l'idea dominante le codificazioni e quella francese in particolare, v. Solari, 1959, pp. 57 55. e 85 ss.; v. Corradini, 1971, pp. 12 ss. e 37 ss.).

La società ‛secondo natura', che il Code Napoléon disegna, è una società di uomini liberi, uguali, indipendenti fra loro, nella quale i borghesi non godono di privilegi, non fruiscono di posizioni giuridiche di vantaggio sulle altre classi. È il codice di una borghesia ancora convinta dell'esistenza di leggi economiche a suo favore. Alla legge dello Stato la borghesia chiede solo che sia ripristinato lo ‛stato di natura', e rimosso ogni ostacolo che possa impedire il corso ‛naturale' delle leggi economiche. Ciò non significa che le chiedesse poco: ‟Il capitalismo ha un bel dire - sono ancora parole di Ripert (v., 19512, p. 15) - che non domanda niente, che gli occorre semplicemente la libertà; ha un bel ripetere: laissez faire; esso non avrebbe potuto fare niente se il legislatore non gli avesse dato o permesso di prendere i mezzi adatti alla concentrazione e alla utilizzazione dei capitali. Il diritto comune non gli bastava. Esso ha creato il suo diritto".

Rimane l'antitesi allo Stato-apparato o, come ora lo si può definire, allo Stato-persona. L'antica diffidenza della borghesia verso lo Stato non è estinta anche se è mutata la ragione, che non è più, come ai tempi dell'assolutismo monarchico, una ragione politica, o soprattutto politica, di diffidenza verso un'istituzione governata da una classe antagonista. Ora dallo Stato la borghesia non ha, politicamente, nulla da temere; e non avrà nulla da temere fino a quando permarrà il suffragio politico ristretto e lo Stato resterà uno Stato monoclasse, lo Stato della dittatura della borghesia. La ragione della perdurante diffidenza è ora solo economica: è la diffidenza di una classe che deriva la propria prosperità dal possesso e dallo sfruttamento delle risorse, e che è tanto più prospera quanto più estese sono le risorse che puo possedere e sfruttare: essa è indotta a osteggiare la proprietà pubblica e, in genere, l'utilizzazione pubblica delle risorse; vi scorge un limite alla possibilità di sfruttamento, una minaccia alla propria prosperità. Questo è il senso della politica di ‛privatizzazione' delle terre, attuata subito dopo la Rivoluzione con le massicce vendite dei ‛beni nazionali'. Ma questo è anche il senso delle solenni dichiarazioni di principio.

La proclamazione della Dichiarazione del 1789 che la proprietà è diritto naturale dell'uomo, sacro e inviolabile, decreta la soppressione di ogni diritto dello Stato sulla terra e sulle sue risorse: il dominium eminens, che era stato prerogativa del sovrano assoluto (con facoltà di appropriarsi, in qualsiasi momento, dei beni dei sudditi), non è più attributo dello Stato borghese. La terra e le sue risorse debbono, per diritto di natura, appartenere ai ‛borghesi': il principio - consacrato nell'art. 17 della Dichiarazione (e poi rifuso nell'art. 545 del Code Napoléon) - è che il proprietario non può essere, d'autorità, spogliato dei suoi beni se non ‟quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in modo evidente", e previo ‟giusto indennizzo" (in luogo della ‛graziosa indennità' del monarca assoluto).

Statalismo e antistatalismo trovano così modo di coesistere, ciascuno in un proprio ambito: il primo domina la legislazione, il secondo regna nell'amministrazione. La sovranità dello Stato è, nel primo ambito, illimitata (la legge è attuazione della ‛ragione universale'); è limitata, nel secondo ambito, dall'esigenza di salvaguardare il diritto dei borghesi alla più ampia disponibilità delle risorse. Il limite all'azione dello Stato, eretto dall'art. 17 della Dichiarazione (e dall'art. 545 del Code Napoléon), è la prima pietra di quell'edificio della borghesia ottocentesca che sarà lo Stato di diritto: c'è già il principio di legalità, giacché la ‟necessità pubblica", che sola legittima il sacrificio della proprietà, deve essere ‟legalmente constatata".

Dal diritto di proprietà alla libertà economica: è il principio di ‟libertà del commercio e dell'industria", introdotto per la prima volta in Francia con la legge 2-17 marzo 1792. Il senso rivoluzionario del principio sta nell'abolizione del precedente sistema politico-economico - aristocratico-feudale sotto l'aspetto politico, mercantilistico sotto l'aspetto economico - per il quale il commercio e l'industria non erano libertà, ma privilegi di volta in volta concessi dal sovrano. ‟La sola volontà basta per fare il commercio", potevano constatare i giuristi al principio del secolo scorso.

2. L'esperienza del primo Novecento

Alla massima espansione dello Stato-ordinamento, che si andava grandiosamente realizzando nelle codificazioni, doveva corrispondere, nei primitivi disegni della borghesia dell'Ottocento, un'estensione minima dello Stato-apparato, al quale l'ideologia liberale riconosceva assai limitati compiti che ubbidivano a insopprimibili esigenze collettive, quali il mantenimento dell'ordine pubblico, l'applicazione della legge, la difesa dei confini nazionali, i rapporti con l'estero: quegli stessi compiti, in sostanza, che la borghesia era stata disposta a riconoscere allo Stato assoluto. Per il resto la borghesia confidava di potere direttamente provvedere a se stessa: l'economia era suo ‛affare privato'; lo Stato doveva solo vegliare - quale ‟guardiano notturno", dirà F. Lassalle - sulle libertà economiche dei borghesi.

All'antico antistatalismo della borghesia maturato sotto le monarchie assolute, che si era manifestato in un'antitesi globale della società civile allo Stato e aveva investito lo Stato-ordinamento, oltre che lo Stato-apparato, era succeduto un nuovo antistatalismo, non più di segno politico o prevalentemente politico, come l'antico, di ostilità verso un'istituzione governata da una classe antagonista, ma di natura prettamente economica, che nasceva dall'aspirazione borghese al più ampio e al più intenso sfruttamento delle risorse. Dallo Stato la borghesia non aveva, politicamente, più nulla da temere; non aveva, sotto questo aspetto, alcuna ragione per osteggiare l'azione dello Stato. Essa aveva, tuttavia, motivo di osteggiare la concorrente presenza dello Stato (come, nel nostro paese, la concorrente presenza della Chiesa) nel dominio e nello sfruttamento delle risorse, e di esigere che lo Stato le utilizzasse nella misura strettamente necessaria all'assolvimento di imprescindibili funzioni pubbliche, in modo che le risorse potessero, nella maggiore quantità possibile, essere impiegate nelle private attività economiche, fonti della prosperità della borghesia.

Il vero monumento giuridico dell'ideologia liberale, limitatrice dell'azione pubblica, è la costruzione dello Stato come ‛Stato di diritto': una costruzione cui la borghesia pone subito mano, come già si è constatato, con la Dichiarazione dei diritti del 1789 e la cui prima pietra è la proclamazione della proprietà come diritto sacro e inviolabile da parte dello Stato, che può espropriarla solo ‟quando la pubblica necessità, legalmente constatata, lo esiga in modo evidente". La sovranità dello Stato non è più illimitato potere: non può esercitarsi, nei confronti dei privati, se non nelle forme e nei modi previsti dalla legge; non può tradursi in atti che rechino pregiudizio alle ragioni dei privati se non per realizzare specifici fini pubblici, che la legge assegna ai pubblici poteri. Le leggi che giuridificano l'attività pubblica vincolano i pubblici poteri nei confronti dei privati interessati (nello Stato assoluto non li vincolavano se non di fronte al sovrano), ai quali è riconosciuta azione, davanti ad appositi organi di giurisdizione amministrativa, indipendenti dall'esecutivo, per l'annullamento degli atti contrari alla legge o viziati da eccesso di potere; oltre che azione, davanti all'autorità giudiziaria ordinaria, per il risarcimento del danno.

Ma il primitivo disegno borghese di uno Stato ‛minimo' si era già rivelato un'illusione; il sogno di una società tutta privata, solo ‛vegliata' dallo Stato, era presto svanito. La spinta al contenimento delle funzioni e degli apparati pubblici era stata subito contrastata, e finì travolta da un'opposta spinta, che nasceva anch'essa nel seno della borghesia ed era tesa all'accrescimento delle funzioni dello Stato, alla dilatazione degli apparati statali. Il segno visibile di questa tendenza è nella progressione dei bilanci dello Stato (v. Caracciolo, 1960, p. 28).

La classe dirigente denunciava il progressivo dilatarsi della spesa pubblica, che sottraeva risorse alle attività economiche; ma percepiva, sempre più chiaramente, che l'azione pubblica era condizione necessaria dello sviluppo economico. La percezione era immediata per le imprese militari, fonte principale dei disavanzi pubblici, che spianavano la strada all'espansione dei mercati; ma è un fatto che l'intervento pubblico si dispiegava anche in settori, come l'istruzione (l'istituzione della scuola di Stato e la sorveglianza statale sulle scuole private sono del 1857), dove il rapporto con lo sviluppo economico doveva apparire più remoto. La produttività economica delle funzioni sociali dello Stato era apparsa evidente quando, verso la fine del secolo, la tutela dell'igiene e della sanità pubblica era diventata compito dello Stato: il concetto era - così lo esprime Crispi - che lo Stato deve proteggere la salute dei cittadini, intesi come potenza economica e prezioso capitale della nazione (ibid., p. 65).

Fra i molteplici nuovi compiti dello Stato borghese i più onerosi sono quelli a carattere più strettamente economico. La borghesia predica il laissez faire, protesta per il dilatarsi della spesa pubblica; ma intanto chiede allo Stato, già prima dell'unificazione, di farsi carico della creazione delle infrastrutture economiche: ‟Ferrovie, porti, arsenali, prendevano significato eminente, la loro cura diventava preciso vanto del governo. ‛Fintantoché si tratta solo di opere pubbliche di non difficile esecuzione, o che eccedono le forze dell'industria privata, noi crediamo utile l'intervento diretto del potere sociale', affermava Cavour nel momento stesso in cui faceva l'elogio del massimo laissez faire" (ibid., p. 29).

Il vantaggio che la classe imprenditoriale ne ricava è duplice: non solo essa ‛socializza', addossandolo all'intera collettività nazionale, il costo delle infrastrutture, ma ricava ingenti lucri dall'appalto delle opere pubbliche. ‟Sappiamo come le vie ferrate, attraverso la vicenda di concessioni, appalti, privilegi, restassero durante diversi decenni uno dei luoghi dove più facili erano i redditi dei capitalisti, più facile il formarsi di grandiose fortune. Sicché proprio qui la borghesia italiana veniva formandosi una mentalità ‛statalistica', tutta protesa cioè ad aspettare dagli indirizzi e aiuti di governo le condizioni per il successo dei propri affari" (ibid., p. 31).

La classe imprenditoriale confessa, ormai, di non essere in grado di autogovernarsi. Oltre che in forma di commesse pubbliche, gli aiuti di governo sono sollecitati in forma di incentivi. Si instaura ‟il regime, già molto esteso nei primi anni dell'unificazione, di aiuto alle imprese private (sovvenzioni, anticipazioni senza interessi, finanziamenti di favore): si pensi al solo caso dei trasporti marittimi dove le sovvenzioni da noli per il trasporto della posta divennero presto, con le ‛convenzioni marittime' del 1861, del 1877, del 1893 e con i provvedimenti legislativi del 1885, veri ripianamenti di bilancio" (cfr. Cassese, in Zanni Rosiello, 1976, p. 116).

Si delinea chiaramente quella che Salandra definì, alla fine del secolo, come ‟la connessione fra la doppia tendenza all'accumulazione del capitale e all'estensione delle funzioni dello Stato" (v. Cassese, 1974, pp. 17 s.). Ed è giudizio storico ormai acquisito che ‟protezionismo, impegno delle banche nello sviluppo industriale, intervento dello Stato, tutti cioè gli aspetti che gli osservatori liberisti più risolutamente condannavano come indici del carattere ‛patologico' della vita economica e industriale italiana, appariranno invece come condizioni storiche che hanno reso possibile quella ‛forzatura' del processo industriale italiano che ha avuto una funzione decisiva nel consentire al nostro paese di inserirsi nell'Europa industriale"; un processo che, ‟appunto perché era quello di un paese ‛arretrato', non poteva svolgersi secondo gli schemi ‛classici' dello sviluppo industriale inglese, al quale nella sostanza erano rivolti gli occhi degli osservatori e critici liberisti" (v. Romeo, 19673, pp. 110 s.). Lo sviluppo ulteriore di questa tendenza - uno sviluppo che lo stesso Salandra aveva osteggiato - sono le dirette gestioni pubbliche, che dominano il principio del nuovo secolo: nel 1904 è attuata la municipalizzazione dei servizi pubblici locali; nel 1905 inizia l'esercizio statale delle ferrovie; nel 1907 la gestione pubblica delle linee telefoniche. Ed è significativo constatare come queste ‛statizzazioni' furono volute da governi liberali e, anzi, ‟durante l'unica fase storica nella quale l'economia italiana era improntata a principi veramente liberali" (v. Santoro, 1966, p. 114).

Le statizzazioni del secolo scorso e del principio del nuovo secolo avevano dilatato lo Stato-apparato, ma non ne avevano modificato la struttura: le istituzioni cui esse avevano dato luogo ‟hanno alcune caratteristiche in comune: sono strutture interne, non esterne all'amministrazione; il personale dirigente di queste strutture è burocratico" (v. Cassese, 1974, p. 16).

Fino a quando lo Stato si era astenuto dall'intervenire nell'economia, l'attività di diritto privato della pubblica amministrazione era rimasta un fenomeno marginale, limitato all'approvvigionamento, presso i privati produttori o rivenditori, degli arredi, delle attrezzature e simili dei pubblici uffici, mentre l'appalto delle opere pubbliche presentava, qual era regolato dalla legge del 1865 sui lavori pubblici, una natura mista, a un tempo pubblica e privata. Ma le cose cambiano, sia pure con molta gradualità, a misura che lo Stato si fa interventista e assume la diretta gestione di imprese, le quali impongono un'intensa attività di scambio. Al principio lo Stato manifesta una certa riluttanza a valersi, per questa, della propria ‛capacità' di diritto privato: ‟Così i servizi di trasporto gestiti da pubblici poteri furono configurati come concessioni di trasporto a favore dell'utente (per esempio, chi acquistava un biglietto ferroviario beneficiava di una concessione amministrativa); i corrispettivi dei servizi divisibili furono raffigurati come tasse anziché come prezzi; certe locazioni di immobili divennero concessioni d'uso di beni pubblici; nacquero figure nuove, come il rapporto d'impiego pubblico, e così via" (v. Giannini, 1970, p. 656).

Poi l'uso degli strumenti privatistici finisce con l'imporsi: è ‟significativo l'evolversi dei servizi delle poste e delle telecomunicazioni: dalle poste, servizio pubblico pagato con un ‛bollo', si passò ai telegrafi, servizio a ‛corrispettivo', ai telefoni per i quali il rapporto contrattuale fu senz'altro ammesso (ibid., p. 231).

Sono le ragioni dello statalismo, quelle stesse che avevano sollecitato l'intervento pubblico nell'economia, a dettare questa scelta. Esse militano per un'azione economica pubblica la più efficiente possibile, reclamano anch'esse l'adozione, da parte dei pubblici poteri, degli strumenti privatistici, di gran lunga più agili di quelli pubblicistici e certamente più congeniali all'esercizio di attività economiche, proprio perché nati dalla pratica di queste attività e in funzione di esse.

Le ulteriori statizzazioni che si realizzano nei decenni successivi, negli anni dieci e negli anni venti fino al principio degli anni trenta, determinano una profonda modificazione nell'organizzazione del pubblico potere in Italia. Le precedenti avevano dilatato il corpo amministrativo dello Stato; queste ne attuano, all'opposto, una sorta di duplicazione: ‟Dal 1910 comincia la costituzione degli enti: Istituto nazionale delle assicurazioni (1912), Banca nazionale del lavoro (1913), Consorzio per sovvenzioni su valori industriali (1914-1915), Consorzio di credito per le opere pubbliche (1919). Si creano le condizioni di esistenza di un ulteriore apparato, di un sistema amministrativo complementare diverso, di un fattore di stabilizzazione che non è più l'amministrazione di tipo tradizionale" (v. Cassese, 1974, p. 19).

Lo Stato interviene nell'economia sempre più largamente; ma, a differenza che nel primo periodo, non vi interviene direttamente: esso interpone, fra sé e il mercato, una pluralità crescente di enti pubblici; li crea perché assolvano, per suo conto, specifici compiti di intervento nell'economia e, tuttavia, non li rende partecipi della sovranità, non conferisce loro il carattere che contraddistingue l'autorità pubblica e del quale sono dotati gli enti pubblici tradizionali, ossia la potestà di imperio. Essi non godono di una ‛doppia capacità': hanno solo la capacità di diritto privato.

Dal corpo centrale dello Stato, entro il quale esso resta ente sovrano, detentore della potestà di imperio, si separa così un distinto e sempre più esteso corpo, dove la sovranità si veste delle stesse forme della supremazia di fatto dei privati; essa si tramuta in autonomia contrattuale e diventa arbitrio, come è, per definizione, arbitrio l'autonomia contrattuale.

Negli anni venti si delinea un nuovo fenomeno, che accentua ulteriormente questa separazione del potere economico dal potere amministrativo dello Stato: sorge la formula della società per azioni a partecipazione statale (la Romsa, l'Ansaldo-Cogne, l'Aipa, l'Agip, la Safni); fenomeno che si dilaterà negli anni trenta con la costituzione dell'IMI prima e dell'IRI dopo, fino a tradursi nell'imponente fenomeno del nostro tempo (cfr. Cassese, in Zanni Rosiello, 1976, p. 215).

Il potere economico dello Stato è così interamente ‛privatizzato': il fine dell'ente non è un fine pubblico ma, come per ogni società per azioni, è quello della divisione degli utili; ‛pubblico' è solo il soggetto proprietario delle azioni (di tutte o, nel caso di società a capitale misto, di parte delle azioni); ed è ‛pubblico' il motivo che, in assemblea o nel consiglio di amministrazione, induce il pubblico azionista al voto. A determinare questa progressiva privatizzazione del potere economico dello Stato contribuì, certo, quell'aspirazione a un'efficiente iniziativa economica pubblica che già aveva agito nel periodo precedente: la privatizzazione ‟presentava il grande vantaggio di permettere ai pubblici poteri di svolgere attività senza essere sottoposti alla pesante disciplina in materia di contratti e di contabilità propria dello Stato" (ibid., p. 214). Tutto ciò è vero, e tuttavia non renderemmo adeguata ragione del fenomeno se ci limitassimo a questa spiegazione. La condizione di autonomia attribuita agli enti e alle società ubbidiva anche a un'ulteriore esigenza: essi non dovevano essere soltanto la longa manus dello Stato sul terreno dell'economia; la loro autonomia non era solo il mezzo di un più efficace intervento. Erano deputati a svolgere, proprio in ragione dell'autonomia della quale fruivano, uno specifico compito: un compito di mediazione fra Stato e società civile, fra potere politico e mercato. Il personale posto a capo degli enti e delle società era sottratto alla dipendenza gerarchica del potere statuale e messo nella condizione di poter svolgere un autonomo ruolo: non di mera esecuzione della volontà politica ma, piuttosto, di coordinamento fra questa e gli interessi organizzati della società, di costante ricerca di un equilibrio fra l'una e gli altri. Nasce un modello di governo dell'economia che vuole contemperare opposte esigenze: quella, da un lato, di una direzione politica del processo economico e quella, dal lato opposto, del rispetto del mercato e delle sue leggi.

3. L'esperienza dei paesi socialisti

A partire dalla Rivoluzione d'ottobre i rapporti fra l'economia e il diritto hanno trovato un nuovo scenario nei paesi animati dall'obiettivo di realizzare delle società socialiste.

Tanto le statizzazioni realizzate all'Est quanto, del resto, le spinte verso le statizzazioni che, all'Ovest, sono state esercitate da partiti socialisti e laburisti, hanno ubbidito a un certo modo di pensare al socialismo, di costruirne l'immagine ideale. E il pensare al socialismo come a qualcosa che è già dentro al capitalismo e che è definibile come il suo ‟opposto simmetrico", secondo l'efficace espressione dei filosofi della nuova razionalità: ‟Piano versus mercato, amministrazione versus politica, ecc." (v. Veca, 1979, p. 20). In altre parole: se il capitalismo è mercato, il socialismo è, necessariamente, piano; se il primo è proprietà privata dei mezzi di produzione, il secondo non può essere che proprietà pubblica degli stessi. È una valutazione che non involge solo le ‛visioni' del socialismo; importa, come è evidente, un giudizio sulle realizzazioni storiche di società socialiste o di società di transizione al socialismo.

Non è un mistero che la logica meccanica dell'‟opposto simmetrico" abbia operato in tutte le rivoluzioni socialiste dell'Est europeo e asiatico; ovunque ha condotto e, salvo l'eccezione iugoslava, tuttora conduce alla proprietà statale dei mezzi di produzione, elevata dalle carte costituzionali - anche da quelle recenti come la Costituzione sovietica e quella cinese del 1977 - a ‟fondamentale forma di proprietà socialista". Ed è quanto meno singolare il constatare come nella citata Costituzione cinese la simmetria sia addirittura ostentata: la proprietà statale dei mezzi di produzione è proclamata come ‟inviolabile"; le è attribuito quel medesimo carattere di inviolabilità che, assieme alla sacertà (qui, laicamente, tralasciata), la rivoluzione borghese assegnò alla proprietà privata.

Secondo questo modello, a volerlo descrivere con estrema sintesi, il socialismo si costruisce con la formula: statizzazione dell'economia più socializzazione della politica. Poiché il primo termine di questo binomio è dato una volta per sempre e non è suscettibile di variazioni, l'avanzata del socialismo dipende tutta dallo sviluppo del secondo termine. La socializzazione della produzione è solo mediata: consegue alla partecipazione dei lavoratori all'esercizio del potere statale; si realizza per effetto di un doppio processo decisionale, che è prima ascendente, dai lavoratori ai vertici dello Stato, e poi discendente, dai vertici dello Stato alle unità produttive. Al livello delle singole unità produttive permane, in linea di principio, la separazione del produttore dalla proprietà (statale) dei mezzi di produzione; essa si dissolve, sempre in linea di principio, al livello dell'organizzazione complessiva del sistema sociale. Al primo livello il rapporto fra produttore e proprietario dei mezzi di produzione resta un rapporto di scambio tra forza lavoro e salario, per effetto del quale il produttore è espropriato di una quota del valore prodotto. Al secondo livello il valore non corrisposto come salario si tramuta in ricchezza dello Stato, e ciascun produttore concorre con gli altri produttori, secondo le forme della partecipazione al governo dello Stato, a determinarne la destinazione.

Il difetto di questo sistema è ormai conclamato: esso genera una forte contraddizione, strettamente legata a quello che è stato sopra definito il doppio processo decisionale che lo caratterizza. I meccanismi di delega, dalla base al vertice prima e poi dal vertice alla base, formano una catena lungo la quale, di anello in anello, la voce dei lavoratori si fa sempre più lontana, finché il sopravvento è preso dalla voce degli apparati. La proprietà statale dei mezzi di produzione e l'accentramento decisionale che essa comporta hanno fatto incombere sui paesi socialisti la minaccia di una degenerazione burocratica e tecnocratica, che arresta la transizione verso il socialismo.

In alcuni paesi vengono battute altre strade, fra le quali appare significativa quella iugoslava, basata sull'autogestione. Qui si è partiti dal ripudio della già instaurata proprietà statale dei mezzi di produzione, che E. Kardelj, l'ispiratore del nuovo sistema, ha definito come ‟tecnocratismo, assolutismo statale, conservatorismo statale, egemonismo panstatale, culto della personalità" (v. Scotti e Bressan, 1978, p. 18). Sono parole che proseguono l'analisi del rapporto base-sovrastruttura, e dall'analisi traggono indicazioni operative, anche entro una società che ha abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione; che individuano ancora una volta nel modo di essere dei rapporti di produzione (qui nella concentrazione statuale della proprietà) la causa condizionante l'organizzazione complessiva della società.

Gli ‟opposti simmetrici" sono qui superati, a cominciare dall'opposizione piano-mercato: ciascuna impresa autogestita opera nel mercato secondo un principio di libertà di iniziativa economica. ‟Sul mercato unitario iugoslavo le organizzazioni di lavoro associato sono libere di svolgere attività economiche e di altro genere e sono poste sul piede di parità nel realizzare il reddito e nel disporre dei risultati del lavoro, nelle condizioni poste dalla legge di mercato, dall'indirizzo impresso dalla società allo sviluppo economico e sociale e dal coordinamento dei rapporti sul mercato" (art. 20 della legge sul lavoro associato). E l'autonomia imprenditoriale di ciascuna impresa si spinge fino al punto di consentirle di finanziarsi con il diretto ricorso al risparmio di massa: ‟Al fine di incrementare la base materiale del lavoro, le organizzazioni del lavoro associato possono raccogliere mezzi in danaro dai cittadini e assicurare loro, oltre al rimborso dei mezzi raccolti, un compenso per i mezzi investiti sotto forma di interessi o garantire loro, in base alla legge, altri benefici" (art. 28 della Costituzione del 1974). Neppure regge l'opposizione amministrazione-politica, se si considera che è qui riconosciuta la specificità della funzione imprenditoriale. Questa è solo parzialmente collettiva, ossia affidata al consiglio operaio; la professionalità imprenditoriale non è soppressa: ogni impresa autogestita ha un organo direttivo, individuale o collegiale, che guida la gestione; è nominato dal consiglio operaio sulla base di concorso pubblico e dietro proposta di una commissione composta di rappresentanti di varie organizzazioni; esegue le decisioni del consiglio operaio, è responsabile del proprio operato di fronte a esso e può essere da esso rimosso dalla carica. È, a un tempo, organo di gestione dell'impresa e organo di controllo sull'impresa: ha, sotto questo secondo aspetto, il diritto e il dovere di impedire l'applicazione degli atti del consiglio che siano contrari alla legge (artt. 103 ss. della Costituzione).

L'odierna nota significativa del diritto dell'economia nei paesi dell'Est è l'introduzione di elementi di mercato entro un'economia pianificata. Certo non basta, a fare un mercato, l'esistenza di una pluralità di imprese dotate di una più o meno estesa autonomia decisionale rispetto allo Stato e poste in grado di agire in competizione tra loro. Questa è una condizione necessaria per instaurare un mercato, ma non è ancora una condizione sufficiente. È una condizione garantita nell'economia sovietica e solennemente dichiarata nell'ultima Costituzione (1977), che colloca tra i suoi principi fondamentali quello della ‟combinazione" fra pianificazione statale centralizzata e autonomia decisionale delle imprese, e individua il criterio di questa combinazione nel ‟calcolo economico" degli utili e delle perdite (art. 16). All'antico rapporto di subordinazione delle imprese agli organi statali di piano è così sostituito un rapporto dialettico, che abilita le imprese a discutere le direttive di piano e a sollecitare le modificazioni che il calcolo degli utili e delle perdite rende necessarie.

Ciò può evitare che la pianificazione statale centralizzata degeneri in governo burocratico dell'economia; non può, però, scongiurare il rischio che l'autonomia decisionale delle imprese degeneri, a sua volta, in governo tecnocratico delle unità produttive. Un'altra condizione è necessaria per costituire un mercato: bisogna che tutte le funzioni del processo economico, e non solo la funzione imprenditoriale, siano organizzate secondo regole di mercato. Il discorso attiene ai rapporti di finanziamento delle imprese (mercato del risparmio), ai rapporti fra imprese e consumatori (mercato del consumo), e attiene anche ai rapporti che investono l'erogazione della forza lavoro (mercato del lavoro). La separazione del lavoratore dal controllo dei mezzi di produzione è, in ogni modo di produzione combinato (e a tutt'oggi non ne esistono altri nè all'Ovest né all'Est), un dato di fatto che si potrà attenuare e ridurre (ad esempio, con l'autogestione in atto nella Iugoslavia), ma non eliminare. E allora si comprende che parlare di mercato del lavoro ha senso anche nei paesi socialisti e che neppure là si può negare ai lavoratori la possibilità di negoziare le condizioni e il prezzo di erogazione della forza lavoro. Questo è, precisamente, il senso della lunga e contrastata battaglia combattuta dagli operai polacchi al principio degli anni ottanta per ottenere un sindacato indipendente e per il diritto di sciopero.

L'ostacolo che si è frapposto, in quei paesi, all'instaurazione di un mercato nel significato più esteso dell'espressione è stato la convinzione della necessaria unità organizzativa, rappresentativa e operativa della classe operaia. Questa unità indivisibile doveva essere lo Stato, e non poteva essere che lo Stato. A partire dagli anni settanta in questa convinzione si sono aperte brecce: i primi passi sono stati compiuti in Iugoslavia, e non per il fatto in sé della soppressione della proprietà statale dei mezzi di produzione (presa in sè, la sostituzione della proprietà statale con la ‛proprietà sociale' dei mezzi di produzione può apparire un cambiamento solo nominale); si deve guardare alle innovazioni sostanziali. Ecco la più significativa per un discorso sul mercato nei paesi socialisti: l'autogestione dei lavoratori non è solo autogestione dei lavoratori in quanto produttori, è costruita anche come autogestione dei lavoratori in quanto consumatori, attraverso le comunità autogestite di interessi, che operano nei più diversi settori della domanda di beni o di servizi. C'è, perciò, autonomia, in Iugoslavia, della funzione dei lavoratori in quanto produttori (organizzati nelle imprese autogestite) dalla loro funzione di cittadini (organizzati nelle istituzioni politiche rappresentative) e, ancora, dalla loro funzione di consumatori (organizzati nelle comunità di interessi autogestite). Su questi elementi si costruiscono i soggetti tra i quali instaurare rapporti di mercato, anche in sistemi che hanno ripudiato la proprietà privata dei mezzi di produzione. Solo la futura esperienza storica, tuttavia, potrà dire se rapporti di mercato possono realmente instaurarsi permanendo il principio del partito-guida, che è mediatore e arbitro di tutti i conflitti che insorgono nella società, di tutte le decisioni ultime su ciò che si deve produrre e si deve consumare.

4. Liberismo e dirigismo negli enunciati costituzionali

La libertà economica resta, nelle moderne costituzioni occidentali, libertà borghese per eccellenza; conserva il significato, originario, di prerogativa che spetta al cittadino in quanto tale e non per fruizione di una concessione politica. Tuttavia ha perduto, e perduto da tempo, quei connotati antistatalistici e giusnaturalistici che al principio l'avevano accompagnata. Nella storia del pensiero economico questa svolta è sottolineata da Keynes: ‟Liberiamoci - è la nota esortazione che decreta, nel 1926, la Fine del laissez faire - dai principi metafisici o generali sui quali, di tempo in tempo, si è basato il laissez faire. Non è vero che gli individui posseggano una ‛libertà naturale' imposta sulle loro attività economiche". E il nostro Emaudi ha, addirittura, insinuato che un simile liberismo non sia mai stato teorizzato dagli economisti classici e sia, piuttosto, ‟il fantoccio inventato dai loro avversari". Per Einaudi il liberismo non si oppone, né si sarebbe mai opposto, all'intervento dello Stato nell'economia: ‟Liberisti sono coloro i quali, ragionando, cercano di precisare le ragioni ed i casi ed i limiti dell'intervento dello Stato e degli altri numerosi e variabilissimi enti pubblici nelle cose economiche" (v. Einaudi, 1956, pp. 8 ss.).

Oggi un governo pubblico dell'economia è presente, in diverso grado e con diversi caratteri, in tutti i sistemi capitalistici; ubbidisce a uno ‛stato di necessità' dell'economia capitalistica, storicamente dimostratasi incapace di autogovernarsi secondo gli interni meccanismi del mercato, oltre che inidonea a garantire, da sola, uno sviluppo economico equilibrato e coordinato con il progresso civile e sociale. Di qui l'universale riconoscimento che spetta allo Stato il compito di assicurare il funzionamento e lo sviluppo del sistema economico (v. Ottaviano, 1977, pp. 200 ss.; 1979, pp. 1 ss.), insieme all'ulteriore compito - particolarmente accentuato dalle carte costituzionali più recenti - di coordinare le esigenze dello sviluppo economico con quelle della giustizia sociale e del pieno sviluppo della persona. I giuristi registrano, al tempo stesso, il mutato carattere della libertà economica privata: per il fatto di essere inserita in un sistema di pubblico governo dell'economia, essa si presenta - come recentemente è stata definita - quale libertà di svolgimento dell'impresa ‟nel quadro stabilito dal potere pubblico" (ibid.).

Gli elementi costitutivi di questo quadro sono, nella Costituzione italiana del 1947, l'imposizione di limiti all'iniziativa economica privata, atti a impedirle di svolgersi ‟in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana" (art. 41, comma 2); sono i ‟programmi e i ‟controlli" idonei a indirizzare e coordinare l'attività economica a ‟fini sociali" (art. 41, comma 3); sono le stesse attività economiche pubbliche, cui il medesimo comma 3 dischiude un campo d'azione altrettanto esteso, come si dirà oltre, quanto le attività economiche private; sono, infine, le misure di autoritativa avocazione di imprese o di categorie di imprese alla gestione pubblica o alla gestione sociale, quando ciò sia imposto da ‟fini di utilità generale" e si tratti di servizi pubblici essenziali o di fonti di energia o di situazioni di monopolio (art. 43).

Tra liberismo e dirigismo, per i Costituenti italiani del 1947, non dovevano più esserci ragioni di conflitto ideale, di opposizione di principio. Nel terzo decennio del secolo Keynes aveva - come si è ricordato - rotto i ponti con l'economia classica e ripudiato un postulato della filosofia liberale che Bentham aveva affermato e che Marx aveva combattuto, ossia l'idea che il laissez faire in economia fosse un diritto di natura, antecedente allo Stato e da questo inviolabile, un diritto innato dell'uomo. Nel decennio successivo, proprio in Italia, era stato pronunciato il divorzio del liberalismo dal liberismo: Croce aveva preso le distanze da una dottrina economica che sentiva vacillare ovunque, sotto i colpi della Rivoluzione d'ottobre come nella nascente politica del New Deal. Scriveva, nel 1931, che le ragioni della libertà non coincidono con il cosiddetto liberismo economico, ‟col quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente". La stessa questione della difesa oppure dell'abolizione della proprietà privata era ‟questione di esperienza e non di ideali", dipendente dall'accertare se davvero l'ordinamento capitalistico comporti crisi economiche e distruzioni di ricchezza, nel qual caso ‟il liberalismo non potrebbe se non approvare o invocare per conto suo quella abolizione" (v. Croce, 1932, pp. 36 s.).

La possibilità di una convergenza fra liberismo e dirigismo aveva già, ai tempi dell'Assemblea costituente, più di un suffragio nell'esperienza storica dell'Occidente, in quella del New Deal come in quella laburista. La costruzione di un modello di economia mista non comportava, del resto, un salto nel buio: l'economia italiana, già nell'eredità liberale, e poi ancora in quella fascista, era in larga misura un'economia interventista, nella quale l'accumulazione del capitale, secondo la ricordata valutazione di Salandra, era andata di pari passo con l'estensione delle funzioni dello Stato. Il problema non stava nella scelta, improponibile, fra liberismo e dirigismo; si trattava, piuttosto, di dare equilibrio e possibilità di sviluppo a un'economia già dominata da smisurati apparati pubblici e nella quale lo Stato già svolgeva un compito immane e ormai imprescindibile. La ‛costituzione economica' che ne risultò presenta un carattere singolare: dissocia l'economia privata dall'economia di mercato; rinuncia a esaltare la prima, riafferma piuttosto il valore della seconda.

Più analiticamente, la scelta costituzionale si può scomporre in questi quattro punti: 1) affievolimento, tra i diritti di libertà costituzionalmente garantiti, della libertà economica dei privati; 2) legittimazione, per converso, di un governo politico dello sviluppo economico; 3) abbandono del primato dell'iniziativa economica privata sull'iniziativa economica pubblica; 4) riaffermazione, per contro, del primato dell'economia di mercato, come limite alla direzione politica dello sviluppo economico e come criterio di condotta per l'attività economica pubblica.

Sotto il primo aspetto appare degno di considerazione che la libertà di iniziativa economica privata, riconosciuta dal comma 1 dell'art. 41 , non riceva quel carattere di ‟diritto inviolabile" che è, invece, attribuito alle libertà civili (artt. 13 ss.); ha perso, come li ha persi anche la proprietà, gli antichi connotati di sacertà e inviolabilità; non è menzionata nei ‛principi fondamentali'; non è fra quelle libertà che, a norma della Costituzione, è compito della Repubblica difendere (a differenza di quanto dispone la Costituzione spagnola del 1978, che un simile compito attribuisce allo Stato); è certamente, fra le libertà riconosciute dalla legge fondamentale italiana, quella meno garantita, la preoccupazione prevalente del nostro costituente essendo, piuttosto, quella di evitare che l'esercizio di questa libertà leda determinati valori sociali o umani (l'‟utilità sociale", la ‟sicurezza", la ‟dignità umana", di cui al comma 2 dell'art. 41) o comprometta le realizzazioni dei ‟fini sociali" di cui al comma 3.

La Costituzione d'altra parte supera il criterio introdotto, in epoca fascista, dalla Carta del lavoro: la Dichiarazione IX stabiliva che ‟l'intervento dello Stato nella produzione privata ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l'iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell'incoraggiamento e della gestione diretta". La Carta del lavoro instaurava così un preciso rapporto fra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata: la produzione economica era, in linea di principio, rimessa alla libera iniziativa dei privati; lo Stato si considerava legittimato a intervenire, nelle diverse forme ‟del controllo, dell'incoraggiamento e della gestione diretta", solo in presenza di specifiche condizioni: quando l'iniziativa privata si fosse rivelata assente o insufficiente oppure quando, indipendentemente da ciò, fosse insorta la necessità di realizzare gli ‟interessi politici dello Stato". La dottrina economica del fascismo aveva fatto propri, in tal modo, i postulati della dottrina economica liberale: essa riconosceva il primato dell'iniziativa economica privata; attribuiva all'intervento pubblico nell' economia carattere subalterno rispetto all'iniziativa privata.

Il rapporto fra iniziativa economica pubblica e privata, a suo tempo instaurato dalla Carta del lavoro, è modificato dalla Costituzione della Repubblica, la quale riconosce, nel comma 1 dell'art. 41, la libertà di iniziativa economica privata; ma, a differenza della Carta del lavoro, non le attribuisce il primato sull'iniziativa economica pubblica: essa colloca l'una e l'altra iniziativa su un piano di parità. È significativo, sotto questo aspetto, il comma 3 il quale stabililisce che ‟la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali". Da ciò si è desunto, sia pure indirettamente, che ‟come vi è il principio di libertà della iniziativa economica privata, espressamente enunciato nel primo comma dell'art. 41, così deve intendersi sussistente un analogo principio di libertà della iniziativa economica pubblica" (v. Casanova, 19742, p. 193). Oggi lo Stato non ha più bisogno, come in passato, di giustificare le specifiche ragioni del proprio intervento nell'economia; è libero di valutare, con piena discrezione, l'opportunità e l'estensione del proprio intervento. Oggi ‟non esistono - si legge nella relazione programmatica presentata nel 1973 dal ministro delle Partecipazioni statali - campi sottratti a priori all'attività imprenditoriale dello Stato". L'economia cessa di essere terreno ‛naturale' dell'iniziativa privata per diventare terreno sul quale si misurano, senza alcuna predeterminazione delle rispettive sfere di intervento, tanto l'iniziativa privata quanto l'iniziativa pubblica.

Questa generale possibilità di intervento non è però senza limiti: sono venuti meno, nella Costituzione, i preesistenti limiti di ordine quantitativo; permangono, tuttavia, limiti di ordine qualitativo, attinenti cioè alle modalità dell'intervento pubblico nell'economia. È significativa, sotto questo aspetto, la norma dello stesso comma 3 dell'art. 41: da essa si è potuto rilevare che l'impresa pubblica e l'impresa privata sono dalla Costituzione ‟considerate in posizione giuridicamente paritaria e di concorrenza" (ibid.; v. anche, per più estesi riferimenti, Roversi-Monaco, 1977, pp. 385 ss.). Il riesame della norma costituzionale sotto questo diverso aspetto è, in effetti, illuminante: essa mostra in qual modo la Costituzione protegga la libertà di iniziativa economica privata, garantita dal comma 1; in qual modo la protegga, in particolare, di fronte all'intervento pubblico nell'economia. La protezione non consiste più, come nella Carta del lavoro, in una limitazione delle possibilità di intervento pubblico; essa consiste, invece, in una limitazione delle m o d a l i t à dell'intervento pubblico: lo Stato deve, allorché interviene nell'economia, rispettare le medesime regole di comportamento alle quali sono sottoposti gli operatori privati.

L'esistenza di un principio di libertà dell'iniziativa economica pubblica è confermata dall'art. 43. Un limite alle possibilità di intervento pubblico nell'economia permane, nella Costituzione, solo nelle due ipotesi previste da questa norma: quando la sostituzione dei pubblici poteri ai privati avvenga in forma autoritativa (‟la legge riserva originariamente [...] allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese") o in forme espropriative (‟la legge [...] trasferisce, mediante espropriazione, e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici, ecc., determinate imprese o categorie di imprese"). In queste ipotesi la legge deve giustificare le specifiche ragioni dell'intervento dello Stato: deve trattarsi di imprese o categorie di imprese che ‟si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio"; deve, inoltre, trattarsi di imprese o di categorie di imprese che ‟abbiano carattere di preminente interesse generale". Il rapporto fra la norma implicita nel comma 3 dell'art. 41 e quella dell'art. 43 appare evidente: non c'è alcun limite alle possibilità di intervento pubblico nell'economia quando questo intervento si svolga in condizione giuridicamente paritaria e di concorrenza rispetto all'iniziativa privata; c'è, invece, un preciso limite quando l'intervento pubblico escluda d'autorità gli operatori privati da determinate imprese o da determinati settori della produzione e valga, perciò, a ridurre coattivamente l'area dell'iniziativa economica privata. Dall'art. 43 si trae, dunque, conferma dell'esistenza di un generale limite qualitativo all'iniziativa economica pubblica: esso configura come eccezionale la sostituzione autoritativa dei pubblici poteri agli operatori privati; conferma, con ciò, che la regola è quella già implicita nell'ultimo comma dell'art. 41 - della giuridica parità di condizioni e della concorrenza fra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata.

5. Il problema centrale: attività economiche pubbliche, criterio di economicità, principio di legalità

I principi che governano le attività economiche pubbliche vanno identificati, in primo luogo, nell'art. 41, comma 3, della Costituzione, quale suprema fonte regolatrice delle funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività economiche pubbliche, oltre che di quelle private. La norma è significativa sotto un triplice aspetto: 1) sottrae l'attività economica pubblica, benché attività pubblica, allo ‛statuto' della pubblica amministrazione e la sottopone, in quanto attività economica, a uno ‛statuto' costituzionale comune a quello dell'attività economica privata; 2) indica nei programmi e nei controlli gli strumenti mediante i quali indirizzare e coordinare a fini sociali l'attività economica pubblica come quella privata; 3) richiede che sia la legge a determinare i programmi e i controlli o quanto meno (la Corte costituzionale ha inteso questa riserva di legge come riserva relativa) a determinare competenze e procedure per la formulazione di programmi e controlli.

Sotto il primo aspetto può considerarsi come attuativa del precetto costituzionale la legge 22 dicembre 1956, n. 1589, ai sensi della quale le partecipazioni azionarie dello Stato sono ‟inquadrate in enti autonomi di gestione, operanti secondo i criteri di economicità" (art. 3, comma 1). L'autonomia giuridica degli enti, cui è affidata la gestione delle partecipazioni, sottrae l'attività degli enti alla subordinazione gerarchica rispetto al potere esecutivo, garantendone l'autonomia decisionale, giudicata necessaria ad attività di natura economica destinate a svolgersi secondo le condizioni di mercato.

I ‟criteri di economicità" sono - per comune interpretazione, convalidata dalle relazioni della Corte dei conti al Parlamento - criteri di autosufficienza economica. Agli enti di gestione è imposto di operare con criteri imprenditoriali: essi non possono erogare a fondo perduto la propria dotazione; debbono tendere a riprodurre il capitale investito nelle partecipazioni. Il rispetto di questi criteri condiziona, ma non esclude, la possibilità di realizzare interessi pubblici o fini sociali: tra diverse scelte imprenditoriali, compatibili con i criteri di economicità, l'azionista privato opterà per quella che gli assicura il più alto reddito (o rinuncerà ad assumere la partecipazione se nessuna prospettiva di profitto gli è dischiusa); l'azionista pubblico privilegierà quella più adeguata ai fini pubblici o sociali che sono alla base della partecipazione, anche se ciò importerà la rinuncia al profitto. Per questo riguardo gli enti di gestione sono stati definiti da una dottrina come strutture ‛neutre' rispetto ai fini da perseguire: a essi non competono autonome valutazioni circa l'interesse pubblico cui rivolgere la propria attività; la loro autonomia decisionale attiene esclusivamente alla scelta dei mezzi idonei, nel rispetto dei criteri di economicità, alla realizzazione dei fini che di volta in volta vengono assegnati loro dalla sede politica (v. Roversi-Monaco, 1977, pp. 494 ss.).

Sotto il secondo aspetto appare significativo il fatto che il d. p. r. 14 giugno 1967, n. 554, abbia sottratto gli enti di gestione tanto al generico potere di direttiva governativa previsto originariamente dallo statuto IRI (art. 1, statuto 1943: ‟Spetta al Consiglio dei Ministri di stabilire nell'interesse pubblico l'indirizzo generale dell'attività dell'Istituto"), quanto agli specifici poteri di direttiva riconosciuti dalla legge n. 1589 del 1956 al ministro delle Partecipazioni statali (cui erano stati devoluti ‟tutti i compiti e le attribuzioni" già spettanti ‟al Consiglio dei Ministri, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai singoli ministeri relativamente all'IRI, all'ENI e a tutte le altre imprese con partecipazione statale diretta o indiretta"). Il disegno attuato con il d. p. r. n. 554 è stato di inserire le direttive governative agli enti di gestione, in attuazione del precetto costituzionale, entro un quadro di direzione programmata dell'economia.

Il rapporto di direttiva è regolato da atti aventi forza di legge, in adempimento della segnalata riserva di legge di cui al citato art. 41, comma 3, della Costituzione. Precise regole legislative definiscono la competenza alla formulazione delle direttive e impongono una determinazione dell'indirizzo di governo secondo il metodo della programmazione. I poteri di direttiva sono ripartiti fra il CIPE e il ministro delle Partecipazioni statali: al primo spetta di formulare, su proposta del ministro, il giudizio di conformità dei programmi degli enti di gestione al programma economico nazionale, nonché le direttive generali per l'attuazione dei programmi stessi; al secondo compete di comunicare agli enti di gestione le deliberazioni del CIPE e di impartire le direttive necessarie per la loro attuazione (artt. 2 e 3, d. p. r. 14 giugno 1967, n. 554). Nessuna direttiva può, dunque, essere rivolta, che non sia una direttiva a carattere programmatico (di competenza del CIPE) o esecutiva di un atto a carattere programmatico (di competenza del ministro) (v. Pavone-La Rosa, 1982, pp. 175 ss.; v. Galgano, 1982, pp. 18 ss.).

Le funzioni istituzionali di indirizzo e di coordinamento sulle attività economiche pubbliche si esercitano, oltre che mediante programmi, anche per mezzo di controlli. Sotto questo aspetto vengono in considerazione le verifiche da parte del CIPE degli stati di attuazione dei programmi degli enti di gestione (art. 2, comma 1, d. p. r. n. 554) e le funzioni di vigilanza sugli enti di gestione spettanti al ministro delle Partecipazioni statali e implicanti il potere di ottenere notizie sull'andamento delle gestioni, di controllare l'attuazione dei programmi e delle direttive impartite e, infine, di rilasciare le autorizzazioni (art. 3, d. p. r. n. 554).

Ulteriori regole, che istituiscono un controllo parlamentare sulla politica governativa delle partecipazioni statali, sono state fissate dalla legge 12 agosto 1977, n. 675.

Ci si può domandare se gli organi dello Stato siano rigidamente vincolati al rispetto delle norme di legge che definiscono competenze e procedure per la formazione dell'indirizzo di politica economica, per la formulazione delle conseguenti direttive e per l'esercizio dei controlli sulle attività economiche pubbliche, o se essi, invece, abbiano la facoltà di disattenderle, avvalendosi della propria posizione di organi investiti di poteri sovrani, sovraordinati agli enti pubblici economici. L'esperienza concreta attesta che, di fatto, esse vengono assai spesso disattese e che al modello legale si è sovrapposto un modello ‛reale' che tende ad asservire gli apparati di economia pubblica alle esigenze di potere dei partiti al governo. Il nostro convincimento è che anche nel governo dell'economia, come in ogni altra sfera della vita pubblica, lo Stato è vincolato, nell'esercizio dei suoi poteri sovrani, dal principio di legalità. Esso fruisce di poteri autoritativi solo nei casi, solo entro i limiti e solo nel rispetto delle competenze e delle procedure fissate dalla legge. Ciò non è solo il portato dei generali principi sullo Stato di diritto. Nella nostra materia concorrono più specifici principi, sopra richiamati, connessi alle peculiarità delle attività economiche, ancorché pubbliche: ci si riferisce alla riserva di legge che il comma 3 dell'art. 41 della Costituzione formula riguardo ai programmi e ai controlli sulle attività economiche pubbliche, oltre che su quelle private.

La norma che impone di agire ‟secondo criteri di economicità" è rivolta agli enti di gestione; ma essa limita anche i poteri di direttiva del ministro delle Partecipazioni statali, oltre che i poteri che, per tramite del ministro, esercita il CIPE (v. Merusi, 1965, pp. 327 ss.; v. Cirenei, 1973, pp. 452 ss.). Le direttive governative, per quanto ispirate da esigenze di interesse generale, non potranno tradursi in comandi che importino violazione, da parte dell'ente di gestione, della norma di legge che impone loro di agire secondo criteri di economicità o, ciò che è lo stesso, in modo imprenditoriale (v. Guarino, 1962, pp. 32 ss.). L'interesse generale, del quale gli organi governativi si facciano interpreti, potrà essere realizzato solo compatibilmente con l'utilizzazione in modo imprenditoriale del fondo di dotazione e, inoltre, con la gestione imprenditoriale delle società; potrà essere realizzato per usare un'espressione sintetica - solo compatibilmente con il rispetto delle leggi economiche. Nella norma sui ‟criteri di economicità" si può, in definitiva, ravvisare un vero e proprio atto di autolimitazione dello Stato: autolimitazione in favore di una ‛legge' di formazione non statale, in favore delle leggi di mercato.

Lo statuto costituzionale dell'attività economica pubblica ha implicazioni ulteriori: i pubblici poteri non emettono solo direttive; essi finanziano l'attività economica pubblica. Quali i criteri in base ai quali viene soddisfatta la richiesta di finanziamento che proviene dalle imprese pubbliche? Altra regola non esiste, in materia, se non la generale regola, costituzionale, secondo la quale ogni spesa pubblica deve essere approvata con legge (art. 81). La materia è, perciò, governata dal principio della discrezionalità politica: il Parlamento è sovrano nel decidere se e in quale misura aumentare il fondo di dotazione delle imprese pubbliche, se e in quale misura garantire i debiti che le imprese pubbliche contraggono con il sistema bancario. L'uso che è stato fatto di questa discrezionalità politica ha messo capo a una proliferazione di leggi e ‛leggine' di spesa, dettata non da coerenti indirizzi di sviluppo economico, bensì da contingenti politiche assistenziali, di ‛salvataggio' di imprese destinate, assai spesso, a operare in perdita. Nessun'altra coerenza logica è possibile ravvisare all'interno delle tante leggi in parola, se non la logica del contenimento dei conflitti sociali, applicata secondo le più pressanti esigenze del momento.

È questa discrezionalità politica compatibile con i criteri di economicità? È compatibile con lo statuto costituzionale dell'attività economica pubblica? O questo statuto non implica, piuttosto, la necessità di un'autolimitazione della ‛capacità' di erogazione finanziaria dello Stato? Non può dirsi rispettato il principio della parità di condizioni dell'attività economica pubblica e dell'attività economica privata se la prima fruisce, avendo alle spalle la potestà fiscale, di una illimitata possibilità di provvista di mezzi finanziari. Sono interrogativi che ancora attendono risposta dall'odierno diritto dell'economia. Finché una esauriente risposta non sarà data, gli equilibri fra dirigismo e liberismo rimarranno incerti, e un vasto terreno dell'azione pubblica, qual è il terreno dell'economia, resterà immune dal principio di legalità.

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