DISOCCUPAZIONE

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

DISOCCUPAZIONE (XIII, p. 22)

Francesco Spinedi

Il fenomeno di nuclei di popolazione economicamente attiva, capace e desiderosa di lavoro, ma senza impiego, ha accompagnato costantemente, in ogni fase l'andamento dei mercati anche nel sec. XIX. Si trattava, in periodi normali, di una disoccupazione che non superava, per ogni specialità di lavoro, il 5% degli operai esistenti; quindi era fenomeno di usuale e forse anche necessario dinamismo del mercato, il quale rappresentava una economia in sviluppo e in progresso, con produzioni varianti verso forme dianzi inesistenti. Ma la variazione non assumeva mai un'ampiezza ciclonica: il moto usuale del mercato non era mai alterato nelle sue principali determinanti. In quelle circostanze la massa di lavoro disoccupata rappresentava la necessaria riserva di mano d'opera per attuare i nuovi impianti, per accompagnare lo sforzo umano, organizzato nel mercato, verso le nuove realizzazioni rese necessarie dal progresso tecnico o dai gusti dei redditieri-consumatori. Il fenomeno della disoccupazione che si è manifestato in conseguenza della crisi mondiale non soltanto si differenzia da quello dei periodi normali, a causa della mole assunta, ma anche per le ragioni che l'hanno determinato e per i caratteri che lo individuano. La disoccupazione causata dalla depressione mondiale ha tutti i caratteri della permanenza come fenomeno di grandi masse, poiché nessuna delle forze reattive che avrebbero dovuto, automaticamente, provvedere al suo naturale assorbimento, si è mostrata capace di funzionare. La rottura del sistema economico capitalistico si è manifestata, con questo sintomo, più gravemente che con altri: le cause di questa reattività del mercato del lavoro alla pressione dei bassi prezzi, sono molteplici.

Vediamone alcune. In conseguenza delle circostanze di fatto nelle quali si è trovata l'economia mondiale dopo il conflitto, molte delle regioni, specie quelle a carattere coloniale che più avevano possibilità di assorbire mano d'opera, sono state spinte verso un protezionismo salariale e antimmigratorio che ha alterato profondamente l'equilibrio spaziale delle remunerazioni. A parità di sforzo e di rendimento, si sono avute contemporaneamente remunerazioni estremamente varie fra paese e paese. Questo fatto, che ha profondamente alterata una delle condizioni essenziali per la stabilità del regime capitalistico internazionale, appena si è aperta la crisi mondiale, ha reagito sfollando i ranghi dell'esercito dei produttori. La disoccupazione rappresenta non più la massa di manovra necessaria per assicurare il dinamismo del mercato in progresso: essa diventa un fatto endemico il quale denota - soprattutto nei paesi ricchi - la resistenza dei salarî su posizioni che non corrispondono al rendimento concorrenziale dei lavoratori, ma si dimostrano molto superiori. Delle due alternative possibili: riduzione dei salarî e aumento della popolazione occupata; alti salarî e forte disoccupazione, la forza politica assunta dai sindacati operai, come organizzazioni di classe proiettate fuori o contro lo stato, riesce quasi sempre a imporre la seconda. Alla disoccupazione si provvede mediante contributi corrisposti parte dall'erario e parte dagli operai occupati. Nonostante il gravame netto che questo ordinamento salariale impone all'economia sociale, le tariffe delle remunerazioni non vengono modificate e tutta l'economia produttiva del paese risulta così orientata su un piano di alti salarî.

La persistenza di un ordinamento siffatto, in evidente contrasto con le ipotesi della concorrenza anche nel campo del lavoro, è spiegata facilmente con quelle provvidenze protezionistiche salariali di cui si è discorso dianzi.

La disoccupazione nelle grandi nazioni dotate di alto potenziale demografico, senza economie coloniali sviluppate, può essere evitata soltanto con una forte e lungimirante politica economica signoreggiata dall'intervento dello stato. La concezione statica degli economisti tradizionali, detta del "fondo salarî" trova in questa nuovissima realtà manifestata dalla crisi, una forte smentita. E infatti soltanto mediante l'intervento dello stato come imprenditore di opere, organizzatore di aziende, si è potuto in Italia, in Germania, negli Stati Uniti e altrove, riassorbire prontamente masse notevoli di popolazione disoccupata.

Le concezioni tradizionali dei rimedî che avrebbero potuto risolvere questo perturbamento, eliminando la causa essenziale, sono ormai completamente decadute. La limitazione delle nascite (si può dimostrare statisticamente) non significa riduzione della disoccupazione, perché il mondo, con le infinite capacità produttive che tuttora racchiude in sée, soffre anzi più per mancanza che per eccesso di mano d'opera. Esaminando le statistiche di questo fenomeno, può dirsi che la disoccupazione, come fenomeno di congiuntura, non ha nessun. rapporto con il movimento della popolazione. L'unico vero rimedio di questo grave male sociale consiste nel disporre di attrezzature tecnico-economiche destinate a mobilitare il risparmio nazionale eventualmente inoperoso, oppure nella creazione, nei limiti prudenziali in cui è opportuna, di "risparmio forzato" e ciò nella misura in cui sia necessario disporre di capitale in potenza, per dare lavoro ai disoccupati. Come si è detto (v. crisi economiche, App.), questa azione sul mercato può essere soltanto esercitata dallo stato, il quale sia anche l'effettivo e supremo regolatore dell'attività economica della nazione. Così facendo, fra il "risparmio forzato" conseguito e la ricchezza nuova creata dai disoccupati impiegati, il mercato riesce a utilizzare in pieno la capacità di lavoro del popolo considerato. Così anche mediante una continua e rigida selezione delle possibilità di utilizzazione delle varie qualità di lavoro che ciascun operaio può produrre, si può avviare a soluzione definitiva questo grave problema.

Una tutela inelastica del patrimonio di capacità specifiche, proprio di ogni operaio qualificato, per la quale si preferisca di lasciarlo disoccupato, qualora esso non possa trovare impiego adeguato alle sue possibilità di lavoro, anzi che utilizzarlo in occupazioni temporanee di fortuna, in attesa che si manifestino condizioni favorevoli per la sua utilizzazione, sembra da scartare come criterio di governo, specie nelle nazioni proletarie. L'esperienza ha dimostrato che un operaio qualificato, anche se temporaneamente utilizzato in lavori di qualità inferiore a quelli che corrispondono alla sua specialità tecnica, non perde la sua qualificazione (il che sarebbe un danno sociale da evitare), ma resta in posizione di attesa fino alla sua utilizzazione secondo il rango cui appartiene. Quindi fra la politica dei sussidî e quella dei lavori pubblici (nei quali, di regola, vengono utilizzati gli operai non qualificati), è sempre meglio seguire la seconda anziché la prima: anche per evidenti ragioni morali. In conclusione, il fenomeno della disoccupazione sembra avere assunto in questi ultimi anni di crisi una diversa significazione secondo i paesi nei quali si manifesta. Nelle nazioni ricche, a scarso incremento demografico, rappresenta, di regola, la tutela, spinta oltre i limiti della convenienza sociale, di un certo tenore di vita e di una qualificazione tecnica specifica del lavoro che si ritiene di dover presidiare in ogni lavoratore che non trovi la sua precisa utilizzazione nel rango di impiego che corrisponde alla sua preparazione (è il caso dei minatori inglesi che non intendono dedicarsi a nessun altro lavoro anche se privi di impiego per anni). Qui può dirsi che si verifichi, in pieno, la conseguenza di quella politica di sopraremunerazione, cioè di elevati salarî corrisposti a chi lavora, la quale inevitabilmente tende a limitare l'assorbimento di unità di lavoratori. Un rimedio sarebbe, dunque, da ricercare in una revisione intelligente e coraggiosa del regime salariale in vigore, in modo da adeguarlo a quello che è il vero, effettivo, concorrenziale rendimento degli operai. Con questa revisione non si intaccherebbe il tenore di vita esistente se non nella misura in cui esso risulta eccedente alla normalità.

Nei paesi proletarî, cioè privi di disponibilità immediate e pronte di materie prime, la disoccupazione può rappresentare la temporanea difficoltà di assorbimento delle nuove unità lavorative da parte del complesso produttivo nazionale, dato che l'emigrazione è ormai quasi del tutto cessata, e ogni stato cerca di mantenere in patria, per ragioni politico-sociali, le generazioni che prima della guerra si recavano fuori dei confini. A questo fenomeno è di ausilio risolvente l'intervento dello stato con la politica dei lavori pubblici o altra equivalente (autarchia), la quale attribuisce a ogni lavoratore un rimerito adeguato al modesto tenore di vita che è proprio di questi paesi e che serve, comunque, a mantenere sana e crescente la razza.

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