distretto industriale Sistema produttivo costituito da un insieme di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, caratterizzate da una tendenza all’integrazione orizzontale e verticale e alla specializzazione produttiva, in genere concentrate in un determinato territorio e legate da una comune esperienza storica, sociale, economica e culturale.
Cenni storici. Il primo autore a studiare questa specifica forma di organizzazione della produzione è stato A. Marshall, che in Principles of economics (1890) ne delinea le principali caratteristiche. Uno degli elementi fondamentali è il concetto di ‘atmosfera industriale’: quando in un territorio circoscritto lavora un numero molto elevato di soggetti che svolgono mestieri simili, «i misteri dell’industria non sono più tali. È come se stessero nell’aria, e i fanciulli ne apprendono molti inconsapevolmente». È come se l’esperienza necessaria per svolgere un determinato lavoro (non necessariamente solo manuale) si sviluppasse in maniera innata, quasi «respirandola nell’aria». Secondo G. Becattini (Il mercato e le forze locali: il distretto industriale, 1987), uno dei maggiori studiosi italiani di d. i., ciò che unisce fortemente tra loro le imprese che vi appartengono «è una rete complessa e inestricabile di economie e diseconomie esterne, di congiunzioni e connessioni di costo, di retaggi storico-culturali che avvolge sia le relazioni interaziendali che quelle più squisitamente personali». I rapporti professionali si intrecciano con relazioni sociali di carattere informale, che facilitano la diffusione della conoscenza tra gli attori.
Capacità tecnologiche, opportunità e vantaggi. Le imprese del d. i., pur essendo nella maggior parte dei casi di dimensioni limitate, mostrano spesso una capacità tecnologica e innovativa medio-alta, soprattutto grazie all’elevato livello di specializzazione, che consente a ognuno di concentrarsi su un numero ristretto di fasi produttive e di adottare sistemi produttivi avanzati, che permettono una diminuzione dei costi di transazione rispetto a quelli di coordinamento. La realtà distrettuale è contraddistinta da una elevata densità imprenditoriale. Anche se la numerosità dei soggetti può favorire un aumento del livello di competitività (➔) tra le imprese e il verificarsi di comportamenti opportunistici, nel caso dei d. i. ciò non si verifica, o meglio, si verifica secondo modalità ‘non distruttive’. I rapporti fra soggetti sono il risultato della combinazione di concorrenza sui mercati di riferimento e di contemporanea consuetudine alla cooperazione reciproca. È il corretto bilanciamento tra le due opposte tensioni verso la collaborazione e la competizione che crea lo stimolo a un continuo rinnovamento e permette lo sviluppo di nuove opportunità. Si incentiva l’investimento in macchinari innovativi, grazie alla parziale copertura del rischio garantita dalla rete di rapporti interpersonali; la specializzazione permette al singolo di limitare il numero di macchinari necessario; è favorita l’iniziativa imprenditoriale e così via (G. Dei Ottati, Distretto industriale, problemi delle transazioni e mercato comunitario: prime considerazioni, «Economia e Politica Industriale», 51, 1986). Un ruolo fondamentale nel successo dei d. i. marshalliani è giocato dalle economie esterne (➔ esternalità), ossia vantaggi non interni alla singola impresa e come tali esclusivi per quest’ultima, bensì esterni a essa e propri del d. i. nel suo complesso, quindi fruibili indistintamente da tutti i soggetti che ne fanno parte. Ne sono esempio la presenza di un ampio e stabile bacino di manodopera qualificata, bassi costi di accesso a servizi alla produzione, possibilità di utilizzare in maniera immediata e agevole macchinari sofisticati e metodi organizzativi comuni e, in generale, citando ancora Marshall, tutte le economie che sono «dipendenti dallo sviluppo generale dell’industria».
I distretti industriali in Italia. La realtà distrettuale in Italia si caratterizza per un forte radicamento territoriale in una specifica area socioeconomica, per una elevata specializzazione produttiva e per una notevole densità di piccole e medie imprese specializzate in fasi diverse del ciclo produttivo. Esempi noti di d. i. sono quelli della ceramica (Sassuolo e Faenza), calzaturieri (Barletta, Fermo, Montebelluna), tessili (Prato, Oleggio e Carpi), degli elettrodomestici (Fabriano), dell’ottica (Belluno) e quello del settore biomedicale (Mirandola). In Italia il d. i. è stato proposto come strumento di politica industriale distinto rispetto alle singole imprese e ai settori di produzione, nell’ambito della l. 317/1991, sugli interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese. Gli indirizzi e i parametri per l’individuazione delle relative aree sono stati stabiliti successivamente con d.m. 1993 (che ha affidato alle Regioni il compito di individuare i d. i. sulla base di stringenti criteri metodologico-statistici, successivamente ridefiniti in senso meno restrittivo dalla l. 140/1999), sulla base del quale le Regioni hanno definito le aggregazioni territoriali idonee. A tal fine, con delibera CIPE (➔) 3 maggio 2001, sono stati presi a riferimento i ‘sistemi locali del lavoro’, individuati dall’ISTAT su scala nazionale nel 1981 in base ai movimenti giornalieri di popolazione per motivi di lavoro.