DIVORZIO

Enciclopedia Italiana (1932)

DIVORZIO (dal lat. divortium; fr. e ingl. divorce; sp. divorcio; ted. Ehescheidung)

Alberto PARRELLA
Nicola FESTA
Pietro DE FRANCISCI
Giuseppe ERMINI
Alfredo Vitti

Per divorzio comunemente s'intende il sistema legale con cui si attua lo scioglimento del matrimonio durante la vita dei coniugi; sistema che si connette al principio generale della perpetuità del vincolo coniugale e al problema specifico della sua indissolubilità che agita tuttora la coscienza giuridica contemporanea e divide l'ordinamento positivo italiano da quello di gran parte delle maggiori nazioni civili. Il divorzio, differenziandosi nel diritto moderno dall'antico ripudio romano, sia per la diversa concezione del vincolo matrimoniale che esso presuppone, sia per la sua subordinazione a precise e categoriche condizioni di legge, costituisce un mezzo di eccezione col quale uno dei coniugi o entrambi per mutuo accordo chiedono e ottengono di poter rompere il legame che li avvince per passare, volendo, ad altre nozze.

Favorevole al divorzio è la corrente del pensiero laico e individualista, la quale vede nel matrimonio un rapporto civile di natura contrattuale e privata, sia pure organizzato e tutelato dallo stato per l'interesse pubblico a esso correlativo quale atto costitutivo della famiglia, che in tanto ha la sua ragion d'essere in quanto sussista e persista il consenso dei coniugi. Contraria è invece la corrente cattolica conscia del preminente valore sociale di quell'atto in cui gli sposi sono posti di fronte a un potere superiore che suggella la loro unione e imprime a essa un carattere istituzionale, sottraendola al potere dispositivo dei soggetti del rapporto.

Il profondo dissenso su questi orientamenti mentali, religiosi, dottrinarî e politici è vieppiù acuito dal rilievo di situazioni pratiche delicatissime con cui si possono suffragare le opposte tesi. I contrattualisti vedono nel divorzio l'unico rimedio per sciogliere unioni male assortite, ispirate dal capriccio o dall'interesse, in quei casi in cui uno dei coniugi si sia reso colpevole verso l'altro di gravi affronti e attentati morali e materiali alla purezza e alla tranquillità del connubio o anche fra entrambi si sia creata un'atmosfera intollerabile che abbia fatto venir meno gli scopi fisiopsichici dell'unione. Nel provvedimento della separazione personale ravvisano essi un mero palliativo atto a peggiorare più che a migliorare la posizione di incompatibilità, e destinato a fomentare l'immoralità e la formazione di unioni illegittime cui è interdetta ogni via di regolarizzazione. Né riscontrano costoro in quel mezzo radicale un pericolo per la situazione della prole diverso e peggiore di quello che può derivare a essa daile nuove nozze di un vedovo con figli o anche dalla sola separazione personale dei genitori: ché anzi attribuiscono a tale mezzo la virtù di determinare una situazione più netta e più consona ai loro bisogni economici ed educativi, se questi siano stati oggetto di particolare disciplina nell'analoga statuizione del giudice. I pubblicisti invece oltre a vedere nel divorzio un'offesa alla libertà religiosa e una profanazione del carattere sacramentale del matrimonio, ritengono che, quali possano essere gl'inconvenienti derivanti dal persistere di unioni non cementate dall'affetto, la possibilità di metterle nel nulla è per sé stessa incitamento alla disgregazione di quella compagine familiare che lo stato ha supremo bisogno di garantire e rafforzare. Soggiungono che tali inconvenienti ben possono essere eliminati o attenuati con la separazione personale che libera il coniuge dall'obbligo della coabitazione senza turbare la continuità del rapporto e che offre l'eventualità di una resipiscenza e di una conciliazione. E opinano che l'interesse della donna, e più ancora quello della prole, conclamino perché sia sottratta la prima al disagio e alla desolazione di uno strappo al legame matrimoniale quando essa non ha più nulla da guadagnare nei rispetti dell'uomo dalla ripresa della propria libertà di azione e perché sia assicurata ai secondi, sia pure attraverso dolori, rinunzie e adattamenti inevitabili, quella cura e assistenza vigile e assidua che solo i genitori possono prestare, e che riassume tutte le alte idealità della famiglia. È d'uopo riconoscere che gli stessi contrattualisti a oltranza - seguiti in ciò dalle legislazioni che adottano i loro concetti - compresi dalla serietà delle contrarie obiezioni, sono d'accordo nel ridurre a un piccolo numero di casi la facoltà di ricorrere al divorzio e cioè ai casi di adulterio e concubinato, di attentato alla vita, di condanna a pena criminale, di abbandono e di ingiurie, sevizie e minacce gravi. Esiste disparità di pareri per il caso d'impotenza sopravvenuta e circa lo scioglimento del vincolo per mutuo consenso o per incompatibilità di carattere, nei quali due casi il provvedimento dovrebbe pur sempre essere circondato dalle maggiori cautele.

Bibl.: M. Liberatore, Il matrimonio sacramento , in Civiltà cattolica, s. 1ª, X (1852), p. 153 segg.; G. Cornoldi, Del divorzio, ibid., s. 9ª, X (1876), p. 668 segg.; E. Cenni, Il divorzio considerato come contro natura ed antigiuridico, Firenze 1881; A. Salandra, Il divorzio in Italia, Roma 1882; C. Gabba, Il divorzio nella legislazione italiana, Pisa 1885; A. Bartoli, Del divorzio, Firenze 1891; F. Ciaffi, Separazione o divorzio?, Subiaco 1886; P. Monferini, Divorzio, Roma 1890; P. Gasparri, Tractatus canonicus de Matrimonio, Parigi 1891, II, p. 239 segg.; A. Marescalchi, Il divorzio e la sua istituzione in Italia, Roma 1889; D. Sechi, Separazione o divorzio, Roma 1892; S. Brandi, Il divorzio in Italia. Studio giuridico, Roma 1901; V. Polacco, Contro il divorzio, Padova 1902; G. Marchesini, Il principio generale della indissolubilità del matrimonio ed il divorzio, Padova 1902; A. Bosco, Divorzio e separazione personale dei coniugi, Roma 1908; Lo Presti, Il divorzio, Messina 1914; E. Martire, Il divorzio, Roma 1920; A. Naquet, Le divorce, Parigi 1880; E. Glasson, Le mariage civil et le divorce dans l'antiquité et dans le principales législations modernes de l'Europe, 2ª ed., Parigi 1880; J. Gaillard, Les causes de divorce en législation compareé, Bordeaux 1899; A. Pierard, Divorce et séparation de corps. Traité théorique et pratique, ecc., III, Bruxelles 1927-28; A. W. Renton e G. G. Phillimore, The comparative Law of Marriage and Divorce, Londra 1911; N. Raiden, Law and Practice of Divorce, Londra 1926; J. Erler, Ehescheidungsrecht und Ehescheidungsprozess einschliesslich der Nichtigkeitserklärung der Ehe in Deutschen Reich, Berlino 1900; L. Schmitz e A. Wichmann, Die Eheschliessung im internationalen Verkehr, I: Eheerfordernisse der Ausländer; II: Das internationale Eheschliessungsrechte, Meiderich 1905.

Storia.

Il divorzio nella Bibbia. - La primitiva istituzione matrimoniale, espressa nelle parole di Adamo (Gen., II, 24: saranno due in una sola carne) come creava la monogamia, così indiceva l'indissolubilità per volere diretto di Dio, in tanto intimo rapporto di necessità col bene triplice della fede, dei coniugi e della prole. Il primo caso, registrato dalla Bibbia, di divorzio è quello di Abramo, che rimanda Agar col figlio Ismaele, ritenendo Sara, non schiava come la prima (Gen., XXI, 9-14). In seguito occorre un peculiare istituto mosaico (Deut., XXIV,1-4) che impone, nel caso di ripudio (kĕrīthūth, da karath = rescindere; LXX 'αποατάσιον, Vulg. repudium) alcune restrizioni a favore della dimessa, a cagione di una 'ervat dabar (nudità di cosa): il marito cioè le doveva dare in iscritto il relativo libello (sepher kērīthūth: LXX βίβλιον 'αποστασίον, Vulg. libellus repudii) con cui essa poteva passare ad altre nozze, non già però con un sacerdote (Lev., XXI, 14; Ezec., XLIV, 22), e, in caso di nuovo divorzio, non poteva essere ripresa dal primo marito (che vien detto sempre caratteristicamente baal, mentre il secondo solamente 'ish), e, se presa prigioniera, al momento di esser poi dimessa, tornava libera (Deut., XXI, 10-14); se figlia di sacerdote, poteva, purché senza figli, tornare in casa del padre, e prender parte ai pasti (Lev. XXII, 13). L'esistenza di tal concessione mosaica, nella vita pratica ebraica, appare nel divorzio di Saharaim (I Cron., VIII, 8) e da talune frasi dei Profeti, nelle quali Dio o considera Israele, sua sposa, come rimandata (Isaia, L,1; LIV, 6) o mostra, nel difetto della formalità del libello, la possibilità di un ritorno della sposa all'antico sposo (Isaia, L,1; Ger., III,1). Ma insieme quanto tal concessione, dovuta al facile mimetismo del popolo ebraico riguardo alle razze vicine, fosse mal tollerata da Dio, lo si segnala in Mal., II, 14-16.

La prassi giudaica, segnata nel libro Ghittin della Mishna, con le proprie interpretazioni (Gemara') nel Talmūd, non si preoccupava che delle condizioni richieste per ammettere il divorzio, ossia la soluzione del primo vincolo: la scuola lassista di Hillel arrivava persino a permetterlo nel caso che la moglie facesse bruciare una pietanza, quella di Aqiba lo faceva dipendere dal mutuo beneplacito dei coniugi; Shammai invece restringeva (cfr. Deut., XXIV,1) all'ipotesi che il marito trovasse qualcosa di vergognoso nella moglie (Ghittin, 9, 10; Talmūd Bad. Ghittin, 90 a). Sconosciuta è la formula usata nel libello; qualcuno ne vede traccia in Osea, II, 4: essa non è mia moglie, ed io non sono suo marito.

Il Vangelo ha abrogato tale concessione: il marito se per fornicazione dimette la moglie, non può sposarne un'altra, laonde non si dà che sola separatio thori, non già solutio vinculi (Mat., V, 31-32; XIX, 3-9; Marc. X, 2; Luc., XIII, 18; I Cor., VII, 10-11, 39; cfr. Rom., VII,1-3), con ciò espressamente riportandosi il matrimonio alla primitiva e antecedente volontà del Creatore (Mat., XIX, 7, 8), in rapporto alla quale il divorzio mosaico, lungi dall'essere comandato, non è che pura condiscendenza alla giudaica pervicacia (σκληροκαρδία). Il divieto promulgato nel Vangelo non soffre restrizione dall'inciso, criticamente certo: Mat., V, 32, σκληρακαρδία; Mat., XIX, 9, μὴ ἐπὶ πορνεία.

La Chiesa cattolica, con chiaro riferimento alla dottrina di Gesù Cristo e di S. Paolo, ha sancito non doversi eccepire la fornicazione dall'indissolubilità del matrimonio, come praticano gli orientali separati (Conc. Florentinum, decr. pro Armenis, nella bolla Exultate Deo di Eugenio IV, 22 novembre 1439; Conc. Tridentinum, sess. XXIV, can. 7).

Un unico caso, mirante al bonum fidei, ci si dà, nel Nuovo Testamento, di soluzione perfetta ossia dallo stesso vincolo, ed è il privilegium Paulinum, espresso in I Cor., VII, 15, qualora con un coniuge, passato al cristianesimo, l'altro non battezzato non voglia convivere nella comunione matrimoniale, contratta prima del battesimo; la parte battezzata allora può contrarre nuovo matrimonio, all'atto del quale si scioglie il vincolo del primo (Cod. iur. can., 1120-1127).

Bibl.: C. de Veil, De connubiis hebraeorum ius civile et pontificium, Parigi 1876; P. L. B. Drach, Du divorce dans la Synagogue, Roma 1840; C. Stubbe, Die Ehe im Alten Testament, Jena 1886; D. Palmieri, Tractatus de matrimonio christiano, 2ª ed., Prato 1897; S. Rauh, Hebräisches Familienrecht in vorprophetischer Zeit, Berlino 1907; L. Blau, die Jüdische Ehescheidung u. der jüdische Scheidebrief, voll. 2, Strasburgo 1911-1912; A. Ott, Die Auslegung der neutestamentl. Texte über die Ehescheidung (Neut. Abhandl., II, pp. I-3), Münster in W. 1911; Strack-Billerbeck, Kommentar zum N. T. aus Talmud u. Midrasch, I, Monaco 1922, pp. 313-320; G. F. Moore, Judaism in the first cent. of the christ. Era: the Age of the Tannaim, II, Cambridge 1927, pp. 122-126.

Il divorzio in Grecia. - Conosciamo solo alcune disposizioni della legge antichissima di Gortina e abbiamo notizie abbastanza sicure per Atene. Di altri paesi greci, solo notizie sporadiche. In genere, il divorzio è considerato come rescissione di contratto. La legge di Gortina impone al marito la restituzione della dote accresciuta degl'interessi per il tempo della convivenza coniugale; inoltre, se il divorzio avviene per colpa sua, egli deve versare alla moglie una data somma. Il figlio nato dopo la separazione può essere riconosciuto dal marito divorziato; in caso contrario, la madre è libera o di allevarlo o di esporlo. In Atene si hanno due forme principali di divorzio, secondo che il divorzio è voluto dal marito o dalla moglie. Il primo è ripudio, ἀπόπεμψισ: il marito manda via, ἀπόπεμπει, la moglie; cosa che egli è tenuto a fare, pena la perdita dei diritti civili nel caso che la moglie sia adultera. La legge gl'impone la restituzione della dote e lo lascia libero di riconoscere il figlio nato dopo la separazione. Nell'altro caso si ha l'abbandono, ἀπόλειψισ: la moglie lascia il marito ἀπολείπει τὸν ἄνδρα. Essa è tenuta soltanto a far registrare dall'arconte l'avvenuta separazione. Anche in questo caso il marito deve restituire la dote. Oltre queste forme comuni, esisteva anche il divorzio per mutuo consenso dei coniugi; e infine il divorzio poteva essere provocato e legalmente ottenuto da terzi, come nel caso in cui un parente stretto della moglie riuscisse a dimostrare il matrimonio fatto senza tener conto di quelli che avevano maggior diritto a disporre della mano della sposa. La sterilità della donna come motivo di divorzio è attestata per Sparta in due piccanti aneddoti di Erodoto; ma è presumibile che fosse riconosciuta anche altrove. I papiri dell'età tolemaica offrono parecchi esempî di convenzioni per divorzio consensuale. Talvolta nelle premesse di tali atti si esprime il rammarico che un demone maligno abbia creato la necessità di troncare l'unione prima desiderata, e attuȧta col proposito che dovesse durare fino alla morte.

Bibl.: Tra gli scritti da consultare ci limitiamo a citare Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, coll. 2011-2013; Lübker-Geffcken-Ziebarth, Reallexikon, col. 3181; Mitteis-Wilcken, Papyruskunde, II, pp. 239-355.

Diritto romano. - Il divorzio è nel diritto romano un istituto che discende come conseguenza diretta dal concetto del matrimonium. Questo esige per sussistere un consenso continuo, l'affectio maritalis, non solo iniziale ma perdurante; quando l'affectio maritalis venga meno in uno dei coniugi o in entrambi, il matrimonio si scioglie, si ha il divortium. L'istituto è siffattamente connaturato col matrimonio che i Romani non possono concepire che questo perduri una volta cessata l'affectio e ritengono turpe il vincolarsi sotto una penale a non fare divorzio. I requisiti del divorzio sono: l'esistenza di un vero matrimonio e la volontà seria di scioglierlo. Si disputa se si richiedessero per la manifestazione di questa volontà delle forme legali.

Le nostre fonti parlano di certa verba (formule usuali), e di nuncium remittere, perché di solito il divorzio era dichiarato per mezzo di un intermediario; parlano ancora di atti simbolici come il togliere e rimettere le chiavi, spezzare le tavole nuziali, e simili. Più tardi s'introdusse l'uso, che fu certo sempre seguito nelle provincie orientali, d'inviare il ripudio in iscritto mediante un libello. Ma, come appare dalle discussioni vive all'epoca di Cicerone, queste forme non avevano un valore legale e un significato solenne, né la loro inosservanza poteva far ritenere sussistente il matrimonio quando da un fatto qualsiasi (anche le seconde nozze) risultasse cessata l'affectio maritalis. È però probabile che Augusto, conforme allo spirito della sua legislazione matrimoniale, allo scopo di evitare incertezze e di richiamare l'attenzione sulla serietà e sulla gravità dell'atto, abbia stabilito che il ripudio dovesse essere fatto alla presenza di sette testimoni, cittadini romani e puberi: il libello di ripudio è di solito rimesso da un liberto, il quale però non può esser compreso fra i sette testimoni. Sennonché sulla portata di questa riforma introdotta dalla lex Iulia i testi non sono precisi e concordi, e probabilmente ciò dipende da alterazioni giustinianee, le quali rivelano la differenza tra il diritto classico e quello giustinianeo. La forma stabilita dalla lex Iulia era richiesta in diritto classico solamente per il ripudio, cioè non per il divorzio per mutuo consenso. Inoltre nel diritto classico l'inosservanza di quella forma non poteva far concludere per l'esistenza del matrimonio una volta che fosse cessata l'affectio maritalis. Invece nel diritto giustinianeo quelle forme si richiedono per qualunque divorzio, e in assenza di quelle i due coniugi sono ancora marito e moglie, salvo la perdita reciproca della bonorum possessio unde vir et uxor, come altra pena dell'irregolarità. Giustiniano stabilì pure che alla validità del divorzio si richiedesse anche il consenso del padre o della madre, qualora essi avessero costituito la dote o la donazione propter nuptias. Nel diritto più antico era ammesso poi che il pater familias potesse sciogliere liberamente il matrimonio dei figli sui quali avesse conservato la patria potestà. Tale diritto, almeno riguardo alla figlia, perdura in epoca classica, si attenua nel periodo postclassico, ed è recisamente negato nel diritto giustinianeo salvo il caso di una magna et iusta causa. Circa il regime interno del divorzio le notizie che possediamo per l'epoca più antica sono oscure e contrastanti con quanto ci consta con certezza intorno alla natura del matrimonium.

Secondo storici e antiquarî romani, il matrimonio del flamen Dialis, o in generale il matrimonio confarreato, sarebbe stato indissolubile. Ma tale affermazione non si concilia né con le istituzioni primitive, né con il concetto del matrimonio romano né con l'esistenza della cerimonia della diffarreatio. Probabilmente quelle notizie derivano dalla deformazione o incomprensione della regola per cui il flamen in caso di divorzio decade dal sacerdozio, come decade nel caso della morte della moglie, che è puie sacerdotessa e coadiutrice del flamine: si tratterebbe cioè di una sanzione contro il divorzio, ma non di una nullità del divorzio.

Ancora più singolare è la notizia, secondo la quale una delle pretese leggi di Romolo avrebbe vietato il divorzio alla donna e l'avrebhe concesso all'uomo solamente in tre casi: avvelenamento della prole, sostituzione di chiavi, adulterio. Fuori di questi casi, che gli scrittori si sono sforzati di spiegare, perdendosi in interminabili discussioni, il divorzio sarebbe stato punito con la perdita dei beni, di cui metà era assegnata alla moglie e l'altra metà consacrata a Cerere. Probabilmente si tratta semplicemente di un elenco delle cause consacrate dal costume, che è stato volto a dimostrare la prisca rarità dei divorzî sotto l'azione della propaganda ispirata alle riforme matrimoniali di Augusto.

Va ancora ricordato che, a provare l'antica moralità dei costumi, Dionigi d'Alicarnasso, Plutarco, Valerio Massimo, Gellio e Tertulliano raccontano in più luoghi che il primo divorzio si sarebbe avuto in Roma nel 230 a. C. quando Spurio Carvilio avrebbe ripudiato la moglie per ragione di sterilità, suscitando però il biasimo del popolo. Ma la notizia è contraddetta dallo stesso Valerio Massimo il quale (II, 9, 2) ricordava pure un divorzio anteriore, quello di Lucio Annio, che, per aver ripudiato la moglie senza sentire il consilium domesticum, sarebbe stato nel 307 a. C. espulso dal Senato. Probabilmente la notizia che quello di Spurio Carvilio sarebbe stato il primo divorzio dipende da un equivoco nel quale sono caduti tutti quegli scrittori, la cui fonte era forse il giurista Servio Sulpicio, citato da Gellio; ora Servio Sulpicio parlava non già del primo divorzio, ma delle prime cautiones (stipulazioni) per ottenere la restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio, cautiones la cui necessità sarebbe stata appunto rivelata dal caso di Spurio Carvilio.

Del resto fin dagl'inizî dei tempi storici il divorzio, almeno per l'uomo, appare praticato con la più grande libertà e per cause futili e frivole. Ciò potrà anche esporre alla riprovazione sociale e alla nota censoria; ma l'atto non è perciò meno lecito e perfetto. Tale è la situazione descritta da Plauto: tali le condizioni dell'ultimo secolo della repubblica, in cui uomini come Silla, Pompeo, Cesare, Cicerone, Bruto, Antonio, Ottaviano compiono questo atto, talvolta ripetutamente, e non sempre per serî motivi, o per motivi ben diversi da quelli addotti. Alle donne non era certo lecito in antico, fossero o no soggette alla manus, di abbandonare la casa del marito; il divorzio poteva bensì avvenire quando non fossero soggette alla manus, per volontà del loro pater familias. Ma ben presto anche il matrimonio cum manu non costituì più un ostacolo e le donne presero a inviare al marito il ripudio, costringendolo così a liberarle dalla manus. Già all'epoca di Cicerone tali ripudî non sono meno frequenti di quelli degli uomini: e la corruttela dei costumi, che a tale frequenza si accompagna, è uno dei motivi preferiti dai poeti satirici e dai moralisti.

Tale stato di cose, sintomo di un male profondo e insieme causa di altri mali, quale l'impoverimento demografico, non poteva lasciare indifferente il legislatore. Ma non si poteva pensare, dato il concetto romano del matrimonio, a reagire direttamente: bisognava accontentarsi di mezzi indiretti, perseguendo le cause, punendo gravemente l'adulterio e gli altri delitti contro il buon costume, disciplinando la restituzione della dote in modo da colpire il coniuge colpevole, imponendo al divorzio forme tali che giovassero a richiamare l'attenzione sulla gravità dell'atto. Tale mira ebbero appunto le leggi di Augusto de adulteriis e de maritandis ordinibus. Ma in sostanza, pur ponendosi delle forme e pur stabilendosi delle sanzioni, non certo troppo gravi, circa la restituzione della dote, il divorzio è pur sempre possibile per qualunque causa né è punito ancora il coniuge divorziante. La lotta diretta contro il divorzio s'inizia con l'impero cristiano e nella prima fase è rivolta contro il divorzio unilaterale, il ripudio, per il quale gl'imperatori fissano determinati motivi legali, iustae causae, fuori delle quali il ripudiante è punito. Ma il matrimonio si scioglie anche in questo caso; e sino a Giustiniano, nulla si osa disporre contro il divorzio bilaterale, per mutuo consenso. La guerra contro il ripudio è aperta da Costantino, il quale nel 323 (Cod. Th., III, 18,1), stabilisce tre cause lecite di divorzio unilaterale per ciascuno dei coniugi: la donna può ripudiare se l'uomo sia omicida, avvelenatore, violatore di sepolcri, l'uomo può ripudiare se la donna sia adultera, avvelenatrice, mezzana. Fuori da questi crimina la donna ripudiante perde a favore del marito la dote e la donazione nuziale ed è condannata alla deportatio in insulam; l'uomo deve rendere la dote e non può prendere una seconda moglie: se lo faccia, la prima moglie può rivendicare tutti i heni dell'exmarito, nonché la dote della seconda moglie. Queste norme furono accolte circa due secoli più tardi dalla legge romana dei Burgundi e dall'editto di Teodorico; ma nell'Impero ebbero vita soltanto sino a Giuliano l'Apostata, che ristabilì il regime di libertà.

La lotta contro il divorzio fu ripresa soltanto nel 421 da Onorio e Costanzo II, i quali tentarono nuove misure restrittive, però meno aspre di quelle di Costantino. Nella loro costituzione (Cod. Th., III, 16, 2) gl'imperatori distinguono le graves causae o magna crimina e le mediocres culpae o morum vitia. Per i magna crimina del marito, la donna ha il diritto di ripudio, si riprende la dote e trattiene la donazione nuziale; ma non può rimaritarsi se non trascorsi cinque anni dal ripudio. Analogamente il mariato, dopo la condanna della donna per grave crimen, può ripudiare trattenendosi la dote e riprendendo la donazione nuziale. Invece tanto il divorzio per colpe lievi quanto il divorzio sine causa sono puniti; il primo più mitemente, il secondo più gravemente; ma la pena della deportazione è sancita solo contro la donna nel caso di ripudio sine causa.

Teodosio II, che nel 439 parve volesse reagire contro la tendenza che andava ormai seguendo la legislazione imperiale, nel 449 emise, invece, a sua volta, una costituzione restrittiva (Cod. V, 17, de repudiis, 8), più mite di quelle di Costantino e di Onorio e notevole perché in essa appare per la prima volta il favor liberorum, come motivo per rendere più difficile lo scioglimento del matrimonio. Teodosio stabilisce una serie di cause per il ripudio, alcune delle quali sono comuni ai due coniugi, altre speciali per il marito, e altre infine speciali per la moglie. Il ripudio, fuori di queste cause, è punito, ma le pene sono esclusivamente patrimoniali, salvo l'infamia per la donna che si rimariti prima del decorso di un quinquennio. Se però vi sono figli, tutti i lucri del coniuge innocente, a carico del coniuge colpevole del delitto nel ripudio causale o del coniuge ripudiante sine causa, devono dopo la morte ricadere ad essi. Ne è quindi vietata l'alienazione e la pignorazione, ma, secondo il concetto orientale del figlio più favorito, è concesso un diritto di elezione e di preferenza tra i figli. Pienamente libero è sempre, come appare da una costituzione di Anastasio (Cod. V, 17, de rep., 9) il divorzio per mutuo consenso.

Anche Giustiniano, in un primo periodo, che va sino al 542, rimase fermo nei principî fondamentali dell'ordinamento teodosiano, salvo l'aggiunta di altra causa a quella contemplata da Teodosio per il ripudio della donna. Con l'ordinamento stabilito in Cod., V, 17 de rep., 10, ribadito e completato nella Nov. 22 si distinguono così quattro specie di ripudio: il divorzio per mutuo consenso, che è sempre pienamente lecito; il ripudio in base alle iustae causae stabilite nelle costituzioni, nel qual caso è punito il coniuge colpevole, cioè colui che ha dato il motivo al divorzio; il ripudio sine causa, nel quale il matrimonio si scioglie ma è punito il ripudiante, e infine il divorzio per causa giusta che non deriva da colpa di nessuna delle parti. Tali cause sono l'elezione della vita claustrale e il voto di castità di uno dei coniugi; l'impotenza durata per un triennio; la prigionia di guerra in caso d'incerta sopravvivenza e dopo un quinquennio; la riduzione in stato di servitù di uno dei coniugi che fosse liberato; la mancanza per dieci anni di notizie da parte del marito che si trovi al campo. Questo divorzio per causa incolpevole che si contrappone tanto al d. communi consensu quanto al d. culpa factum venne indicato come divortium bona gratia, espressione che, invece, nel diritto classico indica tutti i casi di divorzio che non cadano sotto il concetto del divortium culpa factum. Anche per quanto riguarda le pene patrimoniali questo regime giustinianeo non è che una riproduzione di quello teodosiano.

Ma nell'anno 542, con la Novella 117, Giustiniano assume una posizione di ostilità al divorzio, cercando di ridurlo entro confini più ristretti. Circa il ripudio unilaterale, l'imperatore fissa sei cause per il marito (se la moglie fosse stata consapevole di congiure contro l'imperatore o non le avesse svelate al marito; se l'uomo avesse querelata la moglie per adulterio e questa fosse stata condannata; se la moglie avesse insidiato alla vita del marito o non avesse denunciato le insidie a lei note; se contro il volere del marito si fosse recata a banchetti o al bagno con altri uomini; se, contro la volontà del marito, fosse andata a dimorare presso altre persone che non fossero i suoi genitori; se, contro il volere del marito, si fosse recata a spettacoli puhblici) e cinque cause per la donna (se il marito avesse ordito piani di alto tradimento contro il sovrano o conoscendoli non li avesse denunciati, se avesse ordito insidie contro la vita della donna o avendone notizia non le avesse rivelate e non avesse sporto querela; se avesse tentato di disonorare la moglie ahbandonandola ad altri; se l'avesse falsamente querelata per adulterio; se il marito avesse avuto in casa propria commercio con altra donna, o se avesse avuto in città assidui convegni non desistendone nonostante i richiami della moglie, dei genitori e di altre persone rispettabili). Tutte le altre cause (compresi anche i maltrattamenti che davano però luogo a pene pecuniarie) sono dalla Nov. 117 espressamente abolite. La stessa Nov. 117 (11 e 12) riduce poi a tre i casi di divorzio unilaterale sine poena, e cioè ai casi di impotenza insanabile, elezione della vita claustrale, prigionia di guerra. Ma il culmine della nuova tendenza giustinianea è rappresentato dalla disposizione del cap. 10 della stessa Novella, in base alla quale anche il divorzio per mutuo consenso non era più lecito se non per voto di castità fatto dai due coniugi, eccezione che del resto poteva dar luogo ad un divortium bona gratia anche per volontà unilaterale di uno dei coniugi.

Le pene per il divorzio illecito, cioè compiuto senza giusta causa e quelle comminate alla parte colpevole che abbia offerto il motivo al divorzio, riguardano a seconda delle parti la perdita della dote o della donazione nuziale, o di una parte dei beni nei casi in cui non fossero costituiti né dote né donazione nuziale. A queste pene patrimoniali si aggiunge il ritiro forzato in convento della donna, pena che dalla Novella 127, cap. 4 dell'anno 548 e più esplicitamente dalla Novella 134, cap. 11 dell'anno 556 è stata estesa anche all'uomo. Tutto ciò senza pregiudizio delle pene sancite contro l'adulterio (aggravate dalla predetta Nov. 134) e c contro i reati che avessero offerto una iusta causa al ripudio. Le misure adottate da Giustiniano contro il divorzio per mutuo consenso andavano troppo rudemente contro la tradizione e la coscienza sociale per essere tollerate: sì che Giustino II, sotto la pressione dell'opinione pubblica, nell'anno 566, colla Novella 140, che fa parte del Corpus iuris, fu costretto a restituire il divorzio per mutuo consenso.

All'abolizione o restrizione del divorzio si opponeva, anche in piena epoca cristiana, l'antico concetto del matrimonio romano, che sopravviveva nelle leggi e nella vita; si che, anche nel periodo della massima reazione, il divorzio è bensì punito, ma esso produce tutti i suoi effetti e il matrimonio è sciolto. Perché la dottrina dell'indissolubilità trionfasse era necessario che penetrasse nella coscienza generale il concetto della sacramentalità del vincolo, che nel diritto si affermò attraverso la teoria, in seguito ripudiata, del matrimonio-contratto.

Bibl.: G. Brini, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, I-III, Bologna 1886-1889 (specialmente vol. III, p. 71 segg.); E. costa, Storia del diritto romano privato, 2ª ed., Torino 1925, p. 32 segg.; P. Bonfante, in Note a Glück, Comm. alle Pandette, XXIV, tit. II, par. 1259 segg., Milano 1889; id., Corso di diritto romano, I, Roma 1925, p. 240 segg.; E. Levy, Der Hergang der römischen Ehescheidung, Weimer 1925; V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 2ª edizione, Napoli 1927, p. 411 segg.; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 2ª edizione, Roma 1928, I, p. 361 segg.

Diritto medievale e moderno. - Al pari dei Romani anche i popoli germanici che invasero tra il sec. V e il VI le terre dell'Impero, conoscevano il divorzio; e invero le invasioni barbariche non fecero che portare a tale riguardo, vicino alla popolazione romana che continuò a usare del divorzio regolato secondo le norme teodosiane (cfr. la lex Romana Burgund., lex Romana Visigot., l'editto di Teodorico) o secondo quelle giustinianee, là dove il diritto di Giustiniano penetrò, altre popolazioni germaniche che praticavano il divorzio in misura anche più estesa.

Il divorzio per mutuo consenso (v. sopra) rappresentò per i Germani forse il caso più comune di divorzio; e del formalismo usato per addivenire a questo divorzio bilaterale ci resta memoria nei formularî franchi del sec. VII e VIII (Marc., II, 30; formul. Andegav, 57; formul. Turonens., 19): quando tra i coniugi si fosse manifestata una vera incompatibilità di carattere ovvero fosse venuto ad estinguersi l'affetto che già li aveva uniti, ovvero anche quando uno dei coniugi avesse voluto entrare in un ordine religioso e l'altro vi avesse acconsentito, i due sposi si dichiaravano vicendevolmente, per mezzo di una lettera, o anche oralmente avanti a testimoni, la reciproca volontà di sciogliersi dal vincolo matrimoniale; e il matrimonio era sciolto. Ma più antico certamente presso i Germani fu il divorzio unilaterale, per volontà cioè di una sola parte. In un tempo primitivo il diritto di ripudio fu riconosciuto soltanto all'uomo di fronte alla donna, e non ebbe limiti di sorta; ma presto le leggi barbariche vennero a porre questi limiti determinando i casi nei quali il ripudio poteva considerarsi legittimo. L'uomo aveva facoltà di ripudiare la moglie nel caso di mancanza alla fedeltà (Liut., 121, 122), quando la moglie avesse insidiato alla sua vita (Roth., 202, 212), nel caso di sortilegio praticato dalla donna o violazione di sepolcri (lex Burgund., XXXIV, 3; Grim., 7), nel caso di sterilità della donna. Non è detto però, si badi bene, che fuori di questi casi il divorzio fosse proibito; colui che però abbandonava la moglie senza motivi legali incorreva nella pena che la legge stessa fissava.

Come conseguenza del progressivo elevarsi della condizione della donna presso i popoli germanici, per l'influsso soprattutto delle dottrine della Chiesa, troviamo ad un certo punto ammessa anche la donna a chiedere il divorzio unilaterale per certi determinati motivi; e possiamo dire addirittura che nel diritto longobardo la condizione dei due coniugi è pari in questo campo. La donna avrà diritto di chiedere il divorzio se il marito l'abbia offesa conducendo in casa un'altra donna (Grim., 6) o se l'abbia accusata falsamente di adulterio o sortilegio (Roth., 195, 197), o se abbia attentato alla sua vita (Roth., 195). Questo divorzio ammesso dalle leggi germaniche come del resto anche quello praticato dalla popolazione romana secondo il suo diritto, trovano l'opposizione tenace della Chiesa.

La Chiesa romana, insegnando che il matrimonio è istituzione divina e, se contratto tra cristiani, un vero sacramento, ne afferma costantemente l'indissolubilità. Sennonché il principio è così nuovo e soprattutto così contrastante con quello che era il costume dei popoli, che non riesce talvolta facile alla Chiesa stessa nei primi tempi dare del principio un'enunciazione ed esigerne una rigorosa applicazione pratica.

Molti infatti sono i concilî dell'alto Medioevo dopo quello di Cartagine del 407 - che afferma (c. 8) l'indissolubilità del vincolo -, che pur ammettendo la separazione quoad thorum negano però lo scioglimento del matrimonio quoad vinculum e quindi il divorzio, come i concilî dï Toledo (681), di Costantinopoli (692), del Friuli (796), di Parigi (829) e di Nantes (sec. IX forse); e così pure varie le decisioni dei pontefici in tal senso, quali di papa Zaccaria del 747 e di Stefano II del 754, che proibiscono decisamente il passaggio a seconde nozze vivente l'altro coniuge. Ma pur accanto a queste affermazioni dell'indissolubilità del matrimonio si trovano qua e là talvolta decisioni conciliari che paiono ammettere o almeno tollerare, in via eccezionale, come nel caso di adulterio. le seconde nozze del coniuge innocente (Arles 314, Roma 826); e così anche i libri penitenziali dei secoli IX e X, della Gallia e dell'Inghilterra soprattutto, accennano ad alcuni casi speciali di divorzio pur richiedendo particolari condizioni e atti per ammettere il nuovo matrimonio.

Questo stato d'incertezza o almeno di non assoluto rigore da parte della Chiesa nell'affermazione dei suoi principî, si riflette direttamente nella legislazione civile. Le eccezioni all'indissolubilità del matrimonio ammesse dai capitolari devono la loro origine in gran parte certamente ai concetti germanici sul matrimonio e sul divorzio ancora persistenti e che si oppongono a una piena accettazione delle nuove idee cristiane, ma in parte anche alla mancanza di fermezza e di certezza nei principî enunciati al riguardo dalla Chiesa. Tuttavia, nonostante ciò, il concetto della indissolubilità, sia pure con le sue eccezioni, si fa strada ogni giorno più nei secoli dell'alto Medioevo e viene accolto espressamente dalle leggi civili; le antiche cause di divorzio tendono, secondo il desiderio della Chiesa, a trasformarsi in motivi di semplice separazione personale.

Un primo accenno ad accogliere i principî della Chiesa col proibire il divorzio lo troviamo in un capitolare di Pipino del 774 (Cap. Suession., c. 9), dove peraltro il divorzio pare ancora ammesso in via eccezionale per il caso di adulterio. Più recisa, se pur si voglia dare ad essa soltanto il valore di esortazione, come taluno ha ritenuto, è la dichiarazione fatta in proposito da Carlo Magno nell'admonitio generalis del 789: che la donna separata dal marito non possa passare a nuove nozze vivente ancora il coniuge, né l'uomo separato dalla moglie possa, vivente questa, contrarre altro matrimonio. Lo stesso concetto è ancora ripetuto da Carlo più tardi in un capitolare dell'802 (c. 22). Sulla questione torna poi Ludovico il Pio, ma anziché dichiarare del tutto invalido il divorzio fa soggiacere soltanto a una pena chi lo commette, e similmente Lotario pare permetta anche il divorzio per adulterio. Nonostante il valido aiuto alla legislazione antidivorzista portato dalle famose falsificazioni del sec. IX, tanto da quella di capitolari di Benedetto Levita quanto da quella di capitolari dello Pseudo Isidoro che proibivano nettamente il divorzio, pure le eccezioni al principio dell'indissolubilità permangono ancora a lungo nella legislazione civile, sì da ritrovarsi fino in alcuni statuti del periodo comunale. Ma in seno alla Chiesa romana dopo il Mille, il concetto della sacramentalità del matrimonio elaborato a fondo dagli scolastici canonisti e quello conseguente dell'indissolubilità del vincolo trionfano in pieno: sono concetti che alla fine del sec. XI si possono dire universalmente ammessi. Nelle opere degli scolastici e trattatisti, da Pietro Lombardo (Sentent., libro IV) e da Graziano (c. XXVI-XXXIII) in poi, l'indissolubilità è enunciata in forma chiara e assoluta, e in luogo del divorzio escluso è solo ammessa la separazione di mensa e di toro. E poiché la Chiesa è ormai riuscita nel sec. XI ad avocare a sé ogni competenza giurisdizionale in materia di matrimonio, così le enunciazioni dei canonisti sono facilmente seguite nella pratica e vengono accolte dalle leggi civili.

L'elaborazione e l'incremento subito dal diritto canonico nei secoli del basso Medioevo portano il principio dell'indissolubilità matrimoniale alla sua piena maturità, sì da permetterne la definitiva formulazione per opera del concilio di Trento (24ª sessione dell'11 novembre 1563). Resta ammessa soltanto la separazione per quelle cause che già erano state cause di divorzio, e il divorzio soltanto per il caso di matrimonio rato e non consumato quando uno dei coniugi intenda ritirarsi a vita religiosa. La chiesa protestante, invece, riguardando il matrimonio sotto l'aspetto contrattuale civile, aveva già da qualche decennio ammesso vicino alla separazione dei coniugi anche lo scioglimento del matrimonio e la possibilità di passare a nuove nozze: primo fra tutti i motivi che legittimano il divorzio è naturalmente l'adulterio, ma vicino a questo sono anche causa di divorzio i peccati contro natura, l'inadempimento del debito coniugale, l'abbandono perverso, l'attentato di un coniuge alla vita dell'altro, l'incompatibilità di carattere, la sterilità, una malattia ripugnante e incurabile, una condanna infamante, il cambiamento di religione di un coniuge e varî altri casi. Il divorzio fu presto accettato dalla legislazione dei paesi protestanti; il divieto di esso restò invece nelle regioni rimaste fedeli e soggette ancora alla Chiesa di Roma, primi i paesi latini.

Ma alla fine del sec. XVIII il divorzio penetra con la rivoluzione anche in Francia con legge del 1792 che sopprime altresì l'istituto della separazione; viene mantenuto nel codice civile napoleonico del 1805, pur essendosene ridotti i casi in confronto della legge precedente e venendo di nuovo affiancato dalla separazione personale. Caduto Napoleone, una legge del 1816 lo abolisce nuovamente; ricompare però nella legislazione francese, dopo lunghe discussioni e ripetuti tentativi, con la legge del 27 luglio 1884. L'Italia, uno dei pochi paesi che non ammettono attualmente il divorzio, lo ebbe a conoscere soltanto nel breve periodo di dominazione napoleonica che corse dal 1795 al 1815.

Bibl.: E. Friedberg, Das Recht der Eheschliessung in seiner geschichtlichen Entwicklung, Lipsia 1865; J. Weber, Ehescheidung in dem Kirchenrecht, Friburgo 1875; F. Scaduto, Il divorzio e il cristianesimo in Occidente, studio storico, Firenze 1882; A. Pertile, Storia del diritto italiano, Torino 1896-1902; C. Nani, Storia del diritto privato italiano, Torino 1902; F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all'Italia, II: La famiglia, Roma 1914.

Legislazione odierna sul divorzio. - Il divorzio che vige in quasi tutte le nazioni europee - meno il Portogallo e l'Italia - si ottiene in via giudiziale su richiesta di uno o di ambo i coniugi e con sentenza del giudice che statuisce anche, ove occorra, sugli alimenti a favore del coniuge in bisogno, specie se incolpevole, e sulla sistemazione degl'interessi patrimoniali e morali della prole. È discussa la possibilità del divorziato di riunirsi in matrimonio con l'altro coniuge o di congiungersi col complice di adulterio ed esistono in argomento opposte tendenze negli stessi ordinamenti in cui l'istituto funziona.

Vi fu un tempo in cui in Italia venne negata l'esecutorietà alle sentenze straniere di divorzio, ma la difficoltà fu superata dalla Conferenza internazionale dell'Aia del 12 giugno 1902.

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