DOMENICO da Piacenza

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DOMENICO da Piacenza

A. Ascarelli

Attivo intorno alla metà del sec. XV, deve la sua importanza al primo trattato dell'arte coreografica di cui si abbia notizia, che reca il titolo De arte saltandi et choreas ducendi. De la arte di ballare et danzare, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi (Fonds Ital. 972).

Non vi sono dati esaurienti che ci permettano di ricostruire la sua vita, ma alcuni elementi si possono desumere dal confronto con le più documentate biografie degli allievi. I più famosi furono A. Cornazzano e Guglielmo Ebreo. Il primo, nato a Piacenza verso il 1430, fu anch'egli autore di un trattato di danza, dove loda D. come "lo re dell'arte, mio solo maestro e compatriota..., cauagliero aurato per la sua perfecta e famosissima virtute" (Il libro dell'arte del danzare..., ed. C. Mazzi, pp. 25 s.). Il giovane Cornazzano può aver ricevuto l'insegnamento di D. prima dei vent'anni e comunque intorno al 1445, visto che nel 1455 poteva completare la prima edizione dei trattato.

Anche Guglielmo si definisce "divotissimo disciepolo e fervente imitatore del dignissimo cavaliere messer Domenico da Ferrara [sic] nell'arte del virtuoso et onesto danzare dottissimo "e di aver appreso da lui quanta "prestante dottrina potetti raccogliere" (Trattatodell'arte del ballo, ed. E. Zambrini, p. 8, iritegralmente trascritto da un codice Magliabechiano del sec. XV, classe XIX, n. 88, della Biblioteca nazionale di Firenze).

In un altro codice, a questo assai simile, conservato anch'esso nella Biblioteca nazionale di Parigi (Fonds Ital. 973) e datato 1463, Guglielmo viene lodato con una "canzone morale" da M. Filelfò, assai stimato come dotto umanista e quindi disponibile a tessere l'elogio di un maestro solo al culmine della sua fama. Tutto ciò induce a ritenere che la scuola di D. fosse ben consolidata intorno alla sesta decade del XV secolo e che perciò il fondatore dovesse esser nato al più tardi intorno al 1420. Un'altra ipotesi sulla data di nascita viene invece motivata dalla data 1416, apposta in numeri romani in margine al cit. codice parigino 972, data che la farebbe spostare addirittura alla fine del secolo XIV, come suppone M. Dolmetsch (1954, p. 8).

Quanto poi al luogo della nascita, il codice Magliabechiano menziona solo un Domenico da Ferrara, ma in un altro codice conservato nella Bibl. comunale degli Intronati di Siena (L. V. 29), pubblicato da C. Mazzi, Una sconosciuta compilazione di un libro quattroc. di balli, in La Bibliofilia (XVI [1914-15], pp. 185-209), troviamo una lista dei titoli di danza sotto la voce "Rubrica delle bassedanze di Missere Domenico caualiere piasentino; videlicet" (ibid., p. 192) e poco dopo (p. 193) "Incipit liber ballorum Dominici Ferrarensis" che costituisce l'introduzione alla vera e propria descrizione delle danze. Tutto ciò induce O. Kinkeldey ad ipotizzare si tratti della stessa persona nata a Piacenza (facendo fede al Cornazzano che lo chiama "compatriota") e poi trasferitasi a Ferrara. Questa è oggi la tesi più accreditata che supera i dubbi sollevati da alcuni studiosi come G. Zannoni, autore di una nota sul Cornazzano, (1890), che enumera tra i trattatisti sia un Domenico da Piacenza sia un Domenico da Ferrara, oppure da E. Motta (p. 63, nn. 2 s.), che si domanda se vi sia confusione tra Piacenza e Ferrara.

D. quindi dalla natia Piacenza si trasferi a Ferrara per servire il marchese Leonello d'Este, grande mecenate, durante i cui nove anni di governo (1441-1450) Ferrara divenne un importante centro culturale e, nel campo della danza, "la culla dello stile lombardo" (M. Wood, 1964, p. 29). Questo sembra trovare conferma, come afferma D. Heartz (p. 366), nel fatto che proprio al marchese D. dedicò il ballo "Lioncello".

Poco dopo il 1450, anno in cui Francesco Sforza prese possesso del Ducato di Milano, D. passò al servizio degli Sforza. Nel 1455 fu celebrato a Milano il matrimonio tra Tristano Sforza, figlio naturale del duca, e Beatrice, figlia di Niccolò III d'Este. D. fu convocato per preparare le danze. Un dettagliato resoconto dei festeggiamenti, riportato anche da A. Michel (p. 117), lo dobbiamo a una lettera scritta in latino (Motta, 1894, p. 53) da G. Paveri Fontana, professore di poetica e retorica a Milano, indirizzata ad A. Guidoboni, inviato ducale a Venezia.

D. diresse molte azioni coreografiche di cui sappiamo soltanto che furono "ingeniose et subtiliter excogitatae". Un segno della grande importanza che aveva assunto la parte coreografica in quella occasione fu una danza eseguita da D. e da sette dei più insigni signori presenti. Sappiamo che in tale occasione D. fece coppia con Bianca Maria Sforza, probabilmente impegnata in una danza in cui non si sentiva sicura (D. Bianchi). Tra i partecipanti furono Ippolita e Galeazzo, figli del duca, Barbara di Hohenzollern marchesa di Mantova e il marchese Guglielmo del Monferrato e soprattutto la sposa Beatrice d'Este con lo zio recentemente acquisito, Alessandro Sforza. L'autore della lettera loda D. come "quorumvis saltatorum princeps orrmiumque huius modi elegantiarum. inventor". Quale fosse tra le danze più famose di D. quella usata in tale circostanza non è dato sapere, ma, considerato dovesse trattarsi di una bassadanza, la più nobile delle danze in voga, con un titolo d'occasione e con otto ballerini, non è escluso potesse trattarsi della "corona" per "un homo et una donna a la fila in quanti si uole" che il Cornazzano verso la fine dello stesso anno inseri tra le danze "più belle" che fossero state fatte dal suo maestro "in sale signorili" e che non fossero troppo vecchie o troppo divulgate; anzi viene sottolineato che "corona" è "passadança fortissima, non per genti che imbrattino el foglio: proprio corona dell'altre com'è dicta" (Mazzi, p. 26).

L'anno 1455 trova dunque D. all'apice della sua carriera e probabilmente la sua fama era già stata divulgata dal suo trattato che è comunque anteriore a quella data, sia in base all'analisi paleografica che lo fa risalire alla prima metà del XV secolo, sia perché viene citato nella prima edizione del libro del Cornazzano (1455). Tanto il Michel che D. Heartz sono concordi nel datare il manoscritto del De arte saltandi et choreas ducendi intorno al 1450, cioè tra il periodo estense ed il periodo sforzesco del maestro e considerare la data 1416 un'aggiunta postuma.

Questo codice, che, come si è detto, è il n. 972 del Fonds Ital. della Biblioteca nazionale di Parigi ed è stato pubblicato da D. Bianchi (1963, pp. 109-149), è l'unico che ci conservi la parte teorica dell'insegnamento del D., ma le descrizioni di molte sue bassedanze e balli si trovano disseminate in tutti i trattati di danza quattrocenteschi. Nel codice 972 abbiamo le seguenti danze: Belreguardo (in due versioni), Leonzello (in due versioni), La ingrata, La giloxia, Pizochara, Verfepe, Prexonera, Beffiore, Anello, Marchexana, Jupiter, Fia Guielmin (in due versioni), Mercantia, Sobria, Tesara, Damnes, Mignotta (in due versioni), Corona, Gioiosa.

Nel cit. codice Magliabechiano della Nazionale di Firenze abbiamo, tra le bassedanze di Guglielmo, alcune di D., Migniotta, Febus, Dampnes e, tra i balli, Gioioso, Pettirosse, Giove, Prigioniera, Marchesana, Beffiore, Ingrata, Anello, Gielosia, Bel Riguardo, Graziosa, Spero, Lioncello, Mercanzia. Nel codice esistente nella Biblioteca del seminario Iacobilli di Foligno (B. V. 14), pubblicato da M. Faloci Pulignani (nel 1887), è attribuita a D. la bassadaAza Febus. Nel codice della Biblioteca Estense di Modena (VII A 82) pubblicato nel 1885 da G. Messori Roncaglia troviamo le seguenti bassedanze: Dannes (Danese) e Mignotta, mentre tra i balli, con espresso riferimento al nome di D., è citato Giove. Nella Biblioteca comunale di Siena esiste un altro codice (il cit. L. V. 29) in un primo momento attribuito dallo Zambrini a Domenico da Ferrara col titolo di "Liber ballorum". Il trattato in realtà è senza titolo e reca il nome ricorrente di Guglielmo oltre ad una rubrica delle bassedanze di D. con la successiva spiegazione dei suoi balli. Nella rubrica sono enumerate le bassedanze: Curta, Reale, La Spagna, Nobile, Moderna, Ais, Gioiosa, Mignota, Fodra, Amorosa, Corona gentile, Mignota nuoua, Pellegrina, Flansca [sic], Principessa, Chatorna, Febus, Cupido, Piatosa, Meschina, Giuliua, Consolata, Diamante, Duchesca, Patientia, Dannes, Uenus, Lauro, Sole d'amore. Delle ultime tre manca però nel "liber ballorum" la descrizione, mentre è descritta una bassadanza Gioia e non Gioiosa. Segue poi la rubrica dei balli di D.: Gioioso (in due versioni), Lioncello (in due versioni), Berriguardo (in due versioni), Meschina, Angelosa, Gelosia, Giurintana, Gratiosa, Pregioniera, Gioue, Ingrata, Amor sguardo, Pinzochetta, Anello, Raia, Fortuna, Malgratiosa, Franco cuore gentile, Feretra, Fioretto, Angiola, Danza di re, Humana, Duchesco, Lezadra, Colonnese, Petite rose, La figlia Gugliemin, Margantia, Bel fiore, Principessa. Un'altra compilazione inedita del trattato è nel codice 973 del Fonds Ital. della Biblioteca nazionale di Parigi col titolo di Guilelmi Hebraei Pisauriensis de pratica seu arte tripudii vulgare opusculum e vi si trovano gli stessi titoli riportati nel codice Magliabechiano con poche varianti; la discordanza più notevole è che i balli Graziosa e Spero composti da D. nel Magliabechiano sono attribuiti a Guglielmo nel cod. 973. Ne Il libro dell'arte del danzare del Cornazzano, troviamo tra i dieci balli illustrati creati da D., tutti titoli più volte citati e tra i balli già fuori moda o troppo conosciuti, alcuni nomi che non abbiamo incontrato in precedenza come Pre' cigogna, Fidel ritorno, Madama Genevra, la Seve, Levoretta, Bassadança secreta. Un terzo codice parigino (Fonds Ital. 476) attribuito a Giovanni Ambrosio, forse un secondo nome di Guglielmo Ebreo dopo la sua conversione, è, secondo il Kinkeldey (p. 33), praticamente uguale a quello di Guglielmo, ma mentre l'Ebreo cita l'autore di ogni singola danza sia essa composta da lui stesso o dal suo maestro, nel trattato di Giovanni Ambrosio, D. non viene più citato, pur essendo ricordato come maestro dell'autore. Il manoscritto parigino 972, che è l'unico oggi attribuito a D., più che il vero originale si può considerare un estratto di esso piuttosto frettoloso ed approssimativo dove la grafia e talune notevoli varianti sembrano denunciare la presenza di diversi amanuensi alternatisi nel lavoro, mentre l'uso discontinuo della prima e della terza persona sembrano suggerire che il relatore trascrivesse in terza persona un testo originariamente scritto in prima. Il manoscritto appare inoltre non compiutamente rifinito e mancante delle miniature d'uso.

Come prototipo di tutti i trattati di danza del '400 esso presenta una prima parte teorica ed una seconda pratica con la codificazione delle danze. Il pensiero di D. si snoda attraverso la parte introduttiva con ricchezza d'immagini poetiche e con il gusto umanistico della citazione dotta. Dai riferimenti all'imperante cultura aristotelica sappiamo che D., con un indiscusso gusto per la disquisizione filosofica, seppe ridare dignità alla danza troppo spesso considerata "venerea e de perdizione de tempo" ed impose ai suoi allievi una teoria dell'uso del corpo "per fantasmata" tale da ridurre la materia ad un'espressione trasfigurata della pura intellettualità.

La capacità di mutuare dalla natura la velocità del falco e l'immobilità della pietra o di acquisire il perfetto controllo razionale del movimento esattamente inserito nel tempo musicale, con l'armonia misurata di un leggero moto ondoso, si viene a configurare come virtù e come indispensabile complemento del modo di essere della nobiltà del tempo.

Con tutto il rigore di una moderna codificazione, D. limita l'infinita gamma dei movimenti possibili a dodici figure basilari, di cui nove dette "naturali" e tre "accidentali" e ne fissa la durata musicale; definisce poi i rapporti ritmici tra le quattro danze in uso: la bassadanza che è la più lenta e comincia in levare, la quaternaria che è più veloce di un sesto e comincia in battere, il saltarello che è in ritmo ternario con inizio in levare ed è più veloce di un terzo rispetto alla bassadanza ed infine la piva, danza di origine contadina in quattro quarti con inizio incisivo e due volte più rapido di quello della bassadanza. Secondo il trattatista, la bassadanza ed il saltarello si possono danzare in cinque modi, la quaternaria e la piva in quattro. Le combinazioni dei passi su ritmi estremamente variati con un effetto, come dice il Sachs, assimilabile a quello del "jazz moderno", creano le premesse per la nascita di un modello coreografico che indulge a volte ad embrioni di rappresentazione teatrale con una leggera drammatizzazione del movimento in relazione al titolo della danza ed al cambiamento di ritmo.

Lo sforzo di codificazione delle possibilità motorie e la capacità di astrazione simbolica del gesto che caratterizzano l'opera di D. e della sua scuola non sono un dato assolutamente nuovo nell'Europa del '400 se si considera l'esistenza di un sistema di scrittura della danza già in uso alla corte di Nancy e testimoniato dall'esistenza di un manoscritto che riporta sette bassedanze eseguite nel 1445 per il matrimonio di Margherita d'Angiò conservato a Parigi (Bibl. naz., Fonds Fr. 5699). Certamente anche l'esperienza dei trattatisti italiani va inserita nel contesto sincretistico ed internazionalistico in cui affonda le sue radici la cultura dell'umanesimo. Proprio D. ci conferma essere a conoscenza dei rapporti esistenti tra saltarello, passo di Brabante ed alta spagnola o tra la quaternaria ed il saltarello tedesco. Inoltre egli, pur essendo anche il compositore delle musiche di tutti i suoi balli, ammette di aver utilizzato la ballata francese Fia Guielmin, mentre il suo Franco cuore gentile riecheggia un tema di G. Dufay, prova anch'essa che vi era osmosi tra le corti italiane ed il Ducato di Borgogna, celebre per la raffinatezza dei suoi costumi e per la sua splendida etichetta.

Il merito precipuo di D. sta tuttavia nell'aver trovato una chiave di lettura coerente con gli assunti della cultura del tempo, definendo il movimento razionalmente organizzato come proiezione spaziale dell'equilibrio interiore e nell'aver creato su queste premesse una scuola in grado di diffondere e tramandare fino ad oggi un momento tanto fugace quanto significativo della cultura del '400 europeo.

Fonti e Bibl.: F. Zambrini, Trattato dell'arte del ballo di Guglielmo Ebreo pesarese, Bologna 1873, p. 8; G. Messori Roncaglia, Della virtute ed arte del danzare et di alcune opportune et necessarie particelle a quella pertinenti, Modena 1885; Otto bassedanze di m. Guglielmo da Pesaro e di m. D. da Ferrara, a cura di M. Faloci Pulignani, Foligno 1887; E. Motta, Musici alla corte degli Sforza. Ricerche e documenti milanesi, in Arch. stor. lomb., s. 2, XIV (1887), pp. 29-64; G. Zannoni, Il "Libro dell'arte del danzare" di A. Cornazzano (1465), in Rend. della R. Acc. dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 4, VI (1890), I, pp. 281-291; E. Motta, Nozze principesche, Milano 1894, pp. 53 ss.; C. Mazzi, "Il libro dell'arte del danzare" di A. Cornazzano, in La Bibliofilia, XVII (1915-16), pp. 130; O. Kinkeldey, A J??ewish dancing master of the Renaissance: Guglielmo Ebreo, New York 1929, p. 4; A. Michel, The earliest dance manuals, in Medievalia et Humanistica, I (1945), p. 117; M. Dolmetsch, Dances of Spain and Italy, London 1954, p. 8; M. Wood, More histor. dances, London 1956 ad Ind.; D. Bianchi, Un trattato ined. di D. da P., in La Bibliofilia, LXV (1963), pp. 109-149; M. Wood, Historical dances, London 1964, ad Ind.; D. Heartz, A 15th. Century ballo Rôti Boulli Jojeux, in Aspects of Medieval and Renaissance music, New York 1966, p. 366; C. Sachs, Storia della danza, Milano 1966, p. 351; G. Tani, Storia della danza, Firenze 1983, II, pp. 355-376; M. Padovan, Da Dante a Leonardo: la danza ital. attraverso le fonti storiche, in La danza ital., III, Roma-Napoli 1985, pp. 24, 34 s., 37; P. Castelli, Il moto aristotelico e la "licita scientia". Guglielmo Ebreo e la speculazione sulla danza nel XV secolo, in Mesura et arte del danzare. Guglielmo Ebreo da Pesaro e la danza nelle corti ital. dal XV secolo (catal.), Pesaro 1987, pp. 35-38, 41 ss.; Enc. dello spett., IV, coll. 828 ss.

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