FETTI, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FETTI, Domenico

Gabriello Milantoni

Non sono noti con precisione né il luogo né la data della sua nascita. Tuttavia, confrontando il certificato di morte, redatto in Venezia il 16 apr. 1623, dove l'età del deceduto risulta essere di circa 34 anni (Archivio di Stato di Venezia, Necrologio n. 58, Provveditori alla Sanità n. 852), le fonti a stampa, che rammentano il pittore come "romano" (Gigli, 1615, p. 22; Martinelli, 1623, p. 18), morto "intorno alli trentacinqu'anni" (Baglione [1642], 1935, p. 155), e una dichiarazione autografa resa dall'artista in Venezia il 5 nov. 1622, dove attesta d'essere "Cittadino Romano", si ricava che il F. nacque a Roma circa nel 1588-1589.

Dal padre Pietro, pittore, forse originario di Ferrara (Safarik-Milantoni, 1990, p. 303), il F. apprese probabilmente i primi orientamenti artistici, presumibilmente devoti al carraccismo (si veda l'Autoritratto di Pietro Fetti a Firenze, Galleria degli Uffizi, n. inv. 1890/1812).

Forse allievo di A. Commodi (Mancini [c. 1619-1621], 1956-1967, I, p. 248), ma sicuramente alunno del Cigoli (Baglione [1642], 1935, p. 155), il F. non mancò tuttavia di assorbire, nella prima giovinezza, i linguaggi nuovissimi che andavano incrociandosi a Roma nel corso del primo decennio del Seicento (dal Caravaggio ad Annibale Carracci, da A. Elsheimer a P.P. Rubens). Anche le opere di F. Barocci e di O. Borgianni costituirono indimenticati testi di riferimento nella formazione dell'artista e comunque posero le basi, insieme alle straordinarie invenzioni di Annibale Carracci e del Rubens, per un primo approccio alle interpretazioni della luce-colore veneziana condotte da quei grandi maestri.

Gli esordi del F. sembrano tuttavia inclinare verso inflessioni del tardo manierismo romano, con un ripensamento degli stili esornativi di marca zuccaresca e arpinate. Gli otto partimenti con Scene allegoriche, posti a decorare le due ante di una porta, già nel palazzo Colonna, poi Rospigliosi, a Zagarolo, nel 1896 trasportata a palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma e ricomposta nell'ala successivamente passata nella proprietà della Federazione italiana dei consorzi agrari, sono impostati su lievi forme manieristiche (Milantoni, corso di stampa; gli otto elementi sono riferiti alla scuola di L. Orsi da A. Costamagna, in L'arte per i papi e per i principi nella Campagna romana. Grande pittura del '600 e del '700 [catal.], II, Roma 1990, p. 12, ill. 17). Forse la committenza di questo piccolo insieme si deve al duca Marzio Colonna, celebre protettore del Caravaggio in Zagarolo, nel periodo delle febbrili opere di abbellimento del feudo. In tal caso, l'esecuzione delle otto piccole tavole dovrebbe cadere entro il 1607, anno della morte del Colonna.

È in tutto verosimile, inoltre, che ai Colonna del ramo di Paliano, con residenza nel palazzo dei Ss. Apostoli in Roma, si debba sia la segnalazione del giovane F. al ramo colonnese di Zagarolo, sia la presentazione dell'artista al coetaneo cardinale Ferdinando Gonzaga (nato nel 1587, fu eletto alla porpora nel 1607; nel 1612 divenne duca di Mantova e del Monferrato, nel 1615 depose lo stato ecclesiastico).

Quest'ultimo, infatti, il 14 ott. 1611 risulta affittuario del Colonna di Paliano a Palazzo dell'Olmo in piazza della Pilotta (Roma, Archivio Colonna, Inuent.o de mobili esistenti nel Palazzo del Olmo affitt.o all'ill.mo et r.mo sig.r card.le Gonzaga, IIIBB. LXIX, n.29), alle spalle della proprietà in Ss. Apostoli e alle pendici del grande giardino che ascende verso il Quirinale (l'edificio fu abbattuto nel 1929 per erigere, al suo posto, la sede della pontificia università Gregoriana).

Appare flagrante in tal senso il primo pagamento elargito al F. dal Gonzaga ed annotato dal cardinale in un proprio libro di spese il successivo 7 dic. 1611 per "Pitture fatte", ipoteticamente identificate con S. Maria Egiziaca e S. Girolamo, nelle collezioni reali a Hampton Court, e forse anche con il S. Girolamo e con la copia parziale dalle Nozze Aldobrandine, entrambi a Praga, Galleria del Castello reale (Safarik-Milantoni, 1990, pp. 10, 218-220, 282-286).

Ma il contatto del F. con la potentissima famiglia Colonna parrebbe a sua volta risalire all'ambiente della Congregazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri in chiesa Nuova, da cui il 2 apr. 1610 il F. ricevette un pagamento di 2 scudi per uno smarrito ritratto del Beato Filippo da inviare al duca di Baviera (ibid., p. 332). Il 24 apr. 1611 il F. risulta, inoltre, "pittore alla chiesa noua" (ibid.), mentre anche il rimanente della famiglia dell'artista (il padre Pietro, la sorella Giustina, poi monacatasi con il nome di Lucrina presso le orsoline a Mantova, il fratello sacerdote Vincenzo) era votato al culto di Filippo Neri. Quasi certamente i rapporti della famiglia Fetti con i filippini risalivano a un'epoca precedente al 1610, mentre è nota la devozione della famiglia Colonna nei confronti del beato, circostanza che avrebbe potuto agevolmente favorire l'incontro del casato patrizio con il pittore.

Dopo aver assolto a una commissione per la chiesa dei cappuccini a Taggia (Imperia), elaborando la pala con la Pentecoste, che tuttora costituisce l'unico dipinto datato del F. (sulla tela è la scritta a lettere capitali: "Dominicus Fettus Fecit Romae 1611", che non può essere assunta come firma), l'artista si cimentò nella stesura del ciclo di sei lavagne raffiguranti Santi martiri (Mantova, Galleria di Palazzo ducale), di cui una, forse con S. Barbara, è monogrammata con una F entro una D sulla lama della spada sotto l'elsa, mentre è appena leggibile la data sottostante "16..", dove l'Ozzola (1948, pp. 137 s.) intravvedeva l'anno 1613. A tale riguardo non è escluso che ad essa possa riferirsi un pagamento di 100 scudi emesso dal duca di Mantova il 29 apr. 1613 a favore del F.; e nella cifra potrebbe rientrare forse il compenso per altre opere giovanili, come il S. Pietro piangente, Vienna, Kunsthistorisches Museum; il Suicidio di Cleopatra, Roma, collezione Fabrizio Lemme; Adone, già Vienna, vendita Dorotheum, 27-29 febbr. 1936, n. 9; Davide con la testa di Golia, Norimberga, Akademie der Bildenden Künste; Ino (Leucotea), Veltrusy (Repubblica Ceca), castello; o anche l'intenso Ecce Homo, Firenze, Galleria degli Uffizi (cfr. Safarik-Milantoni, 1990, p. 11). Tale circostanza, tuttavia, non costituisce prova a beneficio dell'ipotesi di un eventuale trasferimento dell'artista a Mantova nel corso del 1613, poiché i pagamenti potevano essere deliberati nella capitale del Ducato per lavori eseguiti al di fuori di esso; ed anche l'ordine ducale del 24 marzo 1614, che sancisce di stipendiare il F. con 15 ducatoni al mese, iniziando dal 29 giugno 1613, per "tante fatture di Pittura che fara a S. A." (ibid., p. 332), non è, al riguardo, elemento sufficiente che consenta di pensare il F. al lavoro nella città gonzaghesca. Inoltre, in una lettera scritta da Mantova e inviata a Roma al cardinale A. Damasceni Peretti di Montalto il 12 ott. 1613, il Gonzaga raccomandò il F. al porporato, che il 9 novembre successivo rispose accennando che il pittore era studente, in Roma stessa, presso i gesuiti. Se apprendiamo che, oltre gli oratoriani, anche i gesuiti rivestirono un ruolo nell'educazione dell'artista, è di grande interesse ipotizzare una verosimile connessione tra il Montalto, cardinale di S. Lorenzo in Damaso, e la commissione della pala con gli Angeli adoranti l'immagine della Madonna con il Bambino (Baltimora, Walters Art Gallery), ideata dal F. per la cappella Mainardi della medesima basilica romana, peraltro annessa al palazzo della Cancelleria (il Montalto rivestiva anche l'incarico di vicecancelliere apostolico). La datazione della tela ai primi mesi del 1614 (e comunque dovette essere ultimata prima del 2 genn. 1615, anno dell'istituzione di un censo perpetuo per la celebrazione di messe) confermerebbe altresì il protrarsi della presenza del F. in Roma almeno sino agli inizi del 1614 (ibid., p. 11).

Il trasferimento del F. a Mantova, lì chiamato dal duca Ferdinando, avvenuto quindi verosimilmente nel 1614, fu di cruciale importanza, inaugurando un itinerario che condurrà l'artista a ideare opere fondamentali per la storia dell'arte. Dal Gonzaga il F. ricevette subito l'incarico di pittore di corte, a suo tempo rivestito da Rubens. All'artista si presentò così la straordinaria opportunità di immergersi nella formidabile raccolta gonzaghesca, ricca peraltro di capolavori della pittura veneta, da Tiziano a Tintoretto, da Veronese a Bassano.

Dal S. Francesco consolato dall'angelo musicante (c. 1614; Dresda, Gemäldegalerie), passando attraverso Due angeli contriti (1614-15; Modena, Galleria Estense; già nell'oratorio della chiesa di S. Maria Gentile a Mantova), la Visione di s. Martino (1614-16; Correggio, chiesa di S. Quirino), fino alla Presentazione della Vergine al tempio (1615-1616; Mantova, palazzo ducale; già nella chiesa mantovana della Ss. Trinità), la pittura del F. si arricchisce di timbri e paste venete, mentre matura l'intelligenza degli allestimenti scenici, con scorci figurali dove le ombre acquistano un ruolo comprimario, vestendo le immagini di costante, inquieta melanconia.

Attivo principalmente per l'entourage gonzaghesco, il F. concepì attorno al 1616-17, probabilmente per palazzo ducale, due tele raffiguranti entrambe l'Imperatore Domiziano (Parigi, Musée du Louvre; Pommersfelden, Germania, galleria dei conti Schönbom-Wiesentheid) e i due pannelli decorativi con Imprese di Ferdinando Gonzaga (Mantova, collezioni private; cfr. Safarik-Milantoni, 1990, pp. 278-282). Una prova di impeccabile tenuta poetica, un rorido, intensissimo incrocio di culture toscana, rubensiana, borgiannesca, veneta, è indubbiamente la Madonna con Bambino e i ss. Anselmo e Carlo Borromeo (Mantova, Amministrazione istituti Gonzaga), lunetta ideata per il palazzo della Ragione nella città ducale.

Fu tuttavia nella serie con gli Undici apostoli e il Cristo benedicente (Mantova, Galleria di Palazzo ducale), eseguita tra il 1616 e il 1618 forse per un convento nel Viadanese, che l'artista espresse con pienezza sia l'elaborazione condotta sui. propri referenti (qui, importantissimo, il tintorettismo), sia la propria individuale libertà espressiva: la pittura è sciolta, carica, veloce e intensa, anticipa A. Carneo, E. Keil, i nenebrosi" e addirittura F. Hals.

Le Quattro scene della Passione di Cristo (Firenze, Galleria Corsini; il Cristo schernito e condotto al supplizio è monogrammato con una F inscritta in una D; la Deposizione di Cristo nel sepolcro, unico della serie su tavola, è opera di bottega), del 1617-18, condividono, nella dimensione più ridotta dei supporti, il medesimo tono raccolto e intenso del ciclo mantovano, mentre attorno al 1618 il F. concepì la Melanconia (Venezia, Gallerie dell'Accademia; altro esemplare a Parigi, Musée du Louvre), un'immagine di enorme fortuna, da cui furono tratte messi di copie e versioni, contemporanee e posteriori.

A capo di una attivissima bottega, il F. si giovò di un manipolo di collaboratori, sovente impiegati a replicare composizioni da lui ideate. Tra essi vanno innanzitutto ricordati la sorella Lucrina e il padre Pietro; a quest'ultimo si devono riconoscere il già citato Autoritratto e quasi sicuramente Isaccobenedice Giacobbe (Venezia, Gallerie dell'Accademia). Ma rammentiamo, oltre forse al fratello Vincenzo anche il pittore Motta (da identificarsi probabilmente con Camillo), insieme con il mantovano naturalizzato veronese Giovanni Battista Barca, con il veronese Dionisio Guerri e il francese Michele Mattei di Borgogna.

Nel frattempo a Mantova il F. aveva raggiunto una solida posizione economica e un vasto prestigio. Intimo di casa Gonzaga, nel 1618 compose un sonetto in morte di Margherita Gonzaga, vedova di Alfonso II d'Este.

Altre due sorelle del pittore, Giuliana Ferdinanda (al secolo Caterina) e Lucrezia Vittoria (al secolo Brigida), vestirono l'abito monacale nell'agosto 1618; il 12 ag. 1619 il F. versò 800 scudi alla badessa del monastero di S. Chiara a Migliareto, presso Mantova, per dotarle dei beni mobili e del corredo necessari alla loro vita conventuale (Safarik-Milantoni, 1990, p. 334).

Mentre casa Gonzaga continuava a elargire pagamenti al F. con causali tuttavia non specificate (17 aprile e 18 nov. 1619; ibid.), l'artista intratteneva rapporti con personaggi del mondo teatrale, come il comico fiorentino G. B. Andreini, che dedicò al pittore La venetiana, commedia in dialetto veneziano edita nel 1619 in Venezia e recitata al S. Cassiano. Il grande favore goduto dalla corte è inoltre testimoniato dal dono di una casa in Mantova, ubicata nella contrada dell'Aquila, presso la cosiddetta torre dello Zucchero, che il duca Ferdinando destinò al F. il 30 nov. 1620 (ibid.).

In questo periodo, che copre gli anni tra il 1618 e il 1620, il F. elaborò alcune memorabili composizioni: dall'Ecce Homo (già Venezia, collezione principi Giovanelli), macerato, introspettivo, allo Sposalizio mistico di s. Caterina, e i ss. Domenico e Pietro martire (Vienna, Kunsthistorisches Museum), dove nel volto di S. Domenico parrebbe scorgersi l'autoritratto del pittore (ibid., p. 207); dalla squillante, popolatissima Moltiplicazione dei pani e dei pesci, già nel refettorio del convento di S. Orsola (Mantova, Galleria di Palazzo ducale), a S. Maria Maddalena penitente (Roma, Galleria Doria Pamphili), prototipo sobrio e compunto di grande fortuna, così come vasta eco suscitò il dipinto di eguale soggetto già a Venezia, nella collezione Alessandro Zeno, sciolto, nervoso, impeccabile nell'unione di scrittura rubensiana e di cromia veneziana.

Nel medesimo arco di tempo il F. si cimentò anche nella ritrattistica con esiti di prima grandezza.

Il ritratto retrospettivo di Francesco II Gonzaga, IV marchese di Mantova (?) e il Ritratto retrospettivo di Federico II Gonzaga, I duca di Mantova (?) (il primo a Veltrusy, [Repubblica Ceca], castello; il secondo a Vienna, Kunsthistorisches Museum) sono ciò che resta dell'ampia decorazione eseguita dall'artista circa nel 1620 per la galleria della Mostra in palazzo ducale, costituita da ventitré ritratti gonzagheschi e diciotto puttini. Il Ritratto di Vincenzo Avogadro (Londra, Buckingham Palace, collezioni reali), rettore della chiesa mantovana dei Ss. Gervasio e Protasio, forse redatto in bottega, reca una data mutila, che tuttavia si è propensi a interpretare come 1620 (ibid., p. 288), mentre nel sottile, umanissimo Ritratto di donna cinquantaduenne (collezione privata) non è escluso si possa riconoscere un familiare del pittore (la madre?).

Appena successivi (1620-21) paiono essere sia i due poeti (Londra, Christie's, 13 dic. 1985, n. 89; Stoccolma, Nationalmuseum), sia il sottile, misurato Ritratto d'uomo con bricco d'oro e libro (forse identificabile con il tesoriere ducale Niccolò Avellani; Rohrau [Austria], castello, galleria Harrach), mentre il posteriore Ritratto di Francesco Andreini (San Pietroburgo, Ermitage), per essere non solo la descrizione dell'effigie del grande attore pistoiese, ma anche immagine sinibolica e universale dell'arte attorica, si colloca senza dubbio tra le vette più alte della ritrattistica italiana seicentesca.

La bottega del F., nel frattempo, lavorava a pieno ritmo, e sotto la guida del F. licenziava dipinti che, pur non essendo eseguiti direttamente dal pittore, recavano tuttavia l'imprimatur di autenticità, operando cosi. in modo analogo a quello di altri importanti studi seicenteschi, come, ad esempio, quello rubensiano. La serie di Dodici santi e sante, custodita a Hampton Court (collezioni reali), è in tal senso affatto rappresentativa.

L'insieme era in origine costituito da quindici opere (tre smarrite; due, S. Maria Egiziaca e S. Girolamo, giovanili), tredici delle quali cedute a Ferdinando Gonzaga il 7 luglio 1621 (Safarik-Milantoni, 1990, p. 337) per 195 scudi da defalcare dal prezzo complessivo di una terra ortiva in contrada Unicorno che il F. acquistò presso il duca medesimo. Parrebbe perciò che la ragione della notevole discontinuità qualitativa di queste opere (solo il Santo vescovo in preghiera sembrerebbe spettare, ancorché parzialmente, al K; mentre, ad esempio, la S. Maria Maddalena, desunta dal prototipo della Galleria Doria Pamphili, è forse di Lucrina, così come a Pietro Fetti può far pensare il S. Giuseppe, ilcui prototipo del F. è in collezione privata a Roma; ibid., pp. 222 s.) dipende dal fatto che il F. era solito riunire ciò che aveva a disposizione in bottega, eseguito da varie mani, in qualche modo formando serie, per alienarlo imprimendovi la propria paternità artistica.

Un'immagine di grande successo fu anche il Sogno di Giacobbe (c.1619; Vienna, Kunsthistorisches Museum, altro esemplare a Detroit, Institute of arts, e numerose copie), sensibilissimo dipinto precursore di tutti quei sogni, visioni, rapimenti ed estasi che tanta diffusione ebbero nel Seicento a venire.

Contestuale a questi esiti fu, tra il 1618 e il 1621, l'ideazione della serie forse più celebre del F.: le Tredici Parabole evangeliche, redatte per lo studiolo di Isabella d'Este. che a quel tempo il duca Ferdinando aveva trasferito dal pian terreno di corte Vecchia a palazzo ducale, nel proprio appartamento cosiddetto del Paradiso (per la complessa storia del ciclo, si veda ibid., pp. 67-133).

Le piccole storie evangeliche, ricche di velature e intrise di muta melanconia, costituiscono un'antologia completa del percorso pittorico del F., riunendo memorie toscane a sollecitazioni bassanesche, veronesiane e tintorettesche nella poetica intensamente atmosferica e umbratile propria all'artista.

Capolavoro di questo periodo è la tavola raffigurante Bacco e Arianna a Nasso, recentemente rinvenuta in collezione privata (Milantoni, in corso di stampa), peraltro l'unica opera firmata in corsivo dal Fetti. Probabilmente, in origine, parte di una boiserie, ovvero posto a decorare insieme con altri soggetti le ante di una grande porta, il dipinto, per via della scrittura rapida e vaporosa, nonché per i toni brillanti e le cupezze, apre alle successive composizioni del F., in particolare alle tre tavolette con Andromeda e Perseo, Leandro ed Ero, Galatea e Polifemo (Vienna, Kunsthistorisches Museum), concepite nel 1621-22, alle soglie del trasferimento dell'artista a Venezia.

Da questa composizione mitologica, Lucrina trasse una copia (Mantova, coll. Banca agricola mantovana; Milantoni, in corso di stampa), tuttavia già catalogata come un autografo del fratello (Safarik-Milantoni, 1990, pp. 245 ss.), testimonianza di quanto sia tuttora arduo, nel corpus dell'artista, distinguere le opere originali dalle copie, quando naturalmente esse siano di buona qualità (per Lucrina si rammentino almeno i casi di due Parabole quasi certamente eseguite da lei sulla base di prototipi del fratello che risultano ancor oggi smarriti: il Figliuol prodigo, Oella National Gallery of art di Washington, e Lazzaro e il ricco Epulone, già Milano, Finarte, 16-25 marzo 1968, n. 13, entrambe in precedenza ritenute del F.; ibid., pp. 122, 132 s.).

In questo stesso periodo, compreso tra il 1621 e il 1622, si colloca anche il piccolo ciclo con Quattro storie di Tobia (Tobit trova l'israelita morto, Tobit e Tobia seppelliscono l'israelita morto, entrambe smarrite; Tobia e l'angelo, Dresda, Gemäldegalerie; Tobia guarisce il padre cieco, San Pietroburgo, Ermitage). La riflessione sul senso della pittura di luce-colore veneziana è qui oltremodo flagrante e da addebitarsi certamente sia alla naturale inclinazione dell'artista, sia anche ad un approfondimento dal vivo condotto in laguna dal pittore nel corso di viaggi evidentemente precedenti a quello, certificato, dell'estate 1621, allorché il duca Ferdinando inviò il F. a Venezia per acquistare dipinti (ibid., p. 337).

A Venezia, tuttavia, il F. si stabilì definitivamente dopo il 28 ag. 1622, partendo improvvisamente da Mantova; il 10 settembre successivo inviò una lettera al duca per giustificare questa repentina risoluzione, comunque, in fondo, rimasta eniginatica (ibid., p. 338).

Nel corso del proprio soggiorno veneziano il F. realizzò alcuni tra i suoi massimi capolavori, liberi nella stesura nervosa, ricca di penombre e bagliori, nel tragitto personalissimo e inimitabile di un artista in cui la pittura è individuale espressione, totalmente affrancata dalle pratiche del disegno, della copia dall'antico, delle regole narrative.

La presenza del F. a Venezia, protetto dal senatore G. Contarini dagli Scrigni (il medesimo mecenate di C. Saraceni), fu tuttavia determinante anche per il percorso della pittura lagunare, suggellando un cammino che da Tintoretto approda a S. Mazzoni, per proseguire, attraverso il bolognese G. Crespi, verso S. Ricci e G. B. Piazzetta.

Nascono così opere di struggente intensità come il Martirio di s. Agnese (Dresda, Gemäldegalerie), il Martirio dei ss. Fermo e Rustico (Hartford, Conn., Wadsworth Atheneum), ma anche lo schiarito, dolcissimo Salvator mundi (New York, coll. priv.) o la Fuga in Egitto (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

A Venezia il F. s'impegnò subito nella realizzazione di un'opera non specificata destinata al Senato (la "Sala dei Pregadi"). Due lettere (9 e 10 febbr. 1623), indirizzate dall'agente mantovano V. Crova a un cancelliere ducale e allo stesso duca, testimoniano sia questo compito, sia il tentativo di persuadere il F. (che peraltro, nella lettera del 10 sett. 1622, aveva promesso al duca di ultimare in Venezia "quelli quatro quadretti", forse le Storie di Tobia, mai, comunque, consegnati al destinatario) a far ritorno a Mantova (Safarik-Milantoni, 1990, p. 339).

Successivamente, il 4 apr. 1623, il tesoriere ducale N. Avellani, in una lettera indirizzata da Mantova al duca Ferdinando, avvertì che il F. versava in pessime condizioni di salute (Luzio, 1913, p. 291). Improvvisamente aggravatosi, il F. morì a Venezia il 16 aprile seguente, giorno di Pasqua, nella propria abitazione ubicata nella parrocchia di S. Simeone Grande, lasciando un dipinto in cui forse si può riconoscere la sua ultima opera in assoluto, il S. Simeone (New York, coll. Robert e Bertina Suida Manning), indubbiamente ispirato al patrono della chiesa e stilisticamente fervido di echi futuri che, per via della compunzione leggera e dei toni soffusi, troveranno grande fortuna nella pittura francese del Settecento, soprattutto in H. Fragonard.

L'orazione funebre, scritta da G. A. Martinelli, recitata e pubblicata in Mantova nel 1623, reca una dedica a G. Contarini dagli Scrigni e non al duca Ferdinando, come ci si aspetterebbe, considerando che il F., benché esule volontario, rimase comunque pittore della corte mantovana fino alla morte. Non è possibile stabilire dove l'artista sia stato sepolto: il pavimento della chiesa di S. Simeone Grande fu rimosso nel XVIII secolo, mentre a Mantova, dove pure furono celebrate le esequie, come tramanda l'opuscolo del Martinelli, non v'è traccia del suo sepolcro.

Fonti e Bibl.: Per una bibliografia completa sul F. e per un regesto dei documenti cfr.: E. A. Safarik-G. Milantoni, F., Milano 1990. E inoltre: G. C. Gigli, La pittura trionfante..., Venezia 1615, p. 22; G. Mancini, Considerazioni sulla pittura... (1619-21), a cura di A. Marucchi, Roma 1956-57, I, p. 248; G. A. Martinelli, Oratione nell'esequie del ... sig. D. F. pittore,Mantova 1623;G. Baglione, Le vite de' pittori... [1642],a cura di V. Mariani, Roma 1935, p. 155;A. Luzio, La Galleria dei Gonzaga..., Milano 1913,pp. 286, 291; M. Endres Soltmann, D. F.,München 1914; Sei e Settecento italiano. D. F..., a cura di R. Oldenbourg, Roma 1921;M. Marangoni, D. F., in Dedalo, XI(1923),pp. 695-710; L. Ozzola, D. F. nella Galleria di Mantova, in Emporium, CVIII (1948), pp. 137-142; W. E. Suida, Italian Baroque paintings in American collections...,in The Art Quarterly, XVII (1954), pp. 99-107; P.Askew, The Parable paintings by D. F., in The Art Bulletin, XLIII (1961),pp. 21-45;M. Zerbi Fanna, Lucrina Fetti pittrice, in Civiltà mantovana, n. s., 1989,nn. 23-24,pp. 35-53; La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989,pp. 737s. e ad Ind.; G. Milantoni, Mémoire Seicento, in corso di stampa; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, pp. 508 s.; 510 (per Lucrina).

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