GUIDI, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDI, Domenico

David Bershad

Nacque il 6 giugno 1625 a Torano, piccolo paese oggi frazione di Carrara. Il padre Giovanni commerciava in marmi e la madre, Angela Finelli, era sorella del celebre scultore Giuliano.

Nel 1639 il G. si recò a Napoli per assistere lo zio nella realizzazione di una serie di statue in bronzo, raffiguranti santi locali, per la cattedrale della città. Qui apprese l'arte del "modellare, disegnare e scolpire" e da Gregorio de Rossi, che si occupava della realizzazione dei calchi dai modelli di Finelli (Arch. di Stato di Roma, Cartari Febei, vol. 12), apprese le tecniche di fusione.

Dopo la morte di Rossi, il G. si occupò dei calchi delle ultime sette statue della serie. I contorni ben definiti e le superfici scabre, che più tardi divennero un elemento essenziale del suo stile, sono quelli tipici di Finelli.

Il progetto impegnò il G. fino al 1647, anno in cui rivolse temporaneamente i suoi interessi alla politica, all'epoca della rivolta popolare di Masaniello a Napoli.

Sia il G. che Finelli presero parte alle proteste contro le imposizioni fiscali del governo spagnolo; e il G. venne anche nominato capitano del suo rione. La rivolta ebbe vita breve; e quando terminò molti dei seguaci di Masaniello vennero imprigionati e giustiziati.

Nel 1649 il G. lasciò Napoli per Roma, dove entrò nello studio di Alessandro Algardi, e vi rimase fino alla morte di questo, nel 1654, collaborando a molte pale d'altare di grandi dimensioni e scolpendo busti di marmo da modelli di terracotta.

I due maggiori progetti ai quali il G. lavorò in questo periodo romano sono il rilievo monumentale con Papa Leone che caccia Attila da Roma (1646-53: S. Pietro in Vaticano) e l'altare maggiore di S. Nicola da Tolentino (1653-54). Algardi morì prima di completare il secondo dei due progetti, che venne portato avanti dallo stesso G., da Ercole Ferrata e da Francesco Baratta. Al G. venne affidata la scultura di un gruppo raffigurante La Vergine con il Bambino e i ss. Agostino e Monica, le cui linee classiche riflettono l'influenza di Algardi.

Il classicismo rimase parte integrante dello stile del G. anche dopo che ebbe messo su un proprio studio, nel 1654. Per questo motivo molti degli ex mecenati di Algardi continuarono a commissionargli lavori.

Una delle sue prime commissioni come scultore indipendente fu una statua di marmo della Temperanza (circa 1654) per la cappella Cerri nella chiesa del Gesù.

Algardi aveva scolpito i ritratti di diversi membri della famiglia Cerri e della famiglia Rondanini. Quest'ultima scelse il G. per la realizzazione della Tomba di Natale Rondanini (circa 1657) in S. Maria del Popolo.

Mentre entrambi i monumenti mantengono le forme essenziali delle composizioni di Algardi, tanto che la Temperanza ricorda la S. Maria Maddalena (circa 1629: S. Silvestro al Quirinale) e la tomba Rondanini richiama il Monumento a Prospero Santacroce (circa 1645: S. Maria della Scala), nessuno dei due è altrettanto raffinato nell'esecuzione.

La ragione di questa discrepanza nella qualità è da ricercarsi nel metodo di lavoro del Guidi. Al contrario di altri artisti attivi nella stessa epoca, egli riempì il suo studio soprattutto di operai specializzati, ai quali forniva come base dei disegni che potevano essere riutilizzati in contesti differenti. Questo da una parte permise al G. di produrre lavori a un costo più basso e in un lasso di tempo inferiore a quello di qualsiasi suo concorrente, dall'altra compromise l'integrità di alcuni suoi disegni e spinse più di un membro dell'Accademia di S. Luca a bollare il suo lavoro come mediocre (Pascoli, 1730, p. 252). Nicolas Poussin non condivideva questo giudizio. Grande amico di Algardi e uno dei primi esponenti del classicismo nell'arte barocca, egli volle il G. come assistente per la realizzazione di tre erme rappresentanti Pallade, Pan e un Fauno per la villa di Nicolas Fouquet a Vaux-le-Vicomte. Realizzate tra il 1656 e il 1661, esse facevano originariamente parte di una vasta serie progettata a imitazione di quelle antiche; e risultarono così convincenti che, dopo l'arresto del Fouquet nel 1661, vennero acquistate da Luigi XIV e trasportate a Versailles.

Nel 1659 il G. ottenne la sua fino ad allora miglior commissione: la realizzazione di un rilievo monumentale raffigurante la Lamentazione per la cappella del Monte di pietà a Roma. Affidato al G. grazie all'influenza del cardinale I. Franzoni, per il quale Algardi aveva disegnato una cappella dei Ss. Vittore e Carlo a Genova, il progetto impegnò l'artista per i successivi diciassette anni.

In una maniera che ricorda il rilievo di Algardi con Papa Leone che caccia Attila da Roma, la composizione è divisa in tre sezioni: in cima, Dio Padre è circondato da una schiera di angeli che portano gli strumenti della Passione; in fondo la Vergine Maria e Maria Maddalena piangono il Cristo morto; al centro, Giuseppe d'Arimatea osserva la scena. L'intera rappresentazione si svolge lungo una grande curva che sale dall'angolo in basso a destra, una soluzione che il G. avrebbe ripreso anche in altri successivi rilievi. Lo scultore si ispirò ai rilievi di Algardi anche per decidere come sistemare la rappresentazione lungo questa curva. In entrambi i lavori, il senso della profondità viene conferito alterando il grado con il quale le figure si proiettano dalla superficie del rilievo: quelle in primo piano sono scolpite a tutto tondo in modo da portarle più vicino a chi guarda; mentre le altre sullo sfondo diventano via via più piatte e più piccole a seconda di quanto si vuole che appaiano lontane. Le gradazioni nei rilievi del G. sono meno significative che in quelli di Algardi, e creano un ridotto senso dello spazio. Le composizioni appaiono compresse e affollate; ed è questa un'impressione accresciuta dall'eccessivo uso del drappeggio. Una simile enfasi dei dettagli decorativi riflette l'influenza di Finelli, che pure tendeva a rendere il drappeggio delle sue figure molto elaborato. Anche la modellatura richiama l'opera di Finelli, le cui statue per la cattedrale di Napoli mostravano pieghe delicate e dai contorni netti simili a quelle della Lamentazione.

Mentre lavorava a quest'opera, il G. portò a termine anche alcuni importanti monumenti funebri. Nel 1661 eseguì la Tomba di monsignor Carlo Emanuele Vizzani per S. Maria sopra Minerva. L'anno successivo disegnò la Tomba di Livia Prini Santacroce (1662; S. Maria della Scala), usando come prototipo il monumento commemorativo a suo figlio Prospero Santacroce, eseguito da Algardi. In seguito, realizzò la Tomba di Francesco de Vides (1663), che, dalla sua ubicazione originaria in S. Giacomo degli Spagnoli, è stata trasferita a S. Maria di Monserrato verso la fine del XIX secolo (Weil, p. 150).

Nel 1665 cominciò la Tomba di Orazio Falconieri in S. Giovanni dei Fiorentini, nella quale i ritratti del defunto e della moglie Ottavia Sacchetti sono sostenuti da una figura allegorica rappresentante la Carità, come nel Monumento del cardinale Lelio Falconieri (1665-85) di Ercole Ferrata, situato nella stessa cappella.

Nel 1668 la crescente fama del G. spinse Gian Lorenzo Bernini a volerlo come assistente per la decorazione di ponte S. Angelo. Egli fu uno degli otto artisti reclutati dal grande scultore per la realizzazione della serie di statue raffiguranti gli angeli che reggono i vari strumenti della Passione di Cristo.

Al G. venne assegnato L'angelo con la lancia. La decisione di Bernini di assumerlo rappresenta un fatto abbastanza inusuale, dal momento che i due, a causa del loro stile differente, non avevano ancora collaborato ad alcun progetto, nonostante Riccoboni (p. 208) affermi che il G. accompagnò Bernini a Parigi nel 1665.

La differenza nei due stili trova una conferma nel modo in cui il G. realizzò il disegno di Bernini. Ne seguì, infatti, la postura generale e le proporzioni; ma portò la lancia più vicina al corpo dell'angelo e ridusse le spire arabescate dei suoi vestiti in pieghe più piccole e spigolose. Questo diede alla figura un aspetto più contenuto, maggiormente in linea con le inclinazioni classiche del G., ma fu inoltre funzionale a un altro scopo: la statua doveva essere collocata in un punto dove sarebbe stata visibile anche la sua parte posteriore e per questo doveva essere completata su ogni lato, un obiettivo più facilmente raggiungibile se il lavoro fosse stato meno elaborato.

Poco dopo aver completato L'angelo con la lancia, il G. venne accoltellato da un aggressore sconosciuto. Secondo Carlo Cartari, archivista di Castel Sant'Angelo e stretto amico dello scultore, non c'erano motivi che giustificassero il fattaccio, sebbene si pensasse a una vendetta (Weil, p. 33). È comunque interessante notare come l'evento coincidesse con la nomina del G. a direttore dell'Accademia di S. Luca.

Era diventato membro dell'Accademia nel 1651 e aveva ricoperto varie posizioni nell'organizzazione, prima di assumerne la guida. Tra i compiti che gli spettavano come direttore, c'erano il controllo delle commissioni, lo snellimento delle pratiche relative alle successioni e la soluzione delle dispute tra artisti e vari Ordini religiosi. Portò anche avanti, e vinse, un'azione legale per la sospensione di una tassa imposta ai membri dell'Accademia da Urbano VIII. Dopo questa vicenda, il G. venne rieletto nel 1670 e nel 1675.

Nel 1671, lo scultore realizzò la statua di Clemente IX, per la tomba del papa in S. Maria Maggiore.

Sebbene papa Clemente non desiderasse un monumento molto elaborato, il suo successore Clemente X commissionò a Carlo Rainaldi un progetto degno del venerato papa. In linea con la maggior parte delle tombe papali dell'epoca, il disegno di Rainaldi si basò sulla Tomba di Urbano VIII di Bernini (1628-47: S. Pietro in Vaticano), con Clemente IX che appare seduto su un trono elevato rispetto al punto di vista di chi guarda, la mano destra sollevata nell'atto di benedire. Ai lati è affiancato da figure allegoriche che rappresentano la Fede e la Carità, scolpite rispettivamente da Cosimo Fancelli ed Ercole Ferrata. Invece di porre queste figure ai piedi della tomba del papa, come aveva fatto Bernini, Rainaldi costruì delle nicchie separate per ciascuna di esse, similmente a quanto aveva fatto Leonardo da Sarzana per la Tomba di Nicola IV (1574) situata proprio nella navata centrale. Quando venne finalmente scoperta, l'opera fu molto lodata, sebbene la figura realizzata dal G. fosse criticata da Bernini, forse per motivi personali piuttosto che professionali. Il G., infatti, si era precedentemente lamentato perché Bernini stava spendendo troppo denaro per la decorazione di ponte S. Angelo. Inoltre, prima della morte di Clemente IX, Bernini era stato ingaggiato per progettare un monumento commemorativo per il papa, più modesto di quello poi realizzato, ma sotto Clemente X venne escluso dal progetto. Comunque, è anche plausibile che a Bernini semplicemente non sia piaciuta la statua del G., piuttosto arcaica se paragonata ai dinamici ritratti papali da lui realizzati.

Tre anni dopo aver lavorato alla Tomba di Clemente IX, il G. ricevette una importante commissione dal cardinale Alderano Cibo, della famiglia dei duchi di Massa, protettore di S. Agnese in Agone, dove il rilievo decora l'altare maggiore.

Sebbene sia stato tradizionalmente descritto come la rappresentazione della Sacra Famiglia, Rudolf Preimesberger, ha correttamente identificato nella scena l'illustrazione del Ritorno della Sacra Famiglia dall'Egitto, basandosi su un passo dello Pseudo Bonaventura (Bershad, 1977, p. 24). Nel rilievo, il piccolo s. Giovanni Battista, accompagnato da Elisabetta e Zaccaria, si avvicina al Cristo bambino, di ritorno dall'Egitto, per comunicargli che è destinato a essere il salvatore del mondo. Per questo la figura principale della scena è quella di s. Giovanni Battista, al quale l'altare è dedicato. Sebbene il rilievo sia stato realizzato vent'anni dopo la Lamentazione, la composizione è essenzialmente la stessa. La parte anteriore è occupata dalla Sacra Famiglia e da s. Giovanni Battista e i suoi genitori; mentre gli angeli si librano al di sopra raccogliendo datteri da una palma. Ancora una volta, l'intera scena segue un'unica curva che sale dall'angolo in basso a destra. Come nella Lamentazione le gradazioni del rilievo sono usate per dare il senso della profondità, sebbene qui siano sensibilmente ridotte. Questo rende l'assenza di illusione spaziale ancora più evidente; e per indicare la distanza dallo spettatore le figure sono disposte una sull'altra piuttosto che essere appiattite e sovrapposte gradatamente. Simile è anche l'enfasi che lo scultore mette nei drappeggi delle figure. Ma nella Sacra Famiglia la tendenza del G. a coprire i corpi con abiti ampi e scarsamente definiti raggiunge un livello più elevato, grazie al sacrificio dell'individualità delle sue figure a favore dello schema decorativo d'insieme della composizione. Si conferma così l'eredità acquisita da Finelli, dal momento che le composizioni di Algardi erano, al contrario, sempre molto pulite e pienamente definite. Il G. potrebbe anche essere stato influenzato da Giovanni Lanfranco, che affrescò il soffitto della cattedrale di Napoli, dal momento che le figure della Sacra Famiglia possiedono una certa qualità pittorica.

L'abilità del G. di combinare la qualità pittorica con il classicismo di Algardi, gli guadagnò l'ammirazione di artisti e mecenati francesi. Rispetto ai primi contatti avvenuti nel 1655, le relazioni si fecero ancora più strette in seguito all'istituzione, a Roma nel 1666, dell'Accademia di Francia e all'amicizia del G. con il suo direttore, Charles Errard.

Se al G. non sfuggivano i benefici sia sociali sia professionali di un'amicizia con Errard, la loro relazione si basava anche su un comune interesse per la storia e la letteratura francese. Egli chiese perfino a Errard di fare da padrino a sua figlia, Maria Maddalena, nata il 27 ott. 1670.

In tutto questo periodo, il G. fu anche in contatto con Charles Le Brun, direttore dell'Accademia di Parigi e pittore alla corte di Luigi XIV. Durante il suo terzo mandato come direttore dell'Accademia di S. Luca, il G. nominò Le Brun membro onorario e lo invitò a svolgere la funzione di direttore negli anni 1676 e 1677. Le Brun accettò l'incarico, ma non poté lasciare Parigi, il che spinse il G. a suggerire che Errard potesse sostituirlo. Le Brun accettò questa soluzione, e in cambio nominò il G. uno dei quattro rettori dell'Accademia di Francia a Roma.

Secondo Wittkower (1938-39, p. 189), Le Brun mostrò la sua gratitudine anche procurando al G. la commissione per realizzare un gruppo scultoreo per il palazzo di Versailles. Conosciuto come La Renommée, esso venne commissionato al G. intorno al 1677 e fu completato nel 1686.

Il lavoro, a grandezza più che naturale, è un'allegoria che glorifica il regno di Luigi XIV. Al centro del gruppo appare la Fama mentre scrive le imprese di Luigi XIV sul libro della storia. Il libro è appoggiato sulla schiena del Tempo, il quale stringe un ritratto del re. Sotto la Fama giace la personificazione dell'Invidia a simboleggiare il trionfo del re sulla ribellione e l'eresia. A fianco dell'Invidia, alcuni medaglioni raffigurano Giulio Cesare, Scipione l'Africano, Alessandro Magno e Traiano. Questo schema elaborato venne in gran parte fornito da Le Brun, che inviò al G. i disegni del suo progetto da usare per la realizzazione del monumento. Nella versione della Renommée di Le Brun, i modelli antichi di Luigi XIV erano rappresentati dalle teste di vari re e imperatori, sistemati ai piedi del Tempo e la figura dell'Invidia non era schiacciata dalla Fama, ma appariva sullo sfondo, nell'atto di stringere un rettile attorcigliato intorno al suo braccio. Sebbene il G. avesse apportato al monumento solo cambiamenti minori, questi furono sufficienti a mettere a dura prova la sua relazione con Le Brun; e dal 1680 i due artisti interruppero ogni contatto. Nonostante lo screzio, il monumento acquistò tale notorietà prima ancora di essere completato che la regina Cristina di Svezia visitò lo studio del G. per vedere immediatamente la statua. Ma quando l'opera arrivò a Versailles, il re si lamentò per l'eccessivo drappeggio degli abiti della Fama, sebbene giudicasse il gruppo positivamente. D'altra parte egli aveva giudicato negativamente anche il Monumento equestre di Luigi XIV di Bernini (1669-77), dolendosi dell'eccessiva enfasi messa dall'artista nella realizzazione del cavallo.

Il monumento del G. venne di conseguenza collocato, invece che nel palazzo come era stato in un primo tempo deciso, nel giardino, nel "bassin de Suisse", da dove nel 1702 fu spostato nel "bassin de Neptune".

Mentre lavorava alla Renommée, il G. portò a termine altri importanti monumenti funebri. Tra questi si ricorda la Tomba del cardinal langravio Federico d'Assia per la cattedrale di Breslau.

Eseguita tra il 1680 e il 1683, essa è una variante della Tomba di Alessandro VII (1673-74) di Bernini. In entrambi i lavori, il defunto è raffigurato in ginocchio sulla sommità della tomba, in una posa di eterna adorazione, ed è affiancato da figure allegoriche. Alla sinistra del cardinale, la Verità che schiaccia l'Eresia; alla sua destra, la personificazione dell'Eternità. Lo sguardo del cardinale è fisso sulla statua di S. Elisabetta (1679-83), eseguita da Ercole Ferrata, per la quale aveva una particolare devozione e alla quale la cappella era intitolata.

Sia stilisticamente sia per la composizione, la Tomba del cardinale d'Assia ricorda da vicino quelle di Monsignor Marcantonio Oddi (circa 1658: Perugia, S. Agostino) e del Cardinale Lorenzo Imperiale (circa 1675: Roma, S. Agostino).

Realizzati nell'arco di tempo di una ventina di anni, questi monumenti raffigurano il defunto volto a destra, inginocchiato su di un cuscino. Le maniche delle tuniche (identiche per i due cardinali) mostrano tutte lo stesso complesso disegno a zig zag fatto di pieghe spigolose e marcate. Il G. ripeté inoltre minuscoli dettagli decorativi, come il disegno a forma di diamante sulle nappe dei cuscini, sui quali sono inginocchiati i cardinali. Questi tratti sono talmente peculiari del suo stile che molte opere sono state attribuite a lui sulla base della loro presenza. È il caso del Monumento funebre del cardinale Johann Walter Slusius (circa 1687: Roma, S. Maria dell'Anima), nel quale le maniche della tunica e le nappine del cuscino sono lavorate nella stessa identica maniera.

La tendenza del G. a usare gli stessi motivi in più lavori è evidente anche nel Sogno di s. Giuseppe (1686: Roma, S. Maria della Vittoria). Concepito come pala d'altare per la cappella Capocacci, il G. lo progettò come pendant dell'Estasi di s. Teresa di Bernini (1647-52), che si trova dall'altra parte del transetto.

Come nel monumento di Bernini, la scena raffigura il santo mentre ha una visione offerta da un angelo che scende lungo raggi di luce divina. Sia la fattura dell'angelo sia la sua posa derivano dal S. Michele di Algardi, del quale il G. fece il calco durante il suo apprendistato; mentre la statua di s. Giuseppe si basa su quella del Tempo nella Renommée. Il drappeggio delle figure è modellato sbrigativamente come nelle altre opere del G.; anche il modo in cui s. Giuseppe e l'angelo sono sovrapposti è tipico della sua produzione. Pierre-Étienne Monnot si servì di molti di questi tratti nei suoi rilievi laterali della cappella, raffiguranti L'adorazione dei pastori e La fuga in Egitto, fornendo un'ulteriore prova della crescente influenza del G. sui giovani artisti francesi a Roma.

Dopo aver completato Il sogno di s. Giuseppe, lo scultore eseguì una serie di tre busti di Alessandro VIII Ottoboni.

Datati approssimativamente al 1690, essi sono identici nell'aspetto: due sono realizzati in bronzo (Roma, collezione Ottoboni; Londra, Victoria and Albert Museum) e uno in terracotta (Los Angeles, County Museum). Secondo Cartari, i busti furono commissionati dalla famiglia Ottoboni e dai magistrati di Terni e di Rieti. In ciascuno di essi, il papa è raffigurato con la testa inclinata lievemente verso destra e indossa una mozzetta con guarnizioni di pelliccia in cui si riconosce chiaramente il marchio del G. costituito dal tipico andamento a pieghe spigolose. L'orlo della mozzetta è lievemente sollevato da entrambe le parti, il che dà un senso del movimento rafforzato dalle pieghe a forma di "S" che la veste crea sul torace del pontefice. Sulla mozzetta il pontefice indossa una stola decorata con lo stemma di famiglia, e con le chiavi e la corona papali.

Questi stessi motivi ricorrono in molti altri busti papali attribuiti al Guidi. Uno in bronzo di Alessandro VII (circa 1691: Roma, Farnesina), inizialmente riferito a Bernini, ha gli stessi tratti angolari sulle maniche e le stesse pieghe sul torace. In un busto di marmo di Innocenzo XI (Londra, Heim Gallery), eseguito intorno al 1693, il G. raffigura il papa rivolto a destra, che indossa una mozzetta con guarnizioni di pelliccia e su di essa una stola con un disegno simile a quella di Alessandro VIII. La mozzetta di Innocenzo XII (circa 1694: Napoli, villa Pignatelli) è sollevata ai lati come nel busto di Alessandro VIII.

Il modello di tutte queste opere è il ritratto in terracotta di Innocenzo X di Algardi, conservato a Roma in palazzo Odescalchi. Il G. modificò leggermente il disegno aggiungendo guarnizioni di pelliccia alla mozzetta ed esagerando le pieghe degli abiti; ma si attenne strettamente all'insieme della composizione.

L'ultima commissione papale al G. arrivò nel 1692, quando venne incaricato da Innocenzo XII di decorare il battistero di S. Pietro in Vaticano. Il progetto prevedeva la realizzazione di un gruppo raffigurante Il battesimo di Cristo e di quattro figure allegoriche: la Religione, la Fede, l'Innocenza e la Purezza. Il G. affidò l'ultima ad alcuni assistenti, tra i quali lo scultore francese Jean-Baptiste Théodon, da lui fortemente influenzato, come appare evidente nel successivo rilievo dello scultore francese con Giuseppe che distribuisce il grano agli Egiziani (1705: Roma, cappella del Monte di pietà), dove l'insieme delle figure è disposto lungo una grande curva.

Un altro giovane artista ispirato dal G. fu Pierre Legros, il cui Tobia e l'esattore (1705: ibid.) ripete gli stessi elementi della Lamentazione ripresi nel rilievo di Théodon. Dal momento che Legros non lavorò mai direttamente per il G., è molto probabile che i due si siano incontrati all'Accademia francese, che il G., su invito del direttore, occasionalmente visitava. La richiesta di ispezionare il lavoro degli studenti e di offrire loro consigli e valutazioni era un onore concesso prima solo a Bernini.

L'alta considerazione di cui godeva il G. presso i francesi, si consolidò negli ultimi decenni del secolo quando, dopo la morte di Bernini nel 1680 e di Ercole Ferrata e Antonio Raggi nel 1686, egli fu considerato il primo scultore romano. Verso la fine degli anni Novanta, lo stile del G. divenne sinonimo di gusto francese a tal punto che il principe Guido Vaini lo volle per realizzare una statua di Luigi XIV (inizio del 1697: Roma, villa Medici) per il suo palazzo romano. Vaini aveva deciso di farla erigere dopo aver visitato Parigi e aver ricevuto l'Ordine di S. Spirito. La statua, l'ultima grande opera del G. prima della sua morte, raffigura il re vestito con una corazza e incoronato d'alloro.

Sopra la corazza il re indossa un'ampia tunica decorata di gigli e chiusa da un'unica fibbia sulla destra. Con la mano sinistra tira indietro le pieghe della tunica, a rivelare una fascia legata intorno al torace; mentre nella mano destra stringe un bastone. I suoi sandali sono annodati alle caviglie e terminano con delle teste leonine che attirano l'attenzione sulla pelle di leone posta sotto il suo piede destro; il piede sinistro poggia trionfalmente su un globo, conferendo al sovrano un'austera posa in contrapposto.

Poco dopo aver iniziato la statua, il G. ricevette alcune minacce di morte da sconosciuti che gli chiedevano di abbandonare il progetto.

Un'indagine condotta dal cardinale E.-Th. de Bouillon scoprì che le minacce venivano dall'ambasciatore dell'imperatore Leopoldo I d'Austria. Il motivo delle intimidazioni stava nel fatto che il G. aveva inserito nella scultura elementi tradizionalmente riservati alla rappresentazione dei sovrani del Sacro Romano Impero, come il bastone, la fusciacca e la corona d'alloro. Di tutti questi elementi, il più controverso era il globo, simbolo di dominio utilizzato nei monumenti dei cesari e che all'epoca era considerato un attributo della Verità. Sistemato accanto a una pelle di leone, che simboleggiava la leggendaria discendenza dei re francesi da Ercole, il globo identificava Luigi XIV come la personificazione della Vittoria e della Verità e l'erede legittimo del Sacro Romano Impero. Alcuni anni prima, già Bernini aveva usato l'impresa di Carlo V nel suo Monumento equestre di Luigi XIV per lasciar intendere che Luigi era il vero legittimo imperatore.

Artisti francesi, come François Girardon e Antoine Coyzevox, avevano ritratto spesso Luigi XIV con le sembianze di un Cesare, e potevano essere state fonte d'ispirazione per il G., sebbene le ampie pieghe e la posa vigorosa della sua statua siano indici di una concezione assolutamente autonoma. D'altra parte è difficile valutare la qualità complessiva della statua del G., dal momento che questa venne portata a termine da un artista francese dopo che lo scultore, temendo per la sua vita, abbandonò il progetto. Per molti anni il posto in cui si trovava la statua rimase sconosciuto a causa dell'anonimato dell'ultimo scultore e delle false voci su una sua distruzione durante la Rivoluzione francese.

Recentemente, alcuni studiosi hanno tentato di attribuire vari lavori al G., come la statua di Andromeda conservata a New York nel Metropolitan Museum (Bacchi, 1994, pp. 64-70).

Esistono prove documentarie che il G. scolpì un'Andromeda (fra il 1686 e il 1696 circa) per Francesco II d'Este, duca di Modena. Secondo Giuseppe Campori, la statua rimase nel palazzo ducale fino al 1771, quando venne trasferita in un posto sconosciuto. L'antiquario George Verte, durante un viaggio in Inghilterra nel 1727, vide una statua di Andromeda del G. alla Burghley House. Secondo Bacchi, lo scultore avrebbe eseguito una seconda Andromeda per la famiglia Cecil conti di Exeter, proprietari della collezione. A complicare ulteriormente la questione, i cataloghi della Burghley House dalla fine del XVIII secolo in poi attribuiscono l'Andromeda a Monnot e non a Guidi. Dopo aver acquistato l'Andromeda dalla Burghley House nel 1958, il Metropolitan Museum mantenne questa attribuzione. Bacchi, comunque, crede che la statua sia più vicina allo stile del G., citando come prova le sue pieghe angolose e spigolose.

Al G. sono stati attribuiti anche alcuni disegni. Nel 1939 Edgar Wind ne pubblicò due dalla collezione di A. Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, attribuendoli appunto al Guidi.

I disegni costituiscono i bozzetti preparatori per due figure allegoriche raffiguranti la Giustizia e la Prudenza. Intorno al 1699 il conte aveva mandato John Closterman in Italia per procurarsi una serie di virtù disegnata da uno scultore italiano. Wind collega i bozzetti a una lettera di Closterman in cui si afferma che egli sta per mandare al conte due disegni del G., argomentando che la Prudenza ricorda da vicino la sua statua, raffigurante la stessa virtù, in S. Andrea della Valle (Tomba del conte Gaspare Thiene, circa 1678). Frederick Den Broeder usa un argomento simile per suggerire che il G. disegnò e parzialmente eseguì un Monumento di Innocenzo XII (circa 1696) per la cattedrale di Napoli, constatando che il ritratto del papa ricorda da vicino lo stile dei ritratti della Tomba di Orazio Falconieri. Den Broeder assegna al G. anche un disegno preparatorio del monumento (Londra, British Museum) inizialmente attribuito a Carlo Maratta. Questa attribuzione è interessante, dal momento che Maratta e il G. erano molto amici; e il loro lavoro è stato comparato in più di un'occasione. (Wittkower, 1999, p. 127). Maratta inoltre realizzò nel 1680 un Ritratto di Domenico Guidi, conservato a Londra (British Museum), nel quale l'artista, ormai maturo, viene rappresentato come un uomo elegante e di bell'aspetto. Questo concorda con le testimonianze dei contemporanei e con la descrizione che ne fa Pascoli come di una persona aggraziata e distinta (1730, p. 256). Amico dell'antiquario Pietro Santi Bartoli, il G. fu anche collezionista di libri di storia, filosofia e geografia; e quando poté permetterselo si trasferì nei dintorni dell'elegante via Giulia. Ebbe comunque alcune difficoltà a mantenere il suo stile di vita; e fu costretto a vendere alcuni dei suoi libri e a cercare l'assistenza dei mecenati.

Il G. morì a Roma il 28 marzo 1701, senza lasciare beni alla sua unica figlia ed erede, Maria Maddalena.

Non ebbe seguaci di alto livello, nonostante il suo fosse, a Roma, uno degli studi più grandi e di maggior successo. Solo due modesti allievi sono oggi conosciuti: Vincenzo Felici, che era anche suo genero, e Ambrogio Grana de Parisio.

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