DONNA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

DONNA

Maria Rosa Di Simone

(XIII, p. 146; App. I, p. 526; II, I, p. 804; III, I, p. 500; IV, I, p. 611)

La riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975 n. 151) può essere considerata un momento fondamentale nel lungo processo per la realizzazione del principio dell'eguaglianza giuridica tra i sessi che, enunciato nell'art. 3 della Costituzione, ha cominciato a trovare un riscontro concreto negli orientamenti legislativi e giurisprudenziali solo a partire dagli anni Sessanta. Senza dubbio, alcuni punti della legge, come il nuovo assetto dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, della patria potestà e della rappresentanza dei figli, e come le norme sulla cittadinanza della moglie, sull'indirizzo della vita familiare e sulla residenza, caratterizzano la famiglia secondo uno schema di conduzione ''diarchica'' che contribuisce a modificare alquanto la posizione della donna. Ma, oltre che punto di arrivo, la riforma ha costituito una base di partenza e d'impulso per l'ulteriore evoluzione del sistema giuridico verso un maggior adeguamento al dettato costituzionale dell'uguaglianza tra i sessi.

Su questa linea si pongono alcuni provvedimenti in materia di cittadinanza, in particolare la l. 21 aprile 1983 n. 123, che modifica la disciplina contenuta nell'art. 10 della l. 13 giugno 1912 n. 555. Questa disponeva l'attribuzione automatica della cittadinanza italiana alla d. straniera coniugata con un cittadino italiano e la perdita della cittadinanza per la d. italiana quando il marito ne avesse un'altra. Dopo un primo intervento della Corte Costituzionale con sentenza del 16 aprile 1975 e del legislatore nell'art. 143 ter cod. civ., veniva consentito alla d. di mantenere la propria cittadinanza indipendentemente da quella del marito, ma restava la previsione di due diverse fattispecie: acquisto automatico e indipendente dalla volontà della d. sposata a un italiano e concessione con decreto presidenziale, in caso di residenza protrattasi da almeno due anni, per il marito straniero di cittadina italiana. La legge del 1983 unificava la disciplina valorizzando la volontà del coniuge straniero indipendentemente dal sesso col subordinare la concessione della cittadinanza a un'istanza dell'interessato. La riforma del diritto di famiglia, inoltre, aveva lasciato inalterata la disciplina dei rapporti patrimoniali che prevedeva l'applicazione della legge nazionale del marito al tempo del matrimonio. Si configurava in tal modo una discriminazione che è stata eliminata dalla Corte Costituzionale con sentenza del 5 marzo 1987 n. 71, in cui si dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 delle disposizioni preliminari del cod. civ. nella parte in questione "essendo tale norma ispirata al principio della preminenza del marito nell'organizzazione familiare, abbandonato dalla vigente Costituzione".

Una parte della dottrina considera lesivo del principio dell'eguaglianza l'art. 143 bis cod. civ., per cui la moglie deve aggiungere al suo cognome quello del marito, e critica anche l'imposizione ai figli legittimi del cognome paterno, che si basa, fra l'altro, non su una legge ma su un uso antichissimo. Anche l'art. 262 cod. civ. appare a taluno discriminatorio nella parte in cui stabilisce che, se il riconoscimento del figlio naturale è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre. Al riguardo c'è chi suggerisce d'imporre ai figli legittimi il cognome di entrambi i genitori e di lasciare al figlio naturale la libertà di decidere quale cognome assumere. D'altra parte, l'orientamento generale della dottrina e della giurisprudenza nei confronti della d. divorziata è di non precludere in modo assoluto alla ex moglie l'uso del cognome del marito, salvo il caso che ciò sia a lui gravemente pregiudizievole.

Nel settore del diritto del lavoro, la condizione della d. ha registrato innovazioni particolarmente importanti. La l. 9 dicembre 1977 n. 903 segna infatti l'abrogazione pressoché totale delle misure di tutela previste dalla l. n. 653 del 1934 e afferma l'eguaglianza dei sessi. Obiettivi della legge sono sostanzialmente la statuizione della parità di trattamento economico e normativo tra lavoratrici e lavoratori, l'adeguamento della disciplina giuridica del lavoro femminile al nuovo assetto paritario della famiglia e la promozione dell'occupazione femminile. Al divieto di ogni discriminazione fa riscontro la modifica della legge di tutela (1971) delle lavoratrici madri con l'estensione al padre di diritti, prima spettanti alla sola madre, quali il prolungamento facoltativo dell'astensione dal lavoro dopo il parto e i permessi per malattia del bambino di età inferiore ai tre anni, mentre la fiscalizzazione degli oneri sociali per i riposi previsti dalla legge del 1971, riducendo il costo del lavoro femminile, tende a incoraggiare le assunzioni di donne.

In realtà, l'applicazione della legge nei dieci anni successivi alla sua emanazione è stata, secondo il parere di molti, insoddisfacente, e se da una parte le organizzazioni sindacali avrebbero utilizzato in misura assai ridotta gli strumenti a disposizione, dall'altra una serie di circostanze ha fatto sì che i soggetti, di fronte alle violazioni delle norme, si rivolgessero raramente all'autorità giudiziaria. Alcuni problemi sono stati risolti con la sentenza della Cassazione del 3 novembre 1982 n.5773, con cui si stabilisce che la nullità dell'atto arrecante benefici economici ai soli lavoratori maschi comporta parallelamente l'estensione del beneficio anche alle lavoratrici, mentre nel 1982 è stato istituito presso il ministero del Lavoro un ''Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento e di opportunità per le lavoratrici'' per realizzare una migliore applicazione della nuova normativa.

Una parte della dottrina, sottolineando la scarsa efficienza delle misure formali quando non siano accompagnate da sistemi correttivi delle diseguaglianze sostanziali, reclama tuttavia l'adozione di azioni positive, cioè di iniziative tese a eliminare le disparità che tuttora caratterizzano la presenza femminile nel mondo del lavoro. In particolare si auspica una maggiore attenzione all'orientamento e alla formazione professionale, l'incentivazione delle opportunità di lavoro nelle professioni tradizionalmente ''maschili'', la modifica delle condizioni di lavoro per favorire una più equilibrata distribuzione delle incombenze familiari tra uomini e donne. Un disegno di legge in materia è stato presentato nel gennaio 1987, mentre la Cassazione sembra orientata ad accentuare i criteri di tutela delle lavoratrici tanto da configurare, secondo taluno, situazioni di ''iperfavore'' e di privilegio che finirebbero per costituire, a loro volta, una remora allo sviluppo del lavoro femminile. Le d. continuano comunque a essere escluse dal servizio militare e molto si discute sulla legittimità costituzionale del divieto di lavoro notturno.

Fra le innovazioni più dibattute e travagliate degli ultimi anni va ricordata la l. 22 maggio 1978 n. 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza, che modifica radicalmente la disciplina in vigore fino ad allora (v. aborto, in App. IV, i, p. 5 e in questa App.).

Un notevole passo avanti è stato compiuto in campo penalistico con la l. 5 agosto 1981 n. 442. Essa abrogava finalmente l'art. 587 cod. pen., da tempo molto discusso, che sanciva l'incivile privilegio per i delitti di sangue ''a causa di onore''. La norma, che stabiliva per questo genere di reati pene molto inferiori alle solite, dopo avere astrattamente accennato al coniuge, contemplava come soggetti passivi del delitto solo le figlie e le sorelle, sanzionando l'inferiorità della d. in una concezione arcaica e ormai inaccettabile dei rapporti familiari. Con la nuova legge, oltre a risolvere questo punto, si aboliva la figura del cosiddetto ''matrimonio riparatore'', che costituiva causa di estinzione dei reati di violenza carnale, atti di libidine violenta, ratto a fine di libidine o di matrimonio, seduzione con promessa di matrimonio, corruzione di minorenni, mentre scompariva anche l'art. 592 cod. pen. (abbandono di neonato per causa di onore).

Questi provvedimenti sono stati accolti con generale soddisfazione, ma non poche perplessità ha suscitato la riformulazione, ad opera della stessa legge, dell'art. 578 cod. pen. sull'infanticidio, secondo cui si continua a riservare un trattamento particolare alla madre che sopprime il neonato "quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto". Si è infatti osservato da alcuni che la sostituzione della solitudine al disonore non muta sostanzialmente la visione paternalistica e obsoleta della maternità postulata dal mantenimento di una altrimenti ingiustificata figura specifica di reato, mentre altri sottolineano come la genericità della formula usata dal legislatore apra la strada a facili pietismi. Di fatto la Cassazione è intervenuta con la sentenza del 16 aprile 1985 specificando in senso restrittivo le condizioni di applicabilità della norma.

Più difficile appare l'adeguamento della disciplina sui reati sessuali alle esigenze del rispetto della dignità della d., ormai affermatasi nel nostro ordinamento. Se già nel 1968-69 si è realizzata la depenalizzazione dell'adulterio e, dopo lunghi dibattiti, la Cassazione, con sentenza del 4 dicembre 1976 n. 412, ha affermato la perseguibilità del marito per violenza carnale nei confronti della moglie, non sono giunti a buon fine i progetti per una revisione generale della materia. Al riguardo, le novità principali contenute nella proposta appoggiata dal Movimento di liberazione della donna consistono nel mutamento di qualificazione dei reati sessuali da delitti contro la moralità pubblica e il buon costume a delitti contro la persona, nella possibilità di costituzione di parte civile da parte di enti e associazioni aventi come scopo la difesa dei diritti delle d., nella procedibilità d'ufficio dei reati sessuali, nella proibizione di indagini sulla tecnica fisiologica dei reati in questione. Con queste norme, secondo i sostenitori del progetto, verrebbe più efficacemente tutelata la dignità della d. che spesso, in simili processi, a causa anche dell'atteggiamento degli avvocati e dei giudici, appare trasformarsi da accusatrice in accusata.

Bibl.: Per il diritto privato cfr.: M. C. De Cicco, La normativa sul cognome e l'eguaglianza tra genitori, in Rassegna di diritto civile, 1985, pp. 960 ss.; R. Pacia Depinguente, Rapporti personali tra coniugi, in Rivista di diritto civile, 31, 2 (1985), pp. 429 ss.; R. Moccia, Uso e abuso del cognome maritale dopo il divorzio, in Il foro italiano, 1 (1986), col. 2321 ss.; A. De Cupis, Eguaglianza coniugale e conflitto di leggi, in Giurisprudenza Italiana i, 1 (1987), col. 1153; L. Ciampi, La differenza tra i sessi nel Codice civile, in Rivista del notariato, 41 (1987), pp. 301 ss. Per il diritto del lavoro, cfr.: AA.VV., La disciplina giuridica del lavoro femminile. Atti del Convegno di Abano Terme, Milano 1978; M. V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità, Bologna 1979; L. Ventura, Il principio di eguaglianza nel diritto del lavoro, Milano 1984; M.V. Ballestrero, Il lavoro e i lavori delle donne (ovvero doppia presenza e azioni positive), in Politica del diritto, 1986, pp. 233 ss.; E. Roppo, Donne, famiglie, lavori: sopra la possibilità e i limiti del diritto di famiglia, ibid., pp. 223 ss. Per la legge sull'aborto, cfr.: AA.VV., L'interruzione volontaria della gravidanza, Milano 1978; C. Casini-F. Cieri, La nuova disciplina sull'aborto, Padova 1978. Sul diritto penale, cfr.: P. Brignone, La violenza carnale nel rapporto tra coniugi, in Cassazione penale, 18 (1978), pp. 74 ss.; I. Caraccioli, L. 5/8/1981. Abrogazione della rilevanza penale della causa d'onore, in Legislazione penale, 2 (1982), pp. 21 ss.; P. Violante, Tutela penale della donna e parità, in La giustizia penale, 1 (1984), col. 158 ss.; B. Pezzini, Condizione giuridica della donna e problemi della rappresentanza: la legge sulla violenza sessuale, in Politica del diritto, 16 (1985), pp. 691 ss.

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