DOVE VA LA STORIA DELLE RELIGIONI

XXI Secolo (2009)

Dove va la storia delle religioni

Giovanni Filoramo

La situazione attuale

Gli studi di storia delle religioni conoscono oggi una duplice crisi. L’una, positiva, è una crisi di crescita. Per la prima volta nella loro storia plurisecolare, essi hanno acquisito uno statuto globale al passo con i tempi (Religious studies, 2007). La IAHR (International Association for the History of Religions), l’organizzazione internazionale degli studi di storia delle religioni, fondata nel 1950, a cui afferiscono le società nazionali, a lungo con un’affiliazione tipicamente europea e nordamericana che rifletteva la matrice di questi studi, a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. ha conosciuto un allargamento impressionante di confini. Attualmente è presente con associazioni nazionali in tutti i continenti e in Stati, come diversi Paesi dell’Est ex comunisti, dove questo tipo di studi, a causa dell’ateismo di Stato, era impensabile vent’anni fa. Naturalmente, le cause di tale diffusione planetaria sono molteplici e riflettono la complessità dello scenario del villaggio globale, dall’innovazione nelle tecnologie della comunicazione e dei trasporti che hanno favorito anche in questo campo scambi e relazioni, al ritorno d’interesse per la religione a livello mondiale, che ha contribuito anche a livello istituzionale alla promozione degli studi religiosi.

La seconda crisi, di segno contrario, discende in buona parte dalla prima. La globalizzazione di questi studi è avvenuta anche grazie alla nuova koinè linguistica, l’inglese ‘globale’ dei mercati finanziari e delle tecnologie in rete. Questo monolinguismo, ormai diffuso anche negli altri settori umanistici, va a detrimento di lingue e tradizioni nazionali un tempo importanti come quella francese o tedesca, oggi sempre più marginalizzate e ignorate. I dislivelli crescenti fra il Paese attualmente egemone anche in questo settore di studi, gli Stati Uniti, e gli altri Paesi, anche europei, in termini di risorse e di potere, finiscono per riprodursi in modo negativo su un campo, nonostante le forti spinte localistiche, sempre più collegato e interdipendente. Oggi negli Stati Uniti sono presenti circa 1300 istituzioni e dipartimenti, pubblici e (perlopiù) privati, che offrono curricula in religious studies (R.R. Warne in New approaches to the study of religion, vol., 2004, pp. 14-42); senza tener conto di quanto si fa in questo campo anche in molti altri dipartimenti umanistici, si tratta di un’offerta che non ha eguali. Certo, secondo una dinamica tipica del mondo universitario americano che riserva a poche prestigiose università la formazione di eccellenza a costi adeguati demandando alle altre quella di base, la maggior parte di questi programmi sono corsi introduttivi, spesso con finalità di chiara promozione religiosa. È altresì vero che questa crescita conosce ora un rallentamento a causa delle diffuse difficoltà finanziarie. Ciò non toglie che il settore ha finito per esercitare una funzione egemone a livello mondiale, con alcuni vantaggi ma anche con molti svantaggi e limiti. Si tratta sovente di una ricerca ‘parrocchiale’, che riflette l’attuale chiusura culturale governativa e che è sempre più portata a ignorare quanto si fa (e si è fatto) di meglio in altri Paesi, con effetti boomerang che spesso sfiorano il ridicolo, come quando si ripropongono dibattiti e problemi, presentati come nuovi e dirompenti, che in realtà risultavano da molto superati in altri Paesi europei; oppure come quando, certi maîtres à penser come Jacques Derrida e Michel Foucault (ma la lista è ben più lunga), assurgono a punto di riferimento ossessivo e monocorde di una lettura postmoderna della religione. Per converso, l’attuale egemonia statunitense nel campo inevitabilmente crea sfasamenti e conflitti di competenza. La ‘novità’ (di approcci, metodi, teorie) è sempre relativa: ciò che oggi è ‘nuovo’ negli Stati Uniti come effetto di un dibattito culturale o del successo di un libro o della fondazione di una nuova rivista, può diventarlo in altri Paesi solo molto dopo, in conseguenza, per es., di una traduzione.

L’aspetto più preoccupante di questa crisi è, però, un altro. Come altri settori di ricerca umanistica, anche questo settore di studi ha conosciuto negli ultimi venti-venticinque anni una nouvelle vague decostruzionista, tipica del cosiddetto pensiero postmoderno, che ha messo radicalmente in crisi lo statuto epistemologico tradizionale (di per sé già problematico) della disciplina, colpendo alla radice – attraverso, per es., gli studi di genere, i cultural studies, gli studi postcoloniali – il progetto culturale eurocentrico di matrice illuministica tipico del ‘moderno’, impostato sul predominio di una ragione tesa a conoscere e ridurre le alterità ai propri principi interpretativi. A partire da queste premesse, sono stati di conseguenza contestati – tra altri – il colonialismo culturale che avrebbe caratterizzato lo studio comparato delle religioni in funzione di principi classificatori e organizzativi tipicamente eurocentrici; la prospettiva cristianocentrica che ha presieduto alla formazione delle principali categorie interpretative; l’assenza o la marginalità di studi di genere.

A differenza di altri settori, però, il campo di studi racchiuso nella dicitura tradizionale di storia delle religioni è stato particolarmente colpito da questa ondata perché essa ha messo radicalmente in discussione sia il suo metodo sia lo stesso oggetto. La premessa di questa critica – che ha ovviamente un raggio più vasto, ma che ora deve interessarci per le sue ricadute in questo settore di studi – è l’attacco radicale al soggetto, alla sua ragione e, in generale, al modo in cui la soggettività moderna si è venuta costituendo a partire dall’Illuminismo. Il ripudio del soggetto e la parallela messa in crisi di un’agenzia morale autonoma e consapevole come centro e motore dell’azione umana, filtrati attraverso lo studio delle pratiche linguistiche e dei meccanismi di formazione del potere e del controllo autoritario, hanno spostato il centro dell’attenzione. Da una parte, sullo studio delle alterità ed eterogeneità religiose, invitando, dall’altra, sulla base in particolare degli studi di Foucault e di Edward Said, a decostruire le differenti pratiche di potere che starebbero alla base del modo in cui la cultura occidentale di matrice illuministica (e cristiana) avrebbe incapsulato una realtà complessa in una serie di -ismi (a cominciare dalle definizioni stesse delle religioni: induismo, buddhismo ecc.), riducendola a finzioni e simulacri, per assimilarla, comprenderla, ma soprattutto dominarla. La critica postmoderna si è poi estesa a nodi fondamentali come la posizione dello studioso della religione nei confronti del suo oggetto di studio, la necessità di sfuggire a un approccio eurocentrico, la messa in questione di uno studio che privilegia l’analisi delle fonti scritte del passato di contro alle esperienze del presente. In sintesi, essa ha avuto come effetto di favorire uno studio delle religioni che si faccia carico sia di una prospettiva globale sia, nel contempo, di genere, postcoloniale, multiculturale e autoriflessivo.

La riflessività esasperata che contraddistingue le tendenze più recenti anche in questo settore di studi (produttrice tra l’altro sul suolo americano di molteplici dibattiti fini a sé stessi su astratte e spesso inconcludenti questioni teoriche e metodologiche, la cui funzione implicita è quella di produrre posti e alimentare mailing-list di dibattito) ha portato, dopo il metodo, a mettere in discussione lo stesso concetto di ‘religione’ come lo strumento concettuale, falsamente reificato, che avrebbe accompagnato l’opera missionaria e conquistatrice dell’epoca coloniale. Esso si rivelerebbe, di conseguenza, inappropriato, in una società globalizzata e multiculturale come quella in cui viviamo, a cogliere la complessità delle dinamiche intraculturali.

In parallelo, la necessità, in un mercato sempre più dipendente da finanziamenti esterni, di promuovere ricerche che abbiano una risonanza e una ricaduta pubblica dimostrando di essere socialmente utili, congiuntamente ad altri fattori legati al crescente pluralismo religioso e alle richieste di rappresentanza che esso avanza nei confronti degli studi religiosi, hanno favorito un’attenzione ormai predominante verso lo studio dei fenomeni religiosi contemporanei. Ne consegue una crescente messa tra parentesi, se non una vera e propria crisi, degli studi storico-critici su base filologica che hanno fatto la fortuna e formato l’identità di questa disciplina. Poiché una comparazione seria, comunque intesa, si è tradizionalmente basata sull’analisi testuale storico-filologica, ne è risultata anche una messa in crisi dell’interesse comparativo, a favore di studi sempre più specialistici e settoriali.

Per comprendere meglio le cause profonde di questa crisi d’identità e per tentare qualche previsione plausibile sul futuro (non troppo lontano) della storia delle religioni è, però, indispensabile mettere prima meglio a fuoco lo scenario culturale che fa da sfondo alle principali trasformazioni che la disciplina ha conosciuto negli ultimi due decenni, in polemica con quella corrente fenomenologica che aveva largamente dominato la scena – prima europea poi statunitense – nel corso del Novecento.

Lo sfondo interpretativo

Nel corso del 20° sec. lo studio scientifico della religione ha conosciuto tre tempi forti. A una prima fase, inaugurata, all’inizio del secolo, dalla crisi del modello positivistico di quella comparative religion che aveva dominato la seconda metà dell’Ottocento, e caratterizzata dall’affermarsi di un metodo d’indagine dei fatti religiosi influenzato dalle varie scienze umane e teso a indagare le strutture profonde dell’agire religioso individuale e collettivo, ha fatto seguito, tra le due guerre, la cosiddetta svolta fenomenologica, che con la fenomenologia della religione ha dominato questo campo di studi fino agli anni Sessanta. La messa in crisi, da un lato, del funzionalismo, dall’altro, della fenomenologia, ha coinciso e, nel contempo, è stata provocata dall’avvento di una nuova maniera di interpretare la religione caratterizzata, in negativo, da una decostruzione radicale dei due precedenti modelli, e, in positivo, dal moltiplicarsi dei punti di vista interpretativi.

Dietro questo mutamento di paradigmi interpretativi è all’opera un complesso di fattori di varia natura, riconducibili al lavorio continuo che la modernità, comunque definita, ha provocato in campo religioso, mettendolo radicalmente in discussione. Al contempo, ha creato senza posa, con la sua tendenza inarrestabile al mutamento continuo, nuove condizioni per l’insorgenza di nuovi panorami religiosi, i quali, a loro volta, in un inarrestabile gioco degli specchi, hanno costretto gli studiosi ad approntare forme adeguate di interpretazione (Filoramo 2008). Così, nel caso del paradigma ‘funzionalistico’, scopo precipuo dello studio della religione è stato quello di mettere in luce, di contro alla perdita d’importanza sociale che la religione (nella fattispecie il cristianesimo) conosceva ormai da due secoli e alla sua conseguente emarginazione e privatizzazione, quelle leggi profonde e quelle funzioni latenti che potevano aiutare a coglierne meglio la sua presenza, sotto altre vesti, anche in una società sempre più disincantata. La crisi del soggetto che lo contraddistingue, infatti, inducendo a sostituire alla trama della soggettività tradizionale, individuale e consapevole, che veniva presupposta come base delle credenze e delle pratiche religiose, l’ordito di una soggettività anonima intessuto di strutture, inconsci, funzioni, faceva esplodere il tradizionale universo chiuso in cui l’azione religiosa era stata sino ad allora ingabbiata. Questa azione si trovava ora proiettata in un universo aperto, privo pericolosamente di confini, orbitante intorno al ‘sole’ di innumerevoli funzioni, il cui senso o scopo manifesto si rivelava sempre più privo di senso.

La nascita, tra le due guerre, nel clima particolare della Repubblica di Weimar, della fenomenologia della religione può essere interpretata come una reazione radicale a questo paradigma. La fenomenologia della religione, infatti, mirava a recuperare la centralità del soggetto religioso e della sua intenzione come ‘sole’ intorno a cui far ruotare l’interpretazione in nome di una concezione idealistica, di radice romantica, della religione. Tra i vari elementi che portarono al sorgere di questo secondo paradigma interpretativo basterà ricordare, tra i fattori esterni, l’affermarsi di filosofie vitalistiche e, tra i fattori interni, il mutare profondo dello stesso campo religioso in seguito alla crisi indotta dalla Grande guerra.

Il terzo modello interpretativo, di contro, è il prodotto sia del profondo cambiamento che la situazione religiosa ha conosciuto nel secondo dopoguerra, sia dell’avvento di nuove metodologie di lettura dei fatti culturali. Per un verso, reagendo all’onda lunga delle interpretazioni funzionalistiche, rinate a nuova vita anche grazie alla fortuna conosciuta dallo strutturalismo, esso ha teso a interpretare la religione come concezione del mondo e prassi; per un altro verso, come effetto dei processi globalizzanti e della deriva relativistica che li contraddistinguono, esso ha messo in moto il processo decostruttivo sopra ricordato.

Il paradigma fenomenologico corre parallelo, in modo soltanto a prima vista paradossale, all’affermarsi delle varie tesi sulla secolarizzazione e sulla privatizzazione del fenomeno religioso. In realtà, esso attinge a quello che appare il cardine di questa prospettiva e cioè alla perdita di importanza sociale della religione, ridotta a sfera privata e a dimensione intima e dunque ricondotta, secondo un’interpretazione che trovò largo credito negli anni Sessanta del Novecento, grazie a un’immersione purificatrice nelle torbide acque della deriva nichilistica, alla sua radice individuale, di scelta consapevole, libera finalmente dalle costrizioni sociali. Non è, di conseguenza, un caso che la messa in crisi di questo modo di intendere il declino inarrestabile della religione abbia recato con sé anche il tramonto della prospettiva fenomenologica. Al suo posto è subentrato un nuovo approccio interpretativo della religione, critico nei confronti dei precedenti modelli e che si sforza di tenere conto del modo nuovo in cui è venuto configurandosi il rapporto tra tarda modernità e religione.

Uno spartiacque decisivo è costituito in questo senso dal saggio del 1966 dell’antropologo Clifford Geertz sulla religione come sistema culturale (ora in Geertz 1973). La sua importanza è consistita nella capacità di colpire al cuore nel contempo sia il funzionalismo sia la prospettiva fenomenologica alla luce di un modo nuovo di interpretare la religione. Per un verso, infatti, l’antropologo americano sostiene la tesi, contraria a ogni riduzionalismo funzionalistico, che la religione forma l’ordine sociale, non costituendone semplicemente una copia, un riflesso o una funzione. Per un altro, egli critica le prospettive fenomenologiche che attingevano a una concezione privata della religione e al loro fondamento esperienziale, in genere trovato nell’esperienza dell’incontro con il sacro. Gli argomenti più significativi contro questa tesi vengono presi dalle analisi di filosofi del linguaggio come Ludwig Wittgenstein e John L. Austin, allo scopo di sottolineare la centralità della cultura come mediazione linguistica e simbolica. Grazie a questo linguistic turn, la religione, da esperienza indicibile, diventa sistema simbolico in grado di mediare ed esprimere i tratti più significativi di un determinato sistema culturale. La descrizione, in questo modo, riprende il sopravvento sulla Einfühlung (immedesimazione) dell’interprete. Nel contempo, la religione entra nell’orbita degli studi culturologici: una linea interpretativa, quella di ricondurre lo studio della religione nell’ambito dei cultural studies, che si è sempre più rinvigorita, sino a imporsi in un numero crescente di istituzioni, come i dipartimenti di studi religiosi nordamericani.

Il saggio di Geertz ha fatto in realtà da battistrada, soprattutto negli Stati Uniti, alle nuove correnti interpretative, aiutando a far penetrare anche nella cittadella, spesso conservatrice, degli studi sulla religione il mutamento più generale e la deriva relativistica tipica del pensiero postmoderno. Alla sua sorgente si alimentano filoni a prima vista disparati e inconciliabili, come la critica alle forme della logica classica di tipo aristotelico, la spinta alla riflessività critica, l’anelito alle avventure della differenza, la decostruzione di modelli di alterità tradizionali come l’orientalismo. Non è ora il caso di ricordare i fattori culturali esterni che hanno contribuito a creare questa svolta metodologica, dalle teorie sul caos a quelle sui frattali, dalle logiche alternative al linguistic turn. Quello che, piuttosto, preme sottolineare, è che l’avvento di una scienza di processo anziché di stato, di divenire anziché di essere, con il suo nuovo armamentario logico e il suo repertorio di immagini grafiche teso a cogliere l’irriducibilità della complessità caotica nel rifiuto di ogni riduzionismo, non è certo stato privo di conseguenze anche nel campo della storia delle religioni, pure se l’onda lunga del cambiamento ha lambito istituzioni scientifiche e singoli studiosi in tempi e modi diversi, a seconda di tradizioni culturali e di disposizioni o idiosincrasie individuali. Ne è conseguito un moltiplicarsi frenetico e quasi nevrotico di prospettive teoriche e di ricerche di differenze, accomunate sovente dalla consapevolezza acuta che un ‘monoteismo’ culturale, quello dell’Occidente illuministico e cristiano, volge al tramonto e viene sostituito dall’affermarsi di una visione politeistica più duttile e sfumata, sempre pronta a rimettersi in questione.

Alcune linee di tendenza recenti

Chi voglia comprendere, su questo sfondo sommariamente accennato, le linee di fondo dei profondi cambiamenti intervenuti in quest’ ultimo ventennio tentando di abbozzarne una mappa provvisoria, oltre alla bibliografia specializzata e alle riviste di settore, ha a disposizione due preziosi strumenti: l’edizione riveduta della Encyclopedia of religion, curata dallo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade nel 1987 e uscita profondamente riveduta a cura di Lindsay Jones nel 2005; e i due volumi sui nuovi approcci per lo studio della religione curati da Peter Antes, Armin W. Geertz e Randi Ruth Warne (New approaches to the study of religion, 2004), che possono essere utilmente confrontati con i due analoghi volumi curati da Frank Whaling nel 1984 (Contemporary approaches to the study of religion).

La linea di tendenza, già presente nei volumi curati da Whaling, di privilegiare, al posto di Storia delle religioni, l’espressione ‘studio della religione’ o religious studies, a sottolineare sia la difficoltà (che sembra nel frattempo essere diventata una impossibilità) di individuare una specificità della disciplina sia il moltiplicarsi delle prospettive (tra le quali la storia non ha più una funzione centrale), non ha fatto che accentuarsi. Nei volumi curati da Whaling la prospettiva dominante rimaneva ancora quella di uno studio storico comparato e/o fenomenologico, con attenzione a fenomeni trasversali come il mito o i testi sacri; quanto agli ‘approcci sociali’, essi si muovevano nel recinto – ormai consolidato e tipico delle scienze delle religioni – della psicologia, dell’antropologia e della sociologia. I volumi curati vent’anni dopo da Antes, Geertz e Warne assumono invece una prospettiva chiaramente globalistica, come dimostra lo spazio assegnato allo studio della religione nei Paesi islamici (Turchia e mondo arabo), in India, in Australia. Un ruolo centrale è poi assegnato agli approcci critici, prima assenti, che costituiscono una sorta di bilancio di un acceso dibattito teorico ventennale sui presupposti e sulle teorie più adatte per lo studio della religione: la filosofia analitica (Morny M. Joy), la semantica (Jepp Sinding Jensen), un’analisi che tenga conto delle critiche a ogni approccio metafisico e ontologico alla religione (Kirsten Hastrup), la critica ideologica applicata allo studio del retroterra culturale e ideologico degli studiosi più qualificati (Ivan Strenski), la prospettiva di genere (Lisbeth Mikaelson), i nuovi approcci nello studio dei rapporti tra religione e cultura (Mark Hulsether). Ciò che accomuna queste ‘nuove’ prospettive è il rifiuto del ‘mito dell’oggettività e della neutralità’ scientifica che avrebbe caratterizzato la corrente precedente di studi. Di conseguenza, il posto della ricerca della verità e del significato ‘oggettivo’ viene occupato da una intersoggettività contestualmente e culturalmente condizionata (New approaches to the study of religion, 1° vol., 2004, p. 4). Non vi è chi non veda la deriva pericolosamente relativistica insita in questo ‘nuovo’ e sempre più diffuso approccio. La pluralità delle vie interpretative, inevitabile in uno studio critico, che trova però il suo limite nell’ancoraggio a valori culturalmente partecipati e garantiti da un ethos scientifico condiviso, è sostituita dalla pericolosa legittimazione di ciò che le differenti comunità di studiosi/e, nelle parti più diverse del mondo, ritengono sia ‘studio della religione’. La crisi ha investito anche la pretesa di costruire un sapere storico-critico fondato sulla filologia, l’archeologia, l’etnografia che si presenti come qualcosa di generalmente condiviso e condivisibile, basato su regole più o meno universalmente valide che costituiscono una piattaforma per la discussione, dotato di una certa dose di obiettività, programmaticamente distinto rispetto alle scelte di fede e alla speculazione teologica.

Nella sezione dedicata ai ‘nuovi approcci storici’ il posto tradizionalmente assegnato ai progressi conoscitivi nei vari settori dello studio storico e comparato delle religioni è stato preso dal rapporto tra religione e Internet (un tema certo nuovo e di grande importanza, sul quale ritorneremo: ma quale rapporto ha ciò con un approccio storico?), dallo studio dei nuovi movimenti religiosi e dei fondamentalismi, dalla nuova dignità scientifica recentemente acquisita dallo studio delle tradizioni esoteriche (in genere occidentali), infine, dal modo in cui una tradizione come lo Zen guarda al punto di vista occidentale di studiare la religione.

Questa sezione illustra meglio di ogni altra alcuni dei cambiamenti più significativi intervenuti sia riguardo all’oggetto (attenzione crescente alla scena religiosa contemporanea in conseguenza della progressiva scomparsa di scenari antropologici tradizionali e dell’emergere di nuovi fenomeni religiosi) sia riguardo ai mezzi (l’impatto della rete) sia alla messa in crisi della prospettiva cristianocentrica (il nuovo spazio dato alle tradizioni esoteriche prima marginalizzate) sia, infine, riguardo ai punti di vista di coloro che erano in genere stati oggetto e non soggetto di studio (le donne, gli indigeni, gli appartenenti ad altre tradizioni religiose).

Per avere una conferma di ciò basta chiedersi come questa svolta venga percepita ai giorni nostri in situazioni culturali non occidentali, anche se più o meno influenzate dalla cultura occidentale e dalle sue mode, come il Giappone o la Cina. Cresce, per es., il numero di studiosi giapponesi di Storia delle religioni, al centro oggi del dibattito critico, che in modo azzardato e spesso volutamente provocatorio, fondendo ermeneutica heideggeriana e pensiero della scuola di Kyoto, filosofia del linguaggio e formulazioni teoriche del buddhismo, mettono in radicale discussione alcuni capisaldi del sapere occidentale e delle scienze umane – e dunque, in conseguenza, anche della Storia delle religioni – confutando, per es., il concetto di universali e dell’unicità della ragione umana, uniti nel loro attacco al monopolio del paradigma dell’Occidente e nello smascheramento della pretesa di oggettività della ricerca. L’orientalismo di E. Said ha fatto anche qui scuola, nel senso che anche in Giappone ci si oppone all’idea che il principio che costruisce l’identità del-l’‘Oriente’ si trovi fuori di essa. Di qui la critica serrata non solo al concetto in generale di religione tipico dei nostri studi, troppo infeudato al cristianesimo e alle sue teologie, ma anche a tutto l’impianto classificatorio proprio della Storia delle religioni, sia nel suo principio nomotetico sia nelle sue applicazioni pratiche. Valga per tutti il rifiuto, già ricordato e sempre più esteso, di definizioni per noi abituali come induismo o buddhismo.

Un’altra linea di ricerca significativa è data dalla tendenza a promuovere e condurre studi storiografici per mettere meglio in luce il retroterra ideologico di pensatori e correnti in particolare sotto l’influsso dei totalitarismi (per il fascismo:The study of religion under the impact of fascism, 2008; per i Paesi ex comunisti dell’Est: The academic study of religion during the Cold war. East and West, 2001). Anche in questo caso non si può fare a meno di osservare come questa corrente di studi, per lo più americana, ignori sovente il lavoro già fatto in questa direzione in Europa, e particolarmente in Italia e in Francia. Si tratta, inoltre, di un tipo di critica che mira a svelare presupposti ideologici e condizionamenti culturali e politici con un accanimento demolitore rischiando di cancellare i risultati positivi della ricerca dello studioso preso di mira.

Ultima ‘novità’ che colpisce: l’entrata in scena di prospettive vent’anni fa inesistenti come gli studi cognitivi (v. New approaches to the study of religion, 2° vol., 2004, pp. 347-400, pp. 401-18), che cercano di riaprire, sulla base degli studi di filosofia della mente, l’annosa questione, propria sia della fenomenologia della religione sia dello strutturalismo, delle ‘strutture elementari’ dell’esperienza religiosa, nella convinzione che tutte le religioni rivelino in ultima analisi un’organizzazione primaria e uguale del pensiero. L’elenco è, in realtà, ben più lungo, dal momento che anche altre discipline, come l’economia della religione, l’ecologia della religione o il diritto comparato delle religioni, hanno in questi ultimi anni recato contributi importanti, rendendo sempre più complesso e articolato questo campo di studi.

Chi voglia rendersi conto della sua frantumazione e parcellizzazione non ha che da sfogliare gli atti o comparare l’articolazione sempre più complessa degli ultimi convegni della IAHR (Roma nel 1990, Città di Messico nel 1995, Durban nella Repubblica Sudafricana nel 2000 e Tokyo nel 2005) o il modo in cui sono articolate le riunioni annuali della AAR (American Academy of Religion), che raduna ormai ogni anno migliaia di studiosi molti dei quali provenienti da altri Paesi, per rendersi conto della natura caleidoscopica che oggi hanno assunto i religious studies. Di anno in anno si allunga l’elenco dei settori disciplinari più eterogenei che lo compongono, mentre perde d’importanza l’asse storico-filologico tradizionale della ricerca.

A.W. Geertz e Russell McCutcheon (Perspectives on method and theory in the study of religion, 2000), nell’introdurre gli atti del congresso del 1995 a Città di Messico, hanno sottolineato, con vigore ma anche con preoccupazione, l’esistenza di un campo di ricerca composito, metodologicamente pluralista, condizionato da singole tradizioni culturali, catturato in una rete di tensioni epistemologiche che rischiano di farlo esplodere. Tra queste, almeno due meritano di essere sottolineate. La prima concerne gli esiti deleteri che sta avendo il privilegiamento del punto di vista interno dell’insider, dell’escluso, del marginale, che ha avuto come effetto di spezzettare la già labile unitarietà del dibattito, di recidere il legame con la tradizione degli studi sulle singole civiltà e invitare a rinunciare all’uso di categorie interculturali, finendo per dare ragione paradossalmente alla concezione fenomenologica dello Erlebnis (il vissuto), peraltro molto criticata per il suo carattere etnocentrico.

La seconda, collegata alla precedente, concerne il rapporto con la teologia e la prospettiva di uno studio della religione non puramente scientifico. Data la natura della posta in gioco e gli esiti che questo dibattito, oggi al centro dell’attenzione soprattutto negli Stati Uniti, certamente avrà sul futuro della disciplina anche in Europa, occorre soffermarcisi un momento.

Lo statuto controverso degli studi religiosi

La Storia delle religioni si è costituita come disciplina scientifica prendendo le distanze dalle ‘antiche madri’ (o matrigne), la teologia e la filosofia, sulla base di un approccio rigorosamente storico-critico allo studio dei testi delle varie tradizioni religiose, a prescindere dal punto di vista confessionale dello studioso di turno. Questo secolare processo ha lasciato tracce anche nelle controversie terminologiche relative al modo di definire questo particolare campo disciplinare, che tendenzialmente ha una base storico-filologica, ma che attraverso la comparazione si apre, come si è visto, a prospettive molto ampie. L’espressione studi religiosi, che aveva goduto di un certo favore agli inizi del Novecento, è stata abbandonata proprio per la sua equivocità, potendosi con essa intendere sia il fatto di indagare (criticamente) i fatti religiosi sia lo studio ‘religioso’ (e dunque confessionalmente impegnato) degli stessi.

Questo possibile equivoco discende dal cordone ombelicale che continua a legare questi studi con la teologia o meglio, dal momento che, a rigore, di teologia si può soltanto parlare a proposito del cristianesimo, con la tradizione religiosa di volta in volta dominante in una determinata cultura. Mentre la filosofia rimaneva, con i suoi dibattiti e le sue riflessioni, un terreno prezioso di confronto anche se se ne rifiutava l’approccio deduttivo, il rapporto con la teologia e le discipline teologiche è stato a lungo, dapprima in Europa e poi negli Stati Uniti, un campo di confronto e di battaglia costante e decisivo. La storia di questo confronto è dipesa prima di tutto dalle differenti storie dei Paesi europei i quali o hanno assunto, in forme e gradi diversi, la prospettiva laica della Francia, chiudendo le facoltà teologiche di Stato (come in Italia) e lasciando alle varie chiese cristiane il compito e l’onere di promuovere questo tipo di studi o, come in Olanda e in Germania, hanno conservato facoltà teologiche (cattoliche e protestanti) di Stato in funzione della diversa storia religiosa del Paese e di un modo diverso di impostare il rapporto tra Stato e confessioni religiose. Ancora differente, com’è noto, è il caso degli Stati Uniti, dove lo Stato non promuove direttamente gli studi teologici, che però trovano fertile terreno di crescita nella storia religiosa particolare di quel Paese.

La globalizzazione degli studi di storia delle religioni cui oggi si assiste non ha fatto che complicare il quadro. Si pensi al senso profondamente diverso che la stessa espressione, studi religiosi, può assumere in un Paese islamico come l’Egitto, dove tende a coincidere con gli studi della tradizione islamica, o in Turchia, più influenzata dai modelli secolari europei e incline, almeno in certi casi e fino ad anni recenti, a promuovere anche uno studio tradizionalmente scientifico (in genere delle altre religioni). Diversa ma non meno complessa la situazione di Paesi come l’India. Chi può negare che in India si pratichi da secoli uno studio delle tradizioni religiose indigene? Eppure, a tutt’oggi, una prospettiva tradizionale di storia comparata delle religioni ha avuto molte difficoltà ad attecchire, perché considerata una potenziale minaccia a un tipo di studio che rifiuta o si mostra indifferente di fronte alla pretesa di neutralità e oggettività dello studioso. Il discorso potrebbe estendersi senza difficoltà ad altri Paesi dell’Estremo Oriente e, più in generale, a quelle tradizioni culturali, pur interessate a uno studio della religione, che non hanno conosciuto l’esperienza europea della secolarizzazione, della separazione tra Stato e Chiesa, e di conseguenza ignorano le battaglie in difesa della laicità (o contro) e che vedono l’impostazione a noi familiare come un tipico prodotto coloniale di una cultura ‘atea’, portata in questo modo a minacciare l’identità stessa del Paese, di cui la religione costituisce un elemento insostituibile. In conclusione, ci si può ragionevolmente chiedere se la prevedibile crescita degli studi religiosi in queste tradizioni culturali riuscirà a conservare il profilo scientifico e critico o non rischia invece di essere messa al servizio di interessi confessionali.

La spinta in quest’ultima direzione e le conseguenti reazioni sono molto vive attualmente negli Stati Uniti, e ciò come conseguenza in generale della particolare storia religiosa di questo Paese; inoltre per effetto di alcuni atti legislativi come lo Immigration act del 1961, che ha favorito l’immigrazione sempre più massiccia anche da Paesi orientali contribuendo a mutare in modo profondo la geografia religiosa; infine per una sentenza della Corte suprema del 1963 che, distinguendo l’insegnamento confessionale da quello non confessionale della religione e consentendo il secondo nelle scuole pubbliche, ne ha favorito la diffusione anche nei college, in concorrenza con l’insegnamento tradizionalmente rivolto alla formazione teologica. A ciò si è aggiunta la crescente presenza sulla scena pubblica – favorita anche da eventi tragici come l’11 settembre 2001 – di chiese cristiane a tendenza fondamentalista, come le chiese evangeliche e pentecostali.

Su questo sfondo si comprende meglio la ormai annosa battaglia che nel periodo in questione un grup-po – a tutt’oggi minoritario anche se qualificato – di studiosi americani (e canadesi), giovani e meno giovani, ha condotto contro la corrente ‘fenomenologica’, ‘incarnata’ nell’insegnamento di Eliade. Lo storico delle religioni rumeno, infatti, che a partire dal 1964 ha insegnato a Chicago prendendo il posto di un altro emigrato europeo, Joachim Wach, con la sua opera scientifica e attraverso una serie di iniziative di successo (come la fondazione della rivista «History of religions»), sta alla base della impressionante diffusione che gli studi di Storia delle religioni hanno conosciuto negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Criticare Eliade, la sua impostazione fenomenologica, la sua teoria del sacro e, prima ancora – secondo la linea storiografica e di critica ideologica già ricordata – i loro presupposti ideologici che vanno rintracciati nei suoi rapporti con la ‘guardia di ferro’, rumena tra le due guerre, a partire dagli anni Novanta è diventato, come ha osservato recentemente Warne (New approaches to the study of religion, 1° vol., 2004, p. 24), «a preferred blood’s sport». In gioco è una caratteristica fondamentale della fenomenologia della religione di origine tedesca, più volte rilevata in anni ormai lontani in alcuni dei suoi rappresentanti più significativi, da Friedrich Heiler a Rudolf Otto a Gerardus van der Leeuw, e cioè che lo scopo dell’indagine fenomenologica, la definizione dell’essenza della religione, coincide di fatto con una sua testimonianza e cioè con la testimonianza da parte del fenomenologo di turno della sua ‘verità’ ontologica, nella prospettiva di Homo religiosus in genere coincidente con un sacro ontologico. Contro questa tendenza, definita ‘religionistica’, che costituirebbe il cavallo di Troia per un ritorno sulla scena di studi religiosi teologicamente infeudati, si sono fondate riviste, come «Method and theory in the study of religion», si è fatto ricorso in particolare ai lavori di Jonathan Z. Smith e si è rivendicato un approccio riduzionistico, esemplificato dai lavori di McCutcheon e Robert Alan Segal. La posta in gioco va al di là della novità teoretica (pressoché nulla, se si tiene conto che questo dibattito è stato tipico per decenni della Religionswissenschaft tedesca oppure degli studi di Storia delle religioni italiani, da Raffaele Pettazzoni a Ernesto De Martino), dal momento che si inserisce in un contesto statunitense più generale, che, secondo un emendamento del 1991 (Religious studies, 2007, p. 247), rende possibile a un’università americana di essere coinvolta nella «propagazione di una determinata religione», con la conseguenza non da poco che essa può reclutare ‘impiegati’ meglio predisposti a questo scopo: inutile sottolineare le possibili o probabili conseguenze di un tale emendamento sulla libertà di insegnamento e di ricerca.

Questa situazione, non certo favorevole alla promozione e diffusione di studi religiosi criticamente fondati, trova un suo potenziale alleato in un effetto collaterale e a prima vista paradossale delle tendenze decostruzioniste dominanti negli studi religiosi americani. Il solipsismo e la riflessività esasperata stanno infatti diventando il cavallo di Troia, per alcuni teologi al passo con i tempi, per difendere un ritorno in massa dello studio teologico della religione in nome di una concezione della teologia (cristiana) non più considerata come discorso deduttivo a partire dalla Rivelazione, ma come costruzione culturale contestuale e intersoggettiva.

Anche in Europa, un’Europa ormai allargata a Paesi con tradizioni culturali e religiose profondamente diverse, la questione su questo punto decisivo sta evolvendo in modi non facilmente prevedibili. Anche se tuttora persiste una chiara linea di divisione tra Paesi cattolici di tradizione laica come la Francia, la Spagna e l’Italia, e Paesi, come la Germania, l’Olanda e alcune nazioni nordiche, di tradizione protestante, contraddistinti da una presenza delle facoltà teologiche nell’insegnamento di Stato, i processi europei tendono a mutare questo paesaggio. Né è facile prevedere che cosa succederà in Paesi a tradizione ortodossa, dalla Grecia alla Romania, dove la Storia delle religioni conosce un successo relativo, anche se il suo statuto permane a tutt’oggi incerto. In conclusione, è difficile prevedere un possibile percorso vincente soprattutto a causa del mutare profondo del contesto culturale, anche in conseguenza del crescente pluralismo religioso, dei problemi che ne discendono relativi all’educazione religiosa, del crescere di conflitti identitari in cui la religione recita una parte non secondaria, della ricerca di surrogati religiosi anche a livello europeo (il problema della cosiddetta religione civile) come ‘nuovo’ vincolo sociale.

Religione on-line

Tra i mutamenti profondi attualmente in atto, ve ne sono due, destinati a incidere profondamente sul futuro della disciplina. Il primo concerne gli influssi della rete, il secondo il modo in cui viene oggi affrontato il problema della comparazione e cioè di quel metodo, controverso quanto necessario, che fin dalle origini ha permesso alla Storia delle religioni di costituirsi come disciplina a sé.

Cominciando con il primo punto (v. Religion online, 2004), forse nessun fattore come la rete sta contribuendo e contribuirà sempre più in futuro a rendere questi studi globali. Naturalmente si tratta di una globalità problematica, con cui d’altro canto non si può non fare i conti.

La rete sta agendo su questo campo di studi in due modi: da un lato, cambiando profondamente la sua organizzazione e il suo ethos; dall’altro, fornendogli un nuovo oggetto: la religione in rete. Quest’ultimo punto, a sua volta, comprende due aspetti che vanno tenuti, almeno teoricamente, distinti: la presenza delle religioni in modo sempre più massiccio sulla rete; e il fatto che il cyberspazio diventa sempre più un ‘luogo’ produttore di un nuovo tipo di esperienza religiosa.

La complessa dimensione religiosa di Internet continua, per certi aspetti, il rapporto tra religione e mass media attivato da mezzi precedenti come la radio e la televisione. D’altro canto, sono evidenti le discontinuità. A differenza della televisione, Internet è un mezzo interattivo: chiunque oggi lo desideri e ne abbia i mezzi può lanciarsi nella rete a costi ridotti, comunicando in ogni parte del mondo in modo veramente globale e istantaneo, abolendo barriere non solo spaziali e temporali, ma anche di altro tipo.

Questo vale sia per i singoli sia per le tradizioni religiose. La possibilità di avere accesso alla rete sta cambiando lo stesso modo di presentarsi delle religioni e i loro reciproci rapporti. Oggi tutte le grandi religioni sono rappresentate sulla rete, al pari della maggior parte delle chiese protestanti o di migliaia di chiese separate e minori. Lo stesso discorso vale per i nuovi movimenti religiosi o i gruppi che costituiscono la nebulosa mistico-esoterica, per non dire degli innumerevoli pretesi guru, sciamani, profeti o semplicemente ciarlatani. La ‘democrazia’ della rete, da questo punto di vista, non conosce differenze, se non, come per ogni consumismo, il modo di presentare e vendere il prodotto (dal momento che un altro aspetto, destinato a crescere in modo imprevedibile, della religione in rete, è la sua dimensione commerciale: basterebbe guardare i prodotti e i gadget che si vendono nei siti americani collegati a Padre Pio). A tutto ciò vanno aggiunti i siti che si occupano di educazione religiosa e che forniscono corsi in rete (ma l’elenco è lungi dall’essere esaustivo).

Su Internet chiunque può ormai leggere migliaia di testi sacri (perlopiù tradotti in inglese) e altri documenti o assistere ad altre forme di manifestazione visuale o musicale appartenenti a diverse religioni. Ciò sta cambiando sia il modo di rapportarsi a una religione sia il concetto stesso di documento. Si pensi, per non portare che un esempio, al caso dei testi sacri. La loro disponibilità in rete sta mutando, oltre che il modo di studiarli, la nozione stessa di autorità e di sacralità che per secoli li ha circondati: chi oggi è autorizzato a definirli tali? Tutto ciò, alla lunga, non potrà non avere delle ripercussioni sulla nozione stessa di canone e del suo contenuto.

L’esplosione di questa presenza in rete è tale che nessuno oggi – forse nemmeno il motore di ricerca – è in grado di controllare questo territorio in continuo divenire o anche solo di fornirne mappe attendibili. Questa presenza solleva non soltanto problemi di cartografia, etnografia ed ecologia (nel senso di comprendere meglio la complessità, i vantaggi e i pericoli di chi si avventura in questo nuovo ambiente), ma anche di valutazione. La religione in rete può essere letta come l’ultima manifestazione di una cultura di massa che raggiunge finalmente il suo obiettivo ‘democratico’ di mettere teoricamente a disposizione di tutti il patrimonio religioso dell’umanità, ma può anche essere letta, a seconda dei punti di vista, come la mercificazione progressiva e inarrestabile di questo patrimonio. Il cyberspazio può essere visto, in casi determinati, come un nuovo spazio sacro, con il suo axis mundi e le sue nuove mitologie, ma anche come il congedo definitivo da ogni autentica sacralità che non sia costruita ed effimera. La rete può diventare, per l’individuo che è in cerca di una nuova identità religiosa o spirituale, il luogo per pratiche vecchie e nuove, condivise o meno, e per avventure e viaggi senza fine, ma anche o soprattutto un luogo di derealizzazione o, al più, di una disincarnata e narcisistica religione virtuale.

Si potrebbe continuare a lungo con questo esercizio intellettuale. Si rischierebbe, però, di trascurare il fatto che le diverse tradizioni religiose hanno preso sul serio le potenzialità della rete. Oggi è possibile ricostruire fili comunitari un tempo impensabili. Il pio ebreo che non può andare a piangere al Muro del pianto a Gerusalemme può farlo in modo virtuale. I cristiani appartenenti alle diverse confessioni possono, con le variazioni del caso, pregare e riunirsi su Internet, compiendo liturgie che non sono atti solipsistici e virtuali, dal momento che trovano sempre più riconoscimenti e legittimazioni. Lo stesso discorso può essere esteso alle altre grandi tradizioni religiose, dal buddhismo all’islam.

Il caso dell’islam digitale è forse il più sorprendente e quello più ricco di insegnamenti; e, all’interno, il caso del Corano è esemplare delle potenzialità, ma anche della difficoltà di prevedere quale sarà l’esito di questo rapporto tra islam e Internet.

Secondo la tradizione islamica, il Corano fu inviato da Dio a Maometto tramite la mediazione dell’angelo Gabriele. Questo statuto di eccellenza del testo rivelato si è esteso all’arabo in cui era composto, rendendone problematiche sia le traduzioni sia lo studio da un punto di vista storico-critico. Oggi in rete esistono, accanto ai siti che lo riportano in arabo, numerose traduzioni del Corano e strumenti che permettono di accostarvisi elettronicamente al pari della Bibbia. Anche se rimane un problema aperto sapere se questi in-terfaccia digitali contribuiscano a generare nuove identità e prospettive se non affiliazioni o si limitino piuttosto a riflettere punti di vista convenzionali, paradossalmente confermando l’immobilità della tradizione attraverso uno dei mezzi più rapidi e mutevoli inventati dall’uomo, di fatto ciò che gli studiosi hanno messo in luce sono una serie di cambiamenti significativi (Bunt 2000). Mentre alcuni materiali, come commenti o recitazioni, possono essere rivolti ad aiutare e rinforzare la fede di specifici gruppi di fedeli, altri mirano apertamente, attraverso traduzioni ed esemplificazioni, a un pubblico più vasto di simpatizzanti. Mentre in certi casi le autorità religiose ne hanno riconosciuto l’uso, per quanto limitato e controllato, per venire incontro a situazioni particolari di isolamento o di marginalità (è il caso, per es., delle donne in determinate circostanze), in altri, soprattutto in Occidente nei contesti di immigrazione, la presenza dell’islam in rete da parte di queste autorità persegue lo scopo evidente del controllo e di preservare la tradizione in questi nuovi contesti. Anche se è difficile allo stadio attuale delle ricerche valutare l’impatto di questo fenomeno, è indubbia la sua importanza. Essa rimanda al problema più generale del rapporto dialettico che l’islam, a prescindere ora dalle sue divisioni interne, ha con una delle espressioni più sofisticate di una modernità occidentale che l’ideologia islamista, sempre più diffusa nei Paesi islamici, tende a criticare e rifiutare (anche se, come insegna il caso delle organizzazioni terroristiche, si dimostra capace di utilizzare in modo raffinato i suoi prodotti tecnologici).

L’impressione che si ricava da questi studi è che i musulmani hanno a tutt’oggi saputo utilizzare in modo creativo Internet. Attualmente è attivo uno spettro complesso e articolato di accesso, interfaccia, dialogo, networking e applicazioni che dimostra la capacità di utilizzo, per scopi diversi (di propaganda, ma anche di difesa), delle più recenti tecnologie di comunicazione. In vista di futuri sviluppi forse l’aspetto più interessante, ma anche problematico, è che in questo modo si viene formando una nuova élite religiosa, educata e informatizzata, che potrebbe contribuire a un confronto meno conflittuale e ideologizzato con la modernità occidentale.

Modi di comparazione

Dopo aver attaccato il metodo storico-critico degli studi di storia delle religioni e decostruito il suo oggetto, la ‘religione’, l’onda decostruzionista è arrivata a colpire anche la comparazione. Senza entrare nel merito di un’annosa questione, tradizionalmente si tendeva a individuare, secondo lo schema interpretativo sopra ricordato, due tipi di comparazione propria della storia delle religioni: quella, di tipo fenomenologico, tesa a individuare le somiglianze facendo ricorso a tipologie storiche o ideali, a morfologie o a strutture; e quella funzionalistica, tesa di contro a sottolineare le differenze. A partire dai presupposti tipici della critica postmodernista, alla comparazione si sono rivolte, a partire dagli anni Settanta, nuove critiche in linea con i presupposti ideologici di questa corrente e così riassumibili (W.E. Paden in New approaches to the study of religion, 2° vol., 2004, pp. 78-79): 1) il comparativismo è imperialistico, dal momento che le classificazioni e le tipologie non sono neutrali, ma rivelano all’analisi presupposti ideologici e sociopolitici funzionali agli interessi di una particolare classe ed élite dominante. Le categorie usate dalla comparazione sono dunque proiettive, palesando, invece che strutture transculturali, significati e metanarrative specifici della cultura del comparatista. Comparare è astrarre e astrarre è controllare. 2) L’aspetto più evidente e dannoso di questo imperialismo ideologico è quello religioso. Avendo di mira ancora una volta Eliade e la sua teoria del sacro, questa critica tende a sottolineare l’appiattimento delle differenti tradizioni religiose sotto una categoria generica come ‘sacro’ o ‘divino’ che conseguirebbe da questo tipo di comparazione, la quale corre parallela e spesso finisce per favorire, se non produrre, raffronti a sfondo teologico, che esplicitamente comparano per dimostrare la superiorità della religione di appartenenza (in genere, il cristianesimo). 3) La comparazione non è contestuale: questa critica, legata a una prospettiva funzionalistica, non fa che riprendere, radicalizzandola perché inserita in un nuovo contesto, la prospettiva tradizionale sopra ricordata. 4) La comparazione è priva di spessore teoretico: la critica in questo caso si rivolge al modo, non scientificamente corretto, in cui sono state giustificate le esistenze universali di forme e strutture come mito, rito, sacrificio. Né è un caso che una variante di questo approccio si sia affaticata a decostruire queste categorie, ritenute, al pari della religione, costrutti che pretendono di classificare e incapsulare una realtà globale che ormai non si lascia più racchiudere in questa gabbia concettuale.

Di fronte a queste e a consimili critiche è nato in questi ultimi anni un vivace dibattito, impossibile a riassumere (W.E. Paden, Religious worlds. The comparative study of religion, 19942, A magic still dwells, 2000; How to do the comparative religion?, 2005; Comparer les comparatismes, 2006). La posta in gioco è alta e, a seconda della via che prevarrà, non è difficile prevedere che gli studi sulla religione risulteranno profondamente condizionati nelle loro future prospettive. In questione, ancora una volta, è quel problema di confrontare fenomeni religiosi analoghi, che sta alla base della storia della Storia delle religioni, da Erodoto a oggi. Tra le proposte più interessanti per uscire dalle secche di un dibattito che rischia di bloccare le ricerche si può ricordare il new comparativism suggerito da Paden (New approaches to the study of religion, vol., 2004, pp. 77-92). Per sfuggire al vicolo cieco provocato dalla minaccia di ricorrere all’accusa di etnocentrismo contro ogni tipo di studio che voglia uscire dal circolo chiuso di descrivere l’insider view, lo studioso americano ha fatto ricorso alla possibilità di individuare nozioni ‘panumane’, anziché culturali, come quelle di sessualità, desiderio, corpo, procreazione, oppure di ordine morale. Su questo sfondo si apre la strada per un fecondo studio di nozioni come ‘dignità umana’, ma anche la necessità di un confronto serrato con le neuroscienze.

Prospettive per il futuro

All’inizio del secolo scorso Max Weber ebbe a osservare: «In qualche modo il colore muta. Il significato dei punti di vista e dei giudizi di valore irriflessi si perde nella penombra. La luce dei grandi problemi culturali è migrata. Allora anche la scienza si prepara a mutare il proprio luogo di residenza e il proprio apparato concettuale, in modo da poter guardare dall’alto dei pensieri al fiume dell’accadere, orientandosi su quelle stelle che, sole, sembrano in grado di dar senso e direzione al proprio lavoro» (Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, 1922, 19683, p. 24).

Accettando questa sfida, anche se pare impossibile proporre a questo punto una valutazione sulle prospettive future degli studi di storia delle religioni, si può però rilevare come gli orientamenti d’oltreoceano, con la loro insistenza sulla contemporaneità, con le nuove interrogazioni che pongono alla storia delle religioni, con l’esigenza di una consapevolezza teorica e metodologica di cui si fanno portatori, con l’istanza di apertura verso prospettive e approcci disciplinari diversi, non possono che determinare un riorientamento del dibattito e degli interessi degli studi religiosi europei, anche se corrono il pericolo di non riuscire a porre argini allo sviluppo di una ricerca che rischia di perdere ogni elemento di controllo. Da parte loro, le tradizioni di studio europee sono portatrici di un orientamento storico-critico, che nonostante tutto non ha perso la sua vitalità e la cui capacità euristica non si è esaurita: un orientamento che, temperato dalla consapevolezza storiografica dei propri condizionamenti e dei propri limiti tramite un apparato concettuale sottoposto a critica, privato dei suoi elementi dogmatici ma non per questo azzerato, può forse costituire un elemento, anzi, l’unico elemento di regolazione della ricerca.

In conclusione, il problema maggiore che attende nel futuro gli studi della religione è quello di ristabilire un ruolo significativo dell’indagine storica, senza per questo rinunciare alle sfide della complessità imposte dalla nouvelle vague decostruzionista. La religione è, comunque si decida di definirla, una realtà complessa, dalla storia millenaria, sottomessa, per un verso, alle leggi evolutive delle culture umane, per un altro, retta da logiche interne autonome, non riducibili a pure funzioni: una realtà storica tradizionale che si rivela oggi sempre più articolata, non indagabile da un unico punto di vista, per quanto significativo. Di qui la necessità futura per questi studi di farsi sempre più carico della complessità crescente dell’oggetto, aggredendolo da una molteplicità di punti di vista. In questa prospettiva, la storia delle religioni sembra destinata a diventare una metadisciplina che, invece di ricercare improbabili essenze o di decostruire il proprio oggetto, si sforza di costruire un campo discorsivo in grado di mediare linguisticamente, concettualmente e teoricamente la complessità dell’oggetto studiato.

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