DUCCIO di Buoninsegna

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)

DUCCIO di Buoninsegna

L. Bellosi

(o Boninsegna)

Pittore senese, attivo in Toscana tra il 1278 e il 1311.D. è documentato a partire dal 1278, quando venne pagato per aver dipinto dodici casse per conservare i documenti del Comune di Siena. Egli è già indicato come pittore; perciò doveva essere almeno sui vent'anni ed essere nato, dunque, verso il 1255. Negli anni 1279, 1285, 1291, 1292, 1294 e 1295 D. dipinse le tavolette di legno con cui venivano rilegati i registri del Comune. Del 1280 è la prima delle numerose multe inflittegli dallo stesso Comune: altre seguirono nel 1285, 1289, 1294, 1295, 1299, 1302, 1309, 1310, ma sembrano avere più che altro il carattere di penali pagate pur di non sottrarsi alla propria redditizia attività di pittore. Il 15 aprile 1285 a Firenze la Compagnia dei Laudesi commissionò a "Duccio quondam Boninsengne pictori de Senis" la tavola magna per S. Maria Novella. Tornato a Siena, D. fece parte, nel 1295, insieme con Giovanni Pisano e altri personaggi ormai non identificabili, di una commissione incaricata di studiare il sito in cui costruire la Fonte d'Ovile e, nel 1302, venne incaricato di dipingere una Maestà, con predella, per l'altare della cappella dei Nove nel Palazzo Pubblico, andata perduta. Al 9 ottobre 1308 risale il più antico documento relativo alla tavola per l'altare maggiore del duomo di Siena, commissionatagli dall'Opera dello stesso duomo; nel giugno 1311 essa venne trasportata dalla bottega del pittore alla cattedrale con una festa di cui resta ampia documentazione. Il 3 agosto 1319 il pittore era certamente già morto, perché i figli rinunciarono all'eredità. Da altri documenti si può stabilire che D. morì nel corso del 1318.Se confrontate con quelle relative ad altri artisti contemporanei, le notizie documentarie che si hanno su D. non sono poche: Stubblebine (1979, pp. 191-208) propone cinquanta documenti. Ma solo due opere documentate sono pervenute: la grande tavola commissionata nel 1285 per S. Maria Novella a Firenze, la c.d. Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi), e la celebre Maestà dipinta su due facce per l'altare maggiore del duomo di Siena (ora nel Mus. dell'Opera della Metropolitana), conservata salvo alcuni elementi dispersi o perduti, firmata e documentata fra il 1308 e il 1311. I due importantissimi dipinti, eseguiti a più di vent'anni di distanza l'uno dall'altro, sono assai diversi tra loro e dimostrano un'evoluzione che è stato assai difficile interpretare e ricostruire.Se l'attività matura, che fa capo alla Maestà, da sempre riconosciuta a D., è nel complesso assai ben assestata, sulla ricostruzione dell'attività giovanile hanno pesato negativamente le difficoltà a riconoscergli la Madonna Rucellai. La sua secolare attribuzione a Cimabue, sulla fede di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 40), che riprendeva un'opinione più antica e la considerava addirittura il capolavoro del grande pittore fiorentino, aveva fatto passare inosservata la pubblicazione, già nel 1790, del documento in cui la Compagnia dei Laudesi commissionava a D., nel 1285, una grande tavola con la Madonna (Fineschi, 1790). Questa carta, pur nota anche a Milanesi (1854), venne presa in considerazione, nell'ambito storico-artistico, soltanto un secolo dopo da Wickhoff (1889); ma anche successivamente molti studiosi continuarono ad avere difficoltà a considerare la Madonna Rucellai come opera di D. e crearono un anonimo Maestro della Madonna Rucellai (Suida, 1905; Cecchi, 1928). Un troppo rigido concetto di 'scuola' rendeva difficile ammettere che un'opera conservata in un'importante chiesa fiorentina, considerata a lungo il capolavoro di un grande pittore fiorentino come Cimabue, e che con Cimabue denunciava tanti rapporti, potesse essere opera di un senese come Duccio. D'altra parte, contro questo preconcetto sta il fatto documentato che il pittore senese ricevette a Firenze una commissione importante (la pala, di cm. 450290, è la più grande tavola duecentesca che si conservi) e negli ultimi tempi le residue perplessità sono state superate. Delle tre monografie più recenti sul grande pittore senese (Stubblebine, 1979; White, 1979; Deuchler, 1984), nessuna pone in dubbio la paternità duccesca della Madonna Rucellai. La discussione è ancora aperta, invece, sull'interpretazione dei rapporti di D. con Cimabue e sulle opere da collegare alla Madonna Rucellai. Longhi (1948) ha sottolineato con forza questi rapporti, considerando D. "non allievo soltanto, ma quasi creato di Cimabue". Longhi giungeva a prospettare la possibilità che il crocifisso del castello di Bracciano (Roma, Coll. Odescalchi) e la Madonna di Castelfiorentino (S. Verdiana, Pinacoteca) fossero opere di collaborazione tra Cimabue e il giovane D., che avrebbe partecipato anche alla decorazione cimabuesca della basilica superiore di Assisi, dove sarebbe stato presente in un angelo nel finestrone meridionale del transetto, nella Visione di Dio in trono fra le scene dell'Apocalisse, nella Cacciata dei progenitori, nella Crocifissione, nella figura di Adamo della Creazione nella navata. Su questa linea interpretativa si sono mossi Volpe (1954) e Bologna (1960), con una serie di proposte tra le quali rimangono valide quella di Volpe relativa al crocifisso di Bracciano e quella di Bologna relativa alla Madonna con il Bambino di Buonconvento (Mus. d'Arte Sacra della Val d'Arbia). Altre proposte (Firenze, S. Remigio, Madonna; Firenze, Gall. dell'Accademia, crocifisso del Carmine; Firenze, Coll. Loeser, crocifisso; Paterno, S. Stefano, crocifisso; Mosciano, S. Andrea, Madonna) sono piuttosto da riconsiderare, nel senso che D. non ebbe solo un fondamentale rapporto di avere con Cimabue, ma dette anche un importante contributo allo sviluppo della pittura fiorentina. Il rapporto Cimabue-D. si inserisce del resto in un contesto di cultura figurativa che interessava l'intera Italia centrale (oltre che Firenze e Siena, anche Pisa, Roma, l'Umbria, fino a toccare Bologna e la Campania). A Siena, la formazione di un contesto cimabuesco si verificò già a partire dalle opere tarde di Guido da Siena, per toccare il Maestro delle Clarisse (identificabile con Rinaldo da Siena), il Maestro del dossale di S. Pietro (identificabile con Guido di Graziano) e Vigoroso da Siena, il cui polittico di Perugia (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), datato 1291, come è stato appurato nel corso del recente restauro, è cimabuesco prima ancora che duccesco.La Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi) ha come precedente diretto fra le opere di Cimabue la Madonna a Parigi (Louvre). Lo si vede anche meglio oggi che, dopo il recente restauro di del Serra, del 1989, il manto blu della Madonna ha recuperato la sua fitta pieghettatura originaria, così simile a quella della Madonna del Louvre. Anche qui la sacra protagonista siede su un trono collocato in tralice e immaginato come uno scranno di legno splendidamente arricchito di intagli, di torniture e di intarsi d'oro. Questo trono prezioso e gigantesco è un'invenzione di Cimabue, o comunque un recupero da modelli carolingi, e nel ruolo così importante che assume nell'economia del dipinto ha certamente una valenza simbolica. Anche la larga cornice decorata da una serie di tondini con mezze figure di profeti e di santi (tra questi, anche il domenicano Pietro Martire, fondatore della Compagnia dei Laudesi, circostanza questa che avvalora l'identificazione della tavola con la pala citata dai documenti) è ispirata alla Madonna del Louvre. Come in essa, queste piccole figure denunciano, più chiaramente di quelle grandi, di ispirarsi al chiaroscuro 'compendiario' tardoantico, che è alla base di tutta la pittura bizantina. Perfino il fondo d'oro operato è un'idea di Cimabue. Invece, gli angeli rappresentano una variante, perché non stanno in piedi intorno al trono ma sono inginocchiati di lato, a due a due, su tre livelli diversi; tuttavia, la soffice trasparenza delle loro vesti gareggia con quella del perizoma del Crocifisso cimabuesco di Santa Croce, a Firenze, superandolo perfino in sottigliezza. In generale, le figure si trasformano in immagini più gentili che in Cimabue e la grave malinconia delle Madonne del fiorentino assume in D. un'espressione più dolce e sorridente. La superficie diventa preziosa e smaltata rispetto alla bellezza iridescente della pittura di Cimabue. Il filo d'oro che serpeggia lungo il bordo del manto della Madonna Rucellai, impegnando tutta la figura, è un tremulo arabesco di sapore ormai decisamente gotico. La componente gotica è una novità nei confronti della cultura di tradizione tardobizantina di Cimabue; D. la denuncia anche in particolari quasi invisibili, come le piccole bifore allungatissime e archiacute che sono inserite negli intagli del trono. Neppure l'individuazione delle radici di queste componenti gotiche trova spiegazioni concordi fra gli studiosi. Stubblebine (1979, pp. 198-199) ha ipotizzato un soggiorno a Parigi nel 1296-1297, sostenuto dalla traccia documentaria della presenza di un Duch de Siene e di un Duche le lombart nella parrocchia di Saint-Eustache, e la sua ipotesi è stata ripresa con calda convinzione da Deuchler (1984, p. 176). Questi documenti, contestatissimi, sembrano da riferire piuttosto a un omonimo del pittore senese e comunque non basterebbero a dar ragione di una svolta riferibile a più di dieci anni prima. Sembra perciò più probabile che l'aggiornamento di D. sia avvenuto su opere di gusto accentuatamente gotico presenti in Italia, come forse i tabelloni polilobati del Crocifisso della cappella della Pura in S. Maria Novella a Firenze, ma soprattutto come l'intervento del Maestro Oltremontano (un frescante di probabile origine inglese) nelle pareti alte del transetto destro della basilica superiore di Assisi.In prossimità cronologica della Madonna Rucellai vanno poste la sublime Madonna di Crevole (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) e la minuscola Madonna dei Francescani (Siena, Pinacoteca Naz.), considerate capolavori giovanili di D. anche da chi non ha creduto sua la grande pala fiorentina. Solo Stubblebine (1979, pp. 123-125) ha dubitato che la Madonna di Crevole fosse opera del grande pittore senese, creando un Crevole Master, autore di altre due Madonne (quella del convento delle Cappuccine a Siena e quella della chiesa della Madonna delle Grazie a Campagnatico), assai belle e umoresche, ma inconfrontabili per qualità con quella di Crevole. Si tratta di un'immagine imponente e dolcissima nello stesso tempo, in cui l'impianto severo della mezza figura della protagonista, tutta chiusa nel mantello blu irraggiato dalle crisografie di origine bizantina, il suo aspetto da idolo, le cifre astratte da cui sono ancora segnati il volto (la forcella tra gli occhi, il naso a becco) e le mani (dalla tipica deformazione a cucchiaio), perfino la presenza dei due piccoli angeli che si affacciano ai due angoli in alto sulla lastra d'oro del fondo, sono ancora come in un'icona bizantina; ma tutto è intenerito dall'espressione dolcemente malinconica della Madonna, dal gesto affettuoso del Bambino, dal ritmo fluido dei panneggi, dalla trasparenza della pittura, che nella veste del Bambino raggiunge una sottigliezza impalpabile, da fare invidia a Cimabue.La piccola Madonna dei Francescani, nonostante numerose abrasioni e l'impoverimento della superficie dipinta, ha il fascino di una complessa figurazione in miniatura, che sembra particolarmente congeniale al grande pittore senese. Il mantello blu leggero come un velo, il cui ritmo fluido dialoga mirabilmente con il tremulo arabesco del filo d'oro sottilissimo che ne segna gli orli, la libera impostazione in tralice della composizione, la larga tenda verde quadrettata che copre quasi tutto il fondo d'oro fanno di questa tavoletta un'opera felicissima per invenzione, straordinaria per originalità, affascinante per il suo stare in equilibrio fra Oriente e Occidente; orientale è, fra le altre cose, il motivo iconografico della Madonna ausiliatrice, per cui Deuchler (1984) ha portato a esempio l'affresco del catino absidale della chiesa della Panaghia Phorbiotissa di Asinou, a Cipro; occidentale e gotico è l'andamento calligrafico della linea, mentre la tenda a disegni geometrici che fa da sfondo sembra alludere alle miniature parigine del tempo di Luigi IX.Accanto a questi capolavori indiscutibili del giovane D., altri dipinti gli vanno riferiti, tenendo presente lo stretto legame che egli aveva con Cimabue in questo periodo. Così il delicatissimo Crocifisso già nel castello Orsini di Bracciano, di proprietà Odescalchi, impostato secondo il modello iconografico, già desueto, del Christus triumphans, probabilmente adottato per ripetere un vecchio e venerato esemplare. Mancante dei capicroce e resegata lungo la figura, la sua forma attuale, presumibilmente simile a quella originaria, è una ricostruzione moderna; Bologna (1983), peraltro convinto che si tratti di un'opera di collaborazione fra Cimabue e D., ha proposto che sia a esso pertinente un Cristo benedicente ora a Lugano (coll. privata). La trasparenza del perizoma e la dolcezza del modellato sono tipicamente duccesche; la testa regge bene il confronto con alcune figure nei tondi della cornice della Madonna Rucellai.Più strettamente cimabuesca, e quindi più antica, è la grande Madonna in trono della Coll. Gualino nella Gall. Sabauda di Torino. La pala è molto deteriorata, ma certi aspetti si leggono ancora bene, come la cromia particolarissima (per es. il rosso della veste della Madonna è di una rara tonalità amaranto). Questo gusto per il colore raro e prezioso era inconfondibilmente senese e venne portato a livelli insuperabili nella successiva pittura di Simone Martini e dei Lorenzetti; ma già in Guido da Siena e in altri pittori preducceschi si colgono alcuni accenti cromatici carichi, soprattutto dei rossi vinati, che D. riprese. Considerazioni simili si possono fare di fronte al color porpora del panno che copre parzialmente il Bambino della Madonna di Buonconvento (Mus. d'Arte Sacra della Val d'Arbia), purtroppo terribilmente guasta, ma certamente opera giovanile di D., come si capisce meglio dopo il restauro del 1979. Il Bambino è una variante di quello della Madonna Rucellai e nella sua dignità e compostezza maestosa, da piccolo dio antico, fa pensare al classicismo di Arnolfo di Cambio. In rapporto con l'attività del giovane D. vanno visti anche due dipinti di piccolo formato, il cui stato di conservazione terribilmente impoverito non permette che di intuire la loro originaria qualità, senza rendere sicuri della loro autografia: si tratta di una piccola crocifissione (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 321) e di un tabernacolo (Cambridge, MA, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.), anch'esso di formato ridotto, con la Flagellazione e la Crocifissione (sportello sinistro), la Madonna in trono (al centro), S. Francesco stimmatizzato e S. Francesco che predica agli uccelli (sportello destro).Con la grande vetrata circolare dell'abside del duomo di Siena, raffigurante tre episodi relativi alla Vergine (dal basso, Sepoltura, Assunzione, Incoronazione), fra gli evangelisti e i ss. Bartolomeo, Ansano, Crescenzio e Savino, intervengono dei fatti nuovi. La sua attribuzione a D., difficilmente contestabile (anche se è stata contestata), si deve a Carli (1946) e trova riscontro nelle strette affinità, anche di stilemi figurativi, con la Madonna Rucellai e la Madonna di Crevole. I documenti, che non rivelano l'autore, dicono che si tratta di un'opera di poco successiva, a cui si lavorava nel 1287-1288. Naturalmente la si può capire come opera duccesca soltanto tenendo conto della traduzione in una tecnica che non permetteva l'uso di colori così raffinati come quelli della cromia caratteristica del pittore senese e nemmeno di un chiaroscuro così dolcemente modulato, anche se quel poco che resta del modellato a grisaille lascia intravedere un'esecuzione raffinatissima. Il ricordo ancora forte di Cimabue - tanto che White (1979, pp. 137-140) ha attribuito la vetrata addirittura al pittore fiorentino - le ascendenze bizantine e insieme certi aspetti che denunciano l'attenzione al mondo gotico (per es. le cornici mistilinee dei quattro santi in piedi) sono perfettamente in linea con quanto si è già detto per le opere giovanili di Duccio. Ma c'è una novità: il grande trono su cui siedono Cristo e la Vergine nell'Incoronazione e quelli dei quattro evangelisti non sono più gli scranni lignei di tradizione bizantina, che D. aveva ereditato da Cimabue, ma sono troni ormai architettonici, marmorei, come quelli che Giotto impose con il suo ripensamento totale della pittura. Questo fa credere che D., poco più anziano di Giotto, abbia partecipato con lui a questo ripensamento, in un dialogo appassionato e drammatico, probabilmente ancora all'interno della bottega di Cimabue. Fatto sta che i troni architettonici che compaiono nella grande vetrata senese del 1287-1288 sono, non essendo arrivate opere giottesche di questo periodo, la prima avvisaglia delle nuove idee del giovane pittore fiorentino.Di questo stesso momento deve essere la piccola Maestà del Kunstmus. di Berna, riconosciuta a D. da Toesca (1930) e restaurata nel 1963 da Mora. Infatti il suo trono marmoreo, decorato da nastri di intarsi musivi a piccoli rombi, è identico a quelli che si vedono nella vetrata del duomo di Siena. La squisita modulazione chiaroscurale accenna ancora alle forzature di origine bizantina ed è sostanzialmente identica a quella che si vede nella Madonna dei Francescani (soprattutto i volti dei tre piccoli francescani inginocchiati). Anche l'allungamento delle figure ha un carattere parabizantino e tutta la tavoletta assume un aspetto quasi paleologo. È possibile che questo fatto sia da ricollegare alla ondata di riflusso bizantino di fine Duecento che in Italia ebbe il suo apice nella miniatura bolognese, in particolare nella ben nota Bibbia di Clemente VII (Parigi, BN, lat. 18).È su questo momento di D. che si aggancia l'opera del Maestro di Badia a Isola, i cui dipinti sono stati qualche volta attribuiti a D. stesso. La Madonna di Badia a Isola, presso Siena, ha già il trono architettonico, ma ancora un modellato di tipo bizantino, non solo nelle vistose crisografie del manto, ma anche nella resa degli incarnati.Che nell'evoluzione di D. si debba tener conto di una meditazione sulle novità apportate dal giovane Giotto sta a indicarlo in modo didascalico la piccola Madonna Stoclet, a mezza figura (già Bruxelles, Coll. Stoclet), immaginata come al di là di un davanzale marmoreo formato da un architrave sorretto da una fila di mensolette, che sono una citazione diretta dall'incorniciatura delle Storie di s. Francesco nella basilica superiore di Assisi. Il sottile filo d'oro vagante che borda il manto ricorda ancora la Madonna Rucellai e la Madonna dei Francescani e il gesto del Bambino ripete quello della Madonna di Crevole, ma le figure hanno dismesso quasi tutte le stilizzazioni astrattive duecentesche per accogliere un'inedita naturalezza nei tratti, un chiaroscuro più corposo, seppure estremamente dolce e tenero; il maphórion è scomparso da sotto il lembo del manto che sale sulla testa della Madonna per lasciare il posto a un velo bianco elegantemente articolato da molli pieghe in curva.Di un momento molto prossimo alla piccola Madonna Stoclet deve essere quella, assai più grande, conservata nella Gall. Naz. dell'Umbria a Perugia, probabilmente centro di un dossale che doveva stare su un altare della chiesa di S. Domenico di quella città, dal cui convento questa tavola proviene. Nonostante le crisografie bizantine del mantello della Madonna, il trattamento del chiaroscuro e il modellato che rileva le stoffe chiare, soprattutto quello della veste del Bambino, hanno una concretezza perfettamente in linea con gli aspetti protogiotteschi della Madonna Stoclet. Alla cornice rilevata della centina, al di sopra della Madonna, si appoggiano dolcemente gli angeli, come facevano quelli che fiancheggiavano il trono dell'Incoronazione nella vetrata del duomo di Siena e come avrebbero fatto quelli presso il trono della grande Maestà, ancora per il duomo di Siena.A denunciare la presa d'atto delle nuove idee di Giotto in ambito duccesco sono anche le differenze di formulazione di immagine che intercorrono fra il già considerato tabernacolo a Cambridge e quello a Oxford (Christ Church), dove la Madonna in trono con angeli e donatore è fiancheggiata dalla Crocifissione e dal S. Francesco stimmatizzato. Nella Crocifissione, il corpo di Cristo non disegna più un grande arco, ma pende, grave e inerte, dalla croce, come nel Crocifisso di S. Maria Novella a Firenze, del giovane Giotto. Nel S. Francesco stimmatizzato, il santo non solleva più drammaticamente le braccia in alto (come prevedeva un'iconografia duecentesca che incontrò gran favore anche a Siena), ma le tiene raccolte lungo il busto, come nell'affresco corrispondente della basilica superiore di Assisi. Il tabernacoletto di Oxford è assai rovinato e non permette di essere inserito con sicurezza tra le opere di Duccio. Invece il trittichetto di Siena (coll. privata), con la Crocifissione al centro, la Flagellazione a sinistra e la Deposizione nel sepolcro a destra, ha rivelato, dopo un recente restauro, le qualità di un'opera autografa, probabilmente di un momento anche più antico della Madonna di Perugia e della piccola Madonna Stoclet, a giudicare dal chiaroscuro ancora allusivo alla pittura compendiaria tardoantica. Pur così rovinato, il busto di Cristo alla colonna nella Flagellazione appare di una statura morale impressionante, in tutto degna dell'alta fantasia di un pittore come Duccio. Il Cristo della Crocifissione è già del tipo rinnovato e questa scena sembra come una prima idea per quella nel retro della Maestà. Soltanto di recente (Guiducci, in Il Gotico a Siena, 1982) il piccolo trittico è stato reinserito nel dibattito duccesco; non si riesce tuttavia a convenire con Boskovits (1983), che gli ha voluto accostare un piccolo tabernacolo (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 35), opera di un collaboratore già al corrente degli esiti raggiunti dal maestro nella grande Maestà per il duomo.Probabilmente non è di troppo posteriore il tabernacolo inglese di Hampton Court (Fine Arts Mus., Royal Coll.), con la Crocifissione al centro, l'Annunciazione e la Madonna in trono con quattro angeli a sinistra, le Stimmate di s. Francesco e la Madonna e il Cristo in trono a destra. Le figurazioni principali hanno un carattere più iconico del solito e nella Crocifissione compaiono solo la Madonna e s. Giovanni ai lati della croce. La Madonna e il Cristo in trono, sulla destra, non rappresentano un'Incoronazione della Vergine, come spesso si dice distrattamente; i due personaggi sacri sono seduti uno accanto all'altro e il Cristo solleva la destra in gesto benedicente, mentre tiene il libro con la sinistra. L'uso più sistematico del solito delle crisografie sulle vesti contribuisce ad accentuare il carattere iconico delle figurazioni di questo tabernacolo, la cui autografia duccesca, spesso messa in dubbio anche a causa dello stato di conservazione non brillante, è stata giustamente riaffermata di recente (Shearman, 1983). Non si saprebbe a chi riferire se non a D. stesso anche il finissimo tabernacolo di Boston (Mus. of Fine Arts), con la Crocifissione al centro e s. Nicola di Bari e s. Gregorio nei due laterali. A sportelli chiusi, il tabernacolo presenta sul tergo dei pannelli laterali motivi geometrici elegantissimi e distanziati, su un fondo rosso. È stata spesso proposta una datazione tarda; ma la Crocifissione (che ha, in questo caso, un carattere spiccatamente narrativo) rappresenta un'elaborazione intermedia fra quella del trittichetto di Siena e quella sul retro della Maestà, mentre il s. Gregorio di destra richiama ancora il s. Savino dello scomparto mediano di destra della vetrata del duomo.La Maestà con predella che D. aveva dipinto nel 1302 per l'altare della cappella dei Nove, nel Palazzo Pubblico di Siena non si è conservata. Dei tentativi di ricostruirne la composizione sono stati fatti da Brandi (1951, pp. 82-83, 141-142) e da Stubblebine (1972a; 1979, pp. 8-9) sulla base di una serie di tavole di formato verticale con la Madonna in trono e angeli uscite dalle botteghe di importanti pittori ducceschi, come la Madonna della Pinacoteca Com. di Città di Castello - che dà il nome al gruppo stilistico del Maestro di Città di Castello - o la grande tavola di Segna di Bonaventura nella collegiata di S. Giuliano a Castiglion Fiorentino.Gli stessi motivi geometrici del tergo del tabernacolo di Boston si vedono nel tabernacolo di Londra (Nat. Gall.), con la Madonna a mezza figura e il Bambino al centro, s. Domenico a sinistra e s. Aurea, o forse s. Agnese, come riteneva Brandi (1951), a destra. Figurazioni minori compaiono nel pannello centrale accanto alla Madonna (quattro angeli) e nella cuspide sopra la centina (Daniele, Mosè, Isaia, Davide, Abramo, Giacobbe, Geremia). Considerato spesso un'opera assai avanzata, il tabernacolo di Londra contiene ancora allusioni rilevanti al chiaroscuro 'compendiario', soprattutto nel volto della santa, mentre il Bambino presenta forme così minute che non si spiegano soltanto con il fatto che si tratta di un'opera di piccolo formato ma anche con una precedenza cronologica rispetto a opere più mature. Il fitto formicolio e la complicata vibrazione delle forme della Madonna rivelano un interesse gotico ancora forte, destinato a diminuire nelle opere più mature.Tale interesse è già molto minore in un dossale (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 28) diviso in cinque scomparti, con la Madonna e il Bambino fra i ss. Agostino, Paolo, Pietro e Domenico; il registro superiore è costituito da cinque cuspidi con il Redentore benedicente e quattro angeli. Di solito lo si identifica con il polittico che Fabio Chigi, nel 1625, vide nell'abbazia di S. Donato a Siena, con la firma di D. e la data 1310. Di struttura abbastanza semplice, tanto che sarebbe improprio chiamarlo polittico, questo dossale ha un carattere figurativo molto solenne e grandioso. Eppure, al di là dello stato di conservazione tutt'altro che buono, vi si legge ancora bene quella dolcezza espressiva e chiaroscurale che era diventata oramai un tratto distintivo della pittura senese: fu proprio in questo lasso di tempo, del resto, che ebbe inizio la pratica di ammodernare in tal senso alcune antiche immagini, come la Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo nella chiesa di S. Maria dei Servi o la Madonna di Guido da Siena della chiesa di S. Domenico di Siena. In confronto alla gravità e alla dolcezza della maturità, le velleità gotiche manifestate da D. nelle opere precedenti acquistano un sapore quasi frivolo. L'impostazione neobizantina delle opere dell'ultima fase rivela un D. che, nonostante gli slanci precedenti, mantiene una fisionomia sostanzialmente antigotica. Nella Siena di fine Duecento ben altra temperie gotica venne raggiunta, con una notevole precocità cronologica, dall'orafo Guccio di Mannaia, autore di un calice per papa Niccolò IV, del 1290 ca. (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), e precursore delle tendenze più espressive della pittura trecentesca e degli aspetti gotici che vennero sviluppati da pittori come Simone Martini e Pietro Lorenzetti. Non a caso Lorenzo Ghiberti, che dimostra nei Commentari (II, 15) una conoscenza diretta e precisa di D., fondata sulla "tavola maggiore del duomo di Siena" (descritta con precisione, a differenza di quanto fece in seguito Vasari), lo definisce in questi termini: "Fu in Siena ancora Duccio, il quale fu nobilissimo, tenne la maniera greca [...] Questa tavola fu fatta molto eccellentemente e dottamente, è magnifica cosa e fu nobilissimo pittore".È in questa meditata rinuncia alla frivolezza gotica, in questa riconquista di una gravità classica, che va visto il nucleo ispiratore della grande Maestà destinata all'altare maggiore del duomo di Siena, un'opera che, per le sue dimensioni, per la sua complessità e per la sua qualità può essere considerata a buon diritto la più importante pala d'altare conservata di tutta la storia della pittura italiana. Misura infatti cm. 370 di altezza e 450 di larghezza, è dipinta su due facce e comprende (senza contare le poche tavolette presumibilmente perdute) cinquanta figurazioni, oltre a quella maggiore con la Maestà vera e propria sulla faccia anteriore e le piccole figure di apostoli, santi e angeli. Di particolare rilevanza è la faccia posteriore, con storie della Passione di Cristo, raffigurate in piccolo formato perché riservate a una visione da vicino, che delineano una narrazione in ventisei episodi, commossa e serrata, fondata sulla lettura, spesso incrociata, dei quattro vangeli canonici e, in un caso (la Discesa di Cristo al limbo) di quello apocrifo di Nicodemo; essa consta di due facce orizzontali sovrapposte, di cui va letta per prima quella in basso e poi quella in alto; all'interno di ogni fascia, le scene vanno lette da sinistra a destra e dal basso verso l'alto.Alla Maestà si riferiscono, come si è già accennato, notizie documentarie che vanno dal 1308 al 1311. La più antica che si conservi è una carta di pacti stipulata fra il pittore e l'operaio del duomo Jacopo del fu Gilberto Marescotti, del 9 ottobre 1308: un accordo in base al quale l'operaio accordava un salario al pittore, che si impegnava da parte sua a "pingere et facere dictam tabulam quam melius poterit et sciverit". Questo documento è stato tradizionalmente letto come un contratto di commissione e di conseguenza si è soliti fissare l'inizio della lavorazione della grande pala al 1308. Soltanto in anni recenti si è affacciata l'ipotesi che la carta del 1308 non sia altro che un nuovo contratto stipulato per indicare alcune precisazioni relative al lavoro e al pagamento e che la Maestà sia stata iniziata prima del 1308, dato che un'esecuzione in soli tre anni avrebbe comportato l'intervento di collaboratori in misura più vistosa di quanto risulti in effetti (Pope-Hennessy, 1983). La documentazione si conclude con la notissima cronaca della processione popolare che accompagnò il dipinto in duomo il 9 giugno 1311: sintomo non tanto di un entusiasmo diffuso per l'arte figurativa, quanto della coscienza del valore civico di questo dipinto, che sarebbe divenuto il fulcro di un articolato programma mariano. Lo stesso D., nel firmare la tavola sul gradino del trono, ribadì questo significato con le solenni parole: "Mater sancta Dei sis causa Senis requiei. Sis Ducio vita quia te pinxit ita". Si è ritenuto spesso che il dipinto fosse allora completamente terminato: è stato invece osservato che si doveva trattare soltanto della tavola principale (Madonna in trono, venti angeli, dieci santi e dieci apostoli sulla faccia anteriore; ventisei storie della Passione su quella posteriore), priva ancora della predella a due facce, che sarebbe stata dipinta negli anni immediatamente successivi, come indica il più avanzato livello di sperimentazione spaziale (Conti, 1980).La prima alterazione della Maestà si ebbe nel 1375-1376, con l'aggiunta di un baldacchino di ferro e legname con figure scolpite e dipinte, il c.d. cappello; ancor più gravi furono i danni subìti con l'allontanamento dall'altare maggiore (1505) e il successivo smembramento (1771), in seguito al quale le due facce dipinte vennero separate e predelle e coronamenti rimossi (tanto che alcune tavolette, separate dal complesso, si trovano oggi in musei stranieri). Conservata dal 1878 presso il Mus. dell'Opera della Metropolitana di Siena, è stata oggetto di un cospicuo intervento, durato dal 1953 al 1958 e curato dall'Ist. Centrale per il Restauro. Tuttavia restano evidenti dei gravi problemi di conservazione, soprattutto nella faccia anteriore, dove la Madonna e il Bambino hanno i volti ridotti allo strato di preparazione. Le vicissitudini sopra riassunte rendono oggi ardua la ricostruzione del complesso, problema al quale si sono dedicati molti studiosi, a partire almeno da Weigelt (1909). Probabilmente, la parte più antica della predella era la faccia anteriore, con sette storie dell'Infanzia di Cristo e sei profeti (Londra, Nat. Gall.; Washington, Nat. Gall. of Art; Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana). Non è escluso, poi, che la predella avesse una struttura tridimensionale, in forma di scatola, con due scomparti sulle facce minori: in ogni caso restano, della serie dedicata alla vita pubblica di Cristo, soltanto otto scene (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana; New York, Frick Coll.; Washington, Nat. Gall. of Art; Madrid, Coll. Thyssen Bornemisza; Londra, Nat. Gall.; Fort Worth, Kimbell Art Mus.), a cui andrebbe aggiunta, secondo un'ipotesi di Boskovits (1982, pp. 498-499), anche una tavoletta a Budapest. Invece le tavolette del coronamento testimoniano di uno stadio perfino più arcaico della tavola centrale, forse anche a causa della presenza di collaboratori modesti e attardati. Di quello anteriore, dedicato alla morte e ai funerali della Madonna nei termini narrati dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, restano sei tavole, tutte conservate a Siena (Mus. dell'Opera della Metropolitana), ma in gran parte ridotte nelle dimensioni e alterate nella forma. Lo stesso si può dire delle sei Storie di Cristo che costituivano il coronamento posteriore. Sono ritenuti pertinenti alla Maestà anche quattro pinnacoli con mezzi busti di angeli (già Bruxelles, Coll. Stoclet; Filadelfia, Mus. of Art, Johnson Coll.; 's-Heerenbergh, Coll. J. H. van Heeck; South Hadley, Mount Holyoke College Art Mus.), rimossi probabilmente in tempi assai precoci, e il frammento con la Vergine incoronata, ora a Budapest (Szépművészeti Múz.), attribuito anche a Segna di Bonaventura o a Niccolò di Segna, ma ritenuto da Conti (1980, pp. 100-101) proveniente dal coronamento della pala, che Ghiberti descrive come "incoronazione di nostra donna".Nella citata carta del 1308 D. si impegnava anche a "non accipere vel recipere aliquod aliud laborerium" e a lavorare alla tavola "suis manibus": una clausola, quest'ultima, che, in difformità da tutto quanto è noto sull'organizzazione di una bottega tardomedievale, è stata letta qualche volta come una promessa di totale autografia. Al contrario, è ben evidente, nel complesso, l'intervento dei collaboratori; tuttavia, il sempre vigile controllo del maestro impedisce di consentire con l'ipotesi di Stubblebine (1979), che limita la responsabilità di D. alla tavola principale e alle storie dell'Infanzia di Cristo, distribuendo il resto fra una serie di collaboratori: spetterebbero a Ugolino di Nerio i dodici apostoli, a Pietro Lorenzetti le storie della vita pubblica di Cristo, a Segna di Bonaventura il ciclo della morte della Vergine, ad Ambrogio Lorenzetti le storie di Cristo; fra Ambrogio, Segna, Simone Martini, il Maestro di Città di Castello e quello del tabernacolo nr. 35 (Siena, Pinacoteca Naz.) vengono spartite le storie della Passione, mentre il Maestro dell'affresco di Casole sarebbe l'autore degli angeli.La svolta neobizantina, evidente soprattutto nella tavola anteriore, non cancellò del tutto gli interessi manifestati in precedenza da Duccio. Così, le vesti mantengono il bordo dorato serpeggiante inaugurato dalla Madonna Rucellai, che si accompagna talvolta, soprattutto nei due coronamenti, a un uso insistito delle crisografie, mentre il grande trono architettonico della Vergine, arricchito da sontuose decorazioni cosmatesche e seminascosto da un drappo dorato, è un'estrema meditazione sulla spazialità giottesca. Anche la gamma cromatica ripete e arricchisce quella proposta fin dalle prime opere, impreziosita piuttosto, nella tavola principale, da un serrato dialogo con l'oro del fondo, delle decorazioni e delle aureole.Non trovano confronti nelle opere precedenti del maestro i risultati raggiunti nella rappresentazione delle vedute cittadine. Legato ancora, come Giotto e tutta la tradizione trecentesca, alla resa delle rocce come sassi di grandi dimensioni - come avrebbe prescritto Cennino Cennini alla fine del secolo - e degli interni come scatole aperte sul lato rivolto all'osservatore, D. inaugurò invece, nel tergo e nella predella della Maestà, quella pratica che ebbe tanto seguito nella pittura senese e che è stata definita del "paesaggio come ritratto topografico" (Feldges-Henning, 1980). Ne sono esempio le città murate medievali raffigurate nelle scene con l'Ingresso di Cristo a Gerusalemme e con Cristo e i pellegrini verso Emmaus della tavola principale (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) e, nella predella, in quelle con la Tentazione di Cristo sul monte (New York, Coll. Frick) e con Cristo e la Samaritana (Madrid, Coll. Thyssen-Bornemisza), o la strada così caratteristicamente senese della Guarigione del cieco (Londra, Nat. Gall.). Perfino nel più debole coronamento non manca uno sfondo con mura ed edifici goticheggianti nei Funerali della Vergine (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana). Il vertice delle ricerche spaziali e naturalistiche di D. si può forse cogliere nella superba tavoletta con la Tentazione di Cristo sul tempio (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), la cui fortunosa riscoperta è solo uno dei tanti meriti di Weigelt, autore di molti studi sul pittore all'inizio del Novecento. Satana affronta Cristo sopra un edificio a pianta centrale, dalle forme gotiche, il cui interno (di una ricchezza cromatica che ricorda il duomo di Siena) è ben visibile attraverso la porta ogivale. Gli approfondimenti spaziali del tergo della Maestà sono stati giudicati recentemente "ritorni ormai arcaicizzanti di protogiottismo, ancora al modo delle mensole della Madonna Stoclet", tali da far pensare che questa faccia sia stata eseguita prima di quella con la Madonna in trono (Bologna, 1992).L'attenzione alla realtà ambientale, soprattutto urbana, caratterizzò in seguito un importante filone del Trecento senese, fino a culminare nelle celebri allegorie del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, del 1337-1339 (Siena, Palazzo Pubblico), alimentata anche da motivazioni propagandistiche e in particolare dalla pratica, tanto diffusa in questa città, di raffigurare le terre conquistate. In quest'ambito si può inquadrare anche un affresco frammentario scoperto fra il 1979 e il 1980 durante una campagna di restauro riguardante il Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini nella sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena. Vi si scorgono, anche se deturpati dai cerchi concentrici impressi dalla rotazione del Mappamondo di Ambrogio Lorenzetti, due uomini sulla sinistra e un modesto castello circondato di casupole e affiancato da una chiesetta, il tutto circondato da un'elegante staccionata. L'esame delle circostanze storiche, avvalorato dall'analisi dei costumi dei due uomini, ha portato a identificare l'episodio narrato con la presa del castello di Giuncarico, in Maremma (Seidel, 1982); il confronto con alcuni episodi del tergo e della predella della Maestà ha condotto a un'attribuzione a D. (Bellosi, 1982). Si tratterebbe così dell'unico affresco noto del grande pittore senese, una volta caduta l'ipotesi di un'attività assisiate negli anni giovanili; ma sembra improbabile che D. non avesse compiuto, come gli altri maestri, quel complesso tirocinio che metteva i pittori del Due-Trecento in grado di affrontare qualsiasi tecnica e mezzo espressivo.Una derivazione diretta dalla grande tavola per il duomo di Siena è la Maestà del duomo di Massa Marittima, anch'essa dipinta su due lati e giunta in stato frammentario, nella cui faccia posteriore si possono vedere oggi solo la Crocifissione, Cristo davanti ad Anna, frammenti dell'Orazione nell'orto, della Cattura di Cristo, di Cristo davanti a Caifa, della Deposizione dalla croce e del Seppellimento di Cristo, nonché di quattro scene più difficilmente identificabili (in cattive condizioni, è stata restaurata nel 1947 e nel 1979). Quest'opera potrebbe essere in relazione con un documento del 1316 che attesta la volontà dei Nove della città maremmana di dotare la cattedrale di una tavola. La scelta di una bottega e di un modello iconografico senese sembra indizio di un avvicinamento politico che sarebbe culminato nella sottomissione del 1336. Certamente legata all'ambito duccesco, è stata rivendicata al maestro, con molta passione, da Arcangeli (1970); la derivazione dalla pala senese è puntuale, ma non sempre pedissequa, come attestano per es. le varianti introdotte nel Cristo davanti ad Anna. Il polittico proveniente dalla chiesa dello Spedale di S. Maria della Scala (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 47) è impaginato secondo una struttura piuttosto complessa, di tipo già trecentesco: al di sopra della Madonna e dei quattro santi laterali (Agnese, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Maria Maddalena) si trovano dieci patriarchi e profeti (Abramo, Isaia, Giacobbe, Geremia, Mosè, Davide, Iafet, Giuseppe, Daniele, Malachia), mentre il coronamento è costituito da quattro cuspidi con angeli e uno, al centro, con il Cristo benedicente. Anche l'amplificazione delle figure, in particolare della Vergine, è indice di un'ulteriore meditazione dei risultati raggiunti nel gruppo centrale della Maestà, che ha fatto pensare perfino all'avvio di una maniera nuova, dai caratteri più monumentali. Alla fortuna del polittico presso gli studiosi più recenti non ha giovato il cattivo stato di conservazione, che riguarda soprattutto le figure principali, dai volti ridotti allo strato verdastro di preparazione. Meglio conservati appaiono i profeti dell'ordine superiore, in particolare Giacobbe e Geremia.La tavoletta con la Madonna in trono e quattro angeli, acquistata dalla Nat. Gall. di Londra nel 1968, è stata talvolta paragonata ad alcune Madonne giovanili di D. di piccolo formato, ma si distacca da quei lontani precedenti per la stessa larghezza che caratterizza il polittico senese.D. può certo essere considerato il capostipite della scuola senese, che portò a livelli altissimi e a un prestigio extra-cittadino, dopo i timidi inizi di Guido da Siena e dei guideschi e dei primi seguaci locali di Cimabue. L'attribuzione a Simone Martini di una tavola come una Madonna di Siena (Pinacoteca Naz., inv. nr. 593; Chelazzi Dini, 1983-1984) ne fa intravedere un inizio strettamente duccesco, al quale fecero seguito esperienze più gotiche e autonome meditazioni sulla spazialità di Giotto. Anche i fratelli Lorenzetti, e in particolare Pietro, serbarono nelle loro opere le tracce di un'educazione presso il grande caposcuola. Ma il seguito diretto di D. conta altri nomi: in primo luogo il grande Ugolino di Nerio, che riuscì a collocare le proprie opere perfino in Firenze. Un legame diretto con D., anche a carattere familiare, fu quello di Segna di Bonaventura, figlio di un fratello del pittore, e padre dei pittori Francesco e Niccolò di Segna. Fra gli altri seguaci di D., meritano una citazione il Goodhart Master e soprattutto il già citato Maestro di Città di Castello, il cui capolavoro, la Crocifissione (già Coll. earl of Crawford and Balcarres, in Scozia), è stato autorevolmente attribuito a D. stesso.

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